Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A.Verri
della domenica 24 - 13 aprile 2014 - anno 2 n. 0
spagine
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
Lecce, 13 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 24
Diario politico Elezioni europee La “questione” De Castro e la risorsa Gentile... La battaglia politica nel nuovo Parlamento deve convintamente essere quella di battersi per avere un costo del denaro uguale per tutti
Quel70%
È
un errore rilevante e gravissimo quello di interpretare le elezioni europee del 25 maggio come una prova del PD di Matteo Renzi al Governo del Paese. Il disegno politico del giovane fiorentino è limitato proprio nella concezione del Governo della politica nazionale. Renzi si sente di appartenere al miracolo politico dei Principi d’Italia nel tempo dei Medici a Firenze ed ha in Cosimo Medici I il modello di ideale politico. Il Presidente Renzi è a Palazzo Chigi ma vive invece del fascino di Palazzo Vecchio fiorentino delle grandi pitture del Vasari. Il modello sindacocentrico della riforma del Senato, con la nostalgia monarchica della nomina dei 21 senatori, è la prova della cultura del falso riformatore Matteo Renzi. L’Europa è centrale nel Governo dei singoli Paesi: oltre il 70% delle leggi infatti sono prese dal Governo europeo a Bruxelles. Ora solo per questo le elezioni europee valgono molto, e forse più di quelle politiche. Noi le abbiamo sempre considerate poco, sbagliando, e abbiamo mandato al Parlamento Europeo o politici spremuti ormai in età di pensione, o politici poco rappresentativi, magari fastidiosi, da tenere lontano in esilio dorato dal proprio territorio. Per noi, per il Sud, comincia molto male questa campagna elettorale perché perdiamo l’Onorevole Paolo De Castro, Presidente della Commissione dell’agricoltura europea, che aveva lavorato molto bene e molto bene aveva fatto per l’agricoltura meridionale. Come sempre gli interessi e la forza del Nord si impongono, e così l’Onorevole Paolo De Castro viene candidato al Nord privando l’agricoltura del Meridione di un dirigente molto esperto valido e competen-
te. L’Europa politica conta molto, quindi è decisivo il principio di mandare a Bruxelles politici forti preparati e competenti legati al proprio territorio. La scelta di Elena Gentile, di candidarsi per Bruxelles, dove portare la sua esperienza delle politiche delle disabilità è molto importante perché l’Italia è in grave ritardo rispetto ai Paesi europei (Germania, Olanda e Francia) dal momento che noi abbiamo solo ottime leggi sulle disabilità sulla carta ma rimaste però inapplicate e proprio su questi temi l’Italia è stata spesso sanzionata dall’UE; quindi abbiamo bisogno di rappresentanti che sappiano portare in Europa il problema delle politiche sociali dell’Italia. Elena Gentile in questo senso sicuramente è una certezza di lotta politica. *** Il credito è l’altro problema di grande importanza. La BCE del professore Mario Draghi, degno allievo dell’economista Federico Caffè, fissa il costo del denaro allo 0,25% per sostenere l’economia e facilitare gli investimenti. In Germania il costo del denaro è del 2% e le imprese per avere soldi dalle banche non devono sudare le sette camicie. In Italia il costo del denaro è del 10%, del 13% al Sud. Le imprese per avere denaro fanno molta fatica, da noi infatti non bastano neanche le sette camicie sudate. Le piccole imprese o sono inascoltate dalle banche o sono costrette ad avere soldi al tasso vicino all’usura. Il costo del denaro è il vero cappio che soffoca l’economia e penalizza le imprese più deboli, come quelle piccole. Questo modello non va; quest’Europa è sbagliata. La battaglia politica nel nuovo Parlamento deve convintamente essere quella di battersi per avere un costo del denaro uguale per tutti per le imprese grandi e piccole senza le attuali differenze tra Paesi poveri e Paesi ricchi.
di Luigi Mangia
Strasburgo, il Parlamento Europeo
pagine n° 2 e 3
spagine
La lista di Alexis Tsipras. “Si tratta di aprire uno spazio politico comune tra il populismo sguaiato e reattivo del movimento di Grillo e l’avventura di Renzi e dell’ormai “suo” PD”.
I
l trascorso decennio dei movimenti sociali collettivi ha avuto con la carovana delle sessioni del Forum Sociale Europeo (FSE) l’ambizione di essere costituente di spazi comuni e sociali, di riflessioni tematiche sui beni comuni, sul ruolo della cittadinanza attiva e della società civile nell’idea di una democrazia radicale. Dal FSE di Firenze nel 2002 (a ridosso del tragico luglio del 2001 a Genova) a Parigi nel 2003, da Londra nel 2004 ad Atene nel 2006, da Malmö nel 2008 a Istanbul nel 2010. Ad Atene già trovammo, pur prima dell’irruzione della crisi, un’aspra tensione sociale e incontrammo nell’organizzazione il gruppo greco più attivo, quello che poi fu alla base della costruzione di Syriza come soggetto politico unitario attivo. I movimenti reali oltre l’andamento carsico possono avere pur sempre limiti intrinseci nella loro parzialità, ma è soprattutto l’assalto al cielo della politica che li può lasciare sguarniti e senza sponde nella complessità del conflitto postmoderno. Luciano Gallino pose già la questione nel suo testo Finanzcapitalismo : come è possibile riformare democraticamente il sistema finanziario e “incivilire” la nuova performatività del capitale finanziario globale? Movimenti come Occupy o come gli Indignados possono aprire spazi necessari di conflitto, come hanno fatto, ma non possono agire facilmente su livelli di scala che solo democrazie sovranazionali e soggettività politiche e sindacali europee e internazionali potrebbero affrontare, né possono formulare facilmente programmi e proposte all’altezza della complessità delle forme della finanziarizzazione dell’economia globale. Oggi le ondate dei movimenti più generosi sono spesso sfiancate dagli esiti della crisi che non è solo economica, vengono messe alla prova dall’austerity e si trovano di fronte al paradigma neoliberista che si presenta come un dispositivo teologico-economico, un impianto, un sistema, quasi una forma di macchinazione non discutibile e non oltrepassabile. Eppure non si tratta affatto di un complotto attorno a poteri oscuri e senza radici di classe, è sempre bene ribadirlo di fronte al neoirrazionalismo che nega l’economia politica e il ruolo del capitale finanziario globale (ma non per questo saldato in una forma-impero di dominio). Né la critica al neoliberismo può banalizzarsi in una critica al liberalismo politico in quanto tale o trarre facile sostanza da un’idea socialista ormai tutta da ridefinire né da un modello storicamente fallito o non esistente oggi in quanto a storicità reale. La stessa tendenza post-democratica è pur sempre una tendenza e non una realtà istituzionale di fatto, è ancora nel lato della crisi della democra-
Alexis Tsipras
Lo spazio per l’altra
Europa
di Silverio Tomeo zia e della politica. Le controtendenze virtuose, le lotte per i beni comuni, le buone pratiche sociali, quelle esistono certamente, come pure il conflitto sociale e la cittadinanza attiva. L’altro mondo possibile fu lo slogan semplice ma non semplicista dei movimenti del decennio trascorso, e oggi deve apparirci un'altra Europa possibile rispetto al modo in cui si sta impantanando oggi la costruzione europea tra austerity, risorgere dei nazionalismi, populismi reattivi, destra estrema. I dieci punti proposti da Alexis Tsipras per la sua candidatura in Europa appaiono semplici ma non semplicisti, sufficienti a unire forze politiche, sociali e della società civile anche in Italia. Si tratta di aprire uno spazio politico comune tra il populismo sguaiato e reattivo del movimento di Grillo e l’avventura di Renzi e dell’ormai
“suo” PD. Non si tratta allora di ricostruire un partito, ma di aprire uno spazio favorevole anche alla ripresa di soggettività di forze della sinistra politica frammentate e oscillanti tra subordinazione culturale e tentazione minoritaria e ideologica. Chi coltivava la mistica della “classe operaia” nelle sue varie perfomatività più o meno immaginarie o quella del politicismo del partito-dominus oggi non comprende il momento, e ironizza sull’agire della sinistra della società civile quando non cavalca l’antintellettualismo che è invece un patrimonio storico delle destre e dei populismi. L’azione di migliaia di volontari per la raccolta delle firme per la lista Altra Europa con Tsipras ha già aperto spazi di visibilità e interesse, e ora si va alla breve e intensa campagna elet-
torale per l’affermazione della lista con un buon risultato oltre la soglia di sbarramento. Una campagna giocata sui contenuti riflessivi e le pratiche di candidati impegnati nei movimenti, nelle associazioni, nel governo locale. Si tratterà un domani non di affrontare la riproduzione impossibile del partito ideologico di massa novecentesco né quella del partito leninista d’avanguardia, ma semmai una nuova forma politica che esprima una soggettività unitaria seguendo l’esempio e le suggestioni della Syriza greca. Si tratterà di affermare nuove culture politiche e di re-insediare socialmente la sinistra nella sua autonomia culturale ed organizzativa oltre le fragili forme attuali. Senza corto-circuiti tra le forme diverse di presenza plurale nel sociale, potremmo anche dire nel corpo bio-politico che resiste . La memoria d’Europa è nella Resistenza europea che fu costituente e costitutiva e sognò la sua visione nel manifesto di Ventotene, nel confino dell’isoletta del Tirreno. Le radici vere dell’identità europea sono nell’antifascismo e nell’antitotalitarismo. Il modello sociale europeo è fiaccato dai trent’anni di neoliberismo, e si trova oggi di fronte alla prova della lunga crisi sistemica a partire dal 2008. L’area euro-mediterranea è quella che più soffre di fronte ai rigori dell’austerity, alla formuletta mistica del3%, al ruolo improprio e inadeguato della BCE, al debito definito “sovrano” e inteso come colpa. La necessità di un nuovo New Deal europeo e di una ricontrattazione e socializzazione del debito, sono quelle reali che solo il mutare dei rapporti di forza in Europa potrà garantire, e non certo il ridicolo e catastrofico proposito di uscita unilaterale dall’euro. Costituzionalizzare il pareggio di bilancio e accettare il fiscal compact è stato l’errore della formazione italiana che ha avuto accesso obtorto collo alla famiglia del socialismo europeo, così come la pratica inconsulta delle larghe intese che rischiano di riprodursi in chiave europea. La frettolosità con cui si affrontano riforme di sistema che modifichino il quadro costituzionale in chiave decisionista e post-democratica completano questa deriva. La risposta catastrofista è propria del populismo reattivo e si avvale di un mix osceno di complottismi monetari e irrazionalismi vari che hanno la loro genealogia evidente nella risposta reazionaria all’America del New Deal di Roosevelt e che oggi si riattizzano di fronte alla crisi peggiore del dopoguerra. Con il discorso paranoide come discorso pubblico che pretende di pensare il potere e i poteri è molto difficile interloquire, “Poiché il paranoico percepisce il mondo esterno solo nella misura corrispondente ai suoi ciechi scopi, è capace solo e sempre di ripetere il suo sé in maniera alienata”, come scrivevano Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo del 1947.
Lecce, 13 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 24
pagina n°4
Diario politico
Alan Friedman e il gattopardo da ammazzare
Perchè tutto rimanga così... di Gigi Montonato
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i sono alcune ingenuità nel libro di recente pubblicato dal giornalista statunitense, esperto di economia Alan Friedman, da anni residente in Italia, Ammazziamo il gattopardo (Milano, Rizzoli, 2014). La prima è proprio nel titolo che è poi intenzionale. Ma il gattopardo che dovremmo ammazzare noi italiani siamo noi stessi. Dunque una sorta di suicidio collettivo, dato che è improbabile che in Italia vi siano non-gattopardi disposti ad ammazzare i gattopardi; ovvero una guerra di tutti contro tutti, perché tutti pensano che i gattopardi siano sempre gli altri. La celeberrima frase «dobbiamo cambiare tutto perché tutto rimanga com’è» è importante in sé; ma lo sarebbe di meno se a pronunciarla nel celebre romanzo di Tomasi di Lampedusa fosse stato il vecchio Principe di Salina. La si sarebbe potuta prendere per la saggezza di un anziano aristocratico che ne ha viste tante nella vita. Invece no, la pronuncia il nipote, il giovane Tancredi che partecipa ai cambiamenti risorgimentali con la convinzione che bisogna farlo “perché tutto rimanga com’è”. Si può discutere a lungo sul significato di una simile filosofia di vita, che, a ben riflettere, non è solo siciliana, ma di un intero popolo, dalle Alpi al Lilibeo, se non vogliamo proprio riconoscere che è una categoria universale. Del resto se vogliamo beneficiare del sole e della luna, l’eterno stato di cose, dobbiamo seguirne i percorsi, voltandoci ora da una parte ora dall’altra. Passando al piano concreto-esistenziale, chi mette a rischio la propria vantaggiosa posizione per cambiamenti veri ma dagli esiti incerti? E se il cambiamento, in questo caso finto, assicura la conservazione, chi non è disposto a farlo? Non è che l’abbiano capito solo i siciliani; la sicilianità dell’assunto è nella consapevolezza e nel dirlo con cinico compiacimento. Nel libro di Friedman il gattopardo è un po’ banalizzato e ridotto alla stregua di uno che fa finta di voler cambiare per conservare l’inconservabile, l’inutile, perfino il dannoso. Oggi in Italia bisogna cambiare, ma cum grano salis, magari pure con
Alan Friedman
qualche strappo, ma senza avventatezze e gesti demiurgici. Il documento sottoscritto da Zagrebelsky, Rodotà e compagni sulle modalità governative di Renzi per molti aspetti è condivisibile. Zagrebelsky e Rodotà sarebbero i gattopardi e Renzi no? Bisognerebbe piantarla con le esemplificazioni. Noi italiani siamo culturalmente incapaci di operare una vera rivoluzione – questo è assodato – di più, non riusciamo nemmeno a fare riforme radicali e coerenti. E’ un bene, è un male? Si può discutere a lungo. Siamo come un albero dal tronco solido, su cui possiamo innestare qualsiasi varietà compatibile di pianta ma alla fine i nuovi virgulti vengono deprivati di linfa dai polloni che rispuntano più in basso sul vecchio tronco e prendono il sopravvento. Non direi che è un castigo di Dio o della Natura; dico che
siamo fatti così e che per sopravvivere ci dobbiamo regolare di conseguenza. Come? Come fanno i contadini, i quali ripassano a togliere i polloni per far meglio crescere i nuovi virgulti. Torniamo al libro. L’aspetto più importante di questo libro sotto il profilo cronachistico e perciò a futura storiografia è quello relativo a Friedman, il quale per la sua autorevolezza scientifica e per l’essere uno straniero, ha goduto di confidenze che i soggetti interessati non avrebbero mai fatto ad un giornalista italiano; testimonianze che illuminano ciò che prima si poteva intuire, ossia che il passo indietro di Berlusconi e l’incarico a Monti nel novembre del 2011 fu un piano risalente ad almeno cinque mesi prima, qualcosa che i costituzionalisti definiscono «forzatura», un’azione borderline, che forse è esagerato defini-
re golpe, come altri senza tanti scrupoli hanno detto. Testimonianze del calibro di De Benedetti, di Prodi e di Monti stesso non lasciano dubbi. Per poco nella rete di Friedman non cascava pure Napolitano, il quale prudentemente declinò la richiesta di un’intervista. Testimonianze che chiariscono i vari ruoli, soprattutto quello di Passera, il quale nel documento economico che gli era stato richiesto da Napolitano aveva previsto la patrimoniale, che avrebbe prodotto ottantacinque miliardi di euro. Cosa, poi, non accaduta per l’opposizione di Berlusconi. Friedman si spoglia dell’osservatore scientifico e indossa le armi del combattente per ammazzare il gattopardo, proponendo una ricetta in dieci punti, che spiega uno per uno. E qui dimostra la sua ingenuità, non tanto perché per ogni punto importante presuppone condizioni che in realtà non esistono, quanto perché legge tutto in maniera ottimistica, come se non avesse a che fare con una realtà complicatissima, come la nostra. Carattere piuttosto gioviale e diretto Friedman non nasconde antipatie e simpatie. Le prime nei confronti di D’Alema, di Letta, di Casini, di Alfano, di ex democristiani ed ex comunisti in genere, nei quali ravvisa i gattopardi; le seconde, anche se non esplicitate, nei confronti di Berlusconi e in ultimo di Renzi, a cui concede un’apertura di credito francamente eccessiva. Stupisce che un americano, così ligio alle leggi dello Stato, nulla dica sulla posizione quanto meno anomala di Renzi. Che questo giovinotto si trovi al potere, in condizioni di sostanziale vantaggio personale, senza aver mai superato una prova elettorale, solo in seguito ad un’operazione di partitocrazia degenerata e ridotta a “quattro amici al bar”, a Friedman sembra non interessare nulla. Per lui Renzi è come se fosse stato investito dalla più rigorosa procedura democratica. A lui pensa si debba affidare la spada di Sigfrido per ammazzare il dragogattopardo. Cui Friedman si pregia di aver dato con questo libro il suo contributo.
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Mondo digitale
Lettera aperta alle Associazioni Consumatori
spagine
Lecce, 13 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 24
Orfani di Microsoft di Gianni Ferraris
L
a questione è attualissima: supponiamo che un’azienda primaria produca pacemaker, e supponiamo che, vista la bontà dei suoi prodotti e la sua capacità imprenditoriale e monopolistica, detenga fette di mercato immense. L’azienda in questione avrebbe inventato un modello particolare che riscuote successo mondiale, per comodità lo chiameremo KP. I suoi studi però non si fermano, dopo dieci anni dall’ottimo KP e di prodotti successivi di livello medio basso, contando appunto sul suo monopolio, mette a punto un nuovo sistema, che per comodità chiameremo 8. Tuttavia, visti i costi del nuovo prodotto e la bontà del KP, fatica a decollare, mentre il 30% dei pazienti al mondo (parliamo di molti milioni di persone) utilizzano ancora il suo KP decide che dall’otto aprile l’azienda non darà più alcun supporto tecnico a quel prodotto e che nessun’ altra azienda è in grado di fornire. I portatori di KP cambino e passino al nuovo modello, dice l’azienda che potremmo chiamare SOFT, altrimenti saranno affaracci loro.tità del prodotto nel mondo, si sa per certo che il 15% degli utilizzatori di KP non è al corrente di questo vero e proprio crimine. *** Solo ipotesi, nessun Pace Maker, però Microsoft sta facendo questa porcata con XP, dall’otto aprile non fornisce più aggiornamenti al 30% dei computer esistenti al mondo, compresi bamcomat, aziende piccole e grandi e una marea
di privati. Chi non vuole subire attacchi di hacker passi (pagando) a Windows otto. Solo se il suo computer lo supporta però, in moltissimi casi di privati, come il mio, occorre aumentare la ram e comunque intervenire fisicamente sul computer, altrimenti, dice dolcemente il sito Microsoft, “cambiate computer, ne abbiamo un sacco in offerta, vuoi visitare le nostre pagine?” Non ho neppure voglia di rispondere che sto informandomi per passare a Linux che è completamente gratuito. La domanda alle Associazioni Consumatori è la seguente:
può un’azienda monopolista fare una simile porcata? ci sono mezzi per contrastarla? Non parliamo, per carità, di problemi etici, questi monopolisti non consocono altra etica che il guadagno, pecunia non olet e loro non vanno per il sottile, dico di problemi legali. Si può lasciare senza supporto il 30% dei computer al mondo e costringere le persone ad acquistarne di nuovi con le semplici, banali paroline: “tutto ha una fine” (sic) ? Se propri otutto deve avere un fine è tempo di abbandonare microsoft.... o no?
Un classico desktop di XP
Lecce, 13 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 24
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Contemporanea
La vita è incontro
“La vita è un porto sconfinato che sfugge all’analisi razionale...”
L
a bellezza dell’incontro, che è magia, calore, giorno che si mostra. La dolcezza dell’incontro, che è sole alto levato, cielo aranciato, conforto che pianamente procede. Un raggio infinito l’incontro con l’altro, che scioglie la densa e cinerea bruma del cuore, che spezza le ferree catene della noncuranza, aprendo squarci d’impreveduto. Scenari di gaiezza, percorsi d’amore. Strade battute da uomini e donne, coi ginocchi piagati e con l’ingegno aguzzo, con la speranza immutata, vorticosamente legati nel lusingare l’attesa. Di qualcosa che verrà. In quest’era veloce, iperconsumistica, che tutto brucia e consuma, a noi uomini all’antica rimane il gusto e il piacere di coccolare lo spazio e il tempo. Lo spazio dell’incontro. Il tempo lento, di altre civiltà, quello che comunque abbiamo apprezzato da fanciulli, quando i nostri giochi erano avvolti da un’aura di sogno e sembravano non finire mai. È meraviglioso l’incontro, quello vissuto, ma anche quello narrato. Quello raccontato da altre persone, che stimi e ami per il valore, i carismi, la vita esemplarmente condotta. Tempo fa, un sacerdote campano di questa contemporaneità, don Maurizio Patriciello, attivamente impegnato nel denunciare ad alta voce le nefandezze perpetrate dagli uomini nella cosiddetta Terra dei Fuochi, tratteggiava mirabilmente, su un quotidiano, l’incontro con Maria, donna malata, incapace di articolare parole, conosciuta in parrocchia. Cosa è la felicità per una donna sobria del popolo? Niente di artefatto, di complesso. Maria era contenta nel condurre nella sua minuscola casetta padre Maurizio, il quale era solito scambiare qualche sensazione con la vecchia madre della donna, immobilizzata su una sedia a rotelle. In questo triste tempo avvilito, che tende sovente al soddisfacimento di edonismi iperbolici, una donna
di Marcello Buttazzo
Un’immagine dalla terra dei fuochi...
del popolo sa ancora essere compagna, sa spezzare il pane dell’amicizia, della condivisione, sa godere dell’amore disinteressato, che è sguardo che luccica, stretta di mano. Gesù mostra la strada e svela davvero il buon cammino: beati gli ultimi, gli afflitti, i poveri. La vita è, senz’altro, un porto sconfinato, che sfugge in parte all’analisi razionale: possiamo scandagliare a fondo le nostre identità, ma fra le pieghe dell’esistenza persisteranno sempre tracce indefinite di mistero. Possiamo ripiegarci su noi stessi per decodificare il dolore che a volte ci assale, ma capita che dobbiamo alzare bandiera
bianca quando imbocchiamo i sentieri dell’indecifrabile. Ci si può affidare agli uomini, per chiede aiuto, sollievo. Ci possiamo rivolgere al Signore, per scorgere lampi di luce, quel lucore che non abbiamo. Maria, sofferente, povera, malata, riesce a provare vera contentezza incontrando un padre spirituale. Don Maurizio Patriciello scrive che “saranno i poveri a salvare il mondo, perché ancora capaci di meraviglia e stupore”. Emozione e davvero sbigottimento dell’incontro. Quello vissuto in prima persona con gli amici e le amiche del cuore. Forse, ciò che ci dà forza autentica, riconoscimento dell’individualità, gratuità, solida-
rietà, compartecipazione, è l’altro da sé. Rapportandoci con le persone care possiamo imparare ad amare, a comprendere, ad essere più umili, meno onnipotenti. Dirompente e sovversiva bellezza dell’incontro. In questi ultimi giorni, le mie giornate casalinghe di letture e meditazioni sono state lietamente interrotte da tre visite inaspettate e benaccette come una grazia di Dio. Giorni fa, è venuto a trovarmi Tonio, artista e fine scultore dell’argilla, anima sensibile e pura, francescano d’elezione. Mi ha parlato, tra l’altro, rattristato, con trasporto e commozione, d’un suo amico che vive un difficile periodo. Tonio è un oceano sconfinato d’amore, interloquire con lui è un privilegio, stempera sempre ogni tristezza. Alla mia porta ha bussato di sorpresa Vito Antonio, poeta profondissimo e sensuale. Vederlo d’improvviso è stata una gioia immensa. La sua semplicità e spontaneità mi affascinano. In lui ritrovo parti di me, lui sa donarmi l’universo che gira e ciò che mi manca. Quello che non ho. Con l’amica Serena, in questi ultimi giorni, siamo stati assieme ad un evento speciale, ad un laboratorio artistico corale di musica e poesia. Uomini e donne straordinari hanno saputo miscelare parole e note per narrare le storie, per sprimere il prodigio del sapersi ritrovare con afflato, empatia, cortesia. L’incontro vissuto. E quello solo immaginato, solo vagheggiato, desiderato. Ultimamente, sogno d’incontrare per la via una fanciulla di viola, per lasciarmi stupire da lei, per lasciarmi incantare e incatenare, per cantarle i seguenti versi di Alfonso Gatto: “Trapeli un po’di verde, il limone, il sifone, il piccolo portone della pensione, trapeli il blu, anche tu vestita col tuo nudo rosa, ogni cosa amorosa. Amore è amore, liscio alla sua foce. Un’alpe zuccherina, l’amore è brina. Che sogno averti vicina, notturna, fresca, sottovoce”.
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spagine
Poesia - La città e il cambiamento - Per Lecce 2019
C'è un cambiamento che ti scivola addosso e uno che lento comincia dalle tue radici nasce in te, dal tuo cambiamento quello più segreto. C'è un cambiamento a cui ti adegui e uno che fabbrichi con la tua armonia. C'è un cambiamento che muore sulla punta della lingua muore prima ancora di essere e c'è un cambiamento che arriva come il vento come soffio, come respiro, come alito e ci porta insieme lontano spinti da una stessa vela. Giuseppe Semeraro
I precedenti articoli su “La città e il cambiamento” sono pubblicati su: http://issuu.com/mmmotus pagina 4, Spagine della domenica del 30 marzo 2014, Poesia - La città e il cambiamento,di Ilaria Seclì pagine 2 e 3, Spagine della domenica del 6 marzo 2014, Poesia - Quando Lecce era periferia di Rudiae di Vito Antonio Conte
Lecce, 13 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 24
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“In grazia di Dio” di Edoardo Winspeare
Cinema
Uno scritto
polemico
di Andrea Cariglia
F
inalmente sono riuscito a vedere questo benedetto – in senso strettamente letterale – questo benedetto film di Edoardo Winspeare – In Grazia di Dio. Le aspettative non sono state deluse: nel senso che il film è esattamente come me l’aspettavo: Cioè un film coraggioso, fortemente didascalico e strettamente connotativo. Questi non sono evidentemente difetti; ma scelte stilistiche ben ponderate; come lo stesso autore ha più volte dichiarato. Quindi provocare una discussione sul perché abbia scelto di non utilizzare un accompagnamento musicale, o perché abbia scelto di usare il dialetto di quelle parti o perché abbia immaginato il baratto come soluzione plausibile ai nostri rapporti commerciali in epoca moderna, è in effetti il fine ultimo di questo lavoro. Perché tali scelte stilistiche sono state compiute ponderata-
Edoardo Winspeare fotografato da Cosimo Cortese
mente appunto. Perché è un opera che spinge al confronto, che solleva l’interesse della gente e la sprona a fare dei ragionamenti diciamo così: contro tendenza. Quindi questo film induce il pubblico ad un atteggiamento valutativo attento. Fatto un po’ raro al giorno d’oggi, in quanto generalmente il pubblico è un esaminatore distratto. E gli interessa solo svagarsi. In questo modo si può secondo me dimostrare che Edoardo Winspeare non solo rispetta il suo pubblico; non solo sa veramente mettere in chiaro le sue idee ( grazie ovviamente all’aiuto del suo geniale sceneggiatore Alessandro Valenti); ma ci tiene anche e fortemente a dimostrare la sua onestà intellettuale, la sua sincera preoccupazione per quello che accade alla sua gente. Alla sua gente; questa sua preoccupazione ha delle caratteristiche un po’ ambigue, però. Una ambiguità che ha molto a che vedere con la figura artistica del
personaggio Winspeare. Quel tipico atteggiamento vampiresco un po’ voyeuristico, se vogliamo, che si ritrova nel teatro. Guardando il film infatti non potevo fare a meno di figurarmi Edoardo Winspeare come una specie di Harun al-Rashid che a braccetto con il suo visir Jafar ( Alessandro Valenti) va in giro per le sue terre a vedere un po’ cosa accade fuori dagli splendori del suo palazzo regale (che oggi, ad onor del vero, è una piccola casetta in un piccolo paesino sperduto nella campagna salentina). E una volta fuori dal suo palazzo si finge – in maniera un po’ teatrale appunto – qualcun altro. Qualcuno che va in cerca di storie più vere di quelle che evocano le regali sale tra le quali passa il giorno. Come giustamente farebbe notare san Giovanni della Croce: ogni immaginazione viene dai sensi! E succede così che Winspeare non si accontenti di trasfondere la realtà in tutto e per tutto – senza sentire la necessità di utilizza-
re alcuna metafora – contrariamente a quello che scrive Mauro Marino nell’editoriale di domenica scorsa su Spagine.it – trasformarla in tutto e per tutto in un realismo tout court. Proponendoci inoltre quella sua particolare visione un po’ adolescenziale: in cui le cose ci sono perché non possono mancare. E quindi questo perenne affibbiare ai poveri la parte dei poveri. Ai quali non deve essere sufficiente essere poveri come lo si può essere oggi, ma bisogna togliere loro anche la luce elettrica e anche – per esigenze della produzione esecutiva naturalmente – sbatterli in un fondo il più lontano possibile dal paese in pieno inverno e a maniche corte. Ma non solo: bisogna spingerli all’oratorio e fargli spalare una tonnellata di merda per concimare mezz’ettaro di terra. Insomma: non solo poveri, ma nel Settecento: al tempo dei feudi! Una visione spiacevolmente un po’ monarchica in cui il gioco delle parti resta invariato se non addirittura – paradossalmente è ovvio – capovolto. Donde i poveri si sentano ricchi per un pezzetto di terra sotto la luna incantatrice e i ricchi si sentano più onesti per essere riusciti finalmente a comprendere i problemi dei loro miserabili concittadini. Quelli che solo da pochi decenni sono i loro concittadini. In definitiva: Winspeare non è certo uno di quei tipici intellettuali del sud che sono da sempre stati il cancro della nostra terra e che in più di un’occasione l’hanno scambiata per una cattedra in parlamento. Egli la ama sinceramente come ho detto, seppur di un amore platonico. Il suo paradosso sarà stato presumibilmente quello di aver voluto essere un grande fuorilegge. E non essendoci riuscito ha trasformato quello che un tempo fu per i suoi avi il gabinete de fisica in una casa di produzione cinematografica.
Appuntazzi Gianluca Costantini con Piero Manzoni
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Stiamo affondando e non siamo
zzzzz «Niente rivela meglio il nostro decadimento quanto lo spettacolo di una farmacia: tutti i rimedi desiderabili per ogni nostro male, ma nessuno per il male essenziale, quello da cui nessuna invenzione umana ci potrà guarire» Da Il funesto demiurgo di Emil Cioran
di Antonio Zoretti
B
asta coi ministri dell’ambiente e le loro sanatorie; basta con gli ambientalisti e la loro tutela e rispetto dell’ambiente; basta con la new economy o net economy legata alla diffusione delle tecnologie informatiche e digitali: causa solo di bolle speculative e conseguente crisi globale; basta con la green economy, l’economia circolare (cosiddetta) e la vendita a Km 0; basta con l’innovazione, la raccolta differenziata, la riqualificazione, la bonifica…; basta coi ministri dello sviluppo economico con i nuovi modelli teorici di sviluppo ecosostenibile; basta con le energie alternative: pale eoliche e pannelli solari, che hanno inquinato il territorio con l’illusione di pulirlo e i foresi ne hanno tratto solo guadagno; basta con le strade giuste per ridare fiato al pianeta. Basta con tutto! Sotto-sviluppiamoci… torniamo alla terra. Ognuno dovrebbe avere dentro di sé il proprio sotto-sviluppo, la propria ‘povertà’, altrimenti non si è uomini, si è solo pappataci. Dico basta prima di cominciare, di quello che mai fu e mai sarà. La verità è che stiamo affondando e non siamo neanche capaci di precipitare con dignità. Questo è il fatto! Proviamo solo paura, come i bambini appena nati. Ora ci fanno nascere nell’acqua per imparare a navigare. Ma è tutto inutile, che ci possiamo fare… Non abbiamo vissuto con un grado elevato, perché dovremmo aspettarcelo in fine? «Dice un vecchio medico: “La salute è uno stato precario dell’uomo, che non promette niente di buono”» scrive Guido Ceronetti in un suo aforisma. Guido (insignito due anni fa del premio “Inquieto dell’anno”), amico di Emil Cioran al quale scrisse la prefazione di Squartamento definendo lo scrittore rumeno-francese “squartatore misericordioso”, ebbe a dire che «L’uomo non può cambiare, né prendere un’altra strada; può soltanto finire male», e ancora «L’ottimismo è come l’ossido di carbonio: uccide lasciando sui cadaveri un’impronta di rosa». Guido Ceronetti, filosofo, scrittore e aforista italiano nel suo Il silenzio del corpo (materiali per lo studio di medicina, 1979) traccia le opinioni da lui raccolte per anni intorno al tema del corpo, che lo appassionava. Il corpo come enigma che risveglia una imbattibile curiosità. L’ostacolo nasce dal «silenzio del corpo»: un silenzio che esprime altri
La cultura
ambie
idiomi, non meno nostri, però. Ceronetti da dotto e avveduto è capace d’ascoltare, d’esplorare i meandri della storia della medicina. Sentenzia con decisione, scruta civiltà vicine e lontane, prende nota dei miracoli e delle illusioni della filosofia. Un libro personalissimo, che ci fa meditare e sognare. *** Prendo spunto da ciò per raccontare un piccolo aneddoto accaduto pochi anni fa in un piccolo paesello nostrano, simile per certi versi alla Brescello di “Don Camillo e Peppone” di Guareschi. Tutto avvenne nel mese di maggio. Prima domenica di maggio: sul palco, eretto nella piazza principale del villaggio, il Sindaco, affiancato da alcuni rappresentanti della giunta, difendeva le ragioni che lo avevano indotto ad avallare il progetto per la costruzione d’un sottopasso ove transitare veicoli e persone, che sostituiva ed annullava di fatto il passaggio a livello tradizionale,
divenuto ormai, a suo avviso, obsoleto e pericoloso. Dopo il discorso egli non concesse la parola alle opposizioni che scalpitavano a gran voce nell’esprimere il loro dissenso. La giunta comunale scesa dal palco fu preda degli attacchi di questi ultimi; a difesa del primo cittadino e del suo seguito si posero i compagni baffoni e per placare l’animo in tempesta di altri facinorosi a gambe levate partirono i gendarmi; tutto ciò sotto l’occhio vigile del comandante della polizia locale che si era posto, intelligentemente, nel punto più alto della piazza, dominando la scena coi suoi soliti e fedeli occhiali scuri Ray-Ban, anche di sera. Bollenti spiriti e linguaggi osceni ormai infervoravano l’ambiente. A fermare l’ira funesta fu l’opportunità concessa alle opposizioni di decantare le ragioni del loro disappunto la domenica appresso. *** E venne l’altro dì di festa: seconda
domenica di maggio. Dalle opposizioni dunque, così urlava un uomo dal palco… allarmando e proteggendo dal giorno funesto i corpi degli astanti, per scongiurare la possibilità che tale progetto potesse materializzarsi. Egli si dibatteva e quasi moriva e attorno a loro riversava acute le sue grida… A concludere l’incontro il suo collega che, profittando dell’accaduto,si ergeva a paladino della difesae dichiarava la sua candidatura a primo cittadino alle vicine elezioni. Il loro spot era: “Il sottopasso non sa da fa”! Poveri, poveri e pallidi individucci, che non credono che è tempo perso. Vedranno svanire le loro idee, portate via dal corso delle cose, così che solo le spine possono levarsi… col pretesto ch’è sera. Non resteranno certo notti anniversarie queste… ma solo stupidi sguardi assenti e stanchi dei corpi rimasti dei manifestanti. Noi si preferiva riguardar le stelle. «Ma don Gino dov’era?» mi chiedeva Francesca. Già, il
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neanche capaci di precipitare con dignità
Sopra: Emil Cioran A sinistra: Will McBride Overpopulation, 1969 Museo Ludwig Colonia
promessa dell’altrui sponda che garantiva l’assoluta mancanza di rischio ambientale dell’impianto.
entale parroco del paese. Ah, ecco, capimmo: più intento a controllar i restauri appena ultimati nella chiesa madre egli era, e a riguardar i lavori di mantenimento statico ed estetico egli stava; insomma, a riconsegnarinfineal suo decoro e decor l’alto tempio impegnato. Più rivolto, quindi, alle anime devote che agli atei e miscredenti che invadevano le piazze coi loro problemi terreni e contingenti. Più incline al suono delle campane per richiamar il suo gregge era teso, piuttosto che ai laceranti urli e disturbi lanciati dai contendenti… Tanto che proprio sul finir del comizio (come nel film di Brescello) s’ode nei cieli un forte scampanellar: din don dan din don dan - din don Gin. Ed è così che l’alba sonante annunciava dall’alto… lasciando in terra al tragico destino le furbastre contese che mai s’additano al viver sereno. Di sereno in quell’istante c’era solo un nome: Serena, una dolce fanciulla che pascolava il suo cane.
*** Anche la terza domenica di marzo fu dedicata al disagio… un altro, meritorio di critiche e foriero di catastrofi ambientali. Questo settimo giorno della terza domenica di maggio fu dedicato alla Biomassa. «No, la biomassa no» urlavano i contrari. «Ma ce vo’, ce vo’… (ci vuole)» ululavano i pretendenti, «basta che sia a norma» aggiungevano. «Ma a norma de ccenne? Te li muerti toi e de’ nonnuta, ma ane e mueri ccisu… ma varda quistu… ah oh…» sbraitavano gli altri. Stavolta, maggioranza ed opposizione in comune accordo e in totale assenso si ponevano contro la costruzione d’una centrale del genere che sarebbe dovuta sorgere in un agro vicino al loro feudo. Inoltrarono pertanto un sitin di protesta e una marcia corteo per raggiungere il luogo destinato all’operazione. Affratellati avanzavano stavolta, in procinto d’indebolire la vana
Ma io pensavo con tristezza: «Il maggior disastro che era in atto in quel momento era discuterne nel mesedi maggio. Maggio è un mese di festa, la bella stagione s’appressa e s’appresta, è il mese delle rose… tutto fiorisce e tutto si tace, dal freddo si esce per ritrovar l’estate, tutto s’ammanta d’un caldo vorace. A Firenze hanno il Maggio musicale fiorentino, a Lecce il Maggio musicale salentino, a noi del paesello (simile a Brescello) è toccato il Maggio rigormortis. Ma se siamo già morti da tempo, morti dentro, nell’animo, a zombie ci hanno ridotti, abbiam perso l’entusiasmo. Danni notevoli ci hanno causato: danni etici, estetici, morali, d’ogni tipo… Codesto borgo che prima splendeva di luce e colori ora è divenuto un luogo tetro, sinistro, quasi un cimitero, o forse peggio poiché almeno nella ‘dimora dei defunti’ provi una emozione, qui non senti niente, è come essere in un deserto, e di sera è ancora peggio: è coperto dal coprifuoco, si ritirano in casa a un’ora prestabilita, non imposta ma convenuta dai cittadini. Pare di essere nel medioevo, quando un segnale ad una determinata ora della sera imponeva di spegnere fuochi o lumi a fiamma libera per evitare incendi notturni. Persone prive di volontà come di vogliaabitano il paesaggio, e senza carattere sono diventate; stazionano per un breve intervallo sui marciapiedi del centro, come fanno i carcerati durante l’ora d’aria a loro concessa, per non impazzire, per rientrare poi nelle loro celle. E non evadono neanche né tentano di farlo,eludono solo la vita, sfuggono, si sottraggono gli anni e periscono dei loro affanni. Insomma, non è rimasto proprio niente. Questo ambiente adesso vogliono salvaguardarlo. Mah!». Al ritorno del corteo un docente universitario, salito sul solito palco, annotava i rischi sulla nostra salute in seguito alla realizzazione d’una centrale a biomassa. Emissario di morte, lui sì, più della centrale! Ambasciatori di salvezza, anime belle, inviati a protegger i nostri malanni e a prevenir i nostri guasti. Ma… a veder e ascoltar codeste genti… io mi sentivo, paradossalmente, più oppresso e più male stavo. Erano essi la pioggia del malanno! Erano come i flebotomi: più gravi e infausti della malattia stessa, se non ci
spagine
curiamo di loro adeguatamente, dei predicatori di morte. Loro si sopportano male, la loro laboriosità è fuga e volontà di dimenticare loro stessi. Se credessero di più alla vita, si abbandonerebbero meno all’attimo. Ma non hanno in loro abbastanza contenuto per attendere – nemmeno per la pigrizia. Dappertutto risuona la voce di coloro che predicano la morte: e la terra è piena di gente a cui si deve predicare la morte. Che si affrettino, però, a trapassare. «Quello che mi interessa, quando guardo qualcuno e dipingo, è nell’aspetto esteriore la morte che lavora dentro di lui», dicevaquel dublinese maledetto, pittore esistenziale ai limiti della patologia estetica, maestro della de-figurazione o della deformità: Francis Bacon, che concepì una spietata analisi della condizione umana. Il suo è un movimento interiore che cancella il riconoscimento delle persone ritratte per riprodurre il loro divenire animali sotto forma di umanità. Francesca mi sollevò la mente e con alcuni inni mi parlò d’amore: Gaudeo, ergo sum. Oggi, purtroppo, viviamo in un’epoca inadeguata e privilegiamo la letteratura del negativo, dell’incubo, della disperazione… Io e Francesca vogliamo essere i cantori della felicità di esistere e per questo forse non siamo amati dai lamentosi cori del disagio che loro provoca essere al mondo… che se non ne avessero di disagi se li procurerebbero, morti e negativi che non sono altro. Meglio se non fossero mai nati.«Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovra terrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano scomparire» (Così parlo Zarathustra F. Nietzsche). Per fortuna nell’ultima domenica di maggio i signori del disagio sociale marcato e parlato preferirono starsene zitti… e ci toccò solo guardare la bella Serena che, anche se un po’ scema, aveva sempre un bel sorriso da mostrare insieme al suo fondoschiena che potevamo ammirare: il più bel profilo del villaggio. L’adorammo in quell’istante. La favoletta relativa alla dannazione terrena inflitta alla gente, colpevole solo di essere nata… oltre che falsa e stupida non ha un bel niente d’eccezionale. Disordinata e confusa davvero. Sono solo linguacce biforcute nella variazione perpetua di qualsiasi mancanza di vita, presente e in divenire. Noi siamo quello che ci fa vivere… da per sempre… e per sempre… e differiamo la morte. Noi si vive appena loro hanno smesso di parlare… illudendosi di essere in un discorso; loro non sono nulla e non sanno nulla, non ci appartengono, quando credono di dire… sono detti. La loro arroganza discorsiva ed energica è subito frustrata, e dal momento che non sono loro dicenti ad argomentare in voce ciò che gli passa per la mente… così come non sono… possono solo dire niente. Vorrei chiudere come ho aperto, un incipit è di per sé la fine. Dice un vecchio medico: “La salute è uno stato precario dell’uomo, che non promette niente di buono”.
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L’arte di costruire la città Angelo Ricciardo l’iniziatore di Giuseppe Zimbalo
A
ngelo Ricciardo (1618 – 1706, circa), scultore leccese, potrebbe essere l'autore dell'altare di sant'Oronzo (FIG.1) nella Matrice di Salice Salentino (provincia di Lecce, Arcidiocesi di Brindisi). Che la cultura figurativa barocca fosse ricca lo si sapeva, che le forme di quel modo di espressione che definiamo barocco, appunto, fossero molte e inaspettate era altrettanto noto. A tutto questo “sapere comune e diffuso” sembra sfuggire, però, la figura di uno degli scultori più attivi (come sta evidenziando la ricerca) di quest'epoca: Angelo Ricciardo amico e forse addirittura una sorta di “Virgilio”, di guida formale nella fase di formazione, quella iniziatica potremmo dire, del certamente più celebre e celebrato Giuseppe Zimbalo (Lecce, 1620 1710). Fino a qualche anno fa A. Ricciardo era noto semplicemente per due sue opere in quanto autografe ovvero la risistemazione del cortile del palazzo Brancaccio in Ruffano (Lecce) e l'autografo altare dedicato a san Nicola, patrono di Salve (Lecce). Nel considerare analiticamente anche gli altri altari realizzati da questo scultore leccese - come ad esempio quello (laterali dell'intera cappella inclusi) dedicato a santo Stefano nella chiesa leccese di santa Irene - ciò che colpisce è la deformazione dei loro elementi figurativi; è come se, per un momento (e cioè quella particolare frazione della vita dell'osservatore in cui il suo tempo è scandito dalla visione dell'opera), rappresentare un volto in modo apparentemente deforme fosse, per l'artista, una necessità impellente, addirittura più reale del reale. E' un rinunciare alla realtà, alla sua rappresentazione fedele? E' un errore? Probabilmente sì, secondo alcuni. Secondo altri, invece, solo un modo diverso di vedere la realtà stessa, le sue forme e le sue figure. Non è da escludere che l'accentuazione di certi tratti somatici (fino ai limiti della smorfia paradossalmente) come potrebbero essere le muscolature, le guance, gli occhi stessi, scaturisca dalla necessità scenografica di sottolineare i giochi d'ombra e di luce che un tempo, nelle chiese, così come nei teatri, illuminate in modo naturale oppure solo con le fiamme di candele e lampade, svolgevano un ruolo determinante nel rapporto che il fedele aveva con l'”epifania del sacro” (di cui l'altare è uno strumento, un mezzo). Era forse questo uno dei modi per “mettere in scena il Sacro” che operando su un doppio piano, l'uno formale e l'altro religioso, riusciva a coinvolgere emotivamente il credente. Per meglio per-
Elogio
dell'ombra di Fabio A. Grasso
Fig. Altare di Sant’Oronzo nella chiesa matrice di Salice Salentino
cepire quest'opera scultorea, così come altre simili, l'ideale sarebbe, parafrasando in un certo senso Leonardo da Vinci, esplorarne l'essere in vita delle sue forme attraverso quella delle ombre prodotte da una fiamma. L'altare più antico attualmente noto di A. Ricciardo risulta essere quello del Rosario (Fig. 2) che è nella chiesa brindisina del Cristo.
Tale opera recherebbe inciso l'anno ipotetico della sua realizzazione, il 1640 con ogni probabilità (la scialbatura crea qualche difficoltà di lettura nell'ultima cifra). Quest'opera, forse proprio perché la più datata delle altre note e identificate fino ad ora come detto, rivelerebbe la caratteristica appena evidenziata, ovvero quella delle accentuazioni di forma e
ombra. Utile, ai fini della comprensione della poetica formale di A. Ricciardo, sarebbe trovare nuove opere altrettanto antiche (se non di più) come pure interessante sarebbe trovare un disegno realizzato dall'artista e ciò giusto per comprendere quale fosse il livello di trasposizione delle forme nel passaggio dal disegno all'opera, quanto in sostanza del disegno rimaneva nella realizzazione scolpita, quale la sua traduzione, quale il suo tradimento, quale, infine, l'uso delle ombre. Una ipotesi, a questo proposito, non sembri azzardato avanzare, quanto meno perché sia ulteriormente indagata, la rappresentazione del Sacro (e di quanto a esso connesso) non sembra passare esclusivamente per la cruna di un approccio artistico improntato al realismo figurativo più stretto e ortodosso. L'altare di sant'Oronzo, qui attribuito per via stilistica ossia attraverso confronti con le opere certe dello scultore leccese, è il secondo della navata destra entrando nella Matrice di Salice. Anche in questo caso il tempo degli uomini (e questi ultimi soprattutto) ha lasciato segni estranei al contesto formale dell'opera originale: la mensa (circa metà Settecento) con il suo ripiano superiore e il tabernacolo (questi ultimi due di fattura ancora più recente). Lo stesso apparato scultoreo originale inoltre è stato oggetto di diverse scialbature che hanno finito con l'attenuare, in particolare, i segni scolpiti delle figure. I caratteri distintivi dell'arte di A. Ricciardo, così come accade in certe pergamene cancellate a forza per poterle riutilizzare, sono riconoscibili, però, in filigrana e ancora una volta grazie alla luce (questa volta radente). Alcuni elementi, come ad esempio le figure che popolano i piedistalli, la trabeazione, le paraste o le stesse due uniche colonne tortili, ritornano simili a quelli presenti nelle altre opere dell'artista leccese (qui non ci si riferisce solo alle autografe, due come detto, ma anche a quelle, circa 40, che nel frattempo l'indagine storica e la catalogazione adesso in corso hanno identificato). L'articolazione spaziale, si passi questo termine, è semplice nel senso che l'altare è costituito da due colonne tortili e paraste (tutte su piedistalli) che sostengono a loro volta una trabeazione modanata e riccamente decorata con motivi vegetali e figure di fantasia. Nella parte alta la composizione è chiusa al centro dalla rappresentazione scolpita riccamente dello stemma (Fig. 3, un albero piantato in terra attorno al cui tronco si attorciglia la “S”, allusiva plausibilmente del nome della città “Salice”) della città, probabile committente dell'altare. A conclusione di tale analisi (parte di una indagine più ampia ades-
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spagine
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Poesia
Da Lupo Editore i versi di Antonio Sabetta dedicati al Salento
Mondanità
Fig.3 Altare di sant’Oronzo, particolare
so in corso) andrebbe rilevato un aspetto che accomuna questo altare agli altri presenti nella stessa Matrice. Tale edificio subì, infatti, una serie di trasformazioni significative per via di un primo rifacimento avvenuto nella seconda metà del 17° secolo e poi a seguito del terremoto del 20 febbraio 1743. Non è da escludere quindi che l'altare detto oggi di sant'Oronzo fosse presente già nella vecchia chiesa e con altro titolo. Lasciando per il momento la parola all'analisi architettonica, o meglio, ai muri (e loro parti) che spesso “raccontano la verità” al pari (e
anche di più a volte) dei documenti, si rileva che l'architrave (nella trabeazione è la parte inferiore, quella cioè che, in questo caso, poggia direttamente sulle due colonne tortili) è stata tagliata in parte per inserirci a forza le modanature decorate, pure lapidee, che fanno da cornice attualmente al dipinto con la rappresentazione del noto patrono di Lecce. *** Un particolare ringraziamento ha chi ha reso possibile questa indagine ovvero l'Arcidiocesi di Brindisi nonché il prof. Giacomo Carito.
Fig.2 Altare del Rosario chiesa del Cristo a Brindisi
I
l paesaggio salentino o, per meglio dire, l’elegia del paesaggio muove l’ispirazione poetica di Antonio Sabetta in questo libro “Mondanità”, pubblicato con Lupo Editore. Antonio Sabetta, che considera la poesia “catarsi dell’anima” contro le umane brutture, ha già pubblicato “Florilegio” (ex-ed Radar Sei) nel 1992 e questa raccolta fa parte dell’ampio materiale inedito di cui l’autore dispone. Egli infatti dispensa le sue poesie in tutte le occasioni , letterarie e amicali, in cui ne abbia modo, a volte cogliendo di sorpresa il suo interlocutore benevolmente “costretto” ad ascoltare l’improvvisata lettura dei suoi versi. Filo conduttore della presente silloge poetica è l’amore per il Salento, che si svolge nella visione estatica delle sue albe e dei suoi tramonti, delle sue pietre, di quell’amniotico silenzio della sua campagna solitaria, del profumo della zagara e della castagna, del bianco volo dei gabbiani sul ceruleo mare , del colore dei melograni, il tutto accarezzato dal tocco invisibile di Dio. Infatti, l’altra tematica che sostanzia le liriche di Sabetta è la sua fede cristiana e quel sentimento di gratitudine nei confronti del Divino Artefice al quale si è rivolto con accenti di più pura devozione in precedenti raccolte poetiche. I l Salento, nella sua figurazione mitica, viene trasposto in una edenica visione che sconfinerebbe nel naif se non fosse sostenuta da una discreta padronanza dei mezzi tecnicoespressivi. E questo Salento, iconizzato nei comignoli fumanti di case biancheggianti dalle semplici geometrie, nel sasso levigato dall’acqua del torrente, nel fico d’india dalla faccia spinosa e nei nodosi ulivi, insomma in quei connotati archetipici ( e forse ormai abu-
di Paolo Vincenti
sati) che contrassegnano la nostra terra, questo Salento, dicevo, viene contrapposto,- emblematico il titolo della raccolta, “Mondanità”-, nei suoi valori più autentici e nella purezza primeva del suo paesaggio, alla mefitica civiltà degli anni duemila. Il mondo contadino, pastorale, di un Salento perduto, di contro alla società supertecnologica di questi anni sbandati. Un empito di accorata nostalgia alimenta le sue accensioni liriche e l’amore per la natura, con la quale egli intesse un dialogo quasi amoroso, lo porta ad una forma di panismo, di comunione con il tutto intorno, che è anche difesa dal male imperante, rimedio alla solitudine e al mal di vivere. Inoltre, in filigrana, si può avvertire un senso della storia e del fluire millenario delle vicende umane di questo popolo salentino di cui l’autore si sente aedo, epico cantore. Sicuramente influenzato da Quasimodo in certe felici descrizioni del paesaggio meridionale del poeta siciliano, vicino per toni e accenti al crepuscolarismo, Sabetta può però essere inquadrato in quel filone della lettarutura salentina la cui presenza, pur lontana dalla sensibilità di chi scrive, è apprezzabile e confortante.
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Racconti salentini
L
e celebrazioni espressamente dedicate ai SS. Apostoli Filippo e Giacomo, Patroni di Diso, hanno inizio il 21 aprile con il nove-
nario. Di buon mattino, a cura e opera del Parroco e dei priori, questi ultimi intesi come i principali esponenti del comitato festa, le statue di legno dei Santi sono prelevate dalle nicchie ricavate nelle pareti interne della chiesa, “spogliate”, ossia senza gli ornamenti delle corone e delle insegne (croce e asta), e poggiate su uno scanno in prossimità dell’altare. In quella fase, il luogo è quasi a porte chiuse, in pratica vuoto, l’azione si svolge in un misterioso silenzio, ammantato di riservatezza e di esclusiva. Il prete e i priori allestiscono, nel consueto angolo del tempio, a sinistra guardando l’altare, il baldacchino o “tosello” in pesante tessuto rosso; quindi prendono, dalle custodie di sicurezza, le anzidette insegne in argento e le reliquie dei Santi, ponendole addosso ai rispettivi simulacri, in gergo “vestono” le statue. Contemporaneamente, i rintocchi delle campane fanno giungere alla popolazione l’atteso, immancabile e immutabile avviso. Fino a qualche decennio fa, la gente era colta dall’annuncio, quando già, dopo la sveglia all’alba secondo le antiche abitudini dei contadini, si trovava da un pezzo intenta al lavoro; dunque, lasciando di colpo arnesi e occupazioni, accorreva di buona lena, a passo affrettato, direttamente dalla campagna verso la chiesa. Adesso, invece, nella quotidianità e particolarmente il giorno 21 aprile, nessuno si reca nei campi, anzi le persone si preparano in casa, in un certo senso con abiti di festa, per l’evento. In tutta la comunità, sembra che sia rimasta solo un’anziana donna, la quale non ha cambiato le usanze e raggiunge la parrocchia così come si trova. Con il luogo sacro ormai gremito di fedeli, il parroco e i priori intronizzano le statue sul baldacchino. Nel tardo pomeriggio, in piccola processione, dalla congrega (cappella) della confraternita si preleva il simulacro in cartapesta della Madonna Immacolata - qui conosciuta come Madonna dell’Uragano, giacché la Vergine, stando alla tradizione, tenne indenne Diso da un devastante evento atmosferico - e lo si colloca, in parrocchia, sotto il baldacchino, in mezzo ai due Santi Patroni. Durante il novenario, la sera sono invitati a tenere la predica (omelia), a turno, i parroci dei paese vicini, con
Il culto e la festa dei
I santi Le fotografie che illustrano la pagina sono di Domenico Ferrovecchio http://vociecoloridelsud.blogspot.it
Particolare del busto di San Filippo
una dedica, un’intenzione, una finalità, un argomento ogni giorno differente: per la famiglia, gli emigranti, i devoti ai Santi, i bambini e via dicendo. *** Intervallo di natura esteriore o civile: dal 1° marzo iniziano ad affluire, a bordo di enormi camion, i “pali”, ossia gli addobbi, le luminarie che adorneranno le principali vie e piazze, comprendenti la maestosa cassa armonica, sotto la cui cupola prenderanno posto e si esibiranno le bande musicali. In genere, salvo che la ricorrenza non cada troppo bassa, per Pasqua, tale apparato deve essere “piantato”, ossia sostanzialmente messo a dimora e pronto. Restando sotto l’aspetto “civile”, l’anima ispiratrice e organizzatrice e il motore propulsore dei festeggiamenti s’identificano con il Comitato: un gruppo di persone che “si mettono” o “escono” volontariamente e la-
vorano sodo pressoché durante l’intero arco dell’anno. Così, per citare, ecco alcune attività del comitato. Organizzazione e allestimento di riffe - in palio ricchi premi, finanche un’autovettura -, con attuazione del progetto e vendita dei biglietti non solo nell’ambito del paese, ma pure coinvolgendo mercati e fiere delle località vicine, portando materialmente in giro, qua e là, sino alla fiera di S. Rocco a Torrepaduli, il premio finale, ad esempio l’autovettura, e ciò per meglio e concretamente allettare e invogliare il pubblico all’acquisto dei tagliandi. L’estrazione avviene di solito la vigilia della festa, cioè il 30 aprile. Un piccolo ma autentico episodio “a latere” della riffa in questione. Un anno, alla fiera di S. Rocco, comprò un biglietto un signore d’età avanzata, originario di Andrano, che recava con sé, aggrappato al collo, un nipoti-
no e il buon uomo dichiarò espressamente di voler procurarsi e pagare il biglietto a nome e beneficio del piccolo. Fu proprio quel tagliando, il fortunato estratto e, all’atto della consegna dell’autovettura in palio, l’anziano fece presente che il veicolo, come promesso, era destinato al nipotino: limiti o debolezze della società contemporanea, anche in seno alla famiglia, la decisione diede luogo ad accese reazioni da parte degli altri figli, sedate e respinte con non poca fatica. Per Pasqua, i membri della commissione passano di casa in casa per raccogliere le “uova dei Santi” o, in mancanza di galline e pollai, una corrispondente offerta in denaro, minimo cinque euro. Agli inizi di ogni anno, appaiono, poi, i calendari con le effigie dei Patroni e, nuovamente, via a raggranellare offerte. Ancora, una volta il mese, ciascuna famiglia si vede recapitare una busta per i Santi: la voce sparsa in giro, è di riempirla con un minimo di venti euro. La domenica mattina, in piazza, non manca mai la mitica cassetta e, pure in questo caso, se uno non vi depone almeno cinque euro, finisce con essere fatto oggetto di “mormorazione”, comportamento non certo cristianissimo, ma…così vanno le cose. Nocciolo duro dell’opera del Comitato, la raccolta delle sottoscrizioni nominative di ciascun nucleo familiare: si va da 70 a 100 o 150 euro ad uscio. Ultimo corollario di entrate, si svolge la raccolta di quantità di grano dai produttori e di olio, nei frantoi, dai molitori “particolari”, derrate entrambe destinate alla monetizzazione. Sembra uno scherzo, invece il reperimento fondi e risorse è veramente impegnativo, si pensi che il paese conta appena più di 1000 abitanti e il budget della spesa complessiva per la festa si aggira intorno ai 250.000 euro. Non di rado, per far quadrare i conti, i membri del Comitato sono portati o costretti a una speciale autotassazione personale. Nel giorno dell’evento, il 1° mag-
SS. Apostoli Filippo e Giacomo, Patroni di Diso
nosci
di Rocco Boccadamo
gio verso le otto, sul sagrato della parrocchia si svolge l’asta per aggiudicarsi e portare a spalla le stanghe dei Santi: i devoti che offrono di più (si parla di centinaia d’euro a testa) allacciano alla rispettiva estremità delle “stanghe” (solide barre di legno infilate alla base delle statue) un “nastrino” a colori personalizzato. Attenzione, però, l’aggiudicazione iniziale non è per niente definitiva, durante la processione chiunque ha il diritto di avvicinarsi alle stanghe, chiedere quanto è stato pagato dal portatore “a” o “b” e, al caso, dichiararsi disponibile a versare una somma maggiore, che, se non ulteriormente rilanciata, gli dà titolo per divenire, da quel momento, il portatore della statua dei Santi. Ovviamente, il dovuto per le stanghe è pagato al termine della processione. *** Inizia, muovendo dalla chiesa, la processione, verso le 9 – 9.30 e termina intorno alle 13.00 – 13.30: un intervallo così lungo, giacché è comprensivo della sosta dei Santi, abitualmente in Largo Municipio, per due ore, due ore e mezzo, la parentesi, cioè, che è occupata dallo sparo dei fuochi pirotecnici, sino a tre o quattro batterie per opera di altrettanti fuochisti. Un’interminabile esibizione, un festival di botti che si compie rigorosamente di giorno – e non di sera come sarebbe consigliato per i più spettacolari effetti luminosi dei giochi sotto le tenebre – che mandano in sollucchero gli amatori, i quali apprezzano e giudicano la valentia degli artificieri in base all’armonia, laddove si tratta piuttosto di deflagrazioni assordanti, delle “carcasse” e dei “carcassuni” e alle sequenze dei crepitii segnati da catenelle e grappoli di piccole nubi artificiali. Talvolta, e in diverse occasioni, ha suscitato controversie siffatta sosta laica dei Santi Patroni e del corteo, in varie riprese il vescovo diocesano ha cercato di impedirla, ma “il popolo” non ne ha voluto sapere. In qualche circostanza, è addirittura intervenuto un improvviso rovescio di pioggia, ma, anche in tal evenienza, i Santi sono stati fermamente trattenuti in sosta all’aperto, a ba-
Particolare del busto di San Giacomo
gnarsi, non si è minimamente dato ascolto alla proposta di qualcuno di porli al riparo al coperto. Osservazione del Comitato: “In fondo, l’acqua, l’hanno voluta Loro e adesso se la tengono”. Fede, credo religioso o, al contrario, un piccolo rigurgito di superstizione? Sia come sia, la processione è molto nutrita, affollata, vi partecipano varie migliaia di persone, del posto e di numerosi paesi contermini. E’ composta, diciamo pariteticamente, ma forse sono prevalenti i secondi, da fedeli che giungono in visita e camminano dietro ai Santi Apostoli e da patiti dei fuochi pirotecnici e delle luminarie. In base alla leggenda o tradizione, i simulacri dei Santi di Diso, localmente appellati e amati come i “Santi nosci”, approdarono in zona via mare, a bordo di un battello improvvisamente paratosi all’imbocco dell’inse-
natura “Acquaviva” di Marittima. Tentarono di accostarsi al natante, con l’intento di prelevare le statue, sia gruppi di marinai di Castro, sia abitanti di Marittima, ma invano, giacché, di fronte ai loro tentativi, il naviglio prendeva ad allontanarsi e a beccheggiare sospinto dalle onde. Solamente all’arrivo di gruppi di fedeli di Diso, l’operazione riuscì. Si formò un corteo con i due simulacri, il percorso dall’Acquaviva a Diso non era brevissimo e, prima di guadagnare la méta, fu necessaria una breve sosta in una campagna situata fra Castro, Vignacastrisi e Diso: a ricordo di ciò, in quel posto si edificò una minuscola cappella, esistente ancora oggi, denominata “cappiddruzza”. *** Dei due Santi Patroni, Filippo è quello con il volto incorniciato da una robusta barba. Invece, il secondo, ovvero Giaco-
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mo, ha il volto liscio, ma, soprattutto, è contraddistinto da un’altra caratteristica identitaria: gli occhi grandi, appena rivolti verso l’alto, che lasciano egualmente trasparire uno sguardo che prende, riempie, colpisce e lascia ammirato l’osservatore: nessuno, avvicinandosi al simulacro, riesce a sfuggire, a restare fuori campo, rispetto al particolare. Le donne, specialmente, rimangono incantate, s’innamorano di quegli occhi, ne metabolizzano la luminosità e la profondità, non e’ azzardato pensare che, quelle in età feconda, arrivino a sognarne, prefigurarne di uguali per le creature che si troveranno a generare. Notazione collegata o meno alla riflessione o supposizione di cui sopra, sono numerose, a Diso e anche a Marittima, le persone con occhi grandi e scuri, chissà se “figlie ideali e spirituali di S. Giacomo”. In tale novero, allo scrivente è agevolmente dato di porre, a riferimento, la propria mamma, purtroppo mancata da quarantacinque anni, una sorella e due nipoti. E non è per nulla detto che si tratti esclusivamente di mera e banale suggestione. I Patroni di Diso, SS. Filippo e Giacomo, vantano, ovviamente, correnti e poli di culto religioso e di devozione in molteplici località nel mondo. Fra i centri e i siti di venerazione, merita di essere ricordata la Basilica dei XII Apostoli nell’omonima piazza di Roma, che è una delle chiese “titolari” della capitale, vale a dire intestata a un cardinale: attualmente, il titolo è detenuto dal Card. Angelo Scola, Arcivescovo di Milano. Alcuni anni fa, su iniziativa del parroco di Diso, le reliquie degli Apostoli Filippo e Giacomo custodite nella Città Eterna arrivarono e sostarono per un certo periodo nel paesino. E fu solennità grande. In chiusura delle presenti note, piace e sembra giusto all’autore porre in evidenza che il parroco pro tempore di Diso, il reverendo don Adelino Martella, si trova da oltre un ventennio alla guida della comunità e, a parte le sue preclari doti e qualità di predicatore, di studioso e di scrittore (più recenti volumi pubblicati, ”Il miracolo e i miracoli dei Santi di Diso” e “Giovanni Paolo II, il Grande”), nell’ambito della sua opera e dedizione in veste di Pastore , si è particolarmente distinto per l’impegno profuso ai fini di importanti lavori di restauro della chiesa e dei tesori nella stessa contenuti, chiesa che, attualmente, si presenta, senza esagerazione, alla stregua di un prezioso gioiello.
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Benvenuti a Cipìernola... di Giuse Alemanno, Città Futura Edizioni
D’amore e di rivolta di Alessandro Vincenti
C
on la pubblicazione del suo “Benvenuti a Cipìernola, ovvero Don Fefè e Ciccillo coinvolti nell’intricata vicenda della gatta immobile Brici, la lotta di classe, la sacra reliquia di Sant’Antonio Abate e la cacciata del Satanasso Gasparotto”, Giuse Alemanno aggiunge una nuova puntata alla saga che vede come protagonisti Don Fefè e gli abitanti di Cipìernola, paese immaginario di quella parte di Salento conosciuta come Terra d’Arneo. *** L’autore ci aveva già abituati, con l’altro romanzo, all’utilizzo di titoli dal sapore wertmulleriano, che appaiono come degli omaggi ad una delle maestre meridionali del cinema italiano. Ma a ben vedere è tutta la narrazione di Alemanno che riprende della Regista di “Mimì metallurgico ferito nell'onore” la passione per la tradizione della maschera all’italiana, con il gusto per il barocco, il grottesco o per la descrizione fortemente dissacratoria di tic, vizi e virtù di personaggi, che lentamente, con lo scorrere delle pagine, sfumano, lasciando il proscenio all’impegno politico e sociale dell’autore. *** In questo romanzo, le intricate vicende di Cipìernola si svolgono in parallelo ad un fatto realmente accaduto, che la stampa dell’epoca chiamerà la “rivolta dell’uva”. Tra il 1956 e 1957, a causa del crollo del prezzo dell’uva da vino, che da 4500 passò a 2000 lire il quintale, le province di Lecce e Brindisi furono teatro di dure proteste da parte degli agricoltori e delle popolazioni ridotte alla fame. Manifestazioni spontanee e blocchi stradali si verificarono soprattutto nei paesi di Torchiarolo, San Pietro Vernotico, Cellino San Marco e San Donaci, dove, il 9 settembre 1957, il commissario Luigi Ratemi insieme a 25 agenti della scorta uccise tre giovani del posto, Luciano Valentini, Mario Calò e Antonia Carignano, quest’ultima raggiunta da un proiettile vagante sulla soglia della propria casa. *** Il crollo del prezzo dell’uva ebbe diverse cause, non ultime la speculazione dei compratori del Nord Italia, l’inerzia del governo democristiano Zoli, che ignorò le soluzioni alla crisi proposte dal Partito Comunista, e l’ottusità dei ministri all’Agricoltura, Emilio Colombo, e dell’Interno Tambroni, che lo stesso giorno in cui avvenne l’assassinio dei tre manifestanti inviò un telegramma con cui sollecitava i Prefetti di Puglia, Basilicata e Calabria a vigilare al fine di evitare qualsiasi turbamento all’ordine pubblico, e invitava a stroncare sul nasce-
della saga, e vedono Don Fefè insieme al fedele Ciccilo, costretti a prendere il treno alla volta di Parigi. Qui ad attenderli c’è il vecchio zio Leone, ormai alla fine dei suoi giorni, che preoccupato per l’incapacità di un Don Fefè, troppo preso dai piaceri della carne, a dare un degno erede alla stirpe dei Torreggiani-Cimboli, decide finalmente di rivelare a Ciccilo quali fossero le sue vere origini, affidandogli le speranze per il prolungamento del buon nome della famiglia.
Giuse Alemanno con Amelì Liana Lasaponara
La copertina del libro
re ogni forma di protesta popolare. Per ulteriori approfondimenti su questi fatti che avvennero nel Salento, rimandiamo il lettore al volume “La guerra del vino” , Manni Editori, di Alfredo Polito e Valentina Pennetta, realizzato in collaborazione con “Promo Culture” e l’”Istituto per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia contemporanea”, diretto da Vito Antonio Leuzzi, e all’altro loro progetto “De Vino Veritas”, il cui blog (www.laguerradelvino.it) contiene un’esauriente documentazione sull’intera vicenda. Così, quando la protesta per il ribasso del prezzo dell’uva inizia a montare anche tra i contadini di Cipìernola, nel romanzo fanno capolino personaggi come l’Onorevole Giuseppe Calasso e la moglie Cristina Conchiglia, realmente impegnati in quella stagione di lotte in difesa dei contadini, invitati dalla locale sezione del Pci a tenere un pubblico comizio nella piazza principale del paese. E non diversamente da quello che accadde in quegli anni in altri paesi a ridosso delle province di Lecce e Brindisi, anche la locale stazione di pubblica sicurezza di Cipìernola, fu invitata dal Prefetto a tenere alto lo stato d’allerta; anzi, siccome il rischio di una sommossa era molto elevato fu mandato a supporto l’energico e reazionario sub commissario prefettizio Marcone, sempre pronto all’uso della forza per reprimere qualsiasi forma di protesta popolare. Personaggio, quest’ultimo, che
sembra essere ispirato ad un altro personaggio realmente esistito: il commissario Stefano Magrone; artefice, tra il capodanno del 1950 e il gennaio del ’52, di una dura repressione ai danni dei contadini che occupavano le terre incolte dell’agro dell’Arneo; descritto in quegli anni da Vittorio Bodini come “un grosso bubbone sull'incrocio delle tre province che formano il Salento: Lecce, Brindisi e Taranto. Ma dei 42.000 ettari che occupa e che sottrae alla vita delle popolazioni, la parte maggiore, e per disgrazia la più deserta, la più ispida e priva d'acqua, di comunicazioni e di ogni altro segno umano che non siano i cartelli di caccia riservata”. L’occupazione delle terre d’Arneo si concluse, come dicevamo, con una dura repressione ai danni dei contadini e con la distruzione, come rappresaglia delle forze dell’ordine, delle biciclette dei contadini, in molti casi unico mezzo di sostentamento, indispensabile per raggiunge le terre da lavorare. In una situazione sociale, insomma, che si fa sempre più tesa, dove è pronta ad esplodere la rabbia dei contadini sobillati dal giovane comunista Rocco Carone, la cui forzata astinenza sessuale alimentava non poco il suo fervore politico, a Cipìernola si svolgono le vicende di don Fefè, del servitore Ciccilo e di quell’umanità che ruota intorno al palazzo Torreggiani Cimboli. I fatti narrati sono consequenziali a quelli presentati nel primo romanzo
Ciccillo, nato e cresciuto a palazzo, da sempre fedele servitore di Don Fefè, figlio di Lionora, una serva, e di padre ignoto, scopre di essere il figlio segreto di uno zio materno del suo padrone e proprietario, soprattutto, di un ingente patrimonio. Questo gli farà ribaltare completamente il suo punto di vista del mondo, passando da quello “della malota”, tipico chi è costretto a vedere tutto dal basso, a quello “della rondine", che alzandosi in volo può guardare più da vicino il cielo. Nel periodo di assenza dei due, la vita del palazzo è sconvolta dall’arrivo della gatta Brice, affidata dalla legittima proprietaria, costretta ad un ricovero ospedaliero, alle cure delle inservienti. La gatta diventa l’epicentro di uno scottante caso di credenza popolare quando decide di passare tutto il tempo della sua permanenza a palazzo là dove si dice ci fosse stato un quadro di Sant’ Antonio Abate - unica icona sacra che mai avesse varcato la soglia del palazzo - che un bel giorno di molti anni addietro, inspiegabilmente, prese fuoco. Intorno allo strano comportamento dell’animale si creano nel paese due opinioni differenti e contrastanti, quella di chi ritiene la gatta una creatura demoniaca, latrice di sventura; e quella di chi la considera con benevolenza, ritenendo il comportamento della gatta come una sorta di riverenza nei confronti del Santo protettore degli animali. Quando la situazione è ormai sul punto di precipitare in un vero e proprio scontro tra diverse fazioni: tra chi è pro e chi è contro la gatta; tra contadini, aizzati dal giovane comunista Rocco Carone, e forze dell’ordine pronte alla repressione dei torbidi,… finalmente ritorna a casa la proprietaria della gatta, nonché amante di Carone. Riprendendosi la gatta e dando al focoso Carone altre più amorevoli occupazioni rispetto a quelle proprie della rivendicazione proletaria, la situazione nel paese di Cipìernola lentamente torna alla sua normalità, almeno fino alla prossima puntata della saga.
MMSarte Inaugurato il 24 marzo il nuovo percorso di poesia visuale rivolto ai bambini di quattro classi della Scuola Primaria Leonardo Da Vinci di Cavallino e Castromediano a cura di Monica Marzano
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Art-icoliamo senza barriere
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L
Disegno di Greta, testo di Martina Monte
er Martina il Rispetto non ha confini ed è l'unico principio necessario affinché tutti i popoli possano vi-
a piccola Maya racconta l'Amicizia come qualcosa di così importante, prezioso e speciale da essere paragonata alla stella
vere sereni... Martina ha intuito che comunque alla base di ogni forma di rispetto ci deve essere quel sentimento reale che è l'Amore, essenziale per vivere tutti insieme e
quei cuori che brillano di tale emozione sono la vera catena che tiene unite tutte le genti del mondo. Col suo disegno, la piccola Greta, ha ben colto il profondo pen-
siero di Martina. Ecco allora un colorato girotondo e il mondo che, con i suoi grandi occhi e la sua bocca materna, sorride beato a cotanta unione.
Disegno di Stefano, testo di Maja Pinto
più bella che brilla nel cosmo e che non solo è un piacere da ammirare ma essenziale luce soprattutto quando vediamo tutto nero e buio intorno a noi, un Amicizia Faro ancor più lucente semmai riuscissimo a far di-
ventare amico perfino il nostro peggior nemico. Fantastico il disegno del piccolo Stefano: ha rappresentato e materializzato la metafora dell'Amicizia come un'enorme stella che illumina
sorridente il cielo notturno, un grande abbraccio a cinque punte che allegramente volteggia nel cielo diffondendo quel senso di pace e complicità che solo i veri amici possono ottenere.
La galleria dei lavori della precedente edizione è su www.mmsarte.com
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TEATRO
Copertina
Marco Baliani per la rassegna “Scene del Desiderio” di Astragali con gli spettacoli “Kohlhaas” (il 13 aprile) e “Tracce” (il 14 aprile) e il libro “Occasioni” al Teatro Paisiello
“
Tanti anni fa in Germania viveva un uomo di nome Kohlhaas…”. Inizia così l’affascinante racconto di Marco Baliani, che sarà ospite al Teatro Paisiello all’interno della stagione di Astragali Teatro “Scene del Desiderio” con due importanti spettacoli, “Kohlhaas” e “Tracce” e un incontro. Gli appuntamenti rientrano nella Residenza Artistica di Astragali all’ interno del progetto Teatri Abitati della Regione Puglia in collaborazione con il Teatro Pubblico Pugliese e il Comune di Lecce. *** Domenica 13 aprile, alle 21.00, lo spettacolo Kohlhaas. Il lavoro scritto insieme a Remo Rostagno è tratto da "Michael Kohlhaas" di Heinrich von Kleist e narra la storia realmente accaduta, nella Germania del 1500, di un mercante di cavalli, vittima della corruzione dominante della giustizia statale. La spirale di violenza generata dal sopruso subito dal protagonista offre lo spunto per una riflessione sulla questione della giustizia e sulle conseguenze morali che la reazione dell'individuo all'ingiustizia può comportare. Eccezionalmente per la replica di Lecce, gli spettatori che hanno assistito a Kohlhaas la sera del 13, avranno la possibilità di partecipare nella mattinata di lunedì 14 aprile, alle 10.00, Teatro Paisiello, ad una lezione sullo spettacolo tenuta dallo stesso Baliani) L'appuntamento con il teatro di Baliani, continua lunedì 14 aprile a partire dalle 19.00.
Marco Baliani in una fotografia di Mario Sposito e la copertina del libro edito da Rizzoli
Il regista e attore dialogherà con il pubblico e presenterà il libro L'occasione (ed.Rizzoli) mentre alle 21.00 presenterà lo spettacolo "Tracce". Ispirato all’omonima raccolta di aforismi e parabole di Ernst Bloch, il lavoro è un racconto "diluito" il cui filo conduttore è rappresentato da quattro parole: "Stupore", "Incantamento", "Infanzia" e "Racconto".
Ogni parola è protagonista di una narrazione ricca di ricordi, pensieri ed emozioni personali, ma anche di citazioni letterarie (oltre allo stesso Bloch, anche Rilke, Benjamin, Chatwin…) e di scelte musicali affini e evocative: Bjork, Sainko, John Lurie, e, nella tredicesima puntata, l’unico brano non strumentale: La cattiva strada di Fabrizio De André.
Ingresso 10 euro Riduzioni per studenti universitari fino ad esaurimento dei biglietti in convenzione Adisu e tesserati Zei. Info e prenotazioni: 0832 306194, 320 9168440
La Compagnia Teatro di Ateneo ai Cantieri Teatrali Koreja
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artedì 15 aprile, alle 21.00, presso i Cantieri Teatrali Koreja a Lecce, si terrà la prima di “H. H., la confessione di un vedovo di razza bianca”, della Compagnia Teatro di Ateneo, per la regia di Aldo Augieri. Il testo è tratto dal romanzo “Lolita” di Vladimir Nabokov. *** “Lolita” è uno dei romanzi più conosciuti del Novecento, è qui che si raccontano le vicende del professor Humbert Humbert (‘il vedovo di razza bianca’), grande fonte di ispirazione per molti artisti. Aldo Augieri, con la Compagnia “Teatro di Ateneo”, ha deciso di partire da questo romanzo per dare vita a uno spettacolo intenso, dove la scrittura si fa corpo partecipato, realtà fanciullina che aspetta una voce, gioco del ritmo e abisso della
melodia. “H. H. la confessione di un vedovo di razza bianca” porta in scena il lavoro svolto da Aldo Augieri con gli attori provenienti dai laboratori condotti dalla Compagnia Teatro di Ateneo. Complice della piece, sarà il dirottamento linguistico del desiderio, lo scandalo del ritmo, a partire da un romanzo erotico, “Lolita”, dove non c’è una sola scena di sesso. Nella serata la presentazione di Titania: una nuova collana di Edizioni Milella dedicata alla riscrittura scenica e diretta da Aldo Augieri. Il primo volume della collana, che sarà disponibile in anteprima ai Cantieri Teatrali Koreja, si intitola “Le bagatelle di Lady Macbeth. Da Shakespeare a Céline” di Aldo Augieri (traduzione di Antonio Mosca). Info: 327.3973263
Scarpa rossa con copione - Una fotografia di Pippo Affinito