spagine Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
della domenica n°27- 4 maggio 2014 - anno 2 n.0
Lecce, 4 maggio 2014 - spagine n° 0 - della domenica 27
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Diario Lo Stato deve recuperare il senso di sé e difendere senza complessi di torto o di colpa le istituzioni e la gente
L
’assemblea sindacale di polizia che riserva una standing ovation di cinque minuti all’ingresso di alcuni colleghi poliziotti processati e condannati per aver ucciso di botte un ragazzo a Ferrara qualche anno fa (caso Aldovrandi) è stata una dimostrazione di rivolta, un ammutinamento diversamente ambientato. Nella nave dello Stato una consistente parte dell’equipaggio si è ribellata contro i comandanti. Una cosa allarmante. Vergognosa, indegna non direi, perché nella circostanza queste parole non vogliono dire nulla. Ma le hanno dette in coro! E, allora? Nel coro si gracida come le rane nello stagno; fuori dal coro si ragiona. E qui occorre ragionare. Vogliamo intanto chiederci per quale ragione un’assemblea di poliziotti si è comportata in questo modo. Ci rifiutiamo di pensare che in Italia la Polizia di Stato recluti delinquenti, irresponsabili, gentaglia che si diverte a menare le mani e all’occasione a uccidere ed altra che applaude. Lo spettacolo offerto da quell’assemblea è sicuramente la spia di un malessere assai grave che va oltre l’episodio del giovane ucciso e dei poliziotti processati e condannati. Già qualche anno fa altri poliziotti avevano manifestato in difesa dei loro colleghi per lo stesso episodio proprio davanti alla casa dove abitava la famiglia di quel giovane. Qui siamo in presenza di una contrapposizione tra una parte della Polizia, che non si sente adeguatamente tutelata, e un’altra parte della società colpita dalle reazioni spesso spropositate e sproporzionate della Polizia. Una contrapposizione pericolosa che denota la situazione di crisi diffusa delle nostre istituzioni e della società nel suo complesso. Se il poliziotto è visto come un nemico da dileggiare e da colpire e se il poliziotto ritiene il cittadino che lo dileggia e lo colpisce un delinquente da eliminare sul campo vuol dire che lo Stato non è più in grado di imporre a nessuno il rispetto della legge e a garantire il mantenimento dell’ordine. Non è una novità che in Italia nei confronti di quanti operano nelle strutture dello Stato, dai poliziotti agli insegnanti, c’è una sorta di avversione; spesso i rappresentanti dello Stato sono considerati target sociali da colpire impunemente, nella convinzione diffusa che non possono e non devono difendersi. Un poliziotto nel migliore dei casi è considerato uno che ha il posto sicuro e che vive coi soldi della collettività senza nulla dare di produttivo; nel peggiore, uno che è servo del sistema, posto a difesa dei privilegi dei ricchi e degli sfruttatori. Una simile opinione non trova eguali in nessun paese moderno e democratico, dove il rappresentante
Mal
di polizia di Gigi Montonato
All'alba del 25 settembre 2005, a Ferrara, in via dell’Ippodromo, muore a seguito di un controllo di polizia Federico Aldrovandi aveva 18 anni
dello Stato gode di un ben diverso rispetto ed è ben diversamente tutelato nell’esercizio delle sue delicate funzioni. E’ questa la ragione del ripetersi di casi in cui dei poliziotti eccedono contro dei cittadini colti in flagranza di reato; e per questo sono giustamente processati e condannati. I fatti del G8 di Genova con l’assalto alla Caserma Diaz e il pestaggio di quanti erano dentro costituiscono il punto più grave perché fu una sorta di spedizione punitiva pianificata, che è cosa inconcepibile per chi opera nei ranghi dello Stato e indossa una divisa che obbliga a comportamenti canonici. Le regole d’ingaggio sono preci-
se: i poliziotti sono mandati sulle piazze per proteggere certe zone o certi edifici, ma lo devono fare secondo regole che impediscono di battersi con gli assalitori alla pari; devono limitarsi a disperdere coi mezzi che sono loro in dotazione: lacrimogeni da lontano e manganelli da vicino. Dall’altra parte, invece, squadre di manifestanti con caschi e passamontagna, armati di tutto, non pongono limiti all’uso di armi, che vanno dalle bottiglie incendiarie, alle pietre, alle spranghe di ferro e ad ogni altro mezzo contundente. Lo scontro è sempre diseguale e asimmetrico. Chi ne paga le conseguenze maggiori sono i poliziotti e i cittadini che capitano in mezzo, i
quali si vedono bruciare l’auto, distruggere il negozio, e spesso subire aggressioni personali. Cosa fanno le istituzioni per tutelare sia i poliziotti, operativamente limitati nello scontro, sia i cittadini che subiscono danni? Nulla, non fanno nulla. Le manifestazioni di piazza sono contenitori di violenze impunibili. Se qualche manifestante viene preso, pur con prove inoppugnabili di aver compiuto reati contro persone e cose, viene immediatamente rilasciato e condannato a pene di nessuna entità persuadente a non commettere più quei reati o a convincere altri di astenersi dal commetterne. E qui è il punto più importante. Si condanni pure il poliziotto che è passato materialmente sopra il corpo di una ragazza già stesa per terra, si condanni il poliziotto che ha dato qualche manganellata non proprio necessaria; ma condannate anche i delinquenti che si infiltrano in manifestazioni pacifiche per saccheggiare, distruggere e uccidere. Se lo Stato non vuole punire i delinquenti che attaccano i suoi rappresentanti e i cittadini inermi per non passare per Stato di polizia, allora non può uscirsene con un «vergognoso» o «indegno» se il sindacato di polizia lancia un messaggio di legittima protesta, sicuramente sbagliata nella forma ma efficace. Il problema delle manifestazioni di piazza incomincia a diventare un problema serio non solo in Italia. Lasciar fare a degli scalmanati significa fare la fine dei regimi politici come quelli di Tunisia, Egitto, Libia. La Siria, per difendere lo Stato, ha scatenato una guerra civile. La Turchia ha usato le maniere forti per evitare il peggio. L’Ucraina si trova sull’orlo di un’altra assai più grave e coinvolgente guerra civile in seguito ai movimenti di piazza che qualche mese fa misero a ferro e a fuoco piazze ed edifici di Kiev costringendo il legittimo presidente a fuggire. Sulle piazze vanno delle minoranze, che, sebbene motivate da buoni e nobili propositi, possono solo rappresentare una parte della popolazione. Il che non significa che l’altra parte, la maggioranza moderata, sia d’accordo. Può essere – e il caso dell’Ucraina lo dimostra – che non lo sia affatto e che quando ritiene di non poterne più passi al contrattacco. Lo Stato deve recuperare il senso di sé e difendere senza complessi di torto o di colpa le istituzioni e la gente. Se non lo fa, è il disordine generalizzato; è, come sta accadendo in Italia, la rivolta di chi è stanco di andare a difendere la legge e l’ordine da chi la legge e l’ordine li attacca impunemente. Se non si sana questa disparità è ridicolo, non vergognoso, strillare ogni qualvolta che la parte più colpita trovi il modo, sia come sia, di protestare.
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Società
spagine
Il decreto Irpef e la tassazione dei Conti Bancari
Pensionati poveri, vecchi e bastonati
di Luigi Mangia
È
stato il Governo di Mario Monti quello che ha imposto obbligatorio il conto corrente in banca per poter avere dall’Inps il pagamento della pensione a partire da mille euro. Ci sembrò un servizio utile per il cittadino pensionato perché evitava il rischio di essere derubato allo sportello e dal rischio di avere troppo contante in casa. Leggevamo il provvedimento Monti con la chiave della sicurezza sociale e chiedemmo già allora l’esenzione del conto corrente dei pensionati dalle tasse e non fummo ascoltati. Ora il Governo Renzi con la lodevole iniziativa di far trovare ottanta euro in busta paga ai cittadini dipendenti con reddito ottomila-ventiquattromila euro per la copertura del provvedimento Irpef tassa i conti correnti. Questa meravigliosa politica, di saggezza sociale del giovane Presidente del Consiglio, ha bisogno di soldi. Come li trova? Come hanno fatto sempre tutti: con le tasse. Il giovane Renzi non ha dubbi e con la forza di cui è capace nelle sue decisioni tassa i conti correnti bancari. Sembra una politica sociale illuminata, finalmente si tassa il conto corrente in banca, ma non è così, i conti correnti in banca non sono tutti uguali: ci sono quelli con la curva piatta con i movimenti essenziali, nella curva una sola entrata mensile e poche uscite. Conti correnti con la curva a campana con molte entrate ed altrettante uscite. Conti correnti con molti zeri e conti correnti con pochi zeri. Conti ricchi e conti poveri, o poverissimi Ora il Governo del Matteo fiorentino porta le tasse del conto corrente al 26% senza tenere conto della grande differenza tra conti correnti ricchi e poveri o poverissimi. Così la vecchia favola non perde la continuità nell’ingiustizia so-
Mattero Renzi
ciale della nostra storia: sono sempre i poveri a pagare e i ricchi a salvarsi. Se la ratio della manovra Renzi è quella di sostenere la domanda interna dei consumi, mi chiedo dal momento che l’Italia è un Paese sempre più gerontocratico, fatto di pensionati poveri, gli ottanta euro ai cittadini dipendenti poveri anch’essi che effetto daranno? E, spostare denaro da classi sociali povere a classi speciali più povere può far partire la domanda dei consumi interni ferma per povertà dal momento che queste fasce sociali hanno rapporti asciutti con le vetrine e i supermercati per mancanza di reddito e perché non riescono ad arrivare alla fine del mese? Il miglior Renzi ce lo racconta tutti i martedì Maurizio Crozza. Ma è possibile invece accettare questa manovra con al Ministero dell’Economia Pier Carlo Padoan l’economista più esperto che il nostro Paese oggi ha al suo servizio. Non si tratta semplicemente di un provvedimento alla Renzi ma piuttosto di un grave errore di manovra perché oltre a non raggiungere gli obiettivi cioè lo stimolo della domanda interna è anche socialmente deprimente perché colpisce al buio e penalizza i redditi molto bassi dei pensionati seriamente in difficoltà con i problemi della vita come quella della vecchiaia. Il decreto Irpef va cambiato perché è stato pensato con i piedi. Non rischiano solo i pensionati poveri vecchi e bastonati, ma anche i lavoratori dipendenti con reddito ottomila-ventiquattromila euro perché bastano per esempio poche ore di straordinario a far perdere il beneficio così tanto esaltato dal giovane Presidente del Consiglio. Il provvedimento non è strutturale e vale solo per il 2014. Non si può continuare a stimolare la fiducia con false promesse come egregiamente sapeva fare Silvio Berlusconi, ci vuole più serietà.
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Società
Le trappole per il consumatore sono infinite, le studiano psicologi, architetti esperti di marketing
Vetrine strategie e regole
di Gianni Ferraris
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iamo in periodo di crisi, ogni spesa, per moltissime famiglie, deve essere calibrata, valutata attentamente. Troppo spesso accade di passare davanti a vetrine con bizzarri e perenni cartelli “Vetrina in allestimento”. Questo, nella quasi totalità dei casi, è una vera presa in giro. Non esporre i prezzi al pubblico, come richiede la legge, è un espediente subdolo per costringere il cliente ad entrare e chiedere, una volta dentro qualcosa succederà. Leggo su Altroconsumo che le trappole per il consumatore sono infinite, le studiano psicologi, architetti esperti di marketing. Vanno dall’esposizione della merce negli scaffali dei centri commerciali ai trabocchetti di offerte speciali e pagamenti dilazionati e ancora in molte altri escamotages. Uno studio ha stabilito, per esempio, che i prodotti da “spingere” debbano essere ad altezza dello sguardo. Trovare lo zucchero in un supermercato è impresa titanica, prima passi da migliaia di prodotti inutili che attraggono. Lo sguardo, molto spesso, porta a sinistra, per questo i prodotti dello stesso settore meno casi stanno a destra. Poi ci sono le strabilianti offerte rateali. Solo 3 euro al giorno!!! 3 euro moltiplicato per 365 giorni fa 1095 euro totali. Magari per un prodotto venduto 800 in contanti. L’offerta tuttavia alletta per la “modica “ cifra giornaliera.
dotti sui quali il prezzo di vendita al dettaglio si trovi già impresso in maniera chiara e con caratteri ben leggibili, in modo che risulti facilmente visibile al pubblico; 4. è obbligatoria l’indicazione del prezzo di vendita al dettaglio per unità di misura. CARTELLI OBBLIGATORI
C’è poi il capitolo “bambini”. Gli esperti li definiscono “influenzatori d’acquisto”. Molti gadgets sono infatti accanto alle casse dei supermercati. E molti prodotti per la famiglia sono alla loro altezza di sguardo perchè speso accade che ci li accompagna si faccia sedurre dalla loro richiesta. Per ulteriore chiarezza riguardo ai prezzi esposti nelle vetrine ecco un piccolo vademecum. PUBBLICITA’ DEI PREZZI (Rif.: Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 14 - Art. 14) 1. I prodotti esposti per la vendita al dettaglio, ovunque essi siano collocati (sia all’esterno dell’eser-
cizio sia al suo interno, nelle vetrine o sui banchi di vendita) devono riportare in modo chiaro e ben leggibile il prezzo di vendita al pubblico, mediante l’uso di un cartello o con altre modalità idonee allo scopo; 2. nel caso siano esposti insieme prodotti identici dello stesso valore, è sufficiente l’uso di un unico cartello. Tuttavia, negli esercizi organizzati con il sistema di vendita del libero servizio (in cui, cioè, il cliente può servirsi da solo) l’obbligo dell’indicazione del prezzo deve essere osservato in ogni caso per tutte le merci esposte al pubblico, anche se di identico valore; 3. sono esclusi dall’obbligo dell’indicazione del prezzo tutti i pro-
Ricordiamo a tutti gli esercenti che vige l’obbligo di esporre al pubblico in modo chiaro e ben visibile una serie di cartelli riguardanti: - le licenze possedute, - il giorno di riposo settimanale, - gli orari di esercizio dell’attività, - il listino dei prezzi (per i pubblici esercizi), - il cartello degli ingredienti (per i pubblici esercizi), - la tabella dei giochi proibiti (per i pubblici esercizi), - l’autorizzazione e la riproduzione a stampa degli art. 101 TULPS e 181-186 del regolamento TULPS (per i pubblici esercizi). La mancata esposizione dei cartelli obbligatori prevede la comminazione, da parte degli organi deputati al controllo, di onerose sanzioni pecuniarie che vanno da un minimo di euro 516,00 ad un massimo di euro 3.098,00.
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Contemporanea L’animalismo non è un capriccio o un lusso per anime belle ma necessità vitale e fondamentale per una civiltà moderna
Io animale
di Marcello Buttazzo
I
l cane irrequieto, il gatto teso scappato sotto il letto. Le rondini scomparse, il bianco colombo volato via. La remota dolcezza d’una mucca. Eppoi, d’intorno, rossi papaveri, tanti, fitti; un fiore giallo, un cespuglio sgargiante di luce: così la fantasia vesuviana, immacolata come neve, d’un grande maestro della letteratura contemporanea, Raffaele La Capria. L’uomo manipolatore, modificatore di scenari, con robusta e decrepita mano antropica, in vaste zone del pianeta, ha purtroppo alterato gli habitat naturali e le varie nicchie trofiche. Bocconi avvelenati a sterminare animali selvatici (topi, talpe, mustelidi, corvi e rapaci). Echeggiano storie di delfini stressati, sporcati da inquinanti elettromagnetici. A perder l’orientamento. Tanti gli animali violati, oltraggiati, calpestati. L’homo sapiens sapiens arricchisce e definisce con altre specie il grande libro della Natura. È legittimo dare agli animali non umani la patente di esseri senzienti, che soffrono, sentono le gioie, patiscono soprattutto il dolore? Nel nostro Paese, associazioni e singoli cittadini s’impegnano con abnegazione per dare sollievo e cura agli animali. È certo che l’animalismo non è un capriccio o un lusso per anime belle, ma è necessità vitale e fondamentale per una civiltà moderna. Essere rispettosi degli animali non umani non significa affatto sposare una sorta di Utopia animalista. L’animalismo, nonostante la desinenza, è solo l’invito al senso critico, alla conoscenza, alla responsabilità individuale. Far soffrire gli animali è un delitto contro la persona, una persona non umana. L’uomo dovrebbe costruire sempre ponti, affrancarsi come edificatore di porti pacifici, e mai come molestatore di specie. Desidereremmo non vedere mai più uccelli e uccellini impallinati da cancerogeno piombo tetraetile. Una volta Dacia Maraini scrisse che “la caccia è un simbolo di arroganza smisurata”. Aggiungiamo che la caccia è ormai desueta, inutile. In una so-
Jack Kerouac e il suo gatto
cietà di persone civili, non si dovrebbe mai sparare vigliaccamente agli animali per “sport”. Una società emancipata dovrebbe, altresì, condannare anche quelle pratiche ammantate di tradizioni culturali, popolari e religiose ( sagre, palii vari), che provocano torture a cavalli, anatre, oche, tori, mucche, buoi. E le pellicce di bestiole fatte a pezzi a colpi di ferrate solo per adornare i corpi di selvatiche signore? Pellicce, caccia e altro ancora, a dar volgare “nutrimento” a discutibili lobby dell’ingente profitto. Considerazioni di carattere scientifico, etico, dovrebbero indurci a disegnare una teoria allargata dei diritti, al fine
di abbattere un desueto paradigma culturale, secondo cui i membri di specie inferiori all’homo sapiens sapiens non avrebbero diritti da rivendicare. Il filosofo e bioeticista australiano Peter Singer considera gli animali secondo un vasto criterio inclusivo, in netta dissonanza con venti secoli di tradizione filosofica, tendente a vedere nelle specie inferiori alla nostra poco più che “oggetti in movimento”. Tom Regan, filosofo americano, esamina le principali concezioni etiche, che di solito riguardano solo gli esseri umani. Egli arriva a dire che non esistono motivi razionali per lasciare fuori gli animali. Secondo Regan,
tutti gli individui con un “valore inerente” hanno i loro diritti ( cioè tutti gli esseri che hanno desideri, preferenze, consapevolezza, scopi, emozioni, sono “un punto di vista sul mondo”). Noi e gli animali. Quotidianamente viviamo a contatto epidermico con cani e gatti. Vorremmo avere la passione e la devozione d’un Konrad Lorenz, padre dell’etologia, che non esitò a buttarsi nel Danubio ghiacciato per salvare il suo cagnolino, che era caduto e stava per annegare. Che diletto vivere in casa circondati da gatti, amici e compagni della nostra ventura. Gatti curiosi, dispettosi, impertinenti, indipendenti, spiriti liberi. Tigrotti desiderati. Esploratori degli ambienti, avvezzi ai giochi, abituati a sonnecchiare in qualsiasi posto. La scrittrice Marina Corradi descrive con dovizia di particolari la bellezza e soavità del suo gatto rosso, fulvo come una volpe, occhi d’oro, la punta della coda bianca. Un comune gatto di grondaia, trovato, piccolo, davanti a una stalla, in montagna. Pagato niente, adottato con amore, trattato con ogni accortezza. Numerosi comuni cittadini raccolgono nelle compagne, per strada, in scatoli di cartone, in buste di plastica, gattini indifesi e miagolanti, minuscoli batuffoli, di cui qualcuno decide rozzamente di sbarazzarsi. E queste bestiole diventano sodali discreti e cortesi, poiché sanno dare calore e luce al giorno. Un grande poeta, Dario Bellezza, era innamorato dei felini: li prendeva, malconci e abbandonati, per strada, al Colosseo, al cimitero, al Testaccio. Li portava a casa, li nutriva e li teneva con sé. Ai suoi meravigliosi compagni, Bellezza dedicò un’intera silloge, intitolata “Gatti”. “Uscita da una tomba al cimitero degli Inglesi non so quanto durerai, se un mese, se un anno: resti solo tu àncora di salvezza ad una vita incerta di domani”, scrive il poeta per una piccolissima gattina. Gli italiani sono sostanzialmente un popolo di animalisti. Da sempre disposti ad adottare cani e gatti. Anche senza le recenti e interessaste sollecitazioni dell’ex Cavaliere Silvio Berlusconi.
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Da Gallipoli a Lecce, Paesologia lungo la litoranea in un giorno di novembre il racconto della nostra terra per la Guida del Touring Club dedicata alle strade del Sud
Sull’orlo del Salento
O
gni posto ha una sua aria. E poi c’è un’aria che arriva in certi giorni speciali. Non sono tanti i giorni speciali dei luoghi. Non sono tanti i giorni speciali della nostra vita. In genere pensiamo agli avvenimenti. Abbiamo un calendario impostato sui fatti: il compleanno, l’anniversario di un lutto, la nascita di un figlio. Sono fatti che si aggiungono allo scorrere delle giornate, fanno da ornamento, incorniciano il giorno, lo rendono solenne, prezioso, o anche delicato, dolente. Le mie giornate speciali sono segnate spesso dall’arrivo di una certa luce. Mi ricordo una sera al mio paese, una sera qualunque. Non mi ricordo che mese fosse. Ricordo che c’era la luna piena. Non sempre le sere di luna piena sono speciali. Quella volta ci deve essere stato un grado particolare di umidità. Deve esserci stato qualcosa che ha aspirato via l’aria. Non so, fatto sta che il paese nuovo, che mi è sempre parso un luogo sgraziato, blob dell’urbanistica, quella sera diventava un luogo oltre il bello e il brutto, un luogo in cui ogni sguardo diventava intenso: pensai a un paesaggio metafisico. Vedevo il profilo delle case, e non vedevo la legna fuori alla rinfusa, le baracche di zinco, i copertoni. La gente pensa molto a quello che c’è dentro le case, non si preoccupa molto di quello che c’è intorno. Il nostro umore dipende anche da cosa si può guardare dalle nostre finestre. *** Mi è venuta questa lunga premessa pensando al mio ultimo viaggio nel Salento. Un viaggio d’inverno. Normalmente si associa il Salento alle vacanze estive, al sole, al mare, al cibo. Il mio giorno speciale era stato partorito da una giornata nera, la giornata dell’uragano che aveva colpito anche l’Ilva di Taranto. Ero a Gallipoli a presentare un mio libro. Sono stato molte ore in albergo per non affrontare la pioggia furente. Uscendo a ora di pranzo ho visto nuvole
di Franco Arminio
Giovedì 8 maggio, dalle 21.30 Franco Arminio candidato alle prossime elezioni per il Consiglio Europeo sarà ospite del Fondo Verri nere che sembravano bestie con la pancia piena d’acqua. Arriva il giorno dopo e il giorno dopo le cose cambiano. Sono partito da Gallipoli con l’idea di andare verso Leuca e poi risalire lungo la costa fino all’altezza di Lecce. Una giornata di sole. Una giornata con una luce specialissima. Me ne sono accorto appena fuori dal paese o dalla città. Gallipoli è allo stesso tempo un paese e una città. Guardando un pezzo del lungomare certi palazzi sgraziati sembravano smarriti in mezzo a tanta bellezza.
Più che sdegno provavo un senso di compassione, come se potessero rendersi conto che non meritano la luce che gli batte contro. Un paio di chilometri e finisce tutto. Appena fuori Gallipoli è subito un’altra storia. La strada è piena di sabbia ai bordi. Un resort bianco pieno di bandiere. Mi piace tutto quello che vedo, a un certo punto avverto un sapore africano e questo è il bello, avvertirlo qui dove non te lo aspetti. Lido Pizzo, natura bellissima. Torre Suda, mare verde muschio, un colore che
non ho mai visto. Dal verde si muovono onde bianchissime. Fanno pensare al latte. In certi momenti mi pare di stare sulle mie alture a maggio quando il grano verdissimo è mosso dal vento. In più qui ci sono questi grandi riccioli bianchi. Non hanno nulla di minaccioso. È come se il moto ondoso fosse un gioco. C’è una grazia infantile e gioiosa in quest’acqua che si muove verso la terra. È la prima volta che il mare sbarca nella mia terracarne. Il mare diventa nave, arca gonfia di immagini e di creature fantastiche, elfi, folletti, ianare, è un mare nordico e meridiano allo stesso tempo. E si prende tutta la mia attenzione. Solo ogni tanto getto uno sguardo al lato terrestre della strada. In certi punti pare che il guardrail sia da una parte la sabbia e dall’altra le case. Torre Mozza, un africano in bicicletta. Acquarica del Capo, poco traffico. Oltre al mare, ecco la cosa che mi sta piacendo di questo viaggio: non c’è nessuno in giro. Ho incrociato non più di dieci macchine. Ci sono i segni di quello che questi posti diventano ad agosto. Ecco un’insegna che annuncia “le Maldive del Salento”, ma tutto è come dismesso, avviato a un lungo letargo. Mi piacciono i posti dove si sente il silenzio di chi se n’è andato e di chi non è venuto. Fino a un mese fa questo luogo era gremito, ora il mare regna incontrastato, l’inverno è ancora al largo, ma queste onde altissime sono il sipario della stagione. C’è una dolcezza in questi luoghi perché dietro la costa non ci sono grandi città, c’è una trama fitta di orti e paesi. Terra di contadini più che di marinai, penisola di luce, penisola limata dal vento.
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Torre Pali, Marina di Pescoluse, Torre Vado, San Gregorio e poi Santa Maria di Leuca. I nomi delle località spesso sono legati a una torre, a un punto di avvistamento. Oggi lo sguardo verso il mare è fiducioso. Non scruto l’arrivo di possibili nemici. Sento che è un giorno lieto e Leuca è come una tavola imbandita per festeggiare le nozze del finito con l’infinito. Guardo il mare non più dalla strada ma da un grande balcone, il balcone del santuario vicino al faro. Oggi il luogo è veramente mistico. Rispondo a una telefonata. Vorrei che rispondesse il mare al posto mio. Vorrei che fosse la luce a parlare. Vorrei portare a casa tanti pezzi della grande fortuna di questa giornata. Una torta di luce da dividere con i miei cari. *** Leuca è un gomito. E appena riprendo la marcia ho subito la sensazione che è cambiato il braccio. Adesso la strada non è più un pezzo di spiaggia asfaltato, ma un graffio nella roccia. Sono cambiati anche i colori. E la costa impervia qui ha impedito di pasticciare. Ecco un posto che si chiama “il Ciolo”. Mi aveva portato un amico. Sembra un piccolo fiordo norvegese. Scendo a fare qualche fotografia. Guardo alcune persone che pranzano in un ristorante che sembra una zattera legata alla roccia. Mi viene in mente che dovrei mangiare anch’io, ma non ho fame. Ho mangiato la luce e bevuto il mare. Vado avanti. Gagliano del Capo, Marina di Novaglie, e poi sosta a Marina Serra. Qui ho fatto il bagno nel lembo finale dell’estate. Un posto che avevo sempre sognato di incontrare, una piscina in mezzo al mare, con enormi sassi che impedi-
scono la deriva verso il mare in cui si affonda. Oggi non ci sono bagnanti. La piscina è agitata, sembra un piccolo parco giochi, l’acqua entra ed esce dalla buche, sembra voglia salutarmi, ma sono io che la saluto, sento una profonda gratitudine dello stare al mondo quando vedo luoghi come questi. E ora posso anche trovarmi un posto dove mangiare. So di un ristorante buonissimo nella zona. In verità in Puglia si mangia bene ovunque, trovare un ristorante pessimo è come trovare un ago in un pagliaio. Mangio davanti al mare. Un piatto di spaghetti che è un congegno perfetto di sapori mediterranei. *** Riprendo la marcia con un senso di smisurata letizia che per me è davvero inedita. Anche il mio corpo, giacimento inesauribile di amarezze e recriminazioni e paure, oggi è come se si concedesse pure lui una vacanza. Ho solo un piccolo turbamento, non posso fermarmi in ogni posto. La giornata di fine novembre è breve e voglio arrivare a Lecce prima che sia buio. Ecco la costa delle grotte: Rotondella, Zinzulusa, Romanelli. Roccia e mare, movimento e fissità, divergenza e fusione. La fusione è data dall’antico. Quello che vedo è qui da molto tempo, quello che è qui da poco tempo oggi è chiuso. E così passo per Santa Cesarea Terme per accorgermi che la costa salentina d’inverno torna quella che era nel tempo in cui le persone temevano il mare e vivevano all’interno. Un tempo in cui non c’era il turismo, ma solo la paura, un tempo in cui si viaggiava per andare a uccidere o a pregare. All’altezza di Porto Badisco non posso non fermare il mio viaggio. E cammino dieci minuti a pie-
di sugli scogli per trovare un punto e distendermi. Questo posto ha davvero un’energia straordinaria. Ci sono stato in un giorno d’ottobre e non ho mai sentito sulla terra un posto tanto vicino al paradiso. Quella mattina ho sentito la perfezione che hanno certe giornate: una mattina di ottobre col sole a Porto Badisco è come la sala della Gioconda al museo del Louvre, con la differenza che non devi contendere con nessuno la visione. Sei solo, tutta la bellezza sembra sia stata apparecchiata solo per te. Arrivato a Otranto non mi fermo. Oggi il famoso mosaico che fa da pavimento alla cattedrale mi sembra il mare, vedo scene, colori mutevoli. E in lontananza le montagne dell’Albania. Non ho tempo per andare a rivedere il lago rosso che ho visto a ottobre. Si trova in una zona chiamata Orte ed è una cava dismessa di bauxite, la parte centrale ora si è riempita d’acqua e rane, ma l’attrazione è il rosso del bordo, l’attrazione è quella di un luogo che d’estate ti allontana dai clamori vacanzieri e ti mette nel cratere della tua vita dove il tempo passa e non capisci se sei la materia raffreddata di una lontana eruzione o una terra sul punto di esplodere. Sono le quattro del pomeriggio. Mi sono svegliato presto, ma non è bastato, un solo giorno è poco per questa luna di miele con la costa del Salento. Adesso devo prendere di corsa il paesaggio che resta. Punto verso San Cataldo, la luce è un po’ invecchiata, non ha più il brio del mattino. Ho abbandonato nel cruscotto il mio taccuino. La prossima volta devo fare il giro nell’altro senso, partire da Lecce e arrivare a Gallipoli seguendo la costa. Vedere i laghi Alimini non alla
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fine ma all’inizio del percorso. Ormai avanzo solo per capire dove sono, quanto manca alla meta. Qui la strada non costeggia il mare, ma basta un minuto e si aprono meravigliose baie come quella di Sant’Andrea o di Torre dell’Orso. Faccio appena un salto alle grotte basiliane di Roca Li Posti, filo dritto senza fermarmi a San Foca e all’oasi Naturale delle Cesine. A San Cataldo lascio il mare e la luce mi lascia. Ormai è notte. E il barocco leccese arriva come un fuoco d’artificio dopo una bella festa. Gli angeli del seicento ti accompagnano tra case di calce, palazzi di tufo. Mi abbandono alla pietra dolce delle chiese, ai campanili di sughero, allo zucchero filato dei balconi. Terra senza industrie e senza tegole, senza montagne e senza colline. Qui non esiste verticalità. Le case dei paesi sono quasi sempre di un solo piano e danno spazio alla corte comune più che ai vani privati. Si cammina agli incroci tra fiori di campo e fichi d’India, tra i polipi e gli scogli, i pomodori secchi, il cuore delle cicorie, le olive, il vino. Si cammina con la taranta su una spalla, con il sole in testa, il mare in gola. *** Il Salento è lontano, bisogna andarci di proposito. Da lì non ci sono approdi ulteriori, è il vero fondo dell’Italia diceva Guido Piovene. C’è solo da tornare indietro, c’è solo da smaltire il disagio di ritrovarsi nuovamente lontani da una terra in cui un vento luminoso, un sole mai sommesso e un mare lirico hanno rimosso per un poco dentro di noi i mesti enigmi della vita quotidiana.
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Letture Dopo la Giornata Mondiale del Libro celebrata lo scorso 24 aprile, una nuova iniziativa promuove la lettura: il Maggio dei Libri
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Riempi loro i crani di dati non combustibili, imbottiscili di “fatti” al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d’essere “veramente bene informati”. Dopo di che avranno la certezza di pensare, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi. Non dar loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia affinché possano pescare con questi ami fatti ch’è meglio restino dove si trovano. Con ami simili, pescheranno la malinconia e la tristezza» è Ray Bradbury in “Fahrenheit 451”. Dopo la Giornata Mondiale del Libro celebrata lo scorso 24 aprile,una nuova iniziativa promuove la lettura, è il Maggio dei Libri. Bene! Per l’occasione propongo una lettura molto interessante. «E’ un libro che merita di essere letto e raccomandato, tanto acuto è lo sguardo dell’autore, Antonio Pizzuto, ricca la sua esperienza di scrittore, penetrante il suo umorismo». Scriveva così Eugenio Montale sul retro di copertina di Si riparano bambole di Pizzuto. E Giorgio Caproni aggiungeva: «Una vera e propria rivelazione». *** Antonio Pizzuto, nato a Palermo nel 1893 acomparso a Roma nel 1976, questore di Bolzano e di Arezzo, si congeda in anticipo (1949) per dedicarsi completamente alla letteratura. Eugenio Montale, Carlo Bo, Luigi Baldacci, Giorgio Caproni, Ruggero Jacobbi vengono rapiti dalla scrittura di Pizzuto fino ad arrivare a Gianfranco Contini, che lo definì «il prosatore più importante comparso dopo Gadda, perfetto, rotondo, catafratto in una maturità che è magistero». Carmelo Bene in occasione d’un viaggio a Palermo nel 1994 si esibì in una lettura, tra le altre, d’una pagina tratta da Signorina Rosina di Antonio Pizzuto. Inoltre, conobbe in quel frangente Ciprì e Maresco, autori di Lo zio di Brooklin, distribuito nelle sale un anno dopo e per il quale Carmelo Bene fece i complimenti, indirettamente, ai registi. Non molto tempo dopo Bene fu intervistato da questi ultimi a Roma, e alla domanda sulla mancanza di polarità dello scrittore Pizzuto, Carmelo rispose che «la plebaglia non aveva il diritto di conoscere Antonio Pizzuto!». In seguito Ciprì e Maresco insieme a Carmelo Bene fecero un piccolo ‘corto’ tratto da Signorina Rosina di Pizzuto, con la voce di Carmelo e con un margine di lapidi intitolato Ai rotoli, mandato in onda a “Fuori orario” su Rai3. https://www.youtube.com/watch?v=jsPWWyer0_8
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Leggere di Antonio Zoretti
Antonio Pizzuto
Antonio Pizzuto dunque, questo scrittore semisconosciuto, è al centro di questa proposta di lettura – e per esemplarità il suo Si riparano bambole. Un libro di ricordi che parte dall’infanzia per finire alla senilità. Dall’agiatezza dei primi anni alla miseria degli ultimi, dalla voglia di sapere dell’infanzia alla resa dell’ultimo stadio della vita. In un racconto puro e sciolto, l’opera è autorevole. E’ un singolare e avviluppato ricordo, fitto e solido, e sfuggente, implacabilmente. «Con Antonio Pizzuto è scomparso il primo dei nostri grandi “giovani scrittori”» dirà Gianfranco Contini in una prefazione a Si riparano bambole. Pizzuto, coeta-
neo a Gadda, e finito anch’egli a Roma da Palermo, come Gadda da Milano, seguitò comunque una via diversa da Carlo Emilio, per conto proprio fino a quando la malattia non gli impedì di continuare nella sua grande passione. Fu spinto da una profonda voglia di scrivere, guidato e sollevato verso alte cime. Modesto in vita nella sua solitudine, fuori d’ogni società letteraria, Pizzuto fu grande amante della vita. Eccedeva in tutto: nel riso, nel pianto, nell’amore, nell’amicizia. E questo basta! Le bambole hanno un’anima, sollevano sempre ricordi o altro. Penso al racconto La Bambola di Kafka tratto da Follie di Brooklin di
Paul Auster; penso ai negozi di Vienna dove riparavano bambole quand’io ci passavo accanto nel secolo scorso; penso alle bambole trovate nelle montagne delle discariche: quali e quanti ricordi esse raccolgono; le camerette delle bambine ricoperte di bambole e lasciate così dalle madri amorevoli anche quando le loro figlie cambiano casa; i ripostigli delle abitazioni colmi di bambole… Si parla sovente delle Cime tempestose di Bronteana memoria, eccellenti cime le sorelle Bronte. Ma in cima era arrivato anche il ‘nostro’ Antonio Pizzuto. Aveva toccato l’apice nella semi-oscurità delle plebi – di Beniana memoria, ma era stimato tra i grandi, anzi loro faticavano a seguirlo nella sua scalata. Di umorismo asciutto, sobrio, sottile egli era, quasi inglese ma da intelligente e arguto siciliano. Non m’addentro nei suoi testi, ma risalto la sua figura, la sua altezza per tanto tempo impiegata nell’esercizio di Polizia. Nonostante la sua portata di cultura classica e filosofica, la sua modesta abitazione, tranne alcuni testi importanti, era priva di documentazione libresca. Ricordiamo di lui Ravenna e Paginette (raccolta di narrazioni). Qui, io che l’ho conosciuto attraverso i suoi scritti vorrei eccitarne la memoria e rinfrescarla a coloro che vorrebbero leggere le sue opere, che per un’anomalia sono ancora male accessibili in comune commercio. E «per un autore di cui non si smetterebbe mai di parlare, come Goethe diceva di Shakespeare, anche chi avesse riserve su Finnegans non si sognerebbe di non stampare tutto Joyce. Qui invece pare che tocchi passare per maniaci ad auspicare che sia sanata quest’anormalità» conclude Gianfranco Contini nella prefazione a Si riparano bambole (dall’autore contratto in Siribambole). In occasione quindi del mese dedicato alla lettura e il libro, quale occasione migliore per augurarsi un rilancio di questo nostro gran de autore. Grazie. Com’egli stesso dirà nel finale di Siribambole: «Dammi ancor, cantava dolcemente; la melodia nella sua eleganza francese attirando Pofi lo induceva, in punta di piedi. Dammi ancor. Sotto il tocco dell’anulare spingante, il secondo la dei cantini affondava sordo senza ritorno a galla ». *** E ancora, proseguendo nei consigli di lettura, suggerisco la poesia. Andate a cercare una delle poesie dedicate a Praga da Ingeborg Bachmann, poetessa austriaca nata a Klagenfurt nel 1926, scomparsa a Roma nel 1973. C’è un prezioso frammento televisivo intitolato: “Bachmann, Shakespeare aveva ragione”, dove la grande poetessa legge un’ambigua poesia sulla città intitolata: “La Boemia giace nel
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mare” (Boehmenliegtam Meer) dove spiega chi sono per lei i boemi: degli erranti. L’inizio della poesia: «Verdi sono gli edifici in questo luogo, in una casa mi muovo ancora. Intatti i ponti, vado in un suolo buono. E’ fatica sprecata in tutto il tempo perduto, vorrei perderlo qui. (…)», i versi ci rimandano al nostro Vittorio Bodini: «Tu non conosci il Sud, le case di calce da cui uscivamo al sole come numeri dalla faccia d’un dado. (…)». Due interpreti vicini nel sentire e toccare la vita e il senso dei luoghi – se pur diversi e lontani. Usando metafore raccontano il luogo da loro vissuto in quel momento, racchiudendo tempo e spazio in versi sfuggenti, vari e complessi.
Aldo Palazzeschi
Troviamo allora luogo e tempo in questo mese di celebrazione del libro e della lettura di rendere tributo, a due grandi personalità che hanno attraversato il Novecento. Comuni nel comunicare gli affetti e a tutti i poeti... E’ proprio vero: i poeti restano poeti in tutto. E solo tra di loro si possono giudicare. A noi resta auscultarne l’amplesso. Ah, la poesia! Mi rende felice. E’ una stella. Come dice il nostro buon Aldo Palazzeschi in Rio Bo:
Tre casettine dai tetti aguzzi, un verde praticello, un esiguo ruscello: Rio Bo, un vigile cipresso. Microscopico paese, è vero, paese da nulla, ma però… c’è sempre di sopra una stella, una grande, magnifica stella, che a un dipresso… occhieggia con la punta del cipresso di Rio Bo. Una stella innamorata? Chi sa se nemmeno ce l’ha una grande città. Ah! Buona lettura!
Ingeborg Bachmann
Lecce, 4 maggio 2014 - spagine n° 0 - della domenica 27
Scritture
U
Pensiero
n leggero colpetto sulla sella. Non, non lasciatemi, grido. Lancio urletti di paura, il vento davanti mi scompiglia i capelli, me li sbatacchia sugli occhi, li strizzo e a tratti vado incontro al buio. Mi giro lievemente di sbieco, giusto per accorgermi che quei cattivissimi mi hanno lasciato davvero andare da sola. Urlo ancora e freno di colpo, poggio i piedi per terra, rido in preda ad una tremarella. Il mio primo giro in bici senza rotelle, su una Graziella bianca troppo alta per me. Ce l’ho fatta, mio malgrado. Sono lontani, loro. Inverto il senso di marcia e ci riprovo. Da sola stavolta. La bici ha uno slancio in avanti, storta, ma non mi butta dalla sella. Li raggiungo, salto dalla due ruote e li prendo a pietre. Mica gliela posso dare vinta. Mi avevano promesso che non mi avrebbero mollato. Quelli scappano ma ridono.Tanto le pietre son bruscolini. È la brecciolina del viale, grossa quanto mentine. Li inseguo e quelli mi vengono incontro, tutti e tre, mi si lanciano addosso, ci buttiamo a terra, lottiamo. Ma è tutto per finta, la guerra dura solo pochi minuti, poi in preda alle risate che non riusciamo più a frenare ci stendiamo sul dorso, le braccia aperte ad abbracciare il cielo pervinca, smerlato di bianco qua e là. Loro sono i fratelli De Donno, il più piccolo è mio coetaneo, settenne, gli altri due hanno dieci e tredici anni. “D’ora in poi non mi fiderò più di voi, ecco!”, farfuglio finta imbronciata. “Zitta zitta che se fosse stato per te neanche a dieci anni avresti imparato ad usare una bici vera.”, risponde il maggiore dei tre. “Schiappetta!”, mi prende in giro il medio, ridendo. Mi lancio su di lui e la lotta riprende. “Ehi che fate?”, da sotto il groviglio riconosco la voce di Piero, il mio celeste biondo amico del cuor. Riemergo, scarmigliata e rossa in viso, me lo sento, ho le guance in fiamme. Sono arrivati i due fratelli Moretti. “Giochiamo a campana?”, dice l’altro, il maggiore dei due. Siam pronti tutti ad accogliere
la proposta, scattanti all’idea del nuovo gioco. Ci sarebbe anche un terzo Moretti, ma lui è grande, non si abbassa più a star con noi, ci chiama mocciosi. Sono circondata da maschi e da divise, in questi miei anni d’infanzia al Villaggio Azzurro. Un po’ maschio mi sento anch’io, a furia di star con loro. Le bambole?, bleah. Mia madre le ha riposte sull’armadio, in bella mostra, ma stanno lì solo a catturar polvere. *** Il Villaggio Azzurro è il luogo rifugio nella mia mente, quando ho bisogno di un cantuccio nel quale scomparire. È il ricordo di un’età senza peso. Di spazi verdi e protetti. Dove potevi scorrazzare fino a sera senza paura dell’uomo nero. Non c’erano bande rivali,
eravamo un unico grande gruppo di bambini variegati, curiosi e ingordi di divertimento. I grandi erano papà militari, impettiti e severi, poco inclini al sorriso, urlanti bestemmie come fossero chicchi di grano. Non ci passavano nessuna marachella e se qualcuno veniva beccato ci chiudevamo tutti in religioso mutismo per qualche giorno, tanto ce la facevamo sotto per la paura. Le mamme: figure meno imponenti, dedite alla casa, al cucito, miti, riverenti verso i mariti padroni. Di loro ricordo il ritrovarsi la domenica mattina presto, nelle albe d’autunno, per andare a caccia di cozze municeddhe, nel campo di fronte. Io piangevo perché volevo esserci e di nascosto, a distanza, le seguivo. I maschi non mi accompagnavano, non riuscivano a
svegliarsi. Se la mamma mi scopriva non si arrabbiava, si limitava a guardarmi con riprovazione, ma poi mi accoglieva nel gruppo delle femmine grandi. Oppure andavano anche a raccogliere gli zanguni, e cantavano nei campi. Mi sembravano così belle, tutte. Ma io da grande non volevo diventare come loro, da qualche parte doveva esserci un mondo dove i maschi non comandano e le donne non li subiscono. L’avrei cercato. Di mio padre amavo solo quei momenti in cui mi caricava in spalla e mi portava a spasso per l’aeroporto, era bellissimo in divisa, con quel cappello che a mio fratello faceva indossare - c’ha anche le foto lui, a quattro anni, con questo grande copricapo da maresciallo - e a me no, che rabbia!
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nido
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Ci vorrebbe un orfanotrofio per le cose che nessuno desidera più
di Antonella Caputo
Immagine tratta da http://galatina.blogolandia.it
L’hangar, che fascino misterioso aveva per me. Mi sembrava di entrare in una qualche rimessa spaziale e che da un momento all’altro spuntassero fuori strani ometti verdognoli e gelatinosi consottili antennine alla cui sommità c’erano gli occhi, tondi e rossi come pomodori, che mi guardavano incuriositi - ero io l’extraterrestre in quel posto - e mi venivano incontro con mani appiccicose e dita dotate di piccole ventole che roteavano con un cigolio fastidioso ed io mi striminzivo, m’incuneavo tra le gambe di mio padre e lui non capiva cosa vedessi di strano, mi strattonava per togliermi da lì. Gli aerei, visti da vicino, erano giganteschi, mostri marini emersi dagli abissi e pronti a solcare lo spazio, guidati da migliaia di quegli omignoli,percombattere guerre
interplanetari. Di notte brillavano come stelle ed io mi affacciavo alla finestra prima di addormentarmi, immaginando le battaglie che si svolgevano lassù. A volte sognavo che le gelatine verdi venissero a prendermi mentre dormivo e mi depositassero su qualche pianeta sperduto. Allora urlavo, ma mi guardavo bene dal raccontare di questi incubi, papà non mi avrebbe portato più in aeroporto. Il parchetto del Villaggio Azzurro aveva due altalene e quattro panchine, qualche dondolo e niente più, ma era il nostro regno. Ci incontravamo lì, il pomeriggio, dopo i compiti o nelle mattine assolate d’estate. Oltre ai De Donno e ai Moretti, gli altri compagni di scorribande erano i fratelli Barrazzo. Cinque figli, due femmine e tre maschi. La maggiore era già spo-
sata e viveva altrove, la piccola era quanto me, ipotetica rivale dunque, ma era bruttarella e grassa, perciò rimanevo la reginetta della scena. Nel mezzo i ragazzi, Giacomo era il più interessante per me, a quattordici anni suonava la chitarra ed io pendevo dalle sue labbra. Aveva provato a insegnarmi a strimpellare. Ma già il solo fatto che fossi mancina era una complicazione, in più si aggiungeva la mia totale incapacità a sentire le differenze di suono e a riconoscere le note: si arrese ben presto. A me bastava star seduta di fronte a lui ad ascoltare la sua voce che scimmiottava Le bionde trecce e Sei chiara come un’albaaa per viaggiare ed atterrare in romantiche isole deserte del genere che adesso definirei Laguna Blu, ma che all’epoca era un mix immaginario di isola del tesoro e giungla di Tarzan e Jane. C’era una casa dove si riunivano gli avieri a intagliare oggetti di legno e giocare a carte. Era proprio accanto alla mia ed io il pomeriggio spesso riuscivo ad intrufolarmici, con la scusa di chiedere qualche Topolino in prestito. Mi piacevano gli avieri. Ragazzotti alti, muscolosi, pelle e capelli rasatissimi, mi prendevano in braccio e mi facevano volare a mo’ di aereo. *** Sì, il Villaggio Azzurro è il mio pensiero nido. “Broken bicycles/ Old busted chains/ With busted handle bars...”, tuona la voce nera e possente di Tom Waits. Le note si diffondono dal piccolo Sony che ho acceso appena mi sono alzata. Mi sono svegliata struggente stamattina, come questa canzone che incredibilmente fa da specchio al mio stato d’animo. Biciclette rotte, dice l’artista, vecchie catene spezzate... Non mi basta accoccolarmi tra le maglie dei ricordi oggi. Mi vesto in fretta. La giornata è splendida, non fa freddo. La bici gracchia un po’, acciaccata e arrugginita dall’inverno, ma dopo qualche colpetto di tosse scivola sulla strada sterrata senza opporre resistenza alle mie pedalate decise. Devo zigzagare tutto il paese per arrivare alla meta. Dalle campagne oltre l’ospedale, in contrada Specchia, a quelle prospicienti i “piani”, zona di villeggiatura molto amata prima della presa di coscienza del
Grande Disastro provocato dalla vicina fabbrica di cemento. Galatina dorme ancora, adagiata su una coperta azzurra di cielo. Un cane mi si affianca rabbioso, gli faccio un fischio, s’azzittisce e mi guarda con occhi lessi, pochi attimi di sguardi muti e me lo trovo dietro, a seguirmi. Corriamo per le strade quasi deserte. Attraversiamo la piazza, saluto con un buongiorno signora la statua della Pupa, che nel suo nudo, immutato splendore mi appare vessillo di eterea, eterna bellezza. Il cane guaisce dietro di me. Aumento il ritmo, anche i pensieri pedalano veloci, li lascio andare come trecce al vento: la mia piccola bici e le rotelle, chissà dove sono andate a finire, la chitarra di Giacomo le cicale che mi svegliavano la mattina le parolacce del Moretti-pater l’erba alta di primavera il prato giallo di trifoglio l’eucalipto gigante che sovrastava tutti come un re la buonanotte della mamma sono un aereo volo in alto, su, più su, non mi fate paura brutti mostriciattoli verdi c’è papà con me, papà dove sei? Eccoci. La rete sbilenca e cascante mi avvisa che siamo arrivati. Uno scenario spettrale rimbalza davanti ai miei occhi, rotola via dalla mente, come una palla che non riesci a fermare. Sollevo la rete in un punto in cui è più lenta che altrove, il cane entra prima di me. Lo seguo, portandomi appresso la bici che abbandono per terra, nel posto in cui dovrebbe esser morto quell’eucalipto. Case e finestre murate. Morte anch’esse. Avvinte dall’incuria. Silenzio. Vi abitano i fantasmi adesso in questa desolazione? Quando è stato che il villaggio dei dipendenti dell’Aeronautica ha cessato di vivere? Scavo nella memoria alla ricerca di indizi, ma ho rimosso tutto. Noi ce ne siamo andati quando la casa nel paese è stata ultimata ed’allora nella mia mente il luogo vive un’immortale giovinezza. Evito di passarci, di fermarmi a guardare. Ma oggi sono qui, davanti a questo scempio e provo un moto di ribellione. Ridatemi il mio regno incantato. E restituite a lui le voci dei bambini. Riprendo la bici e lenta, greve, inverto il cammino. “Have an orphanage for all these things that nobody wants anymore.”, sussurro a bassa voce con Tom Waits.
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Poesia Da Organismi Cedevoli, Manni editori
Far esplodere un ossario per organizzare un party su i suoi resti scricchiolanti. Tagliare l’erba alta per scoprire se il fruscio notturno nasconde lo spettacolo di esseri bizzarri personaggi delle fiabe gradite mimesi di fantasie innocenti. Inventare distrazioni immersioni illogiche per sfuggire alla banalità opprimente per decorare i vostri volti di cera per svuotare una clessidra interrompendo per un attimo
la sua atavica condanna. Come quando ci si nasconde per gioco e non si vuole più uscire allo scoperto. Lasciando perdere tutto ci rannicchiamo cercando di dimenticare che siamo costretti a respirare e che il nostro cuore in qualunque posizione continuerà ostinatamente a battere. Marco Vetrugno
La copertina del libro rende omaggio ad Egon Schiele
MMSarte
E’ in atto dal 24 marzo Art-icoliamo senza barriere nuovo percorso di poesia visuale rivolto ai bambini di quattro classi della Scuola Primaria Leonardo Da Vinci di Cavallino e Castromediano a cura di Monica Marzano
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Il coraggio dell’amicizia
Il testo è di Marco Mauro, il disegno di Giada Morello
M
arco sembra avere le idee molto chiare su cosa sia il coraggio: non arrendersi mai, andando sempre avanti e, certamente insieme è più facile affrontare le "ombre" minacciose della vita o le mostruosità, che purtroppo fanno parte dell'altra faccia della meda-
P
glia dell'esistenza stessa. E' vero, insieme fa meno paura ed è più entisiasmante raggiungere le mete desiderate, che altro non sono che simbolo di nostre piccole conquiste quotidiane. Come una conquista è per Marco "ignorare" le maestre, magari durante le interrogazioni, che a quell'età sono le loro piccole e grandi paure, affinchè gli sguardi
inquisitori per capire se si è studiato o meno, non pesino eccessivamente sul loro stato d'animo e di conseguenza sul loro rendimento! Giada è rimasta incantata dalla frase "raggiungere una meta" e se anche ancora tanto piccola, ha intuito quanto grande fu il coraggio di quegli astronauti che nel 1969, misero piede per la prima volta sulla
luna! Una conquista che ha segnato una tappa unica per l'intera umanità, una meta frutto di un coraggio collettivo che ancora resta impresso nei cuori e nelle menti non solo di chi ebbe la fortuna di vivere in diretta quei gloriosi momenti, ma addirittura di chi ha solo visto immagini di repertorio subendone intatto il superbo fascino.
Il testo è di Teodoro Lenucci il disegno di Federico Mele
er il piccolo Teodoro l'amicizia è come un pozzo di cui è possibile vedere il principio ma giammai la fine. Un pozzo la cui
acqua fresca e pulita è fonte indispensabile di vita che sgorga nelle profondità delle viscere della terra così come il sentimento dell'amicizia deve sempre poter sgorgare integro e puro nel profondo dei nostri
cuori. Unica condizione bisogna saper amare. Il piccolo Federico ha apprezzato molto il paragone di Teodoro e con la spontaneità tipica dei bambini ha presto disegnato un sereno paesaggio sulla cui collinetta sor-
ge il pozzo dell'infinita amicizia e dal quale un sorridente ragazzino si accinge a prenderne l'acqua magari per brindare e dissetarsi con tutti i suoi amici del cuore.
La galleria dei lavori della precedente edizione è su www.mmsarte.com
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Copertina
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Stage
A Cavallino tre giorni sull’illustrazione con Giancarlo Montelli
L
a Città di Cavallino e la Biblioteca Comunale “Gino Rizzo”, propongono Costruire un’illustrazione, laboratorio rivolto a 20 giovani di età compresa tra 11 e 18 anni ideato e condotto da Giancarlo Montelli, gli appuntamenti giovedì 15, lunedì 19 e mercoledì 21 maggio, dalle 16.00 alle 18.00. Il percorso si svilupperà in tre incontri pomeridiani incentrati sulle modalità di documentazione, progettazione e realizzazione di una illustrazione a partire da un personaggio reale o di fantasia. La partecipazione gratuita, la prenotazione obbligatoria. Gli elaborati saranno allestiti in mostra il 1 giugno, in occasione dell’annullo filatelico realizzato a conclusione della mostra Donne oltre i confini di Giancarlo Montelli. In copertina il ritratto dedicato a Frida Kahlo. La collezione inoltre propone i ritratti di grandi protagoniste della storia - realizzati dall’artista per il volume Dalla chioma di Athena (Edizioni Odradek) con testi di Valeria Palumbo - interpretate dal segno di Montelli troviamo: Eleonora de Fonseca Pimentel, George Sand, Louise Farrenc, Nellie Bly, Marie Curie, Alexandra David-Néel, Grazia Deledda, Rosa Luxemburg, Colette, Mata Hari, Isadora Duncan, Virginia Woolf, Mae West, Tina Modotti, Amelia Mary Earhart, Leni Riefenstahl, Marguerite Yourcenar, Greta Garbo, Indira Gandhi, Dian Fossey. *** Giancarlo Montelli è nato a Roma nel 1937, pittore, incisore, fotografo, illustratore e Art director in numerose case editrici, pubblicitario (campagna per Micra); per la RAI ha realizzato sigle e storie animate in programmi per ragazzi; collabora con importanti testate giornalistiche nazionali. Ha diretto i corsi di Illustrazione e insegnato Illustrazione editoriale presso l’Istituto Europeo di Design, l’Istituto di Comunicazione e Immagine Multimedia. Docente nei Master in “New media e Comunicazione” dell’Università di Roma Tor Vergata. Direttore e insegnante di figura, costruzione dell’immagine e illustrazione editoriale presso l’Accademia dell’Illustrazione e Comunicazione Visiva di Roma. La fotografa Tina Modotti e la scrittrice Virginia Woolf