Spagine della domenica

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spagine É

morto nella tarda mattinata di ieri, sabato 26, Rocco Aprile; da pochi di giorni, dopo un ricovero in ospedale, era tornato nella sua casa, a Calimera, la grande piccola patria greca dove era nato nel 1929. Di Rocco Aprile ricordo - in me segno indelebile - l’andatura delle parole, l’eloquio pacato, raffinato, colto, segno di una sensibilità rara, di quell’attitudine da maestro che ha coltivato per tutta la vita. Parole pulite, dirette, perfette, le sue, in un italiano che mai ho sentito avere coloriture dialettali: la sua lingua - d’altronde - era il greco e sul quel metro - su quella nostalgia - Rocco Aprile ha misurato passioni, interessi e militanze. Insegnante all’Istituto Magistrale, storico, scrittore, figura essenziale del movimento di riscoperta delle tradizioni greco-salentine. Tra i fondatori del Circolo Culturale Ghetonìa, fu tra i primi – seguendo la lezione di Vito Domenico Palumbo - a proporre il riscatto territo-

Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri della domenica n°26 - 27 aprile 2014 - anno 2 n.0

Caro Rocco riale e linguistico di quella porzione di Salento che, con Calimera in testa, ha sempre rivendicato la sua particolarità. Il suo straordinario romanzo “Il sole e il sale” lo testimonia (edito dal Circolo Culturale Ghetonìa nel 1987, poi da I libri di Icaro nel 2006 con il seguito de “Il Funerale e i fiori di campo”): il racconto del Salento e della sua enclave grecanica, la trasformazione di un territorio rimasto per secoli piegato dalla soggezione e dai “padroni” aristocratici artefici del de-radicamento anche violento dell’origine antica del nostro territorio. Poi venne il Novecento, la guerra e la modernità... E tutto cambiò nella suggestione del nuovo... Leggiamo ciò che Rocco Aprile scrive nella nota che introduce la seconda edizione de “Il sole e il sale”: “Due inse-

gnanti di lettere della locale Scuola Media, Enza Guido e Isabella Crety, mi suggerirono l'idea di scrivere un lungo racconto, che rispecchiasse usi, costumi, lingua di Calimera, uno dei paesi della provincia di Lecce in cui si parlava ancora un dialetto greco (il "griko"), che per tanti secoli aveva rappresentato l'unico mezzo adoperato dagli abitanti della Grecìa salentina non solo per comunicare tra di loro, ma anche per esprimere i loro più riposti sentimenti in innumerevoli canti di alta poesia. L'idea mi piacque e mi misi subito all'opera, descrivendo la vita che si svolgeva a Calimera prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, cioè fra il 1936 e il 1945. Nella prima metà del racconto le vicende narrate si svolgono esclusivamente a Calimera e la lingua usata nei

colloqui è quasi sempre il griko. Nella seconda parte, invece, l'orizzonte si allarga ed il protagonista principale della vicenda si sposta nel capoluogo, trascinando con sé la sua numerosa famiglia. Nella prima parte del romanzo mi sforzo di rappresentare un ambiente rimasto immobile nei secoli con le sue credenze, la sua morale, i suoi costumi, la sua lingua. Ma, come è ben noto, questo "piccolo mondo antico" venne bruscamente spazzato via dall'immane conflitto, che cambiò radicalmente i costumi, le abitudini, la vita stessa della comunità greco-salentina. Se, prima della guerra, tutti si esprimevano in grico sia in pubblico che in casa, subito dopo quasi tutti sentirono la necessità di scrollarsi di dosso la lingua parlata per secoli dall'intera comunità, considerandola inadeguata ad esprimere la complessa realtà del mondo moderno”. Per ricordarlo e invitarvi a leggerlo, vi proponiamo nell’interno (pag. 13) la pagina che apre “Il sole e il sale”. Mauro Marino


Lecce, 27 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 26

Diario

Oggi a Roma, due papi, due Santi e una Chiesa

La materia della speranza

S

i può scherzare coi Santi? Io credo di sì, perché i Santi sono buoni, capiscono e non sono vendicativi. Invece non conviene scherzare coi fanti, che per stare nel motto sono i loro seguaci, che non capiscono, sono permalosi e se possono te la fanno pagare. Mettiamola così, allora: dai Santi mi guardo io; dai fanti mi guardi Iddio! Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II oggi, domenica 27 aprile 2014, sono canonizzati, santi a tutti gli effetti. Ora bisogna chiamarli San Giovanni e San Giovanni Paolo, meglio San Gianpaolo per economia di fiato. Il Cardinal Martini, dal luogo in cui si trova, deve parlare con rispetto del papa polacco, nei confronti del quale, chiamato a dare la sua testimonianza nel processo di santificazione, espresse un parere negativo. A suo dire, non meritava di diventare santo perché nel corso del suo lungo pontificato avrebbe fatto degli errori e non avrebbe saputo tenere rapporti e distanze con talune personalità del secolo poco raccomandabili – il dittatore cileno Pinochet, tanto per fare un nome –; insomma si sarebbe distinto di più come uomo di politica e di potere che come uomo di chiesa e di santità. Ma un santo-santo, per la causa santa, deve anche avere rapporti con Satana. E siccome la santificazione è come una sentenza passata in giudicato, il Cardinal Martini, se pure avesse ragione, dovrebbe tener conto della inappellabilità delle decisioni di Santa Romana Chiesa, ispirata dallo Spirito Santo. Giovanni XXIII, il Papa buono, nonostante il breve pontificato, 1958-1963, impresse una svolta decisiva alla Chiesa, non solo con il Concilio Vaticano II, continuato dopo la sua morte da Paolo VI, ma anche con una serie di gesti di chiara significanza politica. Fu il Papa che ruppe una certa consuetudine. Si avvicinò alla gente, alla quale seppe sempre parlare con parole di tenerezza e di poesia – celebre il discorso della carezza e della luna – in un modo semplice, di immediata comprensione. Si definì un “sacco vuoto” che poi lo Spirito Santo avrebbe riempito. La gente lo sentì vicino, come mai in precedenza era accaduto ad un papa. Tanto più che il suo predecessore, Pio XII, era stato la rappresentazione della distanza anche quando scendeva dal soglio per incontrare la gente, come in occasione dei bombardamenti al quartiere di San Lorenzo a Roma il 19 luglio 1943. Quando Pio XII apriva le

di Gigi Montonato

Musiei Vaticani

braccia e guardava al cielo sembrava volesse assumere la posizione del Crocifisso o giungere da un capo all’altro del mondo in un gesto ecumenico grandioso. Era coltissimo, parlava una dozzina di lingue. Avrà faticato lo Spirito Santo a trovare un po’ di spazio per metterci qualcosa. Era distante dal cuore della gente. Ma sarà santo pure lui, perché i papi seguono la tradizione degli imperatori romani, ascendono alla gloria dei cieli come i Cesari a quella dell’Olimpo. Ma fu anche Giovanni XXIII un papa politico, non meno politico di Pio XII, benché di orientamento decisamente opposto. Dove uno si era caratterizzato per cultura e diplomazia, l’altro si caratterizzò per il suo modo di fare alla buona nell’immediatezza del problema da risolvere, fosse un conforto ai carcerati o un appello ai potenti della Terra per scongiurare la guerra. A Russia – gli disse la figlia di Kruscev che andò a fargli visita dopo la crisi di Cuba – ti chiamano il Papa contadino. Doveva proprio piacere ad uno come Kruscev Giovanni XXIII; come doveva piacere a John Kennedy, il presidente americano della Nuova frontiera. Questi tre uomini ebbero la ventura di vivere e di operare per qualche situazione insieme, tutti e tre funzionali ad un nuovo rapporto tra gli Stati e tra le classi sociali, capaci di rompere col passato.

Giovanni Paolo II è stato il grande papa che ha traghettato il Novecento dall’uno all’altro secolo, non solo e non tanto in senso temporale, 1978-2005, ma anche e soprattutto in senso politico. E’ stato l’iniziatore della serie dei papi stranieri. Lui, polacco, ha contribuito ad abbattere il regime comunista, a mettere in crisi l’impero sovietico, a restituire all’Europa quell’unità geopolitica che la spartizione di Jalta nel dopoguerra aveva fortemente messo in discussione. Non solo la riunificazione tedesca con l’abbattimento fisico e assai più simbolico del Muro di Berlino, ma anche il recupero all’Europa di terre cristiane ed europee in un processo che è tuttora in corso come i fatti drammatici dell’Ucraina dimostrano. Questi due papi, ora santi, pur nella loro distanza ideologica, l’uno più spostato a sinistra, l’altro più spostato a destra, per usare categorie profane, hanno reso all’umanità in momenti diversi dei servigi straordinari. La visione della Chiesa che ha bisogno di scelte, apparentemente opposte, ma sempre votate all’unico bene comune, si è affermata con questi due pontefici, a riproporre quella bellissima immagine di San Francesco e di San Domenico, celebrati nel Paradiso da Dante Alighieri. Santi diversi, ordini diversi, fanti diversi, ma tutti utili alla chiesa e al mondo.

Spesso si dice che il Papa non fa politica. Recentemente Francesco ha respinto l’accusa di comunismo, ma non v’è dubbio alcuno che la politica la fanno, sanno di farla, per raggiungere obiettivi che nel momento in cui la fanno ritengono importanti per gli uomini e per gli stati. Forse non condividono il linguaggio comune: loro operano per il bene senza porsi dei problemi di etichettatura; fanno quello che noi chiamiamo politica. Che poi per farli santi si abbia bisogno di inventarsi dei miracoli, senza cui non ci può essere santificazione, è un fatto che riguarda la percezione mondana, popolare, che parla un linguaggio e capisce quel linguaggio, fuori del quale non c’è santità né antisantità. I veri miracoli questi due papi li hanno fatti non guarendo da malattie chi per la scienza medica doveva morire senz’altro, ma dando al mondo la speranza di una prospettiva, aprendo sentieri nuovi, contribuendo con altri grandi della Terra a risolvere dei problemi. I veri miracoli sono questi. E per questi non c’è bisogno di scomodare testimoni, postulatori o avvocati del diavolo. Basta vedere cosa hanno lasciato dietro di sé. E più il tempo si allontana dalla loro esperienza terrena e più gli effetti dei loro “miracoli” si accendono, perché il tempo è olio alla lampada dei grandi.


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Contemporanea

spagine

A noi

poveri...

di Marcello Buttazzo

I

sistemi economici internazionali, imperniati su “ineludibili” e ferree leggi di mercato, sono molto rigorosi, a volte elitari, e di fatto tengono ai margini del connettivo sociale vasti strati delle popolazioni umane. Nel contraddittorio villaggio globale, i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. La premura primaria dei governi democratici dovrebbe essere quella di riequilibrare le varie storture, di garantire una maggiore equità e giustizia fra le genti. Se la ricchezza (soprattutto quella ostentata) mostra il suo volto protervo, se in nome d’un tracotante iperutilitarismo c’è chi ambisce a impadronirsi di tutto l’esistente, cionondimeno non è il caso di disperare. Se c’è chi ritiene ingenuamente e artificiosamente che i beni materiali siano l’unico obiettivo da coltivare, la più “radiosa” ragione delle stelle, a noi uomini comuni, impreziositi da una dignitosa povertà, non resta che guardare il chiarore del cielo. Interrogare la terra, che instancabilmente gira e che, a primavera, fa fiorire il ciliegio. Scrutare negli intricati giardini dell’anima per lusingare amore, afferrare rose e giunchiglie. Mirare i colori rarefatti del mattino, il vigoroso sole del meriggio, i crepuscoli d’amarena. A noi poveri, rimangono gli improvvisi trasalimenti dell’aurora. E la passione, lampo di inaspettate, incendiarie saette. E il vento che spettina i pensieri, carezza le giovani gote, e flessuoso danza sulle cime del mandorlo fiorito. Ci resta la melodia dei centomila violini, i destrieri del sogno in eterni galoppi. La terra dei limoni e delle arance, degli ulivi contorti e assolati. Il cielo. Il cielo delle stelle di fuoco. Noi poveri possiamo sempre continuare a inseguire le dolci chimere, a vezzeggiare le intramontabili utopie, a desiderare intensamente. Possiamo perseverare nel viaggio, pervicacemente intenti a solleticare la gioia dell’attesa. Saremo sempre dei viaggiatori, anche nell’impossibilità di possedere beni materiali. Saremo sempre dei pazienti rabdomanti

del tempo, perennemente protesi verso il bello, lo stupore, la meraviglia, l’immaginifico. Pablo Neruda, negli anni dell’esilio italiano, scrisse la poesia “La povertà”. La dedica alla moglie, pregandola di non crucciarsi della loro condizione economica, e di non temere una vita di stenti. La vera ricchezza è quella dell’anima. “Ahi, non vuoi, ti spaventa la povertà, non vuoi andare con scarpe rotte al mercato e tornare col vecchio vestito. Ma non voglio che tu la tema. Se per mia colpa arriva alla tua casa, se la povertà scaccia le tue

scarpe dorate, che non scacci il tuo sorriso che è il pane della mia vita. Se non puoi pagare l’affitto, esci al lavoro con passo orgoglioso, e pensa, amore, che ti sto guardando e uniti siamo la maggior ricchezza, che mai s’è riunita sulla terra”, canta Neruda. Occorre dire, però, che la talvolta la povertà può essere estrema, un coltello che affonda e lacera le membra e annichilisce le speranze. Ma, anche in questo caso, non possiamo turbarci. Una società moderna e aperta si deve necessariamente basare sull’inclusione, sul rispetto reciproco, sul riconosci-

mento dell’altro. Una società solidale sa spalancare le braccia, sa aprire il cuore, sa accogliere con amore. Una società civile deve saper interagire e integrare, non deve lasciare nessuno ai margini. Ghettizzandolo. Qualche anno fa, lessi una notizia raccapricciante. In un paesino del Nord, una giovane rom incinta all’ottavo mese fu brutalmente aggredita da un ragazzo italiano di 22 anni. La donna s’era macchiata d’una colpa “imperdonabile”: chiedeva l’elemosina nei pressi del mercato. Venne inseguita dall’esagitato ragazzo, presa a botte, a pugni, a calci, forse a bastonate. La sfortunata fu costretta ad abortire, perdendo il bambino che aveva in grembo. Ma che civiltà è questa? Una società indifferente, a volte violenta, che considera uno scandalo la povertà, che si fa beffe dell’altro. Ma quanto fittizio, meschino, cialtronesco, può diventare il benessere, se non riesce a osservare con occhi limpidi tutti gli aspetti della realtà? Quanto è falsa la cultura dell’iperprofitto, se non si riesce a prendere cura del fratello indigente? Quotidianamente, le cronache dei giornali e delle televisioni sanno essere impietose. Quante volte veniamo a sapere di migranti violati, maltrattati, perché per certuni il progresso del mondo si esercita attaccando gli “anelli deboli” del sistema? Purtroppo, in questi ultimi anni, le politiche sociali di alcune amministrazioni (di centrodestra e di centrosinistra) non hanno brillato per lungimirante visione antropologica. Quanti campi rom sono stati sgomberati, anche senza preavviso, spesso senza aver trovato preventivamente una decente sistemazione a uomini, a donne, a bambini in difficoltà? Quanti lavavetri sono stati cacciati dai semafori? Quanti artisti di strada irrisi? Quante zingarelle sono state allontanate a colpi d’ordinanza dagli eleganti centri storici delle nostre opulente città? Ma la povertà non è una vergogna da nascondere o, peggio, da estirpare con la forza. A volte, si crede si sposare la filosofia del decoro, del bello, ma in realtà si cede solo a pericolose derive razzistiche e xenofobe.


Lecce, 27 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 26

Contemporanea

25 aprile 2014, intervista a Maurizio Nocera

I

l 3 aprile 2014 ANPI Lecce ha inaugurato la sede cittadina. La lotta di liberazione è sempre stata vissuta come qualcosa di lontano, che riguardava il nord. In realtà la Resistenza combattuta era lassù, il meridione era terra già liberata dallo sbarco in Sicilia in avanti. Qui si viveva l’altra Italia, a Brindisi arrivò anche il fuggiasco eccellente con tanto di corte e cortigiani. Tuttavia, faceva notare Maurizio Nocera, segretario provinciale ANPI Lecce, l’apporto dei meridionali è stato incredibilmente elevato. Dall’otto settembre molti sbandati a nord si unirono ai partigiani e prima ancora furono molti i salentini e i pugliesi che andarono ad affiancare gli jugoslavi nella lotta partigiana. Inoltre, sempre dopo l’otto settembre, numeri molto consistenti di soldati rimasti fedeli al re vennero deportati nei lager nazisti. Patrioti anche loro, non seguirono la famigerata repubblica di Salò e non si piegarono ai nazisti, rimasero fedeli al giuramento anche nonostante l’infame fuga della corte a Brindisi. Abbiamo parlato con Maurizio Nocera che, oltre alla carica ricoperta nell’ANPI, è poeta, storico, scrittore. Come nasce l’ANPI di Lecce? Praticamente l’Anpi di Lecce nacque all’indomani della fine della seconda guerra mondiale e alla fine della Resistenza partigiana. Uno dei promotori, che poi diverrà presidente del Comitato provinciale fino al 1993, fu Enzo Sozzo, che come partigiano operò nella zona di Imperia. All’inizio la sezione Anpi si occupò prevalentemente dell’assistenza ai partigiani e ai patrioti della guerra di Liberazione che rimpatriavano chi dai fronti di lotta, chi dai campi di lavoro e di sterminio nazisti. Successivamente, l’Anpi si occupò di tenere viva la memoria di quei salentini leccesi coinvolti nei vari fronti resistenziali. Numerosi furono gli interventi per dedicare strade e piazze ai Caduti leccesi della Resistenza. La Resistenza come patrimonio del Nord, si è creduto per troppo tempo, ora però le ricerche ci dicono altro, qual è stato l’apporto del Salento leccese alla lotta di liberazione? È vero, quando io sono entrato nell’Anpi negli anni ’70, era opinione comune, all’interno della stessa Anpi nazionale, che la Resistenza fosse stata solo un evento accaduto nel Nord Italia. E questo è vero perché al Nord si sono effettivamente sviluppati gli scontri e i conflitti contro i nazifascisti. Ma in quel momento nessuno aveva considerato il fatto che all’interno delle brigate partigiane vi fossero oltre a uomini e donne del Nord, anche uomini e donne del Sud. Fu Aldo Moro, membro d’onore dell’Anpi nazionale, che nel 1975, in un memorabile discorso tenuto al Petruzzelli di

L’Anpi “A Lecce, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia nacque all’indomani della fine della guerra” di Gianni Ferraris

Enzo Sozzo, partigiano e fondatore dell’ANPI a Lecce, in una fotografia che lo ritrae nel suo studio di pittore

Bari, che fece capire a tutti che la Resistenza era stata un evento che aveva coinvolto l’intero paese, in quanto alla lotta antinazifascista avevano partecipato molti uomini e donne del Sud. Si trattava spesso di militari che, dopo l’8 settembre 1943 (armistizio tra gli alleati e la monarchia sabauda) rimasti senza comandi superiori e quindi allo sbando, avevano dismesso la diviso e si erano aggregati alla bande partigiane per combattere e ridare all’Italia quell’onore che Mussolini e la monarchia avevano gettato nel fango. Di tutto questo non si è parlato per moltissimi anni, solo ora vengono fuori storie, numeri e nomi.

Come mai questa reticenza? Sì, è vero, in parte si è trattato di una ritardata presa di coscienza da parte della stessa Anpi, ma sostanzialmente il non riconoscimento del contributo dato dal Sud alla lotta di Liberazione fu dovuto al subdolo comportamento del partito egemone in Italia dopo la seconda guerra mondiale, cioè la Dc, il cui governo si protrasse per circa 50 anni, che, succube degli interessi imperialisti degli Stati Uniti e della Nato, e per una supposta paura di una ipoteca invasione sovietica del Paese, impedì quella presa di coscienza di cui sopra. In sostanza quel partito volle tenere ancora il Sud schiacciato alla sua condizione di subalternità al

Nord, cosa che si era determinata sin dall’Unità d’Italia, che costò al Mezzogiorno un costo elevatissimo di sofferenze e sacrifici umani ed economici. L’Anpi nazionale sta dedicando studi e ricerche ai patrioti del Meridione. Un primo convegno c’è stato a Torino. Non era meglio dare un segnale forte e farlo a sud? Anche questo è vero. Finalmente l’Anpi nazionale, con i suoi migliori studiosi e storici, sta finalmente colmando il vuoto che si era creato e molti stanno dedicando ricerche e studi specifici per quantificare il contributo dato dagli uomini e dalle donne del Sud alla Liberazione del Paese dal nazifascismo. È stato fatto un primo convegno a Torino, ma altri sono in programma non solo al Nord, ma anche qui da noi. A Lecce, per esempio, il prof. Pati Luceri, con il sostegno dell’Anpi di Lecce, ha iniziato una laboriosa ricerca per compilare gli elenchi dei Caduti, dei partigiani, delle staffette, dei patrioti, degli antifascisti, dei collaboratori, degli internati nei campi di lavoro e di sterminio nazisti. Questa sua ricerca ha visto già la pubblicazione di ben tre edizioni in volume, e tuttavia non è ancora ultima, perché ancora non sono consultabili alcuni archivi. Al momento, dalla ricerca di Luceri e della stessa Anpi di Lecce si evince che oltre 8500 sono stati gli uomini e le donne di questa provincia che hanno dato il loro contributo alla Resistenza. Come vede, si tratta di una cifra incredibile perfino a noi stessi che operiamo all’interno dell’associazione. Fra pochi giorni è il 25 aprile, stiamo vivendo un periodo molto strano, il Presidente nazionale dell’ANPI ha stigmatizzato allarmato l’incontro del Presidente Napolitano con Silvio Berlusconi, condannato in via definitiva. Il governo Renzi vuole cambiare la Carta Costituzionale con i voti di parlamentari nominati e nonostante il fatto che la Corte Costituzionale abbia stabilito che il sistema elettorale con il quale sono stati eletti è anticostituzionale. Era questa l’Italia che volevano i patrioti e i padri costituenti? Quello che tu dici è l’incredibile paradosso del momento che viviamo. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, uomo i cui ideali sono di indubbia fedeltà ai valori della Resistenza e della Carta costituzionale, costretto a incontrare un personaggio squallido qual è il signor Silvio Berlusconi, uomo indegno che ha disonorato l’Italia negli ultimi 20 anni, e che ha rappresentato la continuità con l’odioso regime fascista mussoliniano. Dietro questo personaggio, arricchitosi con varie ruberie ai danni del popolo, c’è sempre stata la mano del peggiore sistema capitalista nostrano e mondiale, i cui interessi, soSegue nella pagina successiva


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prattutto economico-militari, sono riconducibili alla Nato e all’imperialismo Usa. A questa parte del potere mondiale non è mai piaciuta la democrazia italiana sancita dalla Costituzione, scritta, non bisogna mai dimenticarlo, da circa tre quarti (partigiani) dei membri del comitato dei 72. Non voglio disprezzare nessuno e lungi da me dal credere che un evento di qui possa essere migliore di un evento accaduto in altre parti del pianeta, rifletto solo su una lettura fatta delle differenti Carte costituzionali dei diversi Paesi e Nazioni del mondo. Ebbene, la Carta costituzionale dell’Italia repubblicana è uno di quei fondamenti sociali più avanzati al mondo, perfino più avanzata di quella tanto decantata Carta costituzionale statunitense, ancorata ancora a ideali prerivoluzionari 1789 in Francia. È doloroso sapere oggi che anche i governi, che si sono succeduti all’odioso regime neofascista berlusconista, continuino sulla stessa strada tracciata dal sig. Berlusconi, cioè quella di voler stravolgere gli articoli fondamentale della Carta. Credo comunque che si tratti di tentativi, perché il disegno piduista, di cui il Berlusconi stesso era albero e radice, non è ancora del tutto andato in porto. Contro questo ennesimo tentativo, per di più proposto anche dall’ultimo arrivato sulla poltrona di Palazzo Chigi (Renzi), si è levata alta la voce del presidente nazionale dell’Anpi, Carlo Smuraglia, il quale ha affermato che cambiare la Costituzione oggi in senso autoritario significa tradire quei valori per i quali hanno combattuto contro il nazifascismo e sono morti i partigiani. In questo quadro, qual è, secondo te, il ruolo di un’associazione come l’ANPI? Primo: non far dimenticare quello straordinario patrimonio di lotta e di cultura libertaria e democratica sviluppatosi con la Resistenza. I partigiani e le staffette, i patrioti della guerra di Liberazione, e i tanti, moltissimi, che hanno sofferto la dittatura nazifascista con privazioni, sofferenze, carcere e campi di lavoro e di sterminio, non possono essere dimenticati sull’abisso dell’ignoranza di chi in questo momento domina il mondo. Secondo: l’Anpi non è un’associaizone di privati cittadini/e dediti all’hobby del contare le stelle (contro cui personalmente non ho nulla da obiettare), ma un’associazione viva nel corpo sociale e politico del Paese. Pur essendosi dichiarata sempre apartitica, l’Anpi che, non bisogna dimenticare è stata la prima associazione della Repubblica ad essere riconosciuta Ente morale dello Stato (1946), è però un’associazione politica antifascista che interviene su ogni evento che accade a proposito degli assetti statutari dell’Italia come, ad esempio, sta facendo in questo momento, difendendo l’integrità della Carta costituzionale.

spagine

A Lecce, in Piazza Partigiani erano in tanti... forse troppi... non è facilmente digeribile vedere gomito a gomito il deputato di SEL e quello di Forza Italia

La stella dell’ANPI

Resistenza contro tutto e tutti

P

assato il 25 aprile. Passata la manifestazione in ricordo della lotta di liberazione. In piazza Partigiani erano in tanti: quelli che blaterano di Costituzione e stanno nei partiti che vogliono annullarla, quelli che da decenni vogliono trasformare la giornata delle Liberazione in giornata del ricordo e metterci dentro Partigiani, Foibe, e magari le vittime degli incidenti stradali, quelli che sono di destra, quelli di sinistra, quelli post tutto, quelli in buona fede, che erano lì per ricordare i partigiani, quelli che dicono che Giorgio Bocca ha ragione

(pochi) e quelli che dicono che è un revisionista. In piazza Partigiani c'era anche un mini corteo di ragazzi che contestavano tutto e tutti. Da una parte con giusta ragione. Non è facilmente digeribile vedere gomito a gomito il deputato di SEL e quello di Forza Italia. Sembrano quei riti che si contestavano già nel '68 e negli anni a seguire. Così i ragazzi hanno fischiato anche l'ANPI. Così è, ma avevano poi tutto il torto? Almeno loro c'erano in piazza Partigiani dove l'età media degli altri era "non esattamente adolescenziale" come diceva qualcuno. Pericolosi sovversivi La cosa che è risultata in-

credibile è stato l'atteggiamento delle forze dell’ordine che invece di trattare e lasciar vivere i ragazzi li ha esiliati oltre le transenne opponendo uno schieramento di armati antisommossa degno di più nobili cause, magari dei teppisti dello stadio. Sono stati ghettizzati invece di essere messi di fronte a responsabilità che forse li avrebbero portati a discutere. Magari (e qui eccedo) offrendo loro il microfono per dire le loro ragioni. L'ottusità genera mostri a volte. Non è stato un bello spettacolo vedere i "buoni" di qua e i "cattivi" relegati e fronteggiati da caschi blu. G. F.


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Arte

“É noioso essere in società, oggi; ma è anche doloroso non esserci. Io sono ironico e dissacrante: non mi importa degli altri, né tanto meno di me stesso. Con arguzia, io deploro. Io sono senza scrupoli. Non commisero nessun vivente, non possiedo agape” di Antonio Zoretti

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Io scrivo la commedia umana, però scrivere mi impedisce di vivere» diceva Honoré de Balzac «ma non vorrei scrivere, perché è faticoso, fa male, io vorrei vivere, amare… Chi mi definisce vanesio, superficiale, lunatico, eccentrico, ha la stessa ragione di chi mi giudica saggio, misurato, profondo. Niente mi stupisce ormai di me stesso, e niente mi stupisce ormai di voi» concludeva Honoré. Io vivo la miseria umana, che fa male, e vorrei scrivere la gioia umana, ma ciò mi impedisce di farlo, posso solo immaginarla. Forse questo è il motivo per cui noi scriviamo: l’immaginazione può essere più importante della conoscenza. «La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla» diceva Gabriel Garcia Marquez. Niente mi stupisce ormai di questo surrogato di società civile, di gente che si batte per una idea, non avendone. Io mi baso su frasi essenziali per passare inosservato in società. É noioso essere in società, oggi; ma è anche doloroso non esserci. Io sono ironico e dissacrante: non mi importa degli altri, né tanto meno di me stesso. Con arguzia, io deploro. Io sono senza scrupoli. Non commisero nessun vivente, non possiedo agape. All’occorrenza vado a letto con le donne degli altri (sempre meglio che i mariti non sian gelosi: mi eviterebbero l’ennesimo duello dietro il convento delle Carmelitane scalze… all’alba). La guerra è solo un sofisma, e chiarisce il risultato che ha sempre avuto. La rivoluzione ha un esito ancor più tragico: “togliti tu che mi ci metto io”. Di questo si tratta. E’ un gioco al massacro. Per vanità l’umano è pronto a perire, per non pensarci. Perpetuando l’errore, in solitudine, come una lingua per doppiatori. A causa di tanta perdita di tempo, il cambiamento politico-sociale e culturale è stato rimandato. *** Da giovane ero anarchico, ora mi basta che i governanti rispettino le leggi. Essere pessimisti è un eccesso, cioè prevede ciò che succederà. In questo contesto storico, la sola maniera di sembrare uomini è essere critici. La critica come unico brio sopportabile. Così come critica appare la condizione politica attuale, ma non seria; e l’atteggiamento del femminile odierno che si conforma alla scurrilità politica del momento… trasfor-

mandosi in altro… degradando in ‘ibrido’. La donna rinuncia alla sua natura, indossando l’abito della malvagia conformità sociale. Sembra che insorgano violentemente contro loro stesse. «Date alle donne occasioni adeguate ed esse possono far tutto» diceva Oscar Wilde. E dire che… nella mia vita passata… mi abbandonavo, seguitando affettuosamente illauto fascino femminile. Ma, questo dramma per me non è nulla. Lo vivo tra disgustose inquietudini ambientali. Ho ricordi di una volta… un passato con gli amici nei caffè parigini, osservando i passanti. O nelle stanze disfatte degli hotel in Saint-Germain-des-Prés, rovesciati sulle poltrone a fumare Gauloise… soffocati dalla noia, guardando il letto attendevamo le nostre amiche, pettinate e vestite di raso bianco, per goderne. L’amicizia è la parte più vera, sotto un’apparente frivolezza si rive-

la bizzarramente rivelatrice. Come ebbero a dire le nostre amiche: «Ma sì, ecco: fu mentre ci vestivamo, che tutto a un tratto il cuore s’è versato in pianto e ci siamo disposte sulla soglia di casa. Ah, che gran cuore abbiamo noi! Vogliamo un’esistenza piena, intensa. Torniamo a Saint-Germai-desPrés in quell’hotel per divenire inviate, per consegnarci ai nostri amici, e curare le loro ferite e pregare per loro!» Ecco, loro erano fatte per essere amate, non per essere comprese. Noi potevamo dare del tu alle nostre amiche, e credere in loro, ai loro occhi che sapevano tanto. Non avevano l’aria formalista, ma erano sempre in forma: le amavamo quanto la vita! Un cuore basta e degli sguardi, senza l’impazienza della seduzione. Eravamo così consumati dagli approcci…Ci stringevamo nel segreto…nel mistero dell’amore, grande quanto quello della morte.

«Oh non volerti misera. Non deve specchiarsi in te la povertà dell’amore» (FriedichHorderlin). Esse non immaginavano quanto ci erano amiche. Non intuivano tutto l’amore che sentivamo per loro né quanto erano indispensabili per noi. L’amicizia superava l’amore, scevra dalla gelosia e rivalità. Pura nobiltà d’animo. Mi commuovo a ripensarle, tant’era il contrasto tra la loro vita e i desideri. I loro corpi non bramavano e non cercavano, era la loro anima a possedere questo amore. Per loro quello stato era come un ballo, arroventato nell’abbraccio notturno. Erano felici! E quanto non erano gelose le nostre amiche! Avevamo bisogno d’amicizia… loro si offrivano. Le nostre amiche ci davano il piacere… ma il piacere è diverso dalla felicità. Alcune cose sono più preziose perché non durano! Noi scoprivamo con immensa gioia che la vita non aveva


pagine n° 6 e 7

spagine

Io deploro! “La sola maniera per sembrare uomini è essere critici” confini. Le nostre lady ci infondevano l’amore per la libertà. Pensavamo l’amore come uno stato di grazia, non come un mezzo per arrivare a qualcosa… così come accade oggi, purtroppo.L’amore è comunione e affetto. Abbatte tutti gli ostacoli individuali. Disinvolti nell’amoresentiamo una forte emozione atta a contenere tutta la nostra vita in un battito difficile da spiegare. Questo periodo storico non ci permette di avere con noi le nostre amiche… Un’amica non si fa, si riconosce! E, in questi tempi, noi non ci riconosciamo! Siam fuori ormai da questo mondo morente/assente, che elimina qualsiasi rapporto con

l’esterno.Così che la stessa scena non ritorna, si commemora solo come apparato del ricordo. Ci abbandoniamo ad un passato che non torna, che torna presente proprio perché rimemorato. Ora son come Muse… ispirano ricordi: parliamo loro attraverso. Eran le nostre speranze, le nostre creature, venute dal cielo… credevamo in loro, ci toccavano il cuore più di una prima volta. Ora modesta scenaoccupiamo, vuota ed informe ed insignificante, inventata e investita e frequentatain buona parte tra l’essere e il non essere, tra queste due finzioni… Vorrei ricominciare, lontano da tutto, lontano da qui, tranne che da loro…

Honoré de Balzac (Tours, 20 maggio 1799 – Parigi, 18 agosto 1850)

Gabriel José de la Concordia García Márquez (Aracataca, 6 marzo 1927 – Città del Messico, 17 aprile 2014)

Ah, com’eran belle le nostre stelle a vanire. Che ragazze e ragazze… in quelle zone d’ombra accarezzate, nella notte, in quell’incanto, e nel sole del meriggio, eteree di buon mattino, svanite alle marine, celesti nelle stanze, tenere colombe all’imbrunire, satire sull’altare. Apparivano disperse dentro i vani, intime e discrete e mai scordate… il tempo l’ha portate via e poi finite. Esse eran fuori dall’egoismo, libere dalla propria volontà, si aprivano dentro, per raggiungere l’incontro più esteso del momento. Non scavavano sotto la superficie, poiché sapevano che era a loro rischio e pericolo. Ci donavano il vero oro della loro vita. Non avevano timore del nostro silenzio, non ci isolavano in un recinto di parole, si univano a noi ogni volta come per fato, per condividere una dose di vita e sedurci sotto incanto nella cinta di quella che chiamiamo realtà, sul cammino

alla volta dell’infinito. Ora tutto si chiude, si smonta e si tace. Come per reazione siam rapaci. Un medievale comportamento ci è vicino, e questo perdura ormai da anni. Il resto è fatto solo di affanni… Affiora soltanto il dualismo, l’egoità, l’alterità dell’essere, nella quale risiede propriamente l’alienazione, ogni male e dolore:l’oggetto di desiderio, di valutazione utilitaristica, di distacco. La nostra epoca ci tiene lontano dall’amicizia e dell’amore; non vi è altro di necessario che il superfluo. Lo chiamano progresso, io vedo solo degrado. L’arte? Una malattia! L’esistenza? Cinica e vuota. Un inutile sovraffollamento. L’epoca che qui viviamo, la più recente, critica, in futuro forse sarà più nota come: Monologia globale. La nostra la voglio conservare come: Polvere di stelle. Aurevoir.


Lecce, 27 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 26

pagina n° 8

Poesia Quando non ho risposte Ché non ne trovo Ché (forse) non ce ne sono Ché (forse) è errata la domanda O (forse) l’interrogativo è inutile Quando voglio soltanto comprendere… Allora cerco il silenzio E il silenzio si fa scrittura E (come la parola) la scrittura Diventa suono e s’accorda col pensiero E quel che dentro scorre incontra Quel ch’è fuori e tutto si colora Qualcuno ha detto che la scrittura È la droga più potente mai inventata Lo credo anch’io A condizione che sia espressione autentica di sé E che tocchi i sensi di chi la tocca La scrittura è tutto e niente La linea che separa il tutto e il niente Sta in chi guarda Sinestesia vuole che la battima non separi Il mare alla terra ma li unisca La scrittura può diventare tante cose Per Antonella Marotta è mare e terra È dialogo di Anto con Lella Quando solitudine stringe È diario di bordo nei marosi Quando l’àncora manca È lente che protegge gli occhi Quando s’alza sabbia al cielo È deserto e foresta È acqua e vento negli E quando tutto è inchiodato al nulla È forza che trova la parola Per spezzare il tempo fermo È parola che si fa tempo È parola che si fa spazio È parola che si nutre d’amore Che piange e sorride donando amore Amore cercando Com’ogni desiderio di bellezza Nasce nell’anima… e urla… Poi ci vuole un po’ di pioggia E un po’ d’amore Questo mi ha evocato La scrittura di Antonella Un po’ di pioggia e poi l’amore

La copertina del libro

Sabato 3 maggio, alle 18.30 spazi delle Arti Grafiche Marino nella Zona Industriale di Lecce la presentazione del libro Il Bastone fiorito malinconie di un sogno perduto di Antonella Marotta interverranno Ambra Biscuso Vito Antonio Conte Elisabetta Liguori Mauro Marino coordina Giuliana Coppola

di Vito Antonio Conte


Lecce, 27 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 26

pagina n°9

Cinema

spagine

Una nuova riflessione su “In grazia di Dio” di Edoardo Winspeare

E... Se il sù-bi-to non fosse il su-bì-to

di Francesco Pasca

«Tu non conosci il Sud, le case di calce/da cui uscivamo al sole come numeri/dalla faccia d'un dado […] Una funesta mano con languore dai tetti/visita i forni spenti, le stalle in cui si desta/una lanterna o voce impolverata./Come da un astro prossimo a morire/s'ode un canto dai campi di tabacco./Sulle soglie, in ascolto, le antiche donne sedute […]di pochi fatti che/rileggiamo/più volte, nell'attesa che ci dia/tutte assieme la vita/le cose che crediamo di meritare» Vittorio Bodini

T

u che conosci il SUD … Sono le nuove “Foglie di tabacco”quelle “cose che crediamo di meritare”,che già erano del 1945?Tu che guardi, che conosci realmente il SUD, lo erano o sono:”le antiche donne sedute”?Tu che non vuoi nascondere il SUD, sebbene è, sia già da sé tanto nascosto, perché sono, erano: “tutte assieme la vita”, la nostra vita? Oggi sono la probabilità di una ripresa, ma,può essere l’identica a quella sperata nel lancio di un dado?L’abbraccio di un dado? Nell’affermato di un tempo veduto dall’alto, l’inizio di quel tempoèposto in un Paradiso d’incontro, nel loro inizio a due. L’Adamo è già il nuovo vecchio ed EVA è disposta alla costruzione dell’Eden. Nell’occhio della macchina da ripresa, in una finzione scenica, per quel tempo erano e sono ancora il forno spento che attende nuova legna per ardere e per donare o cancellare il tutto sperato, per la probabilità donata dalla cenere del post o neo episodio, per guerra, quellacondotta per vittorie di altri e per sconfitte di altri ancora. IL SUD è L’io cinepresa, l’ultima foglia di tabacco che diventa occhio e squarcia il buio dall’alto. Nella sala di proiezionediventa occhio di cristallo veggente nello spettatore e dà luce alla luce per e “in grazia di Dio”,dell’IO ch’è. L’IOl’ascolta. Il SUD è quel coloredi realtà e silenzio, è il bianco accecante, il verde ombroso e cupo, come può esserlo il buio delle rughe terrazzate di una terra promessa destinata e contesa dal NORD fra cielo e mare e che sforna la sua incessante realtà in podere abbandonato, in campagna, in guerra per un compromesso, in un debito da lasciare al prossimo futuro, nel caparbiamente ostinato, nel chi sogna e

Edoardo Winspeare in una fotografia di Cosimo Cortese

in chi vuole essere l’interprete di recitazioni per altri palcoscenici, per chi partecipa e diventa attore, protagonista per amori possibili-impossibili o di amori necessari o di amori spudorati, inutili e violenti. Edoardo Winspeare vuole, ama definircelo: “piccolo film sulla felicità”. D’accordo, è sulla felicità ma è in uno stile di vita rincorso tanto in un nuovo quanto in fondo dell’altrettanto vecchio, è a ridosso di un tempo che attende la stessa felicità e dura un attimo o attimi, è l’utopia che ripiomba nelaccomodante-intollerante, nel comunque pensante. I termini appena associati e separatidall’esile trattino esistono per es-

sere nel pensato o avvicinati all'apparente dissimile; termini avvicinati per essere lontani da aree semantiche probabili o da far riassumere in un luogo o con un gesto. Accomodante è quel ch’è,il se-guì-todi un pensiero poi divenuto sé-gui-to; intollerante è invece il sé-gui-to che non può dar corso a quel che non dovrebbe essere ilse-guì-to. Nell’antinomiadel reale-bizzarro,con quel tanto o poco di banale e di semplicistico proprio dei protagonisti, si ha la sensazione che, nella forzata caratterizzazione, abbiano tutti e contemporaneamente il luogo di una stessa azione, sia che essa sia accettata o respinta.

La bizzarria di siffatta rincorsa, di quest'appena pronunciato, è un pensiero e l’attesa, è quel chespesso dà il divenire tra l’accomodante o il collerico. Quel tanto da essere reale, per altri, è l'intollerante scritto da vicende segnate o per il rincorrere di vocali e consonanti sulla didascalia da computer, per dare il suono e il senso, ch’è l’uguale del girare con una macchina da ripresa per accumulare memoria di pellicola e poi svolgerla in tempi millenari o fatti scolorare nel frenetico di una necessaria scritturalettura, in un rivolo di inchiostro e distenderla sul panno bianco di una sala cinematografica. Le quattro donne, figure fondamentali e giustamente, appaiono sempre e volutamente e completamente differenti nel loro contrario, ma forse è anche evidenziato con l’eccessivo e diventail numero che costringe il regista ad attraversarle dal male al bene e viceversa senza apportare Luogo al Tempo. Ci sono quattro donne nel film di Edoardo Winspeare, ci sono altrettanti uomini e questi non appaiono marginali, al contempo sono il filo del sarto, dell’azienda che va a rotoli. Molte situazioni non si chiudono, lasciano sospeso il tempo e sono le virgole e sono l'accomodante e sono l'intollerante. Questi personaggi a volte appaiono lontani, vicini e distanti nelle appartenenze e poi ricondotti con lo stesso filo per sarti che confezionagli abiti per il NORD, per il NORD che indossa il SUD e al contempo costringe vuole, ma abbandona. Fra quel ch’è accordo e disaccordo, dove il non tutto cinematografico fila liscio nella esigenza per una caratterizzazione di estremo SUD, a volte si penalizza lo stesso SUD, l’IO spettatore e occhio e macchina da ripresa soffre. La ricerca di una narrazione sfocia nei quadri per sola immagine dove ifatti sono i punti interrotti. Forse l'immagine cinema è in grado di annullare il buono o il cattivo, il bene o il male. Forse è la ricerca del regista,l’utile per rappresentare il reale, per dichiarare la complessità nella felicità. Forse, quel ch’è In grazia di Dio è quel: “E… Se il sù-bi-tonon fosse il su-bì-to” oppure:…quale sarà il risultato di una: “faccia d'un dado”. Grazie Edoardo e a voi “Buona visione”.


Lecce, 27 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 26

Poesia - La città e il cambiamento - Per Lecce 2019

QUANDO LA CITTÀ CAMBIÒ di Argrò Ci fu un giorno, secoli fa, in cui la Città cambiò Da un momento all’altro. E non fu mai più la stessa, da allora. O meglio fu la stessa, in fondo, ma anche fu qualcosa di più, di molto di più. Ora calmatevi, Cittadini, smettetela di cercare dove, che cosa e quando avvenne. Che questo non vi serve, non ci importa. Che non sto dicendo di un monumento, o di un raro atto antico, niente di tangibile, né ostentabile, né dimostrabile. Quella è roba da Sapienti Poteri. Io dico quel Cambiamento che sta in un racconto famoso, così famoso che non ho intenzione di svelarlo. Vi dirò solo che tutto quello che accadde quel giorno alla Città, vi sembrerà incredibile, nessuno della Città lo vide, né se ne accorse. Eppure tutto cambiò irrimediabilmente. Tutto accadde fuori dalla mura, quando il Barbaro Armato alla guida delle sue Folle Sanguinarie e Profetiche giunse sull’alto del colle lontano ed erto da cui tutta la dorata vastità della Città si poteva d’un occhio cogliere, in un fiato respirare. Giunse al Barbaro, come fosse la sua linfa parlante, da quei ferventi esseri disarmati, vivaci e intenti e saldamente dipendenti come un essere solo, un profumo d’anima che non aveva inteso mai. Così si rivelava, in quell’attimo, all’occhio suo spalancato che l’aveva bramata, quella Ricchezza, piegata e rotta, vinta e asservita; ora che muto la spiava nel suo vigore di gregge inerme e schiamazzante, nella sua foga di branco guadente e in contesa, come li proteggesse una Divinità regolata e salda. Il Barbaro tacque, in quel fatale momento, e non s’alzò la mano al comando, Mistero della Storia. E attese poi anni accampato in vista delle mura, e poi ancora si ritrasse, inviò messaggeri, e infine rinculò. Cambiato Lui. Cambiata la Città. Eccolo il Cambiamento che aveva trionfato. La città fu salvata dal suo Oscuro Fascino, dall’Invisibile Legame dei suoi Vivi Cittadini. E fu fatta diversa e fu cambiata dalla reverenza che Altri le degnarono, di cui Ella appena s’avvide, chiusa stretta e ignara nelle sue Mura Giardino. Senza che nulla fosse apparso, quello Sguardo Straniero l’aveva cambiata per sempre. Per quanto parecchi, molti e ora persino moltissimi, non sappiano nemmeno di qual Cosa Invisibile e Concreta vi si stia mai qui dicendo. Ma il Barbaro Ospite Straniero d’oggi questo lo sa, di solito. E se può lo sa onorare. E lo ascolta ancora, qualche volta, quel suono profondo e vivo che il Barbaro sentì quel giorno per primo. Solo una cosa Gli spiace, che non si possa poi bene dire questo incanto a chi quella Città possiede per luogo natale, per legame proprietario o mitico. Non si può dire? Argrò argrodada@gmail.com


pagine n° 10 e 11

Il Mese dell'Eutopia Mercoledì 30

aprile, dalle 21.00, al Fondo Verri

A cosa serve la poesia? Con Leone Marco Bartolo, Fabio Inglese, Giuseppe Se non ci fosse gravità tra noi e quel lenzuolo chiamato terra non ci sarebbe nè il sopra nè il sotto e l'amore sarebbe una carezza un pò casuale i fiumi farebbero marcia indietro e una piccola brezza di vento ci porterebbe al polo nord se non ci fosse gravità non ci sarebbero gli impiccati non ci cadrebbero lacrime dagli occhi se non ci fosse gravità andremmo in gita sulla luna e il dolore non avrebbe più radici se non ci fosse gravità sparirebbero mal di testa e i reumatismi se non ci fosse gravità le mie parole cadrebbero dalle pagine e un proiettile sparato farebbe ridere le stelle

Q

uella che avete appena finito di leggere è una poesia di Giuseppe Semeraro, attore e poeta - indimenticabile il suo esordio letterario con “La cantica del lupo” nel Poet bar di Besa - che da un po’ di tempo su facebook, strumento che da poco ha iniziato a praticare, si chiede: “A cosa serve la poesia?”. Un’interrogazione che si è allargata coinvolgendo altri, come autori e come lettori. Mercoledì 30 aprile, dalle 21.00, Giuseppe

Semeraro

Semeraro, il pittore Fabio Inglese e il musicista Leone Marco Bartolo con la loro interrogazione saranno ospiti del Fondo Verri. Scrivono nella nota che presenta l’incontro: “Abbiamo raccolto testi, musiche, storie cercando una risposta a questa domanda: "A cosa serve la poesia ? ". Può essere la poesia un'azione capace di uscire dalle pagine di un libro? Possiamo agirla la poesia, camminarla come un luogo pubblico, farla diventare una scultura sociale viva tra la gente? Insieme potremmo trovar risposte…

http://www.lecce2019.it/2019/ilmesedelleutopia.php


MMSarte

E’ in atto dal 24 marzo Art-icoliamo senza barriere nuovo percorso di poesia visuale rivolto ai bambini di quattro classi della Scuola Primaria Leonardo Da Vinci di Cavallino e Castromediano a cura di Monica Marzano

spagine

pagina n° 12

Lecce, 27 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 26

L’aiuto e il coraggio

P

er Gabriele l'Aiuto è uno straordinario gesto che racchiude in sé tanti altri concetti importanti che appaiono come una sfilata armoniosa di buone azioni

L

'esperta del progetto Monica Marzano ha voluto far discutere molto i piccoli alunni sulla parola Coraggio, accorgendosi fin da subito che in effetti c'era molta ambiguità nell'interpretazione del signifi-

Il testo è di Gabriele il disegno di Matteo

utili, anzi necessarie per una solidale convivenza. L'Accoglienza, l'Unirsi, il Tentar sempre di far star bene il prossimo sono grandi gesti d'aiuto che senza alcun dubbio quando si attuano, diventano "Orgoglio" per chi li dà e molto spesso

salvezza per chi li riceve. Lo stesso Orgoglio che vediamo dipinto nel volto del ragazzino che offre il proprio aiuto ad un suo coetaneo in evidente difficoltà a poter giocare nel parco. E già, il piccolo Matteo ha voluto evidenziare que-

sto spontaneo gesto di solidarietà che certamente asciugherá le lacrime dell'amico il quale finalmente "aiutato" potrà anch'egli godere dei giochi insieme a tutti. Piccoli gesti che cresceranno per divenire grandi "orgogli".

Il testo è di Davide il disegno di Simone

cato della parola che veniva visto per lo più come un gesto solo di forza fisica e necessità indispensabile di grandi muscoli ... Ma a leggere poi cosa il piccolo Davide ha scritto in merito, appare evidente che la discussione è stata ben recepita, perché Coraggio è diventato espressione di grande forza d'animo, di

raffinata astuzia, di tenacia nel raggiungere importanti obiettivi, il coraggio di saper offrire il proprio aiuto senza pensare di dover aver nulla in cambio, il coraggio è offrire gesti di gentilezza in mezzo a tante brutture... Simone che ha sfoderato una buona abilità tecnica nell'eseguire il suo disegno, si è

invece soffermata sulla frase "Colossale come un cavaliere", un'associazione fra un aggettivo dall'espressione potente affiancato ad un nome che dà invece lidea della galanteria, della gentilezza dell'amor cortese. Un' accoppiata che porta il coraggio verso mete davvero vincenti!

La galleria dei lavori della precedente edizione è su www.mmsarte.com


Lecce, 27 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 26

G

pagina n° 13

E’ scomparso a Calimera Rocco Aprile,

spagine

per ricordarlo vi proponiamo la pagina che apre il suo romanzo “Il sole e il sale” ià per due volte l'orlo.

Ndata aveva chiamato Pippi, scuotendolo, ma il bambino aveva richiuso gli occhi e tirato le coperte fin sulla testa. Fuori soffiava un vento gelido di tramontana, che agitava i rami del fico e penetrava nella stanza, attraverso le fessure della finestra. La mamma era andata in cucina e si affannava ad accendere il fuoco; entro mezz’ora, al massimo, doveva partire da casa e andare in campagna, a raccogliere ulive, insieme alle altre donne e voleva lasciare qualcosa da mangiare ai bambini. Intanto Pippi nel calduccio del letto tornava a sognare; ora non si vedeva più neppure la testina ricciuta, scomparsa sotto la coperta, che la nonna gli aveva regalato a Natale. Sognava di avere un bel paio di scarponi nuovi, lucidi, con i chiodi grossi, di quelli che fanno rumore quando si entra in casa. Aveva ormai dieci anni ed il padre gli aveva spiegato che anche lui doveva rendersi utile, lavorando. E con suo padre non c’era mai da obiettare qualcosa; bisognava ubidire e basta: - Quai pornò, scònnese presta, piani to kofini mea ce to gomonni kropo.

- Jati se kanni n'aggui m'itti psichra? Perché ti fa uscire con questo freddo?

La mano

per scrivere

Ogni mattina ti alzerai presto prenderai il cesto grande e lo riempirai di letame.

- Quai pornò? Puru an vrezzi? Ogni mattina? Anche se piove?

- Panta. Sto mai enna kiantèzzome tus pimidòru. An den echi kropo, pas kannome ? Sempre. A maggio dovremo piantare i pomodori. Se non c’è letame, come faremo?

Pippi aveva una paura tremenda del padre, a cui anche la mamma ubbidiva sempre, senza aprir bocca. Perciò era stato zitto, pur sapendo che il cesto era grande, pesante e che era quasi impossibile riempirlo, prima di andare a scuola. Ndata tornò per la terza volta accanto al letto, ma con una bella ciotola di latte caldo: - Asca, Pippi, pedàimmu ... nà, pie lìon gala termo. Feto, e izzareddha e'kanni poddhì, ma pìeto ... Simmeri en àscimo o cerò ... Kanni psichra ce ànemo.

Alzati, Pippi, figlio mio ... Ecco. Bevi un po' di latte caldo ... quest'anno la capretta non ne fa molto, ma bevilo ... Oggi il tempo è brutto ... Fa freddo e vento.

Pippi afferrò dalle mani della mamma la ciotola e bevve in fretta, poi saltò giù dal letto, vestendosi in un attimo. Le vecchie scarpe rotte e strette facevano male ai geloni, ma si sforzò di non pensarci. Andò in cucina e riscaldò le mani al fuoco; ci sarebbe rimasto volentieri un po', a mettere qualche rametto di ulivo sulla fiamma. Era un gioco che gli piaceva, ma adesso non c'era tempo da perdere. Uscì nel cortiletto, riempì il catino di acqua dal secchio della cisterna, si lavò la faccia e poi uscì fuori, al vento gelido. Era ancora buio, ma Pippi sapeva per esperienza che era l'ora migliore per sbrigarsi presto. Svoltato l'angolo, trovò infatti il letame, che aveva lasciato un cavallo passato po-

Un giovanissimo Rocco Aprile ai remi

co prima e ciò gli sembrò di buon augurio. Era quasi caldo. Passò per la piazza e vide che un contadino stava disponendo per terra cicorie e rape da vendere. Poco lontano un asinelio, legato al carretto, aveva lasciato cadere per terra il letame. Pippi sapeva che era pericoloso avvicinarsi troppo, perché l'animale poteva scalciare. Ma il contadino si avvicinò e tenne fermo l'asino. Già metà del cesto era pieno, ormai; e, senza perder tempo, si avviò verso la caserma dei Carabinieri: nel larghetto sostava ogni mattina, per un po' di tempo, la carrozza, che portava i passeggeri a Lecce. Pantaleo Culumbài, già seduto a cassetta, aspettava con impazienza che i ritardatari arrivassero; anche Pippi, posato il cesto per terra, rima-

se immobile, aspettando che la carrozza si muovesse. Il cielo si era fatto chiaro; il vento di tramontana era aumentato e gli congelava le spalle e le gambe; ma quel letame, che stava per terra, fra le due ruote della carrozza, era sufficiente per riempire il cesto. Pantaleo, indovinando cosa voleva il bambino, saltò giù e tirò avanti i cavalli. - Ssiànoso o kropo! - Raccogli il letame!

Il bambino si buttò per terra e raccolse in fretta tutto. - Arte àmone essu, pedàimmu! O ciùrissu ene ena ciuccio! -

Adesso vai a casa, figlio mio! Tuo padre è un asino!

Pantaleo fece una carezza sulla testa di Pippi, che grato e sorridente contemplava il cesto, pieno fino al-

- Ìmesta poddhì sto spitimma ce evo ime o pleo mmea. Pos kànno me andè na sìrome ambrò? Siamo molti in casa nostra ed io sono il più grande. Altrimenti, come facciamo a tirare avanti?

Ormai gli ultimi passeggeri erano arrivati; Pantaleo frustò i cavalli e la carrozza partì cigolando. Pippi la seguì con gli occhi e per un istante sognò anche lui di partire, di andare lontano, ma non era abituato a sognare e subito pensò che c'era il pesante cesto da portare a casa. Le mani erano paonazze per il freddo e cercò di riscaldarle, soffiandovi su. Anche i piedi erano gelati e si mise a saltellare, quando vide arrivare improvvisamente un ragazzo, di cui aveva il terrore, perché, ogni volta che lo incontrava, gli mollava senza ragione pugni o calci. Dalla piazza si avviava verso il largo Immacolata, giocherellando pigramente con una scatoletta di conserva. Pippi sperò che passasse avanti senza dargli fastidio; ma, in un attimo, gli fu addosso, lo spinse verso il muro, facendolo cadere, poi rovesciò il cesto e se ne andò via. Piangendo per la rabbia, Pippi si rimise al lavoro, riempiendo di nuovo il cesto. Ormai c'era poco tempo da perdere e col fiato grosso arrivò a casa. I fratellini si erano svegliati e giocavano sul letto; Pippi li guardò appena e corse in giardino, lasciando il cesto pieno vicino alla porta. Doveva restare lì fino alla sera, perché suo padre voleva controllare giorno per giorno se i suoi ordini erano stati eseguiti. Non ebbe il tempo di lavarsi le mani, perché era tardi ormai. Quando arrivò a scuola, già gli altri bambini stavano recitando la preghiera. Il maestro, in piedi sulla cattedra, gli fece cenno di fermarsi vicino alla porta. Poi, quando tutti si furono seduti, lo invitò a farsi avanti con aria burbera. - Perché hai fatto tardi? Pippi non rispose. Non poteva spiegare al signor maestro che ogni mattina doveva andare in giro per le strade del paese a raccogliere il letame. Non avrebbe capito, lui, che il letame era indispensabile per piantare i pomodori e che i pomodori erano indispensabili per fare la conserva e condire le sagne durante l'inverno. - E sei tutto sporco, puzzi di stalla. Non sai che devi lavarti, prima di venire a scuola? Pippi guardava incantato il maestro, che sapeva parlare così bene in italiano e che aveva una faccia rotonda, liscia come un melone... - Apri la mano! La zia Margherita fischiò minacciosamente in aria e andò a finire sulla mano sinistra, intirizzita dal freddo. - Apri l'altra! - No! Con questa ... "enna grapso" (devo scrivere).


Lecce, 27 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 26

pagina n° 14

Copertina Fino 30 aprile, il Fondo Verri ospiterà la personale di Fosco Grisendi a cura di Irene Scardia

Let us drown

F

osco Grisendi, autore decisamente originale al di sotto di una scorza che solo in superficie appare segnata da grafismi di sapore lontanamente pop o legati ad un'illustrazione di strada a contatto con il gesto del graffito murale, esprime un carattere forte ed una sensibilità capace

di indagare ben oltre quello strato nero, compatto e uniforme nel quale, inevitabilmente, affondano i soggetti raffigurati. “La spontaneità di Grisendi, frenata da una tecnica lenta e accurata, si cristallizza in sempre originali soluzioni narrative e impeccabili impaginazioni spaziali. In quest’ossimoro caratterizzato da un'istintività di pensiero congelata entro linee nette, colori e stesure

spagine

Pittura

piene e implacabili, possiamo collocare la linea poetica dell'autore, che appare sicuro nel proporsi con una sigla molto personale e di indubbio spessore.” (Sebastiano Simonini). Nato a Parma nel 1976, Fosco Grisendi vive e lavora a Montecavolo di Reggio Emilia. Nel 2004 si avvicina alla pittura esponendo per la prima volta nel settembre 2007 presso il Centro Qui Qua

di Reggio I personaggi e i simboli delle sue opere sono estrapolati dalla vita quotidiana e ricombinati in un mondo a tinte forti. Sagome, immagini familiari, amici e nemici intrappolati anche nelle t- shirt dipinte a mano, frutto della recente produzione, fatta di tessuti di cotone e colori pop.


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