Spagine della domenica 33 0 del 15 giugno 2014

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spagine Spagine della domenica n°33 - 15 giugno 2014 - anno 2 n.0 Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri


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Diario politico

Spagine della domenica n°33 - 15 giugno 2014 - anno 2 n.0

Matteo e la neve a neve sulla politica italiana incomincia a sciogliersi e qua e là appare quello che c’è sotto, il buono e il cattivo. Si vede quello che c’è sotto il grande consenso a Matteo Renzi, il leader uscito dal vuoto della politica. Emerge l’operazione che ha reso possibile la nascita del suo governo in un contesto di pressoché azzeramento delle posizioni di potere che in genere rendono credibile una democrazia. Tre sono i soggetti che si vedono: Europa, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il Partito democratico. Poi, il vuoto: zero sindacati, zero confindustria, zero chiesa, quasi zero stampa. Zero significa ciò che non c’è o non si vede. Renzi è figlio di un’Europa, che tiene a non farlo sapere, di un Presidente della Repubblica sornione che sa che gli altri sanno della parte che ha avuto, di un Partito democratico che ha sospeso il dibattito interno in attesa che la situazione apra verso nuove e più chiare direzioni. Per questo Matteo Renzi appare come il personaggio più strano che la politica italiana abbia espresso in questi centocinquant’anni di storia unitaria. Difficile trovare qualcuno a cui somigli tra i numerosi leader politici italiani del passato. Non ha avuto finora vera conflittualità politica per saggiare le sue caratteristiche e le sue capacità. Forse somiglia un po’ a Mussolini per certa spregiudicatezza e un po’ a Berlusconi per leggerezza di comportamenti. Vero è che la situazione politica dalla quale è emerso è assai strana. Da una madre strana non poteva uscire che un figlio strano. E’ una stranezza che si è determinata progressivamente da tre anni in qua, da quando il Presidente Napolitano, messo alle strette da una crisi assai difficile della nostra democrazia, si è ricordato di essere un comunista, cresciuto alla scuola della più spregiudicata ideologia politica del Novecento e ha pensato bene di comportarsi di conseguenza. Napolitano, che aveva messo da parte l’arte ben appresa, vi ha fatto ricorso quando ha capito che coi metodi della democrazia tradizionale non sarebbe riuscito a raddrizzare la barca, che continuava ad imbarcare acqua. Così, bando alle formalità. L’importante è uscire dall’impasse. Se serve uno come Renzi, col suo fare da dittatorello mezzo boy-scout e mezzo travet, va benissimo. Dopo si vedrà. Si capisce meglio Matteo Renzi se si pensa a Enrico Letta. I due incarnano i relativi tipi e modi di far politica nel passaggio dall’uno all’altro di Napolitano: con Letta si era nella vecchia logica democratica, ossequiosa e rispettosa delle leggi scritte e non scritte, che non consentiva però di andare avanti, con Renzi in quella spregiudicata, al di fuori di ogni galateo, di passar sopra a tutto e a tutti e di procedere come uno schiacciasassi. Renzi non ha tardato a manifestarsi per quello che veramente è. Se ne accorse Enrico Letta ai tempi in cui era Presidente del Consiglio, quando da nuovo segretario del Pd in faccia gli rin-

di Gigi Montonato

novava fiducia e alle spalle cercava il punto dove colpirlo meglio. Si disse allora che in fondo la politica è stata sempre così. Ora, però, è come un’escalation di modi inurbani e dispotici, accettati solo perché in Italia continua a farla da padrona la cortigianeria. Gli esempi dell’arroganza di Renzi incominciano a non contarsi più. Tanto sono tanti! Il prof. Giorgio Orsoni, ex sindaco di Venezia, lo ha definito «superficiale e farisaico», dopo che, in seguito alla faccenda del Mose, si era visto abbandonato e misconosciuto da tutti, Renzi compreso, quasi fosse lo smemorato di Collegno, che, da quel che diceva, non si capiva chi fosse e da dove fosse giunto lì a Venezia a sedersi sullo scanno più alto della città dei Dogi. Nel suo stesso partito, di cui è segretario nazionale – tradizione democristiana, non comunista, di ricoprire le due cariche di Presidente del consiglio e di segretario nazionale del partito di maggioranza – l’ex sindaco di Firenze è chiamato “dittatore”. Dopo la sostituzione di Corradino Mineo nella Commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama perché in dissenso con l’idea di Senato voluta da “Lui”, sempre nel suo stesso partito si parla di un nuovo “editto bulgaro”. Ricordiamo che l’altro editto bulgaro fu quello di Berlusconi contro il trio Biagi-Santoro-Luttazzi. Ben quattordici senatori del Pd si sono autosospesi per protesta. Renzi ha risposto con la consueta arroganza padronale oltre che con disinvolta “utile” ignoranza: «Non ho preso i voti che ho preso per lasciare il futuro del Paese nelle mani di Mineo». Linguaggio da basso mercato. Anzitutto i voti non li ha presi lui. A certi livelli la forma è sostanza. In Italia si è votato per il Parlamento Europeo e non per Matteo Renzi; in secondo luogo il futuro del Paese è del Paese, non solo suo. Un vero leader democratico, come l’inglese Cameron, a proposito del voto europeo, ha scritto che chi ha votato alle Europee «lo ha fatto per scegliere il proprio parlamentare europeo» non altro (Corsera, 13 giugno 2014). E va bene che lo ha detto in polemica con chi avrebbe già scelto il nuovo Presidente europeo in difformità dai trattati; ma il concetto è valido in sé. Sembra ovvio, ma qualcuno dovrebbe ricordarlo a Renzi. Se si lascia passare l’idea che il 25 maggio il popolo italiano ha votato per lui e non per eleggere il proprio rappresentante al Parlamento Europeo, allora veramente l’Italia non riuscirà mai a diventare un paese moderno e serio. Ci sarebbe da chiedersi dove sia andata a finire quella coscienza democratica che ha caratterizzato il ventennio berlusconiano, che aveva nei girotondi, in MicroMega, nella magistratura, nella Costituzione, in tanta stampa democratica, la rappresentazione di una battaglia che poteva sembrare eccessiva nei modi ma sicuramente nobile nei fini. Purtroppo di tutto questo, mentre la neve si scioglie, non si vede traccia; invece spuntano dai contorni sempre più chiari e vivaci le cacche dopo il passaggio di una gran mandria di pecore.


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Spagine della domenica n°33 - 15 giugno 2014 - anno 2 n.0

Corsivo

Lavoriamo per il turista

Dobbiamo destagionalizzare il turismo”. “Il Salento è tutto bello, non ci sono solo Gallipoli e Otranto”. “I nostri centri storici sono meravigliosi e da visitare”. “Lavoriamo perché il turista venga in Salento, usufruisca del nostro stupendo mare e la sera magari vada un po’ nell’entroterra per riposare nella quiete dei paesini immersi nel verde e circondati da uliveti secolari”. Sono solo alcune frasi che sento ripetutamente come un mantra in ogni luogo del Salento leccese. Badate, tutto assolutamente condivisibile, il mare limpido che si sposa a centri storici pieni di cose da dire e da offrire. Girovagando fra alcuni di questi paesi tuttavia ci si imbatte in situazioni che ti fanno dire come lo slogan dovrebbe essere: “Caro turista, vieni da noi, spendi, in cambio ti diamo un bel calcio nel denti”… Tralasciamo il fatto che se uno arriva a Lecce la domenica in treno non ha alcuna possibilità di raggiungere il capo in tempi decenti, i treni della Sud Est la domenica stanno fermi. Non si sogni poi, il turista, di arrivare la domenica di Pasqua verso le 13.

I bus urbani sono fermi perché è Pasqua, i treni non esistono, i Taxi non ci sono perché “sono tutti a pranzo, è Pasqua!” (E’ successo veramente la domenica di Pasqua di tre nni fa). I più audaci arrivano in auto, poi subito a passeggio per le vie del centro storico vanno a vedere l’anfiteatro nella centrale Piazza Bianca (già sant’Oronzo), cercando spazio tra pagodine di moplen e leccornie d’ogni fatta… ecco voilà: la storia si palesa. Fatta indigestione di barocco, vanno verso il capo ed iniziano a girare per vedere questi famosi centri storici. A Poggiardo, la Chiesa Matrice di San Salvatore, con facciata del XVIII secolo, si trova in una piazzetta, la targa in ceramica dice, come ovvio, storicamente giusto, “Piazza della Chiesa”. Pochi metri dopo un’altra targa in bianca plastica che fa a pugni con il contesto dice “Piazza Papa Giovanni Paolo II°”. Delle due una, o si mantiene una toponomastica che ha un senso o la si stravolge. Senza nulla togliere al Papa Santo Subito, almeno gli amministratori non confondano le idee ai turisti. Ma questo è, per rimanere in ambito reli-

gioso, un peccatuccio veniale. Se andiamo a Casarano, in un centro storico dignitoso, ci sono due palazzi con facciate meravigliose, Palazzo d’Elia e Palazzo de Judicibus. E’ pur vero che sono in stato di abbandono e quasi degrado, ed è vero che la proprietà (l’amministrazione comunale) probabilmente non ha quattrini per recuperarli, e qui si dovrebbe aprire un discorso con i ministri ad hoc. Per fortuna Tremonti ha tolto il disturbo, per lui la cultura non si mangia (anche se è una sonora idiozia). Però pare che il comune di Casarano sia veramente, come si dice in gergo popolare, con le pezze al culo. Se non ha i soldi neppure per comprare un flacone di vetril (o simili anche sottomarche che costano meno) e mandare qualcuno a pulire le targhe che raccontano la storia del palazzo una letteralmente ricoperta da escrementi di colombi, l’altra illeggibile, sarebbe, quanto meno da commissariare. A meno che, dicono i maligni, anche qui non amino prendere a calci nei denti i turisti. Cosa che pare quasi più credibile. di Gianni Ferraris

in Agenda Sabato 21 giugno alla Feltrinelli la presentazione della nuova edizione

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Viaggio a Finibusterrae na nuova edizione ampliata per Viaggio a Finibusterrae. Il Salento fra passioni e confini di Antonio Errico che diventa una guida d’autore per Lecce Capitale della Cultura 2019. Un viaggio suggestivo e poetico, un reportage letterario e culturale dei luoghi più belli del Salento che sono luoghi dell’anima, paesaggi interiori e anche chiese, vicoletti, storie di genti. Il libro sarà presentato sabato 21 giugno, alle 18.30 alla libreria Feltrinelli di Via Templari. Con l’autore interviene Massimo Bray. Lecce. Città dove la pietra lievita, si solleva verso il cielo quasi svaporasse, si fa modulazione di decorazioni, immagine armoniosa di volute, slittamento ondoso delle prospettive, nuvolaglia di decorazioni. Poi Otranto. Il silenzio che allaga le strade,

si rapprende nell’aria, ammutolisce il vociare, si attacca alla pelle come lo scirocco, si apposta in ogni angolo come un’ombra, acquieta i tumulti del pensiero, è velo sugli affanni di ogni giorno. Poi Castro. Che ha tempeste luminose quando albeggia, bonacce quando comincia ad imbrunire, gorghi di luce alla metà del giorno: mulinelli, vortici che accerchiano la mente, che disorientano, fanno vacillare. Poi la malinconia di Santa Cesarea; e diventa tristezza, se non si ha un amore. Poi Gallipoli, le sue chiese. Una dopo l’altra. Una accanto all’altra. Come per fermare il vento, o almeno disorientarlo, ingannarlo, per farlo sfrenare lungo i bastioni, fino a sfiancarsi, a dissolversi, senza entrare rapinoso nei vichi, senza rovesciarsi sul mare. Poi i poeti, le piazze, i fari...


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Contemporanea

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e migrazioni dei popoli, specialmente in quest’era funestata da guerre, persecuzioni, prevaricazioni, avvengono quotidianamente. L’Italia è terra di confine e d’approdo. In questi giorni, il sottosegretario all’Interno Nicola Manzione ha reso noto che nel giro di qualche settimana al massimo si potrà estendere ai figli dei rifugiati lo “ius soli” ( il diritto di cittadinanza per il fatto di essere nati sul nostro suolo). “Pochi giorni. Giusto il tempo di mettere a punto la circolare. E poi anche i bambini degli asilanti, arrivati magari nella pancia della mamma o nati in Italia successivamente all’arrivo dei genitori potranno avere la cittadinanza italiana”, ha sostenuto il sottosegretario. Un provvedimento al momento ancora di portata ridotta, ma che potrebbe essere l’inizio d’un progetto più ampio. Il nostro Paese durante il semestre di presidenza in Europa potrà più incisivamente farsi sentire, cercare di coinvolgere maggiormente chi finora è stato latitante, totalmente assente sulle politiche immigratorie.

Spagine della domenica n°33 - 15 giugno 2014 - anno 2 n.0

Questa terra

è la mia terra

di Marcello Buttazzo

Sarà utopico sperare di costruire un mondo nuovo, più aperto, più solidale? È legittimo attendere di edificare l’Europa dei popoli e non quella vorace delle banche?

Il ministro degli Esteri Federica Mogherini è puntuale nella sua analisi: “Dobbiamo lavorare sulla prevenzione e sulla gestione dei conflitti”. Noi occidentali dovremmo mutare strategie d’approccio con i Paesi a sud del mondo, guardare ad essi con una visione più umana e lungimirante, vederli non solo come serbatoi inesauribili e ricettacoli terminali di risorse naturali e materie prime da depredare con mano rapinosa, ma come terre sacre da rispettare. E più di tutto dovremmo saper costruire ponti di comunicazione e conoscenza: fondamenti vividi per una convivenza pacifica. Per intanto, i flussi delle genti diverse dovranno essere disciplinati, comprensivamente e morbidamente.

Da noi, la possibilità di cominciare a discutere e d’introdurre in qualche modo lo “ius soli”, ventilata dal governo e da una parte cospicua della classe parlamentare, è stata prontamente bocciata dagli intransigenti leghisti: “Alfano smentisca o si dimetta: la cittadinanza non è un regalo, ma una cosa seria. Renzi, come un novello Re Sole, pretende di cambiare uno status con una circolare”. È vero, alcuni pronunciamento d’un certo riguardo necessitano diversi passaggi parlamentari, un esame attento e accurato. Ma i politici del Carroccio non brillano certo per concezioni antropologiche credibili. L’ex ministro all’Interno Maroni, artefice della politica dei respingimenti in mare e uno degli ispiratori del reato di clandestinità, anni fa, strinse accordi bilaterali con il dittatore Gheddafi. E la Libia non aveva sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Da tempo, c’è chi avanza l’eventualità di prendere in considerazione lo “ius soli” per migliaia di migranti. I cori stonati dei leghisti parasecessionisti sono stridenti e sempre gli stessi: “La cittadinanza non si può acquisire solo per il fatto di essere nati in Italia”. Si potrebbe obiettare ai Salvini, ai Bossi, ai Borghezio, ai Maroni, e agli altri eminenti statisti del Carroccio, che chi nasce sul nostro suolo, indipendentemente dal gruppo etnico di appartenenza, è nei fatti uno di noi, perché porta addosso sulla pelle, insieme ai suoi tipici caratteri somatometrici, anche una nuova acquisita italica memo-

Igiaba Scego e la copertina del suo libro

ria. Un figlio di migranti, nato da noi, è italiano a pieno titolo, perché respira il nostro stesso cielo, calpesta gli stessi selciati. In generale, gli immigrati incrementano l’economia nostrana, sono rispettosi delle leggi dello Stato e della Costituzione, lavorano e pagano le tasse. Perché tante ritrosie a concedere ai loro figli uno status normalissimo?

Una giovane scrittrice italiana di origine somala Igiaba Scego si è sempre interrogata: “L’Italia è di chi nasce, di chi la ama o di chi fortuitamente si è ritrovato con una goccia di sangue italiano nelle vene?”.

I gruppi umani sono da sempre in movimento, in cammino. Chi difende anacronisticamente la supposta “superiorità” dei gruppi etnici autoctoni mostra una cultura sconcertante, ristretta, provinciale. Secondo le acquisizioni della biologia delle popolazioni, la nostra civiltà si è sostanziata e rafforzata in seguito agli inarrestabili flussi, ai continui spostamenti. La politica, purtroppo, non sempre è meritocratica. Talvolta premia i mediocri, relegando ai margini chi avrebbe ancora molto da dire e da dare. Nel maggio 2010, quando impazzava la furia leghista e la vulgata antropologica contropro-

ducente e securitaria del centrodestra, Gianfranco Fini in controtendenza annunciava di aver pronta una proposta di legge sulla cittadinanza breve. L’ex presidente della Camera non fa più politica attiva; in compenso, i Salvini, i Bossi, ealtri modesti epigoni vari, s’aggirano con il piglio insopportabile dei “vincenti” nei palazzi del potere. In questi anni, la Lega Nord s’è opposta in tutti i modi allo “ius soli”e ad altro, ammannendoci al contempo una povera filosofia razzistica e xenofoba dal fiato corto. Anni fa, il Caroccio, quando “impreziosiva” il governo Berlusconi, con un emendamento al decreto legge sugli incentivi propose d’introdurre un test di italiano per gli immigrati che volevano aprire un negozio. La Lega chiese anche che venissero vietate le insegne multietniche dei locali, per far posto ai dialetti. Rappresentanti delle istituzioni non dovrebbero mai alimentare alcuna forma di pregiudizio, non dovrebbero mai soffiare sul fuoco del differenzialismo. Da cittadini, possiamo dire che, in un Paese multietnico e multiculturale come il nostro, si dovrebbe comunque favorire la coesione e l’interazione. I nuovi diritti di cittadinanza sono una insopprimibile necessità. Dovremmo sempre rapportarci agli immigrati con le dovute aperture, con animo sereno, con la consapevolezza di far parte tutti assieme d’una vasta comunità di individui.


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ella ricerca delle utopie possibili della vita sociale delle culture accessibili, nell’esigenza della definizione di una nuova grammatica di come interpretare il tempo e abitare lo spazio, la Danza nel braille di Toni Canderolo vuole essere un tentativo di modello di come pensiamo di prefigurare la solciapoliseutopia di Lecce 2019, nella sua candidatura a Capitale della Cultura europea. L’Istituto Anna Antonacci, già nel 1930, aveva un importante biblioteca braille, tra le prime in Italia, per lo studio dei non vedenti. Oggi, la biblioteca mantiene valido il suo ruolo culturale e si impone come museo speciale del libro braille, nei suoi scaffali, tra le tante opere anche una ricca collezione che riguarda i repertori della musica sinfonica e della musica lirica; perfettamente conservati, volumi scritti manualmente con ol “punteruolo”, quando il braille era fatica e la tecnologia speciale del libro braille doveva ancora cominciare la grande rivoluzione culturale nello studio dei non vedenti. Un museo particolare perché il codice braille è speciale: leggere con le mani è come mettere il corpo nelle parole, sentirle e non avere bisogno per la comprensione della mente. Anche la danza è il linguaggio del corpo che racconta lo spazio e riempie il silenzio. La danza vive di spazio e mette nel tempo il corpo come racconto di emozioni vissute sentite percepite sognate desiderate cercate aperte alla vita. Nei libri il racconto della vita conservato per il progetto di sperare di reinventare “eutopia”. Nella danza il piacere di scoprire il corpo come bellezza di vita, come esperienza di armonia nel rapporto corpo mente nel sogno verso il desiderio del diritto all’amore e quindi del trionfo della diversità come ricchezza di rapporti di una vita plurale nelle emozioni. La danza è arte sincera del corpo esercizio di liberazione del profondo: specchio dell’inconscio oltre le parole, dentro le immagini. Arte della vita e per la vita: la possono fare tutti, sempre, in ogni stagione dell’esistenza. La danza nel braille vuole essere un “segno”, un percorso di diritto alla vita sociale di sentirsi affermato nei propri bisogni nella relazione tra e con gli altri.

La danza nel braille vuole raccontare il corpo nel pensiero e cercare nell’unità corpo mente la leva per superare le barriere e i pregiudizi che sono le prigioni sociali della città costruita per corpi separati. La danza di Toni Canderolo, tra libri braille della biblioteca dell’Istituto Antonacci può essere un momento di riflessione su quella città delle eutopie che vogliamo proporre per il titolo di Capitale della Cultura europea nel 2019. La cultura vive quando riesce a parlare di tutti: è una scommessa che dobbiamo e possiamo tentare di fare. Con questa breve riflessione auspico un incontro, si potrebbe svolgere, preparandolo bene, tra settembre ottobre, coinvolgendo la Compagnia di Toni Candeloro, l’Università del Salento, l’Accademia di Belle Arti e le associazioni culturali interessate.

Lecce 2019

Spagine della domenica n°33 - 15 giugno 2014 - anno 2 n.0

La danza nella biblioteca/museo della scrittura braille, all’Istituto Antonacci di Lecce che nel suo catalogo conserva le opere del repertorio musicale sinfonico e lirico

La danza nel braille

di Luigi Mangia

Toni Candeloro


spagine Tracce di parole per i quattro giorni di Cibi che fanno comunità a Borgagne per Borgo in festa 2014

Di pozzi, di fuochi e di identità C

'è un pozzo chiamato identità ad aprire il territorio di Cibi che fanno comunità. È acqua necessaria quella del pozzo dell'identità. Ed è necessariamente selezione, l'identità. È geografia necessaria. Parola necessaria. Paesaggio necessario. Risposta necessaria: nel fluire delle possibilità dell'esistenza, essere umani vuol dire sceglierne alcune e scartarne altre. Forse anche essere animale, vegetale, minerale, spirituale è selezione necessaria. Forse essere ed esistere è selezione identitaria. Forse. Necessario ma non sufficiente. L'identità umanamente necessaria se non incalzata dai boschi o dai mari rischia di nutrire arroccamento e isolamento. Di avvelenare i pozzi. Un antidoto solo conosce il veleno dell'arroccamento: nomadismo e vicinanza. L'avvicinarsi di quattro pozzi ha aperto quest'anno lo spazio che abbiamo abitato con convivialità a Borgagne. Accostare le identità, accostare quei necessari sistemi di selezione e particolarizzazione, ha reso manifesto il comune, il pubblico e l'altro. Senza maiuscole. E dopo il vino del saluto, ogni identità è rimasta tale, non si è dissolta nel relativo, ma ha fatto esperienza, ha avuto l'occasione di abitare attraverso la condivisione dell'acqua dei pozzi altrui, le possibilità che necessariamente, per essere quel tipo di umani, ha dovuto escludere. Non si è dissolta ma si è sicuramente fatta più tollerante, più ospitante. Più curiosa. Piu usa alla domanda. Al domandarsi ad esempio perché chiamare da Sannicola qualcuno a cucinare fave e cicorie. Come se intorno al pozzo di Borgagne non si fosse abbastanza bravi a cucinarle. Ma fave e cicorie ci ha raccontato che non è questione di ricette. Fave e cicorie è stato un fuoco intorno a cui ci siamo seduti con i ragazzi di Sannicola. E

di Simone Biso

ci siamo raccontati il loro viaggio. La riformulazione di una identità. Si può essere agricoltori della crisi e sarchiatori di futuro. Si può condividere una domanda e comunitariamente organizzare una risposta aperta. Si può scegliere come produrre le fave e come produrre le cicorie. Si può generare una identità dalla crisi che attraverso la rigenerazione della terra, la salvaguardia dei semi, l'abbandono della chimica, il rispetto del lavoro, generi nuovi stili di vita. Moderne cosmologie. Altri modi di essere comunità. Mutate identità. Trasformate crisi. Fave e cicoria nelle mani dei ragazzi di Spazi popolari di Sannicola ha reso nutrimento, cibo, una scelta di fiducia e ottimismo. Per questo abbiamo chiamato da Sannicola persone a prepare fave e cicoria: il cibo fa comunità non solamente sotto l'identita della ricetta.

E domandarsi perché chiamare qualcuno da Carpino per maneggiare latte e farlo diventare caciocavallo, podolico. Come se vicino al pozzo di Borgagne non ci fossero mani sufficientemente esperte. Ma il caciocavallo, e i legumi che lo hanno accompagnato, ci hanno raccontato che non è solo questione di manualità o di prodotto tipico. Il caciocavallo podolico è stato un fuoco intorno a cui ci siamo seduti con gli spiriti transumanti di Carpino e ci siamo cantati il loro viaggio. La rigenerazione di una dignità. Riconoscere che è stato un errore, una scelta vincolante non solo per noi, far coincidere lo studio, la scuola, l'istruzione, la cultura, la sapienza con il riscatto dalla terra. E scegliere per una scuola che riparta dalla dignità della terra. Per un'istruzione, una sapienza che sia il riscatto della terra. Che è dalla terra e dalle mani e dalle voci che la lavorano che germina la relazione di dignità. Senza offrire il fianco ad una poesia bucolica annacquata in una cittadina apologia della terra: la terra era e rimane bassa anche dopo aver rigenerato dignità. Che c'è dignità


La riflessione

Spagine della domenica n°33 - 15 giugno 2014 - anno 2 n.0

nell'essere pastori, nel profumare di pascolo. Dignità per la parola che fa comunicare con l'anarchica vacca podolica: Briòòòòòòòòò; iptaaaaaaaaaa. Parole di un tentativo di dialogo mai interrotto tra umanità e natura. Dignità di una identità rimasta cocciutamente ad abitare il territorio aperto dell'esistere in relazione ad un mondo. Coraggio nel sedersi intorno al fuoco dei dubbi dell'esserci e dialogare irrimediabilmente con le scintille che da questo zampillano. Costruendone un linguaggio. Il caciocavallo, podolico, nelle mani degli spiriti transumanti di Carpino, ha reso nutrimento, cibo, una scelta di dignità e onesto dialogo. Per questo abbiamo chiamato da Carpino persone a prepare legumi e formaggi: il cibo fa comunità non solamente sotto l'identita del prodotto tipico o della manualità.

E non domandarsi perché chiamare qualcuno dalla Palestina per cucinare il Maftul. È evidente che intorno al pozzo di Borgagne non ci sono fornelli e tradizioni in grado di cucinarlo. Ma il Maftul, ci ha raccontato che non è solo questione di diversità o tradizione Il Maftul è stato un fuoco intorno a cui ci siamo seduti con gli amici palestinesi e ci siamo assaporati il loro viaggio. La riproposizione di una comunanza. Lo stupore è nato in bocca, al di là degli occhi. Fuori dalle parole. Dentro la costatazione di un sapore familiare in un piatto sconosciuto. E la manifestazione di questo stupore a dissolvere 4779 chilometri di strade. E la nascita del racconto di un mare. Un mare che non trovava confini. Un mare su cui veleggiava scambio comunitario. Un mare che come un grande pentolone diffondeva sapori. Persone che liberamente conoscevano, tornavano e ripartivano. Trame di viaggi che disegnavano una delle civiltà più tolleranti della storia umana. Un mare piazza. In cui si diffondeva una comunanza di odori, di sapori, di rispetto. E poi il racconto del sor-

gere di muri. Di clandestinità. Di navi che disegnano frontiere nel mare. Di territori occupati. Di popolazioni cacciate e persone ricacciate. Di una comunanza oscurata da retoriche della paura. La storia di una piazza oramai deserta presidiata dai bravi della paura. Il Maftul nelle mani della comunità palestinese ha reso nutrimento, cibo, la storia di un mare fattosi piazza e di muri abbattutti da bambine con i palloncini. Per questo abbiamo chiamato dalla Palestina persone a prepare Maftul: il cibo fa comunità non solamente sotto l'identita della differenza e della tradizione

Ed infine assaporare con Borgagne che l'alternativa non è tra comunità locale e comunità globale. L'alternativa non è tra rete di solidarietà e maggiori possibilità di crescita. L'alternativa non è una alternativa. Condividere che vicinanza e nomadismo sono fili che disegnano trame tra rete di solidarietà e possibilità di crescita. L'accoglienza nelle mani della comunità di Borgagne ha reso nutrimento, cibo, l'essere borgo. Per questo abbiamo deciso di accogliere comunità a Borgagne: il cibo fa comunità non solamente per manifestare identità.

Aver avuto la fortuna di vivere e passeggiare da nomade tra i quattro pozzi di Cibi che fanno comunità mi ha mostrato che non si è destinati ad un identitarismo solitario e arroccato. Non si è soli davanti alle possibilità che l'esistere oggi propone. Nè come individui né come comunità. Si è molti e si è in viaggio abitando i territori aperti tra un pozzo e l'altro. Si è in molti intorno ai fuochi la sera. Molti e umani. Si è umani, strordinariamente umani.

Con sapore, Biso

Sopra l’immagine di Cibi che fanno comunità e sotto il manifesto dell’edizione 2014 di Borgo in festa entrambi curati da Valentina Sansò


Autori

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Spagine della domenica n°33 - 15 giugno 2014 - anno 2 n.0

Ascoltando Ura di Redi Hasa e Maria Mazzotta il ricordo dei comizi con la chitarra di Rosa Balistreri

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La voce politica

traordinaria accoglienza al Fondo Verri per il duo Maria Mazzotta Redi Hasa, con il loro progetto d’esordio “Ura”, presentato giovedì 5 giugno nella gremita saletta di via Santa Maria del Paradiso a Lecce. “Ura” - significa “ponte” in albanese e “adesso” in salentino - porta alla luce i legami possibili tra i repertori che navigano attraverso l’Adriatico unendo i Balcani e i Carpazi con le regioni del Sud dell’Italia. La voce di Maria Mazzotta si muove leggera e ricca di mille sfumature tra le lingue musicali delle due sponde mentre le note di Redi Hasa propongono, ogni volta, una e mille soluzioni possibili alle melodie tradizionali. *** Nel corso del concerto Maria Mazzotta ha interpretato, con voce leggera e ricca di sfumature, un bellissimo brano di Rosa Balistreri: Cu ti lu dissi. Possente, altera e tragica si alzava un tempo la voce di Rosa Balistreri (Licata 1927 – Palermo 1990), cantante e cantastorie siciliana. Cu ti lu dissi racchiude un inno al dolore, alla sofferenza; soffocato dalla rabbia di non aver vissuto in un mondo migliore. Acuto e grave il grido si sprigionava nell’aere della terra natia: la sua Sicilia, coprendola di lacrime e amore. Serbare il ricordo dell’affranta donna io desidero; trasmettere il suo grido disperato mantenuto con forza e tenacia, con impeto struggente. Pasionaria entusiasta e combattente, nonostante le avverse vicissitudini della vita. Donna d’altri tempi, riusciva ad incanalare la sua passione nei cuori e nelle menti dell’altrui gente. Dolce e sottile da giovane, ardua e severa da grande, Rosa – la voce della Sicilia – deflagrava l’aria; il suo urlo si spingeva nel continente, doloroso e immenso. Linfa vitale sprigionata e trasportata dai venti. Abbiamo l’obbligo e il dovere di ricordarla sempre, com’ella desiderava in Quannu moru, “per non sentirci soli” diceva; perché non voleva lasciarci soli, soli dentro un fosso. E le sue canzoni voleva che cantassimo agli altri, perché non voleva morire senza voci che la seguivano dopo. Immensa Rosa, dedicava la sua vita e il suo amore agli altri, si offriva, si apriva. Forse, solo chi ha provato tanto dolore si prostra e si dona in candido modo a tutti quanti. In Mi votu e mi rivotu sospirava le notti insonni, riflettendo fino all’alba; pativa in silenzio, fino all’ultimo giorno. In Mafia e Parrini cantava la povertà della mafia: uno alza la croce, l’altro punta e spara; Mafia e Parrini si danno la mano; la Sicilia invece invoca gloria. In Acidduzzu la sottile metafora del cardellino di suo marito. Ne Buttana di to mà un rauco grido lacera il ventre della Sicilia. Nella Virrinedda loda la giovane bellezza che si specchia nel mare, meritandosi una corona. Nei Proverbi siciliani una mitica carrellata di famosi detti di antico sapore ed arcano sapere. In Cantu e cuntu fa scorrere la vita, senza

di Antonio Zoretti

Rosa Balistreri

Maria Mazzotta e Redi Hasa e sotto la copertina di URA

perdere il conto, conscia che né pianto né gioia, né coraggio né paura ferma la vita. Ne La voce mia Rosa cantava la voce, come esibizione e dono, aggressione, conquista e speranza di consumazione dell’altro; veicolo di se stessa, emigrava dalla sua interiorità ad un’altra con una dolce penetrazione, reiterando la propria natura organica; forza germinativa che non cessava mai di essere rappresentata. In Addio beddha Sicilia confessa la sua terra, piena di ricchezze ma anche di tanta debolezza; dove c’è tanta brava gente, ma più carogne e fame. In Vitti na beddha elogia la bellezza, affacciata alla finestra. Ne Ninna nanna siciliana una struggente nenia alla figlia che piangeva. In Pirati a Palermo il ricordo del pianto all’arrivo dei pirati che rubarono pure il sole, lasciando la Sicilia al buio. Corri cavaddhu miu è una ballata, quasi da colonna sonora per un film. O cori di stu cori è una preghiera all’amante, affinché non l’abbandoni. Aciduzzu è la metafora del maschio in amor. In Si maritau Rosa si sospira l’amore in primavera. Ecc. ecc. ecc. “Si può fare politica e protestare in mille modi, io canto” diceva Rosa Balistreri; “ma non sono una cantante… sono diversa, diciamo che sono un’attivista che fa comizi con la chitarra”. E le ragioni per protestare non le mancavano di certo, poiché la vita non le aveva sorriso. Ma nonostante tutto aveva sempre combattuto e lottato, anche nelle condizioni più avverse. Oggi figure così non si vedono neanche con il lanternino, purtroppo; affiora solo qualche ebete forchettone o disappunti vaghi di inutili movimenti populistici. In questo sciocco e sciancato Duemila siamo proprio circondati da una massa beota, ma paradossalmente intraprendente, atta solo a provocare danni. Non ci resta quindi che riprendere le grandi figure del passato, per fronteggiare il presente e incamminarci nel futuro. Tanto onore e cappello dunque alla signora Rosa Balistreri, e alla sua immensa voce. Ella, dal pulpito disperato diffondeva l’afflizione che l’attraversava, e ci rendeva partecipi del suo dolore. Avvolta dal patos della voce, con l’armonia sonora riempiva i suoi racconti. Lei ha insistito fino alla morte con i suoi versi, con le sue strofe, concentrandosi sulla potenza timbrica delle sue corde vocali. Struggente! Copiosa, rispettabile e coraggiosa, frastornata ma mai doma. Ella ci faceva piangere, e non ci raccontava certo storielle inutili o confacenti, ma verità crude e dissipate. Nonostante la guardiamo dopo tanto tempo, siamo costretti a inchinarci al suo cospetto. Quando si mostrava sui palchi era onorata dalle folle che l’acclamavano a lungo, e partecipavano alla sua dolorosa vita a cui era pervenuta, e sentivano lo stesso sconcerto che prima pareva non sentissero. Brava, brava, la nostra brava donna. Bene. Anche questo è fare politica. Ogni azione o manifestazione umana è politica, anche nella derisione o nel ludibrio. Avanti tutta, allora.


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on credo possa dirsi diversamente se non felicità mentale lo stato di chi, sfogliando una edizione critica, assiste al farsi di un capolavoro assoluto come I Malavoglia attraverso schemi, abbozzi, piani di lavoro, frammenti, cataloghi di proverbi e, infine, attraverso correzioni e varianti. Lo stato degli scartafacci e dei manoscritti verghiani è molto precario e in continuo divenire. Molte delle carte del grande scrittore siciliano sono disperse, parte dei manoscritti è incompleta e amputata, presente solo sotto forma di microfilm o in mano a privati; cosa, questa, da non biasimare in sé, se non quando il possesso privato diventa occultamento o esagerata speculazione economica - o almeno questa era la tesi di Contini, espressa in un rabdomantico saggio sulla filologia proustiana. È del 2013, tra l'altro, un consistente sequestro di carte verghiane effettuato dai carabinieri, che stavano per essere vendute all’asta a Pavia (è stato ritrovato, fra le altre cose, anche l’autografo del primo romanzo del sedicenne Verga), e si aggiungano al corpus degli scritti le ulteriori acquisizioni di lettere ai familiari, gran parte inedite, pubblicate nel 2011 da Giuseppe Savoca e Antonio Di Silvestro dell’Università di Catania.

Ricerca L’edizione critica de I Malavoglia a cura di Ferruccio Cecco da Interlinea Spagine della domenica n°33 - 15 giugno 2014 - anno 2 n.0

Dentro il romanzo

di Sebastiano Leotta*

Ferruccio Cecco ha riproposto e perfezionato ora, per Interlinea, l’edizione critica dei Malavoglia, dopo l’edizione pubblicata dal Polifilo nel 1995, mostrando con il materiale a disposizione la storia interna del romanzo – a partire da quella cellula in espansione che saranno i primi abbozzi del Padron ‘Ntoni del 1874. Una storia che non è solo interna: non si comprenderebbero i Malavoglia, infatti, senza il turning point del 1877-78, costituito da testi come Fantasticheria, dalle novelle di Vita dei campi, ma anche dalla lettura decisiva dell’Assommoir di Zola. Per Cecco l’editio princeps edita da Treves nel 1881 rimane quella di riferimento, anche se confrontata e corretta sull’autografo dei Malavoglia – il manoscritto A – per i molti refusi presenti; la prima edizione Treves registrerà inoltre cospicue correzioni e aggiunte d’autore effettuate sulle bozze di stampa che, come è noto, mancano alla storia filologica dei Malavoglia (si ricordi, per esempio, l’importantissima aggiunta della sequenza finale della partenza di ‘Ntoni, assente nel manoscritto A).

Cecco ha lavorato su due livelli per la sua edizione critica: da un lato, infatti, ricostruisce in fondo al volume il materiale genetico del gran romanzo; dall’altro, in calce al testo, riporta l’apparato delle varianti ma anche la segnalazione e le correzioni dei refusi che comparvero nell’edizione Treves. Storia interessante, questa. Dei Malavoglia Treves fece poi altre edizioni, e in quella del 1907 non molto seguita da Verga, corresse i refusi residui dell’edizione del 1881 ma altri se ne aggiunsero. Ma, cosa ben più importante, in questa edizione normalizzò, in maniera assolutamente impropria, l’interpunzione del romanzo. L'editore cercava in questo modo di mettere la sordina alla inaudita sintassi verghiana, che si fondava sulla transizione senza segnaletica, o comunque minima, tra discorso indiretto libero e discorso diretto. Risultava così compromessa e meno leggibile una scelta stilistica precisa di Verga, necessaria per raggiungere quegli effetti di concertato che, senza l’ingombro di un narratore esterno, meglio potevano rappresentare quell’universo di voci, di chiacchiere e di commenti che costituivano la comunità di Acitrezza, quasi l'autore intendesse procedere per agglomerati verbali senza soluzione di continuità. La lezione filologica dovrà allora ricostituire il testo conforme alle intenzioni dell’autore e, allo stesso tempo, seguire sia il divenire della scrittura, come l’approssimazione alla resa di impersonalità verista, sia quello ideologico dello scrittore nelle oscillazioni di prospettiva e nelle soluzioni finali raggiunte. Cecco, infatti, ci mostra come lo sviluppo dei Malavoglia an-

dasse nella direzione innovatrice, e irripetibile, di dare voce ai personaggi, lasciandoli parlare senza mediazioni visibili: dall’interno del loro orizzonte, potremmo dire. Una correzione emblematica, per esempio, è la seguente: nel primo capitolo del manoscritto A, i piedi grandi di ‘Ntoni sono paragonati al "David di Michelangelo" ma, nell’edizione 1881, i piedi sono grandi come "pale di ficodindia". Il paragone con il David scompare perché sentito come troppo letterario e troppo colto in bocca ai pescatori di Trezza e al narratore anonimo e popolare che raccorda le loro vicende. Ma potremmo anche seguire le vicende onomastiche del romanzo: nel caso del cognome della famiglia protagonista si passa dal corrivo "Pappafave" a "Toscano", e soprattutto è splendida la trouvaille finale del nomignolo "Malavoglia".

Si assiste in Verga a un processo di erosione del proprio punto di vista di letterato borghese in favore di un'immersione nella cultura e nell’antropologia di una comunità siciliana e di una povera famiglia di pescatori. Verga non scopre la “plebe”, piuttosto cerca di darle una lingua non mistificata, mediata solo dallo stile della scrittura. Una sorta di italiano parlato, che

Giovanni Verga, autoritratto

1887

non voleva scadere nella marginalità dialettale ma che intendeva conservarne, tuttavia, il ritmo profondo, l’ossatura segreta, una sorta di eco radioattiva rilasciata in una sintassi memorabile e artificiale. Si trattava di restituire quelle genti con i loro caratteri propri; in fondo, era quasi averli di fronte, messivi faccia a faccia, senza nessuna presentazione, come Verga scriverà a Capuana. E qualche decennio più tardi il socialista Pelizza da Volpedo ci presenterà come fossero vivi e di fronte a noi i braccianti de Il Quarto Stato, con un gesto analogo anche se certo in una prospettiva opposta a quella dei Malavoglia. Il romanzo verghiano è il primo romanzo che inaugura una demistificazione della mitologia risorgimentale. A un certo punto la somma di catastrofi che colpiscono l’universo arcaico e preindustriale dei Malavoglia, per quanto tutte storicamente plausibili, si fa soffocante e senza uscita, e sembra che le parole più adeguate per nominare l’ingiustizia necessaria della storia e della "fiumana del progresso" (prefazione ai Malavoglia) siano quelle di fato e destino. Giovanni Verga, I Malavoglia, edizione critica a cura di Ferruccio Cecco, Interlinea, Novara 2014 *http://www.unipd.it/ilbo/content/i-manoscritti-ritrovati-di-verga


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Lo scorso martedì 11 giugno, in contemporanea in tutte le librerie indipendenti d’Italia a Lecce da Icaro Bookstore per la voce di Gianni Minerva la lettura di Un certo Lucas di Julio Cortázar con la traduzione di Ilide Carmignani per Sur Edizioni

Un certo Lucas prosegue il percorso iniziato da Cortázar con Storie di cronopios e di famas, con cui ha trasformato la letteratura in un mondo ludico e dissacrante Non è una raccolta di racconti, non è un romanzo né un’opera di saggistica Pubblicato per la prima volta nella sua versione integrale Un certo Lucas è piuttosto una collezione di bozzetti, di micronarrazioni l’itinerario nel quotidiano di una personalità unica Che racconti un ristorante su rotaie, un ricovero in ospedale o la fine di una storia d’amore la prosa di Un certo Lucas è giocosa e ironica un vero e proprio antidoto contro magniloquenza e solennità

Cronopios o famas?

Cronopios e famas”. Chi sono questi personaggi inquietanti e bizzarri di Cortazar? Quelli che stanno nel libro giudicato da molti il suo capolavoro assoluto? Italo Calvino era uno che quando scriveva lo sapeva fare veramente. Allora lo faccio dire a lui. Sono tesi e antitesi, volo e cammino faticoso, sorriso e triste consapevolezza dell’oggi. E mentre scrivo invidio Calvino per come sa scrivere. E’ uno di quelli che quando l’hai letto ti tocca dire “ma perché non l’ho scritto io?” Però… a ciascuno il suo. Accontentiamoci del nostro orticello. «I cronopios e i famas, due geníe d'esseri che incarnano con movenze di balletto due opposte e complementari possibilità dell'essere, sono la creazione piú felice e assoluta di Cortázar. Dire che i cronopios sono l'intuizione, la poesia, il capovolgimento delle norme, e che i famas sono l'ordine, la razionalità, l'efficienza, sarebbe impoverire di molto, imprigionandole in definizioni teoriche, la ricchezza psicologica e l'autonomia morale del loro universo. Cronopios e famas possono essere definiti solo dall'insieme dei loro

di Gianni Ferraris

comportamenti. I famas sono quelli che imbalsamano ed etichettano i ricordi, che bevono la virtú a cucchiaiate col risultato di riconoscersi l'un l'altro carichi di vizi, che se hanno la tosse abbattono un eucalipto invece di comprare le pasticche Valda. I cronopios sono coloro che, se si lavano i denti alla finestra, spremono tutto il tubetto per veder volare al vento festoni di dentifricio rosa; se sono dirigenti della radio fanno tradurre tutte le trasmissioni in rumeno; se incontrano una tartaruga le disegnano una rondine sul guscio per darle l'illusione della velocità. Del resto, osservando bene, si vedrà che è una determinazione degna dei famas che i cronopios mettono nell'essere cronopios, e che nell'agire da famas i famas sono pervasi da una follia non meno stralunata di quella cronopiesca».Quando i cronopios cantano le loro canzoni preferite, il loro rapimento è tale che più d’una volta sono finiti sotto un camion o una bicicletta; cadono dalla finestra, perdono quel che avevano in tasca e persino il conto dei giorni. Meditazione del cronopio:

«È tardi, ma meno Tardi per me che per i famas, per i famas è cinque minuti più tardi, andranno a letto più tardi. Io ho un orologio con meno vita, meno casa E meno andarmene a letto Io sono un cronopio disgraziato e umido». “…Mentre beve il caffè al Richmond di Florida, bagna il cronopio il suo biscotto con le sue lacrime naturali...”.

Sentirsi cronopios o famas? Essere qui ed ora o vivere oggi svolazzando fra ieri e dopodomani? Vedere il mondo con gli occhi di uno di quelli che si dicono “pragmatici”, (quando sente quella parolaccia, un cronopio qualunque pensa ad una brutta malattia che cancella le emozioni) oppure vedere le cose chiudendo gli occhi, con la forza dei ricordi che addolciscono i colori e le emozioni? E’ vero, poi cammini ad occhi chiusi. E’ vero, sbatti contro l’albero che sta corteggiando spudoratamente il cespuglio lì vicino. E’ vero, è tutto vero. Però vuoi mettere la visione della realtà di-


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Nella pagina precedente un edizione Einaudi di Storie di cronopios e famas Sopra la copertina di Un certo Lucas e ad illustrare la pagina uno stencil dedicato a Julio Cortazar nelle strade di Buenos Aires

storta? Forse solo contorta. Forse meno irreale di quell’altra, quella fatta di numeri e caselle incasellate? E poi, alla fine, quando anche i famas scoprono che spesso, troppo spesso “il vero è inverosimile” quando scoprono, giusto per fare un esempio banale, che un paese esporta armi nei territori in cui manda guerrieri con armature e archibugi e dire che vanno a “fare la pace”? Ah il realismo dei famas…..

Salento… i salentini per grazia ricevuta o per casta non ne sono esenti, ovviamente. Anche qui cronopios e famas. Il maestrale può essere un fastidioso vento, oppure un’opportunità per vedere il cielo terso standosene, nelle notti d’inverno, in campagna a farsi congelare senza sentire freddo e guardare le stelle allungando la mano per toccarle una ad una. E riuscirci, e poi

appenderle sui rami di un fico e aspettare che arrivi Natale, accarezzare i capelli di lei che sogna il sogno di colorati palloncini volanti con attaccati bimbi che ridono…. Ah Cronopios. Oppure camminare in riva al mare vedendo sbarcare pirati e guardando nocchieri maestosi sulle loro navi. Forse vanno a scoprire continenti colmi d’oro e felicità. I famas invece… Loro stanno seduti sulla sdraio davanti allo stesso mare pensando che, in fondo, la felicità sta solo nelle canzoni ascoltate a San Remo. E sicuramente hanno la testa appesantita dal vino dopo averne bevuto mezzo bicchiere. Van Gogh che vendette un solo dipinto in vita era un cronopio o un fama? Non abbiamo dubbi. E i “pazzi” sciagurati che invece di pensare al guadagno scrivevano odi che nessuno leggeva? “Tempo perso…” diceva il fama più vicino a loro. Ma il tempo non si perde mai così, invano. Una

coda all’ufficio postale può essere eterna e crudele, ma può diventare leggera come l’aria mentre aspetti l’impiegata che ti chiami. E l’impiegata è spesso triste, raramente con un pacato sorriso, però ben vestita perché “sono a contatto con il pubblico”. E quando lo chiamano “il pubblico” il fama rivendica la sua intimità, il cronopio invece offre due petali di viola alla signora dietro il bancone, anche se lei non sorride. Ed è ancora più leggera l’attesa se immagini che i bollettini che ti trascini in mano siano aquiloni. Lo so, poi devi tornare con i piedi a terra. Ti tocca pagare. Però intanto hai scippato il tempo. Gli hai rubato la noia. Vuoi mettere la differenza? E cosa erano i briganti che facevano boccacce ai piemontesi tristi e cupi? Non ne ho idea…. Forse non voglio, semplicemente, parlarne.


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Mondo Reggae

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‘Nta sta ruga, secondo album di ‘Ntoni Montano

Reggae di Calabria D

di Alessandra Margiotta

opo l’uscita del suo secondo album “‘Nta sta ruga” l’artista calabrese ‘Ntoni Montano, all’anagrafe Antonello Pascuzzi, è in tour per presentare il suo nuovo lavoro discografico basato su salde radici reggae/roots ma con uno sguardo attento verso i ritmi della sua terra, la Calabria. Nell’intervista ‘Ntoni Montano racconta di sé mettendo in risalto le novità. Ciao ‘Ntoni Montano, sei al tuo secondo album ‘Nta Sta Ruga’, come è nato? “’Nta Sta Ruga” è un disco al quale ho dedicato due anni di lavoro. Molto più intimo e introspettivo rispetto al precedente “Right Mood”, per quest’occasione mi sono preso il lusso di prendermi del tempo per curare molto gli arrangiamenti e le tematiche. Anche la track list è stata concepita con un certo filo logico in modo che arrivi all’ascoltatore come una vera e propria storia da seguire tutta d’un fiato. Sono soddisfatto del risultato e del fatto che a molti risulti come un disco maturo e raffinato.

Tante le collaborazioni che hanno impreziosito il tuo lavoro discografico, vuoi parlarne? Sì, dai produttori, alcuni dei quali come David Assuntino aka Shiny D e Simone Empler con i quali collaboro da più tempo, a Catchy di Greezly productions a SKG, amico di lunga data che ha prodotto due dei brani più apprezzati dell’intero album. Inoltre è stato interessante l’incontro con Raphael, artista che da sempre seguo e apprezzo. Affascinante l’incontro tra dialetto e versi della tradizione calabrese con le liriche in patwa, ancora di più se servono ad affermare concetti universali come quello che abbiamo affronto. Oltre a Raphael ha riscontrato molto successo la combo con Jovine,uscita come singolo su Hitmania Spring 2013 – Street Art- Urban Sound vol.1 , di cui è stato prodotto anche il video. Molto suggestiva è la collaborazione con Loop Loona, per non parlare del brano composto con l’amico fraterno Eman, canzone che parla d’amicizia, arricchita dall’intervento del rapper di origine marocchina Isham. Come è nato l’incontro con l’etichetta

La copertina di Nta sta ruga

RedGoldGreen? Sono orgoglioso di essere uno dei coofondatori di quello che in principio è nato come movimento che avesse come scopo quello di creare i presupposti di scambio e di condivisione sia a livello artistico che umano, ma che man mano, e sempre con lo stesso spirito, sta crescendo e si sta determinando come realtà impegnata a promuovere e far emergere nuovi talenti della scena italiana. RGG è un collettivo composto da cantanti, producers, musicisti, dj e professionisti di varia natura che si impegnano a creare e dare servizi a chi intraprende questa carriera con serietà e passione. Perché i testi del tuo album sono prevalentemente in dialetto calabrese? Il mio percorso artistico parte dalla musica tradizionale della mia terra. Da lì poi ho fatto la scelta di continuare a seguire il “ruolo” di divulgatore di quella che è la tradizione ma semplicemente modificando codici. Il reggae per me è appartenenza e orgoglio per le proprie radici, quale miglior modo se non quello di farlo attraverso la propria lingua.

Chi sono stati i tuoi artisti di riferimento? Tendo sempre a prendere spunto da ciò che a livello stilistico e di metrica mi desta più stupore. Sono cresciuto anche con l’hip hop negli anni 90’, quindi sono un feticista del flow e delle rime geniali. Oltre ai mostri sacri grazie ai quali sono entrato in contatto col mondo del reggae, da sempre sono stato un fan di Shabba Ranks, Super Cat, Cutty Ranks,Barrington levy e di tutti quegli artisti che tra gli anni 80 e i 90 hanno dato vita a quello che poi è diventato il dj style. Nella nuova scena apprezzo molto Busy Signal, Konshens, Tarrus Riley e tutti quegli artisti che ce la stanno mettendo tutta per riportare il reggae sulla via maestra… Dove è possibile acquistare il disco? “‘Nta sta ruga” si può trovare on line su I Tunes e tutti i digital store, mentre da fine giugno sarà possibile acquistarlo in tutti i negozi di dischi e ai concerti, in una veste nuova. Una gold edition che conterrà due ulteriori brani inediti!


Arte contemporanea

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Una campagna di crowdfunding per sostenere l’iniziativa che avrà luogo negli antichi spazi di un ex manicomio palermitano a cura di Cecilia Leucci

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acnomania, Licantropia clinica, Hexakosioihexekontahexafobia, sono solo alcuni dei numerosi disturbi mentali e fobie selezionati per la mostra "Disorder" - a cura di Cecilia Leucci - che trae il suo elemento innovativo dalla selezione di patologie psichiatriche per lo più ignote che permetteranno di far luce su disturbi ed infermità raramente presi in considerazione, in grado di aprire scenari d’indagine fortemente suggestivi e proporre quesiti e riflessioni che spaziano dall’arte alla psichiatria, compenetrandole e rendendole l’una lo specchio dell’altra. All'interno degli antichi spazi di un ex manicomio palermitano, le cui pareti sono impregnate dagli umori e dalla sofferenza dei “matti”, oltre venti artisti provenienti da tutta Italia - ognuno con un background ed una storia artistica differente - interpreteranno svariate patologie mentali: chi con ironia, chi partecipe dell'angoscia, chi sperimentando mezzi e supporti innovativi in grado di stimolare i sensi dello spettatore e di trasportarlo all'interno della malattia.

Come contraltare al trend dell’outsider art ovvero l’arte dei “matti”, “Disorder” intende indagare la psicopatologia dal punto di vista del “sano”, facendolo immergere totalmente nella malattia, contagiandolo, in un certo senso e rendendolo protagonista principale della propria opera. Durante la mostra, ogni opera sarà affiancata da una “cartella clinica”, con una relazione sulla patologia: eziologia, sintomatologia, conseguenze fisiche e psicologiche. Le opere e le cartelle confluiranno in un catalogo che avrà l'aspetto di un vecchio registro ospedaliero. Per tutta la durata della mostra saranno previste presentazioni di libri sull'argomento ed un incontro su arte e disturbi mentali tenuto da addetti al settore dell'arte e psichiatri.

artisti, i quali - di solito - non solo non ottengono alcun supporto per la produzione, ma spesso sono invitati ad offrire il proprio contributo economico per partecipare alle esposizioni. Nella fattispecie i fondi raccolti con questa campagna andranno a finanziare: produzione delle opere, trasporti ed allestimenti, grafica e stampa catalogo, grafica e stampa cartoline, locandine e manifesti, ufficio stampa e comunicazione, affitti e service.

Qual è lo scopo della mostra e perché offrire sostegno? Lo scopo di ogni mostra dovrebbe essere quello di offrire spunti di riflessione e stimoli d’apprendimento. Molte esposizioni si manifestano come vetrine per artisti e curatori e non garantiscono alcun contributo artistico, culturale o educativo. “Disorder” vuole rappresentare una piccola finestra sul mondo delle patologie psichiatriche, perché entrarne in contatto può contribuire a renderle meno spaventose e più accessibili. L’arte è il mezzo didattico per eccellenza, in grado di raggiungere e suggestionare chiunque; è per questo che si è scelto di creare una mostra nella quale i primi a mettersi in gioco fossero gli artisti. Chi sono gli artisti attualmente coinvolti? Francesco Cuna, Alessandro Amaducci, Eleonora Manca, Giancarlo Micaglio, Gianluca Marinelli, Davide Russo, Marcello Nitti, Francesco Romanelli, Luca Beolchi, Giammaria Giannetti, Jean-Paul Charles, Luigi Cannone, Mirco Matarante, Riccardo Gavazzi, Salvatore Masciullo, Lorenzo Romano, Mina D’Elia, Hernan Chavar, Luca Musacchio e Pierluca Cetera.

Per ulteriori informazioni? Si può contattare la curatrice del progetto, Cecilia Leucci per ricevere informazioni sull'evento, sull'organizzazione, sulla raccolta fondi e sulla possibilità di supportare "Disorder" come partner e/o sponsor, inoltre puoi seguire gli sviluppi Perché una campagna di crowdfunding? Perché le spese per una mostra sono numero- del progetto tramite Facebook, cliccando su: sissime, dalla pubblicazione del catalogo ai tra- http://www.eppela.com/ita/projects/818/disorder-mostra-darte-contemporanea sporti, inoltre le opere per quest'esposizione saranno create ad hoc, l'evento ha quindi un costo in più: un piccolo rimborso spese per gli


Accade in città

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Lo spazio pubblico non è la casa di qualcuno

Il nostro periodico ha pubblicato domenica 1 giugno un intervento di Andrea Cariglia e domenica 8 giugno una piccata lettera di Aldo Augieri sulla “questione” dello spazio di Asfalto Teatro all’ex Cnos. Di ieri la risposta dell’architetto Juri Battaglini.

in Agenda

É

“Che cazzo mi saluti?”

E poi che cosa mai si può scrivere per rispondere a qualcuno che confonde la difesa di un privilegio con Rispondo a questa piccola diffamazione a mezzo la lotta per i diritti? Il bene comune, gli spazi pubblici stampa, perché sono stato attaccato direttamente e gli spazi privati sono un intreccio che a volte offupiù nella dignità umana che come tecnico. E proprio sca anche le menti più raffinate. Uno spazio privato con la stessa umanità con cui una sera ho parlato può essere usato per scopi pubblici, il bene comune ad Aldo Augieri, scrivo due righe perché sono una può essere un complesso di azioni che ognuno di persona e se non dovrei salutare almeno posso noi attua per non sentirsi solo al mondo ma è molto imbarazzante quando uno spazio pubblico diventa scrivere. Solo due cose. “Non potevate continuare a stare rinchiusi in quel la casa di qualcuno senza alcuna regola e senza posto, nella più totale illegittimità con le porte sem- neanche la dichiarazione ufficiale di un'occupazione pre chiuse e la paura che una qualsiasi ispezione che avrebbe avuto di certo tutt'altro valore. vi potesse mettere in seri guai. Pensala così: questa è un’occasione per rinascere, ottenere di meglio e Ma alla fine uno spazio lo hai ottenuto. Non avevo rivedere il vostro rapporto con l’esterno”. Questo ho dubbi. Juri Battaglini detto. Altroché “Dai Ragazzo ce la farai”.

Il presidio del libro Germinazioni legge ad alta voce Livelli di vita di Julian Barnes edito da Einaudi

Il dono dell’ascolto

in corso il percorso di lettura ad alta voce del libro di Julian Barnes, Livelli di Vita, Einaudi, 2013, gli incontri si tengono negli spazi del Museo dell’Ambiente, MAUS, Ecotekne, Polo delle facoltà scientifiche dell’Università del Salento, a cura dell’associazione e presidio del libro, Germinazioni. *** Scrive Teresa Ciulli: “Chi si vuole unire all’ascolto è libero di partecipare. Non si paga nulla se non con la moneta, rara, in alcuni contesti addirittura fuoricorso, del desiderio di ascoltare; così che possa arrivare la storia dei primi aeronauti, gente vissuta fra due secoli, l’800 e il ‘900. Gente che ha messo insieme per la prima volta cose che non erano mai, mai state insieme, e da lì è accaduto il Nuovo, l’Altro. Un immenso e irreversibile cambiamento. Come ogni storia d’amore. Sono tre le vite che Barnes racconta: del colonnello Fred Burnaby, dell’attrice Sarah Bernhardt, del geniale inventore Félix Tournachon, conosciuto anche come Nadar, grande interprete dell’infanzia della fotografia. La nostra piccola combriccola di lettori è ospitata dal Museo dell’Ambiente, accolta dalla gentilezza e generosa disponibilità del prof. Genuario Belmonte, direttore del Museo; disposto a spiegarti cosa è quella lisca di pesce chiusa in una pagina di pietra morbida risalente a 10 milioni di anni fa; una pietra, quella leccese, quella delle sequenze degli angeli che si buttano dai cornicioni delle chiese barocche di qui, una pietra che testimonia il passato relativamente recente di questo territorio, all’epoca completamente sommerso da acque profonde, tanto da ospitare pesci grandi 16 metri, come l’unico esemplare al mondo di zygophisoster, dell’esattezza del nome, ma anche delle dimensioni non sono affatto sicura; una “specie di specie” di enorme delfino. L’ingresso è libero e gratuito, vale però la puntualità. I prossimi due incontri il 19 e il 26 giugno, cominciamo alle 17 e finiamo alle 19. Una forma di rispetto necessario all’obiettivo che vogliamo raggiungere: leggere ad alta voce, per intero, il nostro libro: compiere fino in fondo il nostro viaggio negli appuntamenti stabiliti. Oltre domani, anche giovedì 19 e 26, agli stessi orari; allo stesso posto. Fra reperti, pagine di pietra, testimonianze fossili che ci arrivano da 70 milioni di anni fa. La storia che ci racconta Barnes è di stamattina, manco, di un’ora fa, rispetto alla grande Casa del Tempo in cui la leggiamo, a voce alta. Per informazioni ulteriori, http://germinazioni.blogspot.com


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L'arte di costruire la città

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Surbo e lo scultore Francesco A. Zimbalo

Di angeli e di mori

inque statue, tutte in pietra leccese e tutte sulla facciata principale della chiesa madre di Surbo. Tre angeli inginocchiati reggi-candelabro (foto 1, forse inseriti nella sede attuale in seguito alla risistemazione settecentesca della facciata) e due altre raffiguranti i “mori” (foto 2) che un tempo reggevano la trave su cui era appesa la campana (o le campane) dell'orologio pubblico della città. Queste cinque opere, in parte danneggiate, ricordano stilisticamente quelle dello scultore leccese Francesco Antonio Zimbalo (1567 – 1633 circa). I tre angeli sono collocati sulla parte sommitale centrale della facciata, il maggiore al centro, i due più piccoli ai lati. I due “mori”, a breve distanza dai tre angeli, sono invece sulla torre dell'orologio datata 1586 (nel fregio della stessa è inciso PUBLICI COMODITATIS 1586) e “appoggiata” sul lato superiore destro della stessa facciata. I volti dei tre angeli, compatibilmente con quanto di essi oggi è ancora leggibile, sembrano richiamare quelli che, nella chiesa leccese di santa Croce, sono sulla porta principale, opera documentata e datata (1606) dello scultore leccese (foto 3, in particolare utile è il confronto fra le parti meglio conservate del volto dell'angelo sommitale sinistro di Surbo - nella foto 3, volto a destra - con quelle omologhe del volto dell'angelo centrale inferiore posto sotto lo stemma laterale destro della porta principale di Santa Croce, nella foto 3 è il volto a sinistra). Un discorso simile si potrebbe fare anche per i due “mori” della torre campanaria nei quali la struttura compositiva dei volti (gli zigomi pronunciati, le fronti corrucciate) e degli abiti ricorda i motivi analoghi presenti in alcune opere assegnate a F. A. Zimbalo (i panneggi delle vesti delle due statue della torre campanaria sono simili, per esempio, a quelli dell'abito dell'arcangelo che dominava, forse già a partire dal 1620, la facciata della leccese chiesa di Santa Maria degli Angeli). Il caso dei “mori” diventa particolarmente interessante in termini generali. Se fosse confermata la paternità esecutiva di essi a F. A. Zimbalo ci troveremmo infatti dinanzi al caso in cui queste due statue, plausibilmente eseguite con il resto della torre campanaria, potrebbero essere le opere più antiche oggi note dello scultore leccese che nel 1586, anno inciso nel fregio della torre come già ricordato, aveva circa 19 anni. I tre angeli di Surbo ricordano in più, per alcuni loro elementi (come ad esempio le

di Fabio A. Grasso

Foto 2, i “mori”

Foto 1, i tre angeli inginocchiati

Foto 3, confronto

vesti e la struttura anatomica delle braccia), i motivi analoghi presenti nei due angeli lapidei che sormontano la porta principale della chiesa madre di Novoli (Lecce). Al centro, in alto, di questa stessa porta e in mezzo ai detti angeli è la rappresentazione lapidea scolpita a tutto tondo della Vergine Maria con il Cristo bambino in braccio. I lineamenti di queste ultime tre statue non sono più leggibili ma la capigliatura (per il caso dei due angeli) ritorna simile in opere certe di F. A. Zimbalo come gli angeli sommitali che nell'altare di San Francesco di Paola (Lecce, chiesa di santa Croce) reggono gli strumenti della Passione di Cristo (anche il panneggio dell'abito della Madonna e del Bambino posti sul detto portale di Novoli ritorna analogo nelle figure di questo stesso altare). La tipologia delle ali degli angeli di Novoli si

ritrova inoltre simile nella già citata statua dell'Arcangelo Michele in Santa Maria degli Angeli a Lecce. Un'altra statua - raffigurante, come la precedente, san Michele Arcangelo, attribuibile sempre a Francesco Antonio Zimbalo e collocata nella chiesa dell'Immacolata a Minervino di Lecce - aiuterebbe molto a immaginare come doveva apparire proprio quella appena ricordata che, analoga per soggetto, è collocata, come detto, non più sulla facciata ma nella navata sinistra della citata chiesa leccese di Santa Maria degli Angeli. Anche quest'ultima scultura è infatti fortemente danneggiata mancandole la testa e una parte del corpo (la struttura compositiva delle sue ali è simile inoltre a quella che caratterizza gli angeli del portale maggiore della Matrice di Novoli).


Arte natura

Creature dei Paduli al via la residenza artistica di Dem

spagine

Spagine della domenica n°33 - 15 giugno 2014 - anno 2 n.0

copertina

Dem sarà fino al 22 giugno nel Parco dei Paduli per il laboratorio di arte natura che vedrà la partecipazione di circa 30 ragazzi tra i 6 e 9 anni in arrivo dai comuni limitrofi

P

e quella straordinaria. L’esperienza si basa sulla necessità, per i ragazzi, di scoprire la propria realtà territoriale, in particolare l’ambiente naturale, che in questa occasione diventa spazio laboratoriale, adeguato alla sperimentazione di forme artistiche e di relazione. Al centro dell’attenzione vi è il Parco Paduli, la sua ricchezza e varietà. L’arte e la natura sono due mondi in continuo dialogo fra loro, un universo di immagini, suggestioni ed emozioni che si intrecciano e suggeriscono punti di vista sempre nuovi; la natura ha ispirato l’arte di ogni epoca e ne ha fatto il fulcro della sua poetica in modo nuovo ed originale. Il laboratorio è uno spazio per sperimentare la creatività, scoprire che nei materiali della natura ed in ogni altra cosa, si nascondono forme e stoCreature dei Paduli è una mappa navigabile sul rie che aspettano di essere raccontate e l’arte web che disegna una geografia fantastica del rappresenta lo strumento per narrarle. mondo del Parco Paduli, ne ricostruisce in Sono previsti momenti di didattica ambientale, chiave immaginaria la varietà e la ricchezza na- attività ludiche e di socializzazione, osservazione turale, facendo dialogare i segni pre esistenti con e raccolta dei materiali, attività di progettazione in gruppo mirate alla realizzazione di un’opera i nuovi landmark (nidi ecc). La scenografia e le storie di questo singolare d’arte con l’artista DEM (www.supranatura.org) regno saranno costruite attraverso un laboratorio con materiali naturali. di arte natura che vede come artista in residenza, DEM, e come destinatari i ragazzi. I visitatori del sito potranno comporre l’itinerario del Info e iscrizioni proprio viaggio immaginario nel Parco Paduli, at- abitareipaduli@parcopaduli.it traverso la mappa, consultando e storie e se- tel. 3358758545 - 3391687199 guendo le nature gemelle de Parco, quella reale

renderà il via lunedì 16 giugno e si concluderà il 22 dello stesso mese con una grande festa finale il laboratorio di arte natura “Creature dei Paduli”, condotto dall'artista DEM, in collaborazione con la docente Laura Basco. Rivolto a bambini dal 6 ai 9 anni, il laboratorio è promosso dall'associazione Lua (Laboratorio Urbano Aperto) e rientra nel progetto “Gap, la città come galleria d'arte partecipata”, finanziato da Fondazione con il Sud, che si concentra sui “margini”, in questo caso territoriali, con una serie di iniziative tra arte e sociale che campeggiano su 6X3 collocati in alcuni luoghi strategici della provincia.


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