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spagine Spagine della domenica n°35- 29 giugno 2014 - anno 2 n.0 Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri


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Una significativa fotografia di Fabio Ferrari (LaPresse) di Italia-Uruguay. Mondiali Brasile - 2014

trionfare gli Azzurri; è stato lui a farci perdere la faccia: lui, la rappresentazione plastica dell’Italia multirazziale, multietnica, del Paese migliore del l Mondiale di Calcio è finita come doveva finire. Espulsi per mondo in fatto di accoglienza. non aver giocato. Giocare al calcio significa correre con la La commistione calcio-politica era già prima. Nelle sigle della Rai create per rabbia in corpo per buttare il pallone dentro la porta avver- i Mondiali i ragazzi e le ragazze che palleggiavano, piroettando, erano quasi saria. Che lo butti dentro un nero o un bianco non conta tutti di colore, tutti con la maglia azzurra; sembrava che in Italia non ci fossero nulla, l’importante è fare goal. Anche i più digiuni di calcio lo più bambini e ragazzi bianchi. Si dirà: nell’ideazione non erano italiani, erano hanno capito dopo aver visto tante altre squadre nazionali brasiliani, come il Cristo Redentore in maglia azzurra dall’alto del Corcovado. giocare. Noi no; noi in campo passeggiavamo, camminavamo, incerti come Ma il messaggio era un altro: coi Mondiali di Calcio l’Italia voleva far passare chi, smarrito in una grande città, non sapesse orientarsi per trovare la strada l’immagine di un’Italia nuova, aperta al mondo, chiusa alla storia e alla tradi casa. dizione nazionali. L’ostinatezza di puntare su un giocatore come Balotelli da Ma la miserrima fine degli Azzurri ha marcato l’ennesima débâcle nazionale, parte del Commissario Tecnico Prandelli, in ciò sostenuto dalla grancassa voglio dire dell’intera nazione. “Fuori dai Mondiali. Un caso nazionale” ha ti- mediatica, è la prova che non sempre veniva mandato in campo per ragioni tolato in prima pagina il “Corriere della Sera” di mercoledì, 25 giugno, tra- tecniche. E’ stato riconosciuto dallo stesso Prandelli. Il quale dovrebbe dire dendo un retropensiero. Attraverso il calcio volevamo fare altro, a questo punto quali altri condizionamenti e quali altre pressioni ha subito e probabilmente, con l’operazione Balotelli, esibire la nostra politica di integra- da chi per mettere in campo una squadra da marcia della pace o da escurzione. Di questo si è trattato. E’ inutile girarla: siamo rimasti vittime delle no- sione di boy-scout piuttosto che da calciatori degni di quattro titoli mondiali, stre storiche ipocrisie, della nostra incapacità di essere seri, moderatamente di un titolo olimpico e di un titolo europeo. “Il fatto è – ha detto in una breve dichiarazione dopo la sconfitta col Costa Rica – che certe squadre quando e criticamente aperti, senza spalancamenti o abbattimenti di porte. Il simbolo di quest’ultima furbata andata a male s’incentra sul calciatore di giocano lo fanno con lo spirito nazionalista, che a noi è estraneo”. Questo colore più discusso della storia del calcio italiano. Doveva essere lui a far ha detto il tecnico che non ha impiegato poi nemmeno un’ora a dimettersi di Gigi Montonato


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L’Italia e i Mondiali, è fallito il calcio multiuso

Debacle Italia

dopo la figuraccia rimediata sul campo con l’Uruguay. Ma scaricare tutte le colpe su Balotelli, esibirlo a testa all’ingiù nel suo Piazzale Loreto, è ancor più indegno di ogni altra cosa detta e pensata. Non si può incolpare una persona per quello che è. Balotelli ha dimostrato di essere un talento calcistico autentico ma anche un soggetto labile, con grossi problemi di inserimento e di adattamento. Una persona del genere andava lasciata ai fatti suoi. Una squadra di calcio, a qualsiasi livello, non può essere un’équipe di assistenti sociali. A Balotelli si è chiesto quello che lui non poteva dare. Nemo dat quod non habet, dicevano i latini. Già, ma noi dobbiamo dimenticare anche i latini se veramente vogliamo diventare il Paese più aperto del mondo. Cacciati dal Mondiale, tutti si sono scagliati contro questo giocatore che non ha lesinato, a sua volta, accuse all’Italia e agli Italiani. “Gli Africani – ha detto – stanno più avanti di voi Italiani veri. In Africa non si tradisce un fratello”. Non gli si può dare torto. L’orgoglio di appartenenza, come la classe, non è acqua. Almeno in questo bisogna dargli atto di una maturità invidiabile. Ma in Italia è così e non è detto che per saperlo occorra conoscere la storia. Bastano episodi come una sconfitta al calcio perché certe verità emergano in tutta la loro bruttezza e crudezza. Non si era tutti entusiasti fascisti durante il fascismo; tutti ostinatamente antifascisti dopo? E non è accaduta la stessa cosa con comunisti e anticomunisti, democristiani e antidemocristiani, so-

cialisti e antisocialisti, berlusconiani e antiberlusconiani? E non accadrà così con renzismo e antirenzismo? Aspettiamo, aspettiamo; e vedremo! Già tanti che erano ostili a Renzi, anche del suo stesso partito, ora gli stanno accanto, lo difendono, lo lodano, lo esaltano. Per cui le cose che dicono e che fanno non sono criticamente meditate, ma rispondono a pulsioni emotive di comodo immediato. Proprio come Prandelli, che in quattro anni non si è mai sognato di dire: signori, una squadra si fa per vincere, con criteri tecnici; ogni altro criterio deve rimanere fuori, se non mi consentite di fare il mio lavoro come ritengo giusto, tanti saluti e grazie. No, non l’ha mai detto, perché, tutto sommato, il modo conventuale di fare le cose in Italia finisce per deresponsabilizzare, per lavarsi le mani al momento opportuno. Ha detto: il mio progetto tecnico è fallito. Sicuri che era un progetto tecnico? Quattro anni di conduzione della Nazionale hanno dimostrato che non ai risultati si mirava ma a qualcosa di più politico e sociale, di più pedagogico e moraleggiante. Se è così, allora, meno male che è fallito. Perché almeno così il calcio può tornare ad essere uno sport con tutta la sua fisicità e la sua eticità, ma soprattutto con la sua più immediata finalità, che è gareggiare con onore, nella consapevolezza che si può vincere o perdere, ma senza mai perdere la faccia o perdere per ragioni, anche nobili se vogliamo, ma estranee allo sport.


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n questa società frammentata e confusa, abbiamo bisogno più che mai di solide e luminose figure di riferimento. Quante volte cercammo disperatamente un padre amabile, accogliente, capace di indicarci la strada, di darci le dritte giuste, di mostrarci con chiarezza e senza fraintendimenti il senso di realtà e del limite? Alex Zanotelli, padre Comboniano, missionario straordinario, ebbi modo di sentirlo a Lecce, nel maggio 2004, in un incontro pubblico all’Università. L’ Aula Magna, era strapiena, pullulante di giovani entusiasti, venuti a ricevere e a salutare il loro angelo con la barba bianca. Quel giorno, il Padre parlò dell’insania delle guerre, che sono la sciagura del mondo; ci si soffermò sulle storture di certo sistema produttivo economico, teso sempre a ottimizzare il profitto, a mercificare l’esistente. Alex era uno dei più accesi sostenitori della ripubblicizzazione dell’acqua e uno strenuo difensore dei beni comuni, come la cultura, Internet, l’amore, che dovrebbero essere ad appannaggio di tutti. Ricordo, quel giorno: una vivace confusione, un fluire di ragazzi e ragazze. I loro giovani corpi, i loro freschi visi, i loro occhi innaffiati di luce, vivevano d’ansia: un’ansietà di pace, di fratellanza, di libertà. Giovani di tante e tante scuole medie superiori convenuti per abbracciare Alex, protagonista di centomila battaglie di civiltà. Padre Zanotelli venne presentato da alcuni studenti. “La guerra, in quanto tale, è da eliminare. La guerra va espulsa, messa fuori dalla storia”, sentenziò un ragazzo. “Noi siamo il seme d’un mondo migliore”, aggiunse un altro. “Noi siamo la nuova generazione, possiamo farcela, se vogliamo”, declamò con dolcezza una studentessa del Tecnico per periti aziendali Grazia Deledda di Lecce. Alex diede a tutti una scossa: “Dopo Hiroshima, non si può più pensare ad una guerra giusta. Dobbiamo rendere la guerra tabù. Tutte le guerre ingiuste”. È proprio così. Le stolte guerre sono la vigliaccheria conclamata, sono la manifestazione più palese dell’arbitrio di certo potere dominante, che erompe invasivamente, ad inquinare la Terra, a farne cencio, straccio, contrada di nessuno, dove annegano i dannati, gli ultimi, i derelitti, i disperati. Gridare il nostro “no” assoluto, deciso, assordante, alla ferina guerra, vuol dire esprimere il più assoluto diniego al sistema finanziario dominante, alleato contro i diseredati. Malattie, nuove povertà, esseri umani sterminati per fame: questo criminale meccanismo di controllo economico- finanziario, nelle mani di pochi spiriti eletti, invogliato dai vari padroni del mercato globale, lo si deve necessariamente abbattere con la forza stritolante e dirompente del pacifismo e della non violenza. L’opinione pubblica non può tollerare che una esigua minoranza di spettrali detentori del potere economico decida i destini di tutte le genti, le ingiuste distribuzioni delle risorse naturali.

Ricordo: mentre guardavo Alex, angelo bianco, amabilmente dissertare di privatizzazioni, di assurde militarizzazioni, delle mille guerre nella calda Africa, dimenticate dai poteri politici e da tanti mezzi d’informazione, mi prendeva una

Contemporanea

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Quella volta

Zanotelli

di Marcello Buttazzo

Padre Alex Zanotelli in un bellissimo ritratto in bianco e nero della fotografa Sparanza Casillo

moltitudine di pensieri. Pensavo alla pace e alla giustizia vera, che non sono pensieri astratti, su cui numerosi politici pietosamente arzigogolano e annaspano, in prima e seconda serata televisiva. La pace non è quiete, stagnazione, tutt’altro: essa rompe gli schemi, esce velocemente dalle chiuse stanze. La pace è un valore insopprimibile. La pace è vita, vuole scavare fra le coscienze, interrogarle. La pace non vuole andarsene più. La non violenza è pace. Dobbiamo sfidare, con truce ghigno, i cosiddetti potenti del mondo, che dovranno costantemente sentire il fiato sul collo d’una consapevole cittadinanza. “Tu non sai le colline, dove si è sparso il sangue. Tutti quanti fuggimmo, tutti quanti gettammo l’arma e il nome. Una donna ci guardava fuggire. Uno solo di noi si fermò a pugno chiuso, vide il cielo vuoto, chinò il capo e morì sotto il muro, tacendo. Ora è un cencio di sangue e il suo nome. Una donna ci aspetta alle colline”, scriveva Cesare Pavese. E il poeta

torinese, fra le sue vigne, i suoi contadini, le sue radiose colline, aveva conosciuto l’insulto e la volgarità della guerra. I grandi, i giganti del pensiero ripudiano le guerre. I potenti, invece, se ne fanno scudo, sono “costretti” a farle in nome della lotta al terrorismo. Di quel giorno di maggio, di dieci anni fa, rammento che sedevo fra i giovani e, a fine incontro, scesi da Alex Zanotelli per formulargli una breve domanda. Traversavo un periodo d’intimo travaglio esistenziale, di intensissimo dolore per alcuni accadimenti umani. Gli chiesi: “Caro Padre, è possibile che da un po’ di tempo non riesca a vedere nitidamente, ma solo confusamente, il mio cielo oltre le nuvole?”Alexcon voce piana mi rispose di non sconsolarmi e di continuare sempre con pazienza il cammino. La strada della vita si deve fare a piedi nudi sul selciato. Vita che vuole vita, amore terreno che s’illumina di celeste.


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Il Salento una “terra effeminata” così scrive Manuela Mimosa Ravasio su “Sette”...

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Divertentismo salentino

di Gigi Montonato

tura dello spettacolo: teatro, cinema, musica leggera, canzonette, spesso con commenti e intere essere ricchi di cultura-spetta- viste nei giorni successivi. Ovvio che qualcuno colo è uguale ad essere effemi- potrebbe anche replicare che non è così o addinati, esserlo di cultura-pensiero è rittura che nel campo della cultura scritta si prouguale ad essere virili? Mah! duce così poco di qualità che non è davvero il Prendiamola alla larga. La sera di caso di sprecare spazio per minchiatine di nesmercoledì, 18 giugno, al Must di sun valore, tutto sommato autoappaganti o auLecce, al termine della presentazione del ro- tofrustranti, a seconda dei casi. manzo di Vittorio Bodini “Il fiore dell’amicizia”, di Io che ho le fissazioni dello storico, per deformarecente riproposto da Besa, nel corso della zione professionale – ho insegnato storia per quale avevano conversato Teo Pepe e Antonio quarant’anni – mi chiedo: ma tra cento-duecento Lucio Giannone, prese la parola il mio amico Va- anni o quando fosse, nell’ipotesi tanto disgralentino De Luca e disse alcune cose; due, in ziata quanto remota che tutto venisse distrutto e particolare. rimanessero intatti e leggibili solo i nostri quotiLa prima. Disse che della manifestazione pre- diani, che conoscenza dei nostri tempi avrebsente la stampa non aveva dato adeguata infor- bero i posteri? Penserebbero che ai nostri tempi mazione e che lui lo aveva appreso per caso non c’erano scrittori di letteratura, di storia e di leggendo il “Quotidiano” in un bar. In verità la politica e che la cultura si esauriva in canti e stampa quotidiana ne aveva abbondantemente suoni e qualche rappresentazione. Come se un parlato fin dal giorno prima: “Quotidiano”, “Gaz- marziano, giunto sulla Terra avesse incontrato zetta del Mezzogiorno”, “Corriere del Mezzo- solo me prima di tornarsene dalle sue parti; ai giorno”. Teo Pepe gli fece simpaticamente suoi direbbe: sono stato sulla Terra e colà gli uoosservare che forse sarebbe meglio che non per mini non sono più alti di un metro e cinquanta, caso leggesse il “Quotidiano” ma per buona abi- hanno baffi, pizzo e becco, capelli spettinati, ditudine comprandolo. Allora Valentino – ed è la mostrano dubbia età. Questo accadrebbe. seconda che disse – virò di bordo: sì, ma perché Un’ingiustizia per il mio amico Valentino e per la mattina radio e televisioni, quando fanno la tanti altri, più alti, più belli e più giovani di me. rassegna stampa, saltano le informazioni sulla E, infatti, la giornalista del “Corriere della Sera” cultura? Manuela Mimosa Ravasio, in un servizio apE qui ebbe proprio ragione. Chi fa radio e tele- parso su “Sette” del 23 maggio scorso, nel quavisione salta a piè pari le notizie relative a fatti dro di uno “Speciale Viaggi”, è giunta alla ed eventi culturali. Si prese l’applauso. conclusione che «Il Salento oggi è terra effemi*** nata votata al divertimento». Non le si può dare Ma lo spunto polemico di Valentino è assai più torto. Il Salento, per quello che mostrano i degno dell’applauso per alcune lievitazioni. media, è l’Eden dei suoni, dei canti, delle danze, Nei confronti della cultura, nella fattispecie della del teatro, di location per film, di sagre, di feste cultura fondata sulla scrittura, anche i giornali paesane, del “chi vuol esser lieto sia”. stampati fanno gli schizzinosi, gli spilorci; le de- Lasciamo lusco e brusco: il tema lo richiede. A dicano cascami di pagina, rimasugli di colonne, mio avviso il Salento ha finalmente trovato il suo stringati annunci. Così anche nei confronti delle tempo, contenuti e forme, per realizzarsi aparti figurative; addirittura peggio per gli studi sto- pieno secondo i suoi caratteri di fondo. Siamo rici e politici. Mentre si dà ampio spazio alla cul- portati per tradizione alla scrittura e alla stampa.

Non vorrei scomodare Adamo ed Eva, che probabilmente non erano di queste parti; ma voglio citare Ennio e Pacuvio. Lecce è stata da sempre per numero di testate giornalistiche a ridosso delle grandi realtà nazionali; grandi avvocati e oratori, parlatori e conversatori. Ma, pur notati e apprezzati nel resto d’Italia – penso ai principi del foro – mai hanno raggiunto i vertici raggiunti dalle nuove forme di cultura. Quale poeta o scrittore, scienziato o artista del passato leccese e salentino può essere paragonato per successo conseguito a Carmelo Bene, a Emma Marrone, ad Alessandra Amoruso, a Dolcenera, ai Sud Sound System ai Negramaro, a Edoardo Winspeare? Situazioni imparagonabili. Giornali e televisioni hanno creato le condizioni perché il Salento finalmente producesse i suoi migliori artisti, le sue migliori forme di cultura, quasi tutte riconducibili allo spettacolo. Ma se pure tutto ciò fosse vero – e lo è – non è tutto quello che il Salento produce. *** C’è un Salento nascosto; un Salento che è oscurato perché non si sintonizza con la cultura di massa, che è quella della musica, delle canzoni, dei balli. C’è un Salento frivolo ed effeminato, se così si può dire, votato al divertimento; ma c’è anche un Salento più serioso e laborioso, che produce nell’editoria, che crea nel lavoro, che disegna, dipinge, scolpisce, progetta, pensa e scrive di politica, di storia, di filosofia, di sociologia. Pettini – dirà qualcuno – per teste pelate; e perciò non hanno mercato. Ragione per la quale i media non se ne occupano più di tanto. E’ per questo che i forestieri oggi si fanno un’idea unidimensionale del Salento. Non so se essere effeminati e votati al divertimento sia proprio un complimento; mi viene di negarlo e di pensare piuttosto ad altri attributi. Il guaio è che avere questi attributi conta poco se poi non si riesce a mostrarli.


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Il paesaggio è cultura

di Gianni Ferraris

I paesaggi culturali vitivinicoli del Piemonte di Langhe-Roero e Monferrato sono una eccezionale testimonianza vivente della tradizione storica della coltivazione della vite, dei processi di vinificazione, di un contesto sociale, rurale e di un tessuto economico basati sulla cultura del vino. […] I vigneti di Langhe-Roero e Monferrato costituiscono un esempio eccezionale di interazione dell'uomo con il suo ambiente naturale: grazie ad una lunga e costante evoluzione delle tecniche e della conoscenza sulla viticoltura si è realizzato il miglior adattamento possibile dei vitigni alle caratteristiche del suolo e del clima, tanto da diventare un punto di riferimento internazionale. I paesaggi vitivinicoli di Langhe-Roero e Monferrato incarnano l'archetipo di paesaggio vitivinicolo europeo per la loro grande qualità estetica”.

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uesta è parte della motivazione con cui l’UNESCO ha promosso il territorio di Langhe, Monferrato e Roero come patrimonio dell’umanità. In particolare il riconoscimento nomina: la Langa del Barolo, il Castello di Grinzane Cavour, le Colline del Barbaresco, Nizza Monferrato e il Barbera, Canelli e l'Asti spumante, il Monferrato degli Infernotti.

Non solo vino in realtà. In queste terra c’è arte, cultura, sudore, fatica, emigrazione, terra dissodata. C’è, meglio, c’era quel mondo dei vinti raccontato da Nuto Revelli quando raccolse testimonianze di miseria, di vita strappata ai ca-

stagni e di capelli di ragazza venduti per farne parrucche per ricche signore. Allora il vino era una cosa da bere, non una ricchezza. E’ terra di strade voluttuose come orgasmi che si snodano fra colline verdi e ordinate, pulite, linde. E il vino si conservava negli infernot, camere scavate nel tufo e nella roccia, spesso cave dalla quali si erano estratte pietre per costruire la case. Sono diffusi nel Monferrato, sotto le case, dove la luce non arriva e la temperatura è costante. Quale luogo migliore per conservare il vino? La pietra da cantoni, facile da cavare e lavorare, diventava muro e casa, e lasciava il posto per il riposo delle bottiglie. Monferrato, Langhe e Roero sono fatte di colline e paesi, uno accanto all’altro, li passi, se capita entri nel bar e ascolti vita che scorre. Alcuni hanno come secondo nome Cavour, magari Grazzano è diventato anche Badoglio. E un paese, in fondo, significa “non essere soli” come diceva Cesare Pavese: “…Così questo paese, dove sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. (…) Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti...”. Stanno in queste parole le emozioni e le sensazioni, ci sta il Nuto, il falegname amico di Pavese, e ci sta il ritorno al paese. Perché succede, capita, di sentirsi soli nelle città grandi, fuori dal proprio mondo. Succede, capita di sentirsi spaesati e di avere quella saudaji che ti chiama, ti sibila nelle orecchie un nome che può

I vigneti del Monferrato

essere di Lei o di chissà chi, ti riporta sapori vecchi, emozioni, profumi di erba falciata, magari di mosto. Quella Langa che è stata vita e cordone ombelicale mai tagliato per Pavese, Per Davide Lajolo, per Beppe Fenoglio. La cantano, la accarezzano, nelle loro parole si trasforma in Nuto, in una donna sinuosa, un fiume impetuoso. Nei loro scritti esistono modi e vezzi che solo chi conosce quei territori sa cogliere al volo, esiste quella malinconia (saudaji) che fa parlare di partenze e ritorni. Terra di “Masche”, streghe, arpie, cattive o buone, dipende da chi raccontava la storia ai bimbi, misteri, perché “il fantastico sa che non ci sono solo gli spiriti, ma soprattutto fatti misteriosi che l’uomo non si potrà mai spiegare” (Davide Lajolo, Le Masche). E chi arriva si accorge che l’appartenenza ad un territorio è totale: “…Si rese definitivamente conto che le colline li avessero tutti, lui compreso, influenzati e condizionati tutti, alla lunga, come se vi fossero nati e cresciuti e destinati a morirvi senza conoscere evasione od esilio...” (Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny) E Pavese che finì i suoi giorni quel 27 agosto del 1950, “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono…” lasciò scritto e poi “…Ho cercato me stesso”… Comunista, ateo, funerali frettolosi, laici per lui. “Il vizio assurdo” lo chiamò Davide Lajolo scrivendo del suo amico Cesare. Lui, Davide, con un passato da segretario del PNF passato poi alla resistenza dopo l’otto settembre con il nome di Ulisse, divenne deputato del PCI. “Veder l’erba dalla parte delle radici” fu il libro con cui lo conobbi. La narrazione della sua notte in


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Dal Piemonte e dall’Unesco una lezione per il Salento: “I vigneti di Langhe-Roero e Monferrato costituiscono un esempio eccezionale di interazione dell'uomo con il suo ambiente naturale...” compagnia dell’infarto a Roma, e il fluire dei ricordi sapendo di essere prossimo a vederle quelle radici. A Vinchio, il paese langarolo in cui nacque e in cui è sepolto, così si diceva di chi moriva, che andava a vedere l’erba dalla parte delle radici.

Il Monferrato (Mons Ferratus) è zona collinare, compreso nelle province di Alessandria e Asti, alla destra del Po giunge fino all’Appennino Ligure e con la Liguria confina, a volte ci si fonde e confonde nella parlata, nei gesti. In provincia di Alessandria molti paesi sono “liguri” nel nome, spesso nella cadenza dei dialetti, non nella geografia (Novi Ligure, Gavi ligure ecc.). In Monferrato passava la via del sale, con gli acciugai cantati da Nico Orengo ne “Il salto dell’acciuga” che andavano con i loro carretti a mano a portare acciughe e contrabbandare sale, loro fondevano mare e collina ed arrivavano oltre, si diramavano per la pianura padana, portavano terra, sale e sole. E a Genova (per noi che stiamo in fondo alla campagna) andavano migliaia di contadini langaroli, monferrini, andavano a prendere quei bastimenti verso l’Argentina e gli Stati Uniti. Per vivere, per sopravvivere. Le Langhe confinano con il Monferrato e stanno a cavallo delle province di Asti e Cuneo. Colline definite dai fiumi Tanaro, Belbo, Bormida di Millesimo e Bormida di Spigno. Alta e bassa langa. Colline sinuose terre ora ricche. Il Roero è nella parte nord orientale di Cuneo, prende il nome dalla famiglia Roero che per secoli dominò queste terre sfruttando coloni.

Erano luoghi da cui si fuggiva per cercare fortuna altrove, si emigrava in Liguria, in città, nelle Americhe, in Francia. Terre in cui il passato remoto nel parlato non esiste. E non esiste il superlativo , come fa notare Aldo Grasso in un bell’articolo su Repubblica. Il superlativo non esiste perché “esageruma nen” fa parte del lessico comune (non esageriamo) il passato remoto perché occorre, saggezza contadina, vivere qui ed ora. Forse è la discrepanza più immensa che ho trovato con il Salento dove respirano ancora i martiri d’Otranto, dove i messapi siedono sugli scogli la notte a parlare dei loro dei, o i romani passeggiano fra l’anfiteatro e Rudiae.

E parlando di Monferrato viene in mente Einaudi, ricordiamo Vittorio Alfieri, astigiano come Paolo Conte, e perché non dire di un un

patriota, poeta, anticlericale che a modo suo fece storia? Angelo Brofferio nacque a Castelnuovo Calcea, (At) il 6 dicembre 1802. Male vedeva il Cavour, troppo monarchico e troppo servo degli inglesi. Disse di libertà di stampa, di abolizione della pena di morte. Di lui qualcuno scrisse: “Brofferio e compagnia si dan tra lor del ladro e della spia. Altro sul conto lor non vi so dire che li credo incapaci di mentire.” E scrive Carlo Dossi: “Vittorio (Emanuele) amava personalmente l' oratore Brofferio, altro gran chiavatore, cui domandava e quante volte facesse e come ecc. con quell' interesse con cui stava al corrente delle sorti d' Italia. Brofferio gli faceva poi da araldo e pacificatore colle nuove e vecchie amorose…”.

Da una parte vedete nuvole di mediocri popoli, di mediocri re che si fanno a pezzi e si distruggono e almeno saperne il perché. Il furore si chiama gloria, il delitto virtù e l’onore impianta una fabbrica di decorazioni per i fessi fottuti.

Con aria diplomatica guardate i potenti dell’economia che con la salsa della politica preparano il balsamo di ogni imbroglio. l’onestà, l’ideale del bene pubblico l’hanno venduti al ferrivecchi e distillano gli interessi della patria con l’alambicco dei fessi fottuti.

Ci piace ricordarlo con tre strofette di una sua E poi, è vero, ci sono anche i vini, elenco infipoesia in dialetto: nito, lungo, giusto per citare fra i millanta nomi: Nebbiolo, Barolo, Barbaresco, Dolcetto, BarSlarghè pur tute le pàgine bera, Moscato, Asti spumante… quei vini che, 'd col gran lìber mal ciadlà nel secondo dopoguerra, trasformarono una che an sla tèra e che an sl’océano terra di miseria, povertà infinita, emigrazione, Dòmne Dei a l’ha stampà: mortalità per fame, quelle colline che si erano pì lo guarde, pì lo médite, svuotate di persone, in un ricchissimo feudo di pì lo vòlte ’n su e ’n giù, coltivazioni dotte e colte, che l’hanno risollevata pì 'v acòrze d’esse 'd ràcole, da un destino infame. Colline che nascono dal pì 'v conòsse 'd fòj-fotù. mare, un tempo lì era tutto acqua, ancora oggi dissodando capita di trovare conchiglie. Ma Da una part i vëdde d’nùvole come parlare di vini in modo asettico? Come 'd citi pòpol, 'd citi rè, dirne particolarità e caratteristiche per chi enoch’as ciapulo, ch’a s’anìchilo, logo non è? Il profumo di quei vini, il loro sapore e saveiss-ne almanch përchè! che esplode quando lo bevi, noi umanamente Ël furor as ciama glòria, ed umilmente “consumatori” non esperti (come Ël delit as dis virtù, lo scrutatore non votante di una canzonetta), lo e l’onor a pianta fàbrica leghiamo ai ricordi, a quella mano sfiorata, a da bindej p'r ij fòj-fotù. quella risata con gli amici, a quel panino con il salame mangiato un pomeriggio invernale in Con un’aria diplomàtica una bettola fra cielo e vigneti. I mulini non erano guardé coj dël pòrta-feuj bianchi, allora, però c’era nell’aria voglia di con la sàussa dla polìtica nuovo, di ribaltare lo stato delle cose e trasfora fé ‘l bàlsam d’ògni ambreuj mare l’universo mondo in qualcosa di etico e vil’onestà, la fede pùblica vibile. Poi passa… Poi è passato. l’han venduje al feramiù, Sono rimasti i testardi piemontesi, un po’ chiusi, e a distilo ‘l ben dla patria un po’ orgogliosi, a volte nostalgici. Rimangono al lambich dij fòj-fotù. alcune piccolissime osterie dove puoi mangiare fritto misto alla piemontese e bere vino sfuso Voltate pure tutte le pagine “che abbiamo fatto noi”. E può succedere, mi di quel gran mal fatto libro successe qualche anno fa, di andare in una frache sulla terra e sull’oceano zione chissà dove nell’astigiano, entrare nelDomine Iddio l’ha stampato: l’unico locale aperto, una sorta di negozietto più lo leggete, più lo meditate, bar, successe di chiedere “un caffè” e la signora più lo voltate in su e in giù, me lo fece, con la moka sul fornello. più vi accorgete di non contare niente, più vi rendete conto di essere dei fessi fottuti.


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l Re è nudo! il Re non ha più le vesti... ora finalmente il bimbo lo ha detto... La gente s’accorge, i bambini lo sanno... e allora perchè non li ascoltiamo? Vogliono dirci che, questo mondo, così come l'abbiamo truccato, non funziona più. Le maschere non riescono più a coprire i volti arcigni degli arricchiti e di chi, ignorantemente, desidera per sè solo denari... Facciano pure, si vendano tutto: gli ulivi secolari tanto falsamente cantati, la terra dei contadini che contadini non sono più ma avvelenatori, nel piccolo e nel grande... Continuate con le discariche, questi tappeti dove incoscientemente nascondono le schifezze che ormai non si contano piu... Ora è tutto più visibile, tutto nudo, come il proverbio che recita allu scuagghiare de la nie se itene li strunzi, e crititime, su tanti. Sono tanti i falsi eroi, i falsi predicatori, i falsi artisti, se artista vuol dire sopratutto "guardiano delle greggi, guardiano della comunità, guardiano protettore della natura, guardiano della saggezza che fa progredire. Ma qui dove sono i guardiani? I politici? Macchè... costoro son stati i primi a svendere la bellezza già in tempi antichi, da quando esistono... e allora, me li caco quasi tutti, anche quelli dei compromessi, perchè sottostando ai compromessi hanno perduto l'innocenza della poesia, e gli sono venute le orecchie d’asino, allora, tutti in coro, ai politici Ciucci ndamu dicere... E poi, chi viene? La chiesa? Quale chiesa? Quella che ha gli orari degli uffici? Che è quasi sempre chiusa? Che non da nemmeno un posto da dormire al pellegrino che passa? Ma che è aperta per visite "turistiche" agli orari nel cartello indicati... bene... abbiamo capito... apposto.... Ma chiesa, io ricordo, mi dicevano vuol dire comunità. Vuol dire raccolta di gente, vuol dire persone grandi e piccole vecchi e giovani senza differenza di colore (visto che mi hanno anche impiantato anche sta cazzo di falsa idea che dobbiamo essere antirazzisti, e poi a microchip spento ognuno continua a pensare i cazzi suoi... Molti continuano a pensare che chi arriva ruba il lavoro, ma quale lavoro? Quello che non vogliamo fare più (nnu momentu ca mo me ncazzu... ma quale rubare, sta gente sta face la fatia ca nu bbulimu facimu cchiui, ma ancora peggio: fanno i lavori che diabolicamente ci siamo inventati per loro. Penso ai campi di angurie, pieni di plastica, di veleni e gli Africani piegati a raccoglierle nelle ore in cui il sole brucia (loro, non possono più bruciare, sono già stati marchiati dal fuoco nei loro paesi... Cazzo ma vogliamo aprire gli occhi?). Chi pianta adesso non è contadino, no... è uomo d'affari, un rapace che se ne strafotte delle devastazioni che compie alla terra e ai disperati che la lavorano. Ancora più dannati, non si accorgono della devastazione che lasciano ai loro stessi figli, e allora via anche loro, li mando tutti al paese dei Balocchi dove anche loro diventerranno ciucci: siri, matri e figghi... E comu faci cu nu nte ncazzi quandu poi perfinu li cossiddetti artisti parlano bene e razzolano male anche loro compromessi, con le lobby, con le aziende forti... Loro, gli artisti, gli “intellettuali” devastano anche di più: sciolgono le menti in questo fottio di grandi eventi, cancellano le coscienze rendendoci tutti spettatori de sti spettacoli in cui non possiamo fare altro che guardare, devastarci di alcool e porcherie, mo me ncazzu... Loro la chiamano cultura, ieu la chiamu sonno della coscienza, sonno attenzione non morte, perchè ieu tegnu speranze, ho ancora certezze, che vengono non dal falso credo di tutti sti falsi praticanti ca sta facene ccene? Eventi? E si suc-

Il Salento deve imparare a dire “no”

Ddiscitatibbe! di Fabio Inglese

chiano i soldi e l'anima di questa terra? E poi te ci è la curpa? Sempre degli altri, di quelli che vengono da fuori, dei non osservanti, ma gli osservanti, mi chiedo, cosa CAZZO STANNO OSSERVANDO? SE VERAMENTE OSSERVASSERO VEDREBBERO IL BENE E IL MALE CHE INTORNO ESISTE, LA NATURA CHE E' AMMALATA... LA QUERCIA VALLONEA DI TRICASE, QUELL'ESSERE MERAVIGLIOSO CHE DOVREBBE ESSERE CONSIDERATO IL NOSTRO ALBERO GENEALOGICO, L'AVETE VISTO RECENTEMENTE? O VOI CHE OSSERVATE, LA QUERCIA DI TRICASE STA MORENDO DI TRISTEZZA PER IL GENERE UMANO CHE QUI SI CREDE PERDUTO. E NON PARLO DI TRICASE PARLO DI TUTTO IL SALENTO, QUELLO CHE A MOLTI SI SEMPLIFICA CON IL MOTTO LU SULE LU MARE E LU IENTU E ALLORA ME STA NCAZZU NTORNA ANDATE A VEDERLA LA QUERCIA CAZZO, RELEGATA TRA DUE STRADE CHE QUASI LE CALPESTANO LE RADICI, E UNA BELLA RECINZIONE... LA TIENE PROTETTA, DITE? LO CREDETE VERAMENTE? NO, LA SEGREGA! LEI, VECCHIA DI MILLE ANNI, ERA ABITUATA ALL’ABBRACCIO, ALLA CAREZZA DELLA GENTE DI CHI SI DAVA AMORE E NE RICEVEVA DALLA SUA INEFFABILE BELLEZZA... E NOI, CHE VOGLIAMO FARE? ANDARLA ANCORA A VEDERE SENZA NOTARE CHE IL SUO MAESTOSO TRONCO E' RICOPERTO DA UNO STRANO FUNGO GRIGIO E CHE LE ESTREMITA',I VIRGULTI PIU' RECENTI, SONO SECCHI E MALATI? RICORDATE, QUEL TRONCO SIAMO NOI! QUELLE ESTREMITA' SIAMO NOI! SIAMO NOI ANCHE TUTTA LA SUA INEFFABILE BELLEZZA E IL SUO VERDE E I SUOI MASTODONTICI RAMI CHE ASSOMIGLIANO A BRACCIA DI GIGANTESCHI ANIMALI PREISTORICI PACIFICI CHE ACCOGLIEREBBERO I BAMBINI CULLANDOLI, GLI INNAMORATI RINFRESCANDOLI E INCORAGGIANDOLI A TENDERE ALLA BELLEZZA ALLA GRANDIOSITA' D'ANIMO, ALLA MAGNANIMITA' DI NON FREGARSI PIU' DI ACCUMULARE FALSE RICCHEZZE... TALENTI CI VOGLIONO, TALENTO CI VUOLE MIO CARO SALENTO. CORAGGIO DI DIRE “NO”. MEMORIA CI VUOLE! QUELLA DI CHI QUESTA TERRA L'HA DIFESA CON AZIONI, PAROLE, CANTI, PITTURE... NOI CHE ERAVAMO FIGLI DI OMERO CUGINI DEI GRECI DI LA' DELL'ADRIATICO, CUGINI DEGLI ALBANESI, DA DOVE LE QUERCE VENGONO E PRENDONO IL NOME! E ALLORA' CHE FACCIAMO? LA SALVIAMO? SAPREMO SALVARE LE NOSTRE ORIGINI? LE NOSTRE RADICI? SE L'ALBERO GENEALOGICO STA BENE ANCHE IL POPOLO IN ESSO RAPPRESENTATO STA BENE, E' MATEMATICO... POTARE

DOBBIAMO, INIZIARE CON L'ARTE DELLA POTATURA, QUELLA CHE RIDA' VITA ALLE PIANTE STANCHE, MA NON LA QUERCIA, LEI PIU' DI TUTTO HA BISOGNO DI CAREZZE E CANTI... COMINCIAMO NOI A POTARE I SENTIMENTI STREGATI, AVVELENATI, INQUINATI... NON LA RABBIA SARA' LA MANIERA, MA LA GRAZIA. COMINCIAMO A ELIMINARE CIO' CHE E' VECCHIO E FALSO, FACCIAMO SPAZIO AL NUOVO, PREPARIAMOGLI IL TERRENO, ESTIRPIAMO LE ERBACCE, I CATTIVI PENSIERI E LASCIAMO QUELLE VERE, CHE SONO L'ANNUNCIO DELLA PRIMAVERA... IL SUO MESSAGGIO SEMPRE INNAMORATO, CHE NOI SEMPRE DISERBIAMO, DISATTENDIAMO... CAZZO! CCCE CU TE NCAZZI MA CI TENCAZZI RIMANI A SSULU E TE CHIAMANE PACCIU E SAPIMU CCOMU LI TRATTANE E COMU L'AMU TRATTATI, MA IOU ULIA ME NCAZZU E POI CU MME CALMU E CU SPIEGU,SPIEGO LE VELE DELLA RAGIONE CA LU CORE A SSULU NU BBASTA, ABBIAMO DETTO SEMPRE LU CORE MA LU CORE SAPIMU E' UN TEATRO DOVE A VOLTE LA TRAGEDIA SCONQUASSA L'ARIA, E LO SAPPIAMO, SIAMO PIENI DI "DICE CHE"...

"Dice che era depresso, dice che era addolorato, dice che era emarginato, dice che aveva problemi di soldi, dice ca li usurai, se lu sta mangiavane vivu e allora è decisu cu lla spiccia di sentirsi mangiatu, dice ca era cilusu e ha ucciso l'amore della sua vita, i figli, e allora lu core a ssulu nu basta ci vuole anche ragione, ragione e cuore, e non soltanto Dionisiaco abbandono nelle braccia della morte, ci vuole equilibrio tra le nostre divinità...

E qui, cari miei, arriviamo al punto più dolente, la divinità, lo spirito, lo spirito della terra, lo spirito di tutte le terre, quello che cementando abbiamo messo a tacere... dico io: non ci accorgiamo che non serve a nulla? Che non serve a nulla tappare le bocche di quelli che chiedono il suo ritorno, e quanti, quanti che ne ho perso il conto, ma non i nomi ma non la bellezza donchisciottesca abbiamo tradito in vita e in memoria, sempre per l'avidità di un mondo ingordo senza oggi e ne domani. Mo me ncazzu ntorna, tenimu li libri tenimu li computer sapimu leggere e scrivere e far di conto finalmente liberi dall'asservimento dei nostri padri e delle nostre madri, le madri ragazzi! le madri... C'e' un testo di Pier Paolo Pasolini, il tenero guardiano, che per primo ha denunciato lo scempio quasi prevedendolo, preannunciandolo nella scomparsa delle lucciole... Le lucciole per Pasolini erano anche le nostre lanterne, la lanterna di Diogene Laerzio che nel buio, dotato di ragione e coraggio illumina le tenebre per tutti! Attenzione, non per se, ma per tutti! E allora Pasolini nella Ballata delle Madri si chiede: “mi domando che madri avete avuto” e io con lui “che madri e


Luoghi

Spagine della domenica n°35- 29 giugno 2014 - anno 2 n.0 padri abbiamo avuto?”. Lo sappiamo, lo sappiamo bene, li sacrifici, li lamenti, le mazzate, li ciucci te fatia... ma anche la bellezza dei dolci genitori che sapevano... nonni che ci crescevano, che ci accompagnavano nel cammino, che ci nutrivano, ci dissetavano, che ci raccontavano le storie e cantavano per farci addormentare.

E ALLORA AMICI... NUI NU TENIMU TUTTU? Abbiamo tutti i mezzi, pure troppi a volte, spetta a noi cambiare direzione, fermarci, ritirarci da questa cieca corsa, unirci in comunità che tornino a cantare e danzare le stagioni che ancora esistono, lu sule ca ancora ncete, lu mare che ancora e ancora e ancora c'e' e il vento questo vento che da occidente soffia che è tutto nuovo... Tanto maestrale, tanto ponente e tanta pioggia su questa terra arida e desolata. Tanta acqua, tanta pioggia, quella che molti scambiano per sciagura... diluvio... inondazione, senza pensare che siamo stati noi abbiamo ad innalzare senza coscienza e onestà cio' che le acque seppelliscono con la loro furia. E i lampi e tutti i tuoni di questi giorni cosa stanno a dire se non: DDISCITATIBBE!!! SVEGLIATEVI!!!

Svegliamo i nostri sensi addormentati, i cervelli annullati dalla disinfromazione usata per aumetare tirature di inutili giornali e di inutili consensi per inutili politici che faranno inutili leggi pensando solo alla tutela dei loro miseri utili. Lasciamoli nelle case cassette di sicurezza, con le loro chiavi, con le loro donne abbruttite dalla falsa bellezza e i loro figli che poverini non sanno di mangiare la mmerda che i genitori gli stanno propinando, la mmerda cibo la mmerda spazzatura la merdosa aria di discarica totale, la merdosa realtà, in cui non si può far nulla e allora facciamoci ancora di piu' male...

NO NO NO NO NO NO NO NO NO. Tutto ciò sta finendo, e non con i giudici o almeno non solo con quelli dei tribunali - che pure di loro e delle loro tragiche solitarie morti siamo stanchi e addolorati - troppi i martiri della lucidità e nessun miracolo nelle nostre menti e nel cuore... ma solo spesso assurde sterili polemiche da gallinaio, solo dispute faziose: ignoranza travestita di sapere... Ma se sapessimo veramente come SOPHIA insegna, se sapessimo veramente cominceremmo a dire veramente basta. Basta con le lotte tra fazioni. Come quelle di chi si lamenta di aver suonato e che gli altri non avevano cantato e quelli che dovevano cantare e accusavano gli altri che non volevano usare gli strumenti... Basta... BASTA! COMINCIAMO AD ACCOGLIERE I PENSIERI DI PACE VERA, ACCOGLIERE LE GENTI IN FUGA DALLE GUERRE - LORO SI CHE HANNO DECISO CHE LA GUERRA NON LA VOGLIONO - ACCOGLIAMO IL NUOVO CHE CON MOLTI SEGNI EVIDENTI AVANZA E DICE.. BASTA CU STU CRISTU AN CRUCE!

LODE AI GUARDIANI DELLA TERRA, LODE A TUTTI COLORO CHE CON LA LORO VITA, IL LORO SANGUE, LA LORO GRAZIA CI HANNO MESSO IN GUARDIA... I NOMI LI SAPPIAMO! LI SAPPIAMO BENE! IO, I MIEI BUONI AMICI, IL MIO BUON AMORE, I MIEI FIGLI, RICORDIAMO I POETI NOSTRI DI QUI E POI TUTTI GLI ALTRI E ALLORA ANDIAMO, DECLARIAMOLI, RINGRAZIAMOLI...

GRAZIE A LEANDRO EZECHIELE VERRI ANTONIO DE CANDIA EDOARDO

DURANTE RINA TOMA SALVATORE RUGGERI CLAUDIA BUTTITTA IGNAZIO PASOLINI PIER PAOLO ROSSELLI AMELIA SCOTELLARO ROCCO COSTABILE FRANCO WHITMAN WALT PESSOA FERNANDO DICKINSON EMILY

E POI CONTINUATE VOI... CONTINUATE CON LE VOSTRE LISTE

E NON DIMENTICATE QUELLI VIVI, PER FAVORE, CHE ANCORA TENTANO IL DIFFICILE COMPITO DI GUARDARE, PROTEGGERE, CONSOLARE, CHIARIFICARE, AMARE... COMINCIAMO VERAMENTE AD AMARE! SEMPLICEMENTE AD AMARE...

Una rivoluzione insieme Pacifica e Culturale è AU...SPICABILE. I CANTI LI ABBIAMO, LA MUSICA ANCHE. E L'IMMAGINAZIONE, LA CAPACITA DI SOGNARNE SEMPRE DI NUOVI CHE SONO ANTICHI E' AL CONTEMPO MODERNI ATTUALI AVVENERISTICI FUTURI PROFETICI DEL BENE CHE E' ARRIVATO BASTA APRIRE OCCHI, ORECCHIE, NASI, I PORI DELLA PELLE, CUORE, MENTE, LE MANI, LE BRACCIA, LI PIEDI, LI FIANCHI, L'ANCHE... E L'ANCORA... COMINCIARE UNA FESTA NUOVA FATTA APPOSTA PER QUEST'EPOCA NUOVA.

AL DIAVOLO LE NOTTI DELLA TARANTA! AL DIAVOLO LA TARANTA! AL DIAVOLO TUTTI ST'AUCEDDHI CA A SSULI SE LA CANTANE E SE LA SONANE PE L'AMORE TE CCENE? TE LI SORDI? E TE LU CUMPARIRE....

A GALATINA NCETE NU RIGATTIERE CA TENE LI RESTI DELLA CULTURA NOSCIA E TE LI INDE AL PREZZO MODICO DI 100 EURI E STA PARLU DELLE PORCHERIE CHE INSOZZANO LA MEMORIA DI UNO DEI NOSTRI PADRI SPIRITUALI ARTISTICI E UMANI, MISTURA PURA DI FEDE INTELLETTO E CORE. PARLO DI EZECHIELE LEANDRO E DEL SUO SANTUARIO DELLA PAZIENZA... E CI ME SENTE? MO ME NCAZZU NTORNA! LA CULTURA SVENDUTA!? LA MEMORIA TRADITA E SVENDUTA. LI SFORZI TE LI FURESI I LORO MANUFATTI TRADITI E SVENDUTI... IL NOSTRO PATRIMONIO CULTURALE! QUELLO DELLA GENTE COMUNE! TUTTO PER POCHI, MISERABILI, DENARI E POI TUTTI CA ANCORA NDI LA PIGGHIAMU CU GIUDA (CAPITEMI IL GIUDA DA ADDITARE CI HANNO DETTO CHE E' SEMPRE E' SOLO UNO) MACCHE' SIAMO TUTTI... TUTTI PRIMA O POI L’ABBIAMO FATTO, VA BENE SINE ETE NNA COSA COMUNE MA ATTENZIONE NON E' UNA COSA NORMALE. NON E' NORMALE CONTINUARE IN QUESTA DIREZIONE. NON E' NORMALE PIANGERE IL MORTO QUANDO ANCORA NON E' MORTO. NESSUNO DI TUTTI QUESTI GIUDA SEMBRA POSSA ESSERE PUNITO E NUI CHIUTIMU L'OCCHI INGHIOTTIAMO IL ROSPO E CI ASSUEFIAMO. NO, NON E' NORMALE CONTINUARE COSI' QUESTA, DI TUTTE, SARA' LA NOSTRA VERA FINE. QUESTA LA NOSTRA ESTINZIONE IN QUANTO POPOLO TESTIMONE DI CULTURE ANTICHISSIME E ANCORA VIVENTI... E PURU TUTTU QUISTU LU SAPIMU. E ALLORA SCUSATE, PRIMA DI TUTTO FACCIAMO PACE DEN-

TRO DI NOI E POI CON GLI ALTRI RICOSTITUIAMO LE COMUNITA'. BASTA CON LE IDEE ASTRATTE DI CIO' CHE DOVREBBE ESSERE BASTA CON QUESTI RECINTI SENZA VERDE DOVE I BAMBINI SOFFOCANO DI TRISTEZZA. COMINCIAMO A PIANTARE ALBERI VERI... OLIVI SI, MA ANCHE QUERCE! QUELLE CHE POPOLAVANO QUESTA NOSTRA TERRA. NE ERA PIENA SON DIVENTATE LEGNO DI NAVI DA QUI SALPATE PER PERPETRARE MASSACRI. BASTA NAVI DA GUERRA, AEREI, TECNOLOGIE INUTILI...

TECNOLOGIA VERDE VOGLIAMO: QUERCE VALLONEE, FRAGNI, QUERCE SPINOSE E POI CARRUBBI DI NUOVO, E GELSI, E GIUGGIOLI, E CESPUGLI PER REINFOLTIRE LE POVERE MACCHIE SMACCHIATE DAGLI ASSASSINI DEL PAESAGGIO... PAESAGGIO CHE NON E' MAI SOLO ESTERNO, FINE A SE STESSO MA ANCHE INTERNO: NOSTRO... NOI CHE NON CI ACCORGIAMO CHE DA SOLI REITERIAMO LA PRIMA STORIA DELL'UOMO, LA PRIMA FALSITA' DEL GENERE UMANO IN QUESTA PARTE DI MONDO CONOSCIUTO E ALLORA RIFUGGENDO DAL PECCATO ORIGINALE CHE ABBIAMO ATTRIBUITO IGNORANTI, ALL'ISTINTO O ALLA CONOSCENZA MA MAI AI DISTURBI DI UN CUORE ALTALENANTE TRA PASSIONE E ODIO ODIO ODDIO ODDIO MIO MA DIO NON E' QUESTO CAPRICCIOSO CHE PONE TRABOCCHETTI E TRAPPOLE NO DIO PER ME CHE CI CREDO SONO IO SIAMO TUTTI MOI INSIEME CON CUORE TESTA MENTE E CORPO INTERO

E ALLORA FACCIAMOLA PURE UNA FESTA MA CHE SIA SPECCHIO VIVENTE CHE RIFLETTA QUESTE UNITA' ALLA LUCE DEL NUOVO CHE SEMPRE FU E SEMPRE E' SEMPRE SARA' ELEGGIAMO POSTI DA CONSACRARE DI NUOVO E NE ABBIAMO TANTI,FACCIAMO COME I BIMBI QUANDO INCOSCIENTI GIOCANO E RIDONO E PIANGONO E SALTANO E GRIDANO E ASCOLTANO STORIE SENZA NULLA SAPERE DEI MOSTRI DEL MONDO DEGLI ADULTI

FACIMU LA FESTA TE LE FURMICULE, TE LI PITUCCHI, TE LE MALOTULE, TE LA COCCINIGLIA. FACIMUNNI LA FESTA ALLI IERMI CA NNI STA DIVORANE VISTO CA TUTTU SULLA TERRA UN GIORNO SARA' DIVORATO DAI VERMI ALMENO ESORCIZZIAMO QUESTO! E POI PURU LE FURMICULE STRESSATE CA SIMU, LI PETUCCHI CA SIMU QUANDU NDI CHIUTIMU E SUCAMU LU SANGU, LE MALOTULE CASIMU QUANDU NDI CHIUTIMU INTRA A STA SPECIE TE CASE, LI VERMI CA SIMU QUANDU SULI SULI NDI LASSAMU MANGIARE TE L'AVIDITA.' E BBU AGGIU CUNTATU LU FATTU... ADESSO VEDETE VOI... P.S. Stimo i vermi che un giorno si ciberanno del mio cervello ma non sopporto questi che qui ancora fanno della terra un immenso macello...

E BUON SAN GIOVANNI A TUTTI...


L’arte di costruire la città

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Spagine della domenica n°35- 29 giugno 2014 - anno 2 n.0

La letizia della pittura di Fabio A. Grasso

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Foto 1. L'altare dedicato a san Francesco di Paola

Lo scultore Mauro Manieri e il pittore Oronzo Letizia a Strudà

l bello della storia dell'Architettura e dell'Arte di Terra d'Otranto è che girovagando per il territorio anche i piccoli paesi possono nascondere piacevoli sorprese artistiche che inducono a qualche riflessione e collegamento. E' il caso questo di Strudà, piccolo centro abitato a pochi chilometri da Lecce. Nella locale chiesa madre, particolarmente interessante da diversi punti di vista è l'altare, realizzato fra il 1695 e il 1720, dedicato a san Francesco di Paola (foto 1). Le ragioni, come si diceva, per cui varrebbe la pena di andare a visitare quest'opera è che le sue forme scolpite ricordano – eccetto la mensa probabilmente rifatta in un tempo successivo, quelle di uno dei maggiori architetti e scultori leccesi ovvero Mauro Manieri (1687 -1744 circa). Realizzata in pietra leccese colorata, l'opera mantiene quelle che sembrerebbero essere le tinte originali (andrebbe in ogni caso condotta una indagine specifica in questo senso). Altro aspetto interessante è rappresentato dal grande quadro centrale (quello superiore più piccolo è stato sostituito con altro di più recente fattura, l'originale è disperso) il quale raffigura il Santo di Paola con l'agnello Martinello. Il dipinto ricorderebbe per forme e colori (anche in questo caso però sarebbe doverosa una indagine scientifica di dettaglio dell'opera e dei suoi particolari: tratto della pennellata, materiali utilizzati, etc) quelle del pittore alessanese Oronzo Letizia (1659 - post 1733) che ha lasciato per fortuna più di qualche sua opera autografata. Nel dipinto, in particolare, il volto del piccolo angelo che sostiene la testa dell'agnello, ritorna pressoché simile, in quello di un personaggio (un ragazzo con conchiglie in mano) presente in un dipinto oggi custodito nel coro della chiesa leccese di santa Irene. Quest'opera, unitamente ad altri tre quadri appesi pure nello stesso coro (2 sulla parete di fondo, 1 sulla parete laterale destra, 1 sulla parete laterale sinistra; foto 2 -5) raffigura scene bibliche della vita del re Davide. Con le solite doverose cautele, necessarie quando si ha a che fare un dipinto, anche queste quattro storie di Davide ricorderebbero stilisticamente la produzione artistica di Oronzo Letizia. Non è da escludere infine che i modi esecutivi del citato pittore alessanese possano riconoscersi pure in un piccolo quadro (frammento forse di un'opera più grande), custodito nell'antico Seminario leccese (esso è collocato al primo piano dell'edificio, sulla porta di accesso che conduce alla residenza vescovile), dove sono rappresentati un angelo adulto orante e due più piccoli pure in volo alle spalle del primo (foto 6).

A sinistra la foto 6. Dall’alto verso il basso: foto 1, 2, 3, 4, 5,


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Scritture salentine: osservando, curiosando e ricordando Spagine della domenica n°35- 29 giugno 2014 - anno 2 n.0

Il carrubo, l’asino e i bigodini

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lligna nel Salento una bella e forte pianta, il carrubo, che, nell’arco della sua lunga vita, può anche raggiungere la non comune altezza di dieci metri e si mostra con una folta chioma fronzuta sempreverde. E’ un albero che non richiede soverchie cure, aduso e resistente a qualsiasi condizione climatica, le erbe e le erbacce, che vanno spuntando naturalmente ai suoi piedi, crescono, diventano rigogliose, ingialliscono e seccano, un ciclo vegetativo dopo l’altro, mentre il nostro gigante lussureggiante se ne resta imperterrito lì, quasi a gustarsi la scena. Conferisce un appagamento speciale, durante la stagione calda, la sosta alla sua ombra, con l’agio privilegiato di occhieggiare fra i minuscoli spazi del fogliame e, in tal modo, cogliere frammenti di cielo o di mare, in movimento, oscillanti dietro la carezza timida del venticello. Il carrubo dà anche frutti, sottoforma di grossi baccelli contenenti, all’interno, alcuni semi e contraddistinti da buccia di colore verde quando sono acerbi e di tonalità marrone nella fase di maturazione: si chiamano, semplicemente, carrube. In passato, i contadini, o agricoltori o mezzadri o proprietari dei fondi, provvedevano sistematicamente e puntualmente a raccogliere le carrube; in parte, erano utilizzate ai fini dell’alimentazione degli animali da lavoro e domestici, in parte, invece, erano cedute a commercianti ambulanti all’ingrosso, i quali caricavano i capienti sacchi di iuta su traini o camioncini, li ammucchiavano temporaneamente nei magazzini e, da ultimo, conferivano la merce all’ammasso. Correvano, invero, quotazioni bassissime e, di conseguenza, contropartite in denaro risicate, appena gocce di entrate a beneficio dei magri bilanci familiari dei produttori venditori. Adesso, purtroppo, nessuno abbacchia e raccoglie le carrube, se si eccettuano i modesti quantitativi colti e conservati in casa, per preparare, con l’aggiunta di

di Rocco Boccadamo

fichi secchi, qualche infuso o decotto che, all’occorrenza, può arrecare lenimento e rivelarsi rimedio naturale alla tosse o al mal di gola. Sicché, i frutti del verde e maestoso albero finiscono col cadere da soli sul terreno e col marcire, e così da una stagione alla successiva. Eppure, incredibilmente, sul bancone di un fruttivendolo, stamani, si è presentata alla vista una cassetta, contenente proprio carrube color marrone, e il relativo cartellino prezzo segnava niente poco di meno che € 5 a chilogrammo. Non c’è che dire, dalla produzione al consumo, esattamente chilometri zero e neanche l’ombra di ricarico. *** La vetrina di una macelleria ha, invece, dato agio di apprendere una cosa assolutamente nuova, in altre parole l’offerta al pubblico, fra le varie specialità, di “carne e salame d’asino”, con l’aggiunta, a beneficio della clientela, dell’appellativo dialettale dell’animale, cioè “ciucciu”. La commessa del negozio, per la verità, ha riferito che gli acquirenti di tale genere di carne formano una nicchia limitata, che risente, forse, dei richiami riguardanti la preparazione e la degustazione di manicaretti della specie, in occasione di fiere e sagre. Ha, ad ogni modo, aggiunto che occorrono molte ore, sino a dieci, per cuocere a puntino l’alimento in questione. Pensare come, lo scrivente, con riferimento all’utile animale da soma, fosse fermo e arretrato al “latte d’asina”, utilizzato per finalità alimentari, particolarmente dei bambini, o cosmetiche. Poveri asinelli, anche voi, dunque, andate, talora, a finire al macello, non vi sono più riservati, esclusivamente, il trapasso naturale e il meritato riposo per sempre! Pensare, ancora, come, il ragazzo di ieri, provasse uno scrupolo non da poco nei vostri confronti, come categoria, quando, con i calzoncini corti, per fare dispetto all’anziano contadino del paesello natio, Vicenzu u cuzzune, piccolo e ricurvo, il quale si muoveva esclusivamente in

groppa a un somarello di pari altezza, gli andava appositamente dietro, sfruculiando l’innocente quadrupede, mediante un ramo, esattamente in un preciso punto, al che la bestia, ovviamente, reagiva saltellando e scalciando, con il rischio, per il suo padrone, di essere disarcionato e cadere malamente a terra. *** Cambiando completamente genere di proposta e di affari, un altro esercizio reca esposto uno strano cartello: “Novità assoluta – Bigodini per boccoli”. Al che, s’innesca uno stimolo alla curiosità, la titolare del negozio, intenta a provare una parrucca in capo ad una cliente, incarica il marito di sentire e assistere me. Il predetto mi domanda subito se sono, per caso, un parrucchiere. Dopo di che, passa a spiegarmi che si tratta di un’invenzione freschissima, frutto, però, di lunghi studi, e fa scorrere un breve filmato in cui scorgo una serie di aggeggi, cannelle di plastica, intorno alle quali si arrotolano, tutto in una volta e non capello per capello, i boccoli, tenuti poi fermi e stretti, per un certo arco di tempo, grazie a mollette, pure di plastica, fatte scorrere, dal basso verso l’alto, lungo le cannelle, e fissate con gancetti sino tenere, i boccoli medesimi, avvolti e bloccati. Notevole risparmio di tempo, risultati egregi, aggiunge l’uomo, che, alla mia domanda al riguardo, precisa di vendere kit di siffatti bigodini, ciascuno con quarantadue pezzi, alla cifra di euro quarantotto. Mi saluta con un sorriso, non senza gratificarmi con un “ha fatto bene a chiedere illustrazioni”. *** Per chiudere in allegria le presenti note, abbondano, in giro, i manifesti pubblicitari proponenti “Corsi di ballo”, se ne incontrano proprio tanti, si vede che moltitudini di persone sono portate per la danza in coppia. Nulla di male, ovviamente, anzi è risaputo che i movimenti, giustappunto del ballo, sono salutari per il fisico e per lo spirito.

Ad illustrare l’acquerello di un carrubo da http://medisketch.blogspot.it


Autori Maria Pia Romano scrive ad Alessandra Peluso Spagine della domenica n°35- 29 giugno 2014 - anno 2 n.0

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Lettera ad una poetessa

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irando, come sovente mi capita di fare, tra eventi culturali e, in particolar modo, presentazioni di nuovi libri, ho avuto l'opportunità d’incontrare e conoscere due “stelle”, astri specialissimi sotto le sembianze di giovani e aggraziate donne, che, a mio parere, brillano, distinguendosi, nel firmamento della poesia e della scrittura in genere. Citandole in ordine alfabetico, Alessandra Peluso e Maria Pia Romano. La prima, nata e residente a Leverano (LE), laureata in filosofia, di professione redattrice editoriale e critica letteraria (sul sito web di Affari Italiani.it, il primo quotidiano on line italiano, nella pagina Culture, sono pubblicate circa cento sue recensioni di libri di autori vari), è autrice delle raccolte poetiche “CANTO D’ANIMA AMANTE” edizioni Besa (2009) e “Ritorno Sorgente”, edizioni LietoColle (2013). La seconda, nata a Benevento ma salentina per discendenza e in tutti i sensi, ha scritto e pubblicato, fra l'altro, i romanzi “Onde di follia”, edizioni Besa (2006), “L'anello inutile” edizioni Besa (2011) e “La cura dell'attesa” edizioni Lupo (2012). Dopo una prima laurea, ha recentemente conseguito il titolo accademico in ingegneria. E’ giornalista dal 2000. Come professione continuativa, si occupa di uffici stampa. Alla luce delle opere prodotte, Alessandra e Maria Pia si pongono già alla stregua di autentiche e genuine eccellenze in campo culturale e, v’è da credere, sono destinate a vie più affinare, completare, arricchire e impreziosire la virtù dei loro versi e/o scritti in forma di prosa. Personalmente, mi sono soffermato, con grande piacere, attenzione e coinvolgimento, sulle suggestive, originali e avvincenti pagine di Alessandra Peluso e Maria Pia Romano; al punto che mi sento di suggerire la lettura dei loro libri. Al termine di queste brevi note, mi piace

Alessandra Peluso e Maria Pia Romano

allegare un recente scritto “aperto” della Romano, indirizzato alla Peluso:

Lettera ad una poetessa Sono inciampata per caso nei tuoi versi, in una mattina di marzo in cui il tuo libro mi ha chiamata ed ho sorseggiato le tue atmosfere delicate. Accade così da molto tempo per me, che vivo un presente sgangherato, sospesa da un capo all’altro della Puglia, sempre accelerata verso dove non so, ma incapace di rallentare. Sono diventata allergica alle presentazioni letterarie, ma sono sempre più innamorata delle stanze di carta e le tue, Alessandra, sono un Ritorno sorgente che ha il colore dei tuoi occhi di mare, nelle cui trasparenze si svela un universo dolce, in cui entrare in punta di piedi. Ti conosco poco, anzi, non ti conosco affatto. Avevo negli occhi il tuo sorriso fresco e il tuo sguardo liquido mentre ti leggevo. I tuoi versi semplici, musicali, mi hanno riportato alla tua armoniosa ed elegante presenza, per tutte le volte che ci siamo incrociate e ci siamo scambiate poche parole e sorrisi accennati. Il tuo Ritorno sorgente è uno scrigno di emozioni che hanno il sapore dei tuoi anni e dei tuoi rossori, dei tuoi respiri e dei tuoi silenzi, della natura che a volte tace, a volte si fa parola. Onda increspata, finestra sul giorno, tempo lento, certezza deposta e ritrovata nel vento. La tua poesia crescerà con te, quando imparerai ad affilare le parole e ti lascerai attraversare ancora ed ancora dalla vita, quella vita che ora, è giusto così, dona bellezza snodandosi in immagini armoniose. Tu come me, forse, ti senti nuda non se non indossi il fondotinta, ma se non hai un libro in borsa. Tu sai di cosa parlo quando dico che la poesia è una vocazione ed una dannazione, perché sa aggiustarci il passo nella vita, ma troppo spesso ci costringe ad andare fuori tempo, perché il tempo della vita normale non riusciamo a capirlo.

Tu senti che la poesia chiede sempre un prezzo e ancora non sai dove può condurre, ma te lo spiegherà la tua esistenza, quando non farai domande. Imparerai, come ho imparato io, che il mondo non aspetta i nostri libri. Che oltre al clamore mondano davvero non c’è nulla e inizierai a ridere di coloro che si affannano per vedersi dedicare un articolo su un giornale. Chincaglierie da farisei, perché conta più un lettore vero di mille adulatori. Sarà allora che ti ripiegherai su te stessa e scriverai le tue poesie più belle, che saranno forse meno dolci e più vibranti. Meno carezze e più schiaffi, nei tuoi versi, immagino di vedere nel tempo di-verso in cui la vita si farà ancora musica dell’anima. Ma ora è giusto così, lascia andare le mie parole. E lascia che il senso al tuo cammino lo dia la condivisione autentica, il resto verrà da sé. Il tuo Ritorno sorgente sono i tuoi occhi, liquidi e belli da far paura. Il verde della copertina, lo sai, non l’ho apprezzato: stride con quello che mi comunichi, quando in silenzio apro le pagine e scopro il tuo mondo. Nella distesa d’erba e vigne ascolto addensarsi la libertà. Taccio un gridare lacci lenti, baratto il poco con la natura umile. È la primavera che s’imbarazza di colori, ho gioia semplice di bimbi nell’acqua.

Alessandra Peluso, “Ritorno sorgente”, Lietocolle

Maria Pia Romano 4 giugno 2014

Io, ho trovato eccezionalmente bello il suddetto documento, compresi i versi finali che sono opera della poetessa di Leverano. di Rocco Boccadamo


Teatro

spagine

Spagine della domenica n°35- 29 giugno 2014 - anno 2 n.0

di Ti Racconto e a residenza teatrale a cura di

Il Bando per l’edizione 2014

Dal corpo alla parola

Capo

Il laboratorio teatrale

Ippolito Chiarello

L’amor perduto”, il tema del nuovo Bando per partecipare alla Residenza Teatrale del progetto Ti racconto a Capo, organizzato dall’Associazione Idee a Sud Est con la direzione artistica dell’attore e regista Ippolito Chiarello. Come ogni anno, il lavoro si svolgerà nel Capo di Leuca, con epicentro a Corsano, dal 31 luglio al 9 agosto, la residenza è realizzata in collaborazione con l’Assessorato alle Politiche Giovanili della Città di Corsano e Nasca Teatri di Terra, oltre a vantare numerose partnership associative e istituzionali. Il “racconto” sarà “a Capo”, sia perché partirà dall’ultimo spicchio del Sud - il Capo di Leuca - sia perché ci impegnerà sempre in nuove esperienze, convinti che ogni anno bisogna avere la forza e il coraggio di mettere un punto sul tempo trascorso, imparare

Musica

dagli errori, andare “a capo” raccontando una storia che abbia il sapore del passato e il gusto di un nuovo futuro. Il bando è volto a selezionare i 16 partecipanti che gratuitamente saranno protagonisti di un periodo di creazione e formazione all’interno della Residenza Teatrale “Hestia. Il Ventre dei luoghi”. “Quest’anno l’unione di immagini suoni e parole che da vita a Ti racconto e a Capo – dichiara Ippolito Chiarello – parte dalla osservazione che ormai ci mancano le parole e il coraggio per dichiarare il nostro amore. Le serenate, il corteggiamento perduto, l'amore dei nostri genitori. Le mani che si accarezzano di mia madre e mio padre dopo mezzo secolo di vita insieme. Un amore antico guardato da occhi ancora ingenui. Come si corteggiava? Corteggiare con parole antiche. Riscrivere un dizionario di parole smarrite sarà l’impegno più difficile ed affascinante che realizzeremo

Anima Mundi In digitale da

Ghetonìa

due storici album dei disponibili in download su tutti i digital store

I

Mario Perrotta

al Teatro Comunale di Nardò con

Una fotografia di Lucia Pagliara

con i partecipanti alla Residenza Teatrale, con i residenti e con i turisti”. Si avrà come set naturale gli angoli di Corsano e del Capo di Leuca, i luoghi quotidianamente abitati dalla popolazione, le piazze con la loro anima e i loro ricordi, gli scorci architettonicamente più suggestivi, al fine di unire l’espressione artistica con la rivalutazione dei contesti urbani ricchi di storia e segni (essi stessi) della storia. La selezione è aperta ad attori, danzatori, allievi in formazione, italiani e stranieri e, più in generale, a tutti creativi attivi che siano interessati a trascorrere un periodo di formazione e produzione.

Il bando è reperibile su: www.tiraccontoacapo.it Le domande dovranno pervenire entro il 7 luglio 2014.

Recapiti Organizzativi: “Ti racconto a Capo” www.tiraccontoacapo.it email tiraccontoacapo@hotmail.it

n attesa della riedizione dei primi tre album dei Ghetonìa, Mara l'acqua (1993), Agapiso (1994) e Malìa (1995), usciti originariamente solo su cassetta e per i quali AnimaMundi sta preparando una nuova versione in doppio Cd con ricco libretto, l'etichetta salentina ripubblica in digitale altri due album fondamentali per la scena musicale del Salento. AnimaMundi è convinta che quella dei Ghetonìa sia tra le esperienze musicali più affascinanti e innovative degli ultimi vent'anni, non solo per il Salento. Per questo vuole mettere a disposizione di tutti queste pietre miliari, anche in ascolto gratuito. Per incantamento (1998) e Mari e lune a est del sud (1999) sono tra i dischi più conosciuti e amati dei Ghetonìa, ensemble della Grecìa salentina che ha inaugurato la riscoperta della musica di tradizione nei primi anni '90, se-

L

’attore dell’anno - vincitore del Premio Ubu 2013 come Miglior Attore, Premio Hystrio 2014 per un “Un bès – Antonio Ligabue”- Mario Perrotta al Teatro Comunale di Nardò per tenere un laboratorio di formazione attoriale. L’occasione di poter vivere un’esperienza formativa con un grande professionista che sta segnando pagine importanti nella storia del teatro, destinate a lasciare tracce indelebili. TerramMare ha fortemente voluto ospitare, nella sua residenza teatrale, Mario Perrotta, organizzando, oltre ad una replica dello spettacolo “Odissea” il 6 agosto, un laboratorio destinato a giovani attori dal titolo: Dal corpo alla parola. Indagare il contemporaneo, indagare il quotidiano, attraverso il corpo dell'attore per giungere alla parola: non basta raccontare in scena un qualunque fatto notabile della nostra storia perché si dia teatro. Procedere così, forse è “civile”, ma non è detto che sia “teatrale”. Bisogna, come ogni artigiano, recuperare gli strumenti del teatro per tradurre un fatto in azione scenica, in una drammaturgia necessaria e autosufficiente. Un laboratorio che parte dal corpo e dalle sue possibilità espressive per arrivare alla parola intesa come azione. Un concetto base che, spesso, trascuriamo: la parola non è nient’altro che azione. E l’azione provoca sempre una reazione: sperimentare la relazione tra attori sulla scena. Programma del laboratorio Teatro Comunale di Nardò, da lunedì 4 a mercoledì 6 agosto 2014 Orari: lunedì 4 e martedì 5 dalle ore 16.00 alle ore 22.00 mercoledì 6 dalle 12.00 alle 16. 00 La partecipazione al laboratorio ha un costo di € 150,00 Info e Iscrizione Per informazioni telefonare al 348.67.222.42 e 0833.836240. Per l'iscrizione inviare una lettera motivazionale con curriculum vitae entro il 26 luglio al seguente indirizzo di posta elettronica: terrammareteatro@tiscali.it Il laboratorio è destinato ad un massimo di 20 partecipanti.

gnando contemporaneamente i primi passi di un movimento musicale "meridiano", che tornava a guardare al Mediterraneo e alle sue voci piuttosto che a modelli lontani e slegati dalla cultura del Sud Italia. Movimento ancora molto attivo nel Salento e in tutta Italia. Un passo successivo, l'entrata del fisarmonicista albanese Admir Shkurtaj, portò il gruppo guidato da Roberto Licci e Salvatore Cotardo a dialogare con la musica albanese. Il primo dei tanti risultati è il brano "L'artigiana di Luma" che apre Mare e lune a est del sud. I dischi sono disponibili in download su tutti i digital store e in ascolto libero sulle piattaforme di streaming come Youtube, Spotify e Deezer. Ulteriori informazioni su: www.suonidalmondo.com www.youtube.com/AnimaMundiEdizioni

Roberto Licci


R

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Musica

Spagine della domenica n°35- 29 giugno 2014 - anno 2 n.0

apper cosentino, classe 81, Mirko Kiave è tra gli artisti di spicco sulla scena della musica hip hop in Italia. Nell’intervista ci racconta dei suoi ultimi progetti e delle novità.

Chi è Kiave? Kiave è un ragazzo cresciuto a Cosenza. A 24 anni si è trasferito a Roma e successivamente a Milano. Da sempre interessato alla musica, ha scelto il rap per esprimersi. Perché hai scelto il rap? Il rap ti dà l’opportunità di dire qualcosa in modo creativo e musicale.

Non credi che in Italia fare il mestiere del rapper sia rischioso? La mia priorità non è mai stata quella di vivere con questo mestiere. Ho svolto tanti lavori e non faccio una vita ricca di vizi ma mi basta poco per vivere, mi accontento.

Il tuo disco ‘Solo per cambiare il mondo’ è basato su testi molto impegnati. Non credi di stancare chi ti segue? Io non faccio dischi per il pubblico ma faccio dischi per dire determinate cose che penso in quel periodo. In quel momento pensavo così e l’ho fatto. Dipende tutto dal momento.

Nel brano ’11 storie’ viene messo in risalto il fatto che in Italia l’arte non viene considerata come un lavoro. Tu hai la speranza di cambiare qualcosa? Noi nel nostro piccolo stiamo già portando un cambiamento sia con la musica che con i progetti. Io preferisco morire lottando per cambiare le cose invece di accettare una realtà che non mi va. L’Italia è messa molto male da questo punto di vista ed è importante sensibilizzare le persone affinché tutte riescano a capire che c’è bisogno di un cambiamento. Nel tuo disco ti definisci un guerriero. Hai deciso di fare il rapper per combattere cosa? Non ho deciso di fare il rapper per combattere ma io ho sempre combattuto. Vengo da una famiglia che non ha mai fatto dell’accettazione una sua guida ed io mi sono sempre opposto a ciò che non mi andava. Ho capito che il rap può essere un’arma molto importante perché arriva alla gente. Combatto ciò che ritengo non sia giusto; non voglio restare seduto su un divano ad aspettare che il cambiamento arrivi ma cerco di esserne parte integrante ed attiva.

Attualmente quali sono i tuoi progetti? Sto seguendo un laboratorio di scrittura creativa nel carcere di Monza per fornire a loro un mezzo per sfogarsi nei momenti di disperazione. Sono contento perché i ragazzi sono davvero bravi e tutti molto interessati. Faccio parte anche di un progetto denominato ‘Potere alle parole’. Insieme ad altri miei colleghi rapper stiamo girando varie scuole portando laboratori di scrittura creativa improntati contro le discriminazioni e contro il razzismo.

Dove è possibile conoscere le date del tuo tour? Questa estate farò poche date ma mirate. Si trova tutto sul sito www.mirkokiave.com oppure sulle mie pagine facebook e twitter.

Rapper guerriero di Alessandra Margiotta


Cinema

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Spagine della domenica n°35- 29 giugno 2014 - anno 2 n.0

Quando la terra scotta N

di Daniela Estrafallaces

essuno si fa i conti in tasca al mattino quando prende il pomo della porta e lo ruota (dalla parte giusta, suppone qualche lontano parente dell’ipotalamo in un ghigno che ci piace definire giurassico) e mette il naso fuori. La faccenda è semplice come lo è l’istinto di sopravvivenza, come l’idea per nulla retrograda di non prevaricare il passo che si dimena sotto di noi, perché lui sa dove deve andare. Esiste con buone probabilità un feeling di natura elettiva fra le creature che si muovono nel minuscolo camping a macchie bianche blu e verdi che galleggia nell’universo e il parto travagliato del caro, vecchio big bang, con il suo frutto che pulsa di vita in grumi magnetici da puzzle di cui non possediamo il libretto d’istruzioni tutto intero, perché dritto sul punto che stiamo osservando, c’è una grossa patacca traslucida e opaca messa lì apposta da chicchessia perché i messaggi subliminali che sono custoditi là sotto non scivolino giù e non vogliano dare uno sguardo con la coda dell’occhio al drive in che c’è fuori, o semplicemente, perché no? lasciarsi guardare, sbranando il fondo dei calzoni all’idea dei compartimenti stagni. Il gioco si consuma la suola delle scarpe sul campo minato dell’equilibrio, ciabattandoci sopra con caparbietà ed energia variabile, fino a che la terra stessa decide di scrollarsi di dosso quell’andatura ritmica, straordinariamente magnetica, questo sì, e un brulicare dei nervi più profondi mostrano se stessi, in fine, nel paradosso salvifico dell’autodistruzione. Non è semplice avvertire a filo d’orecchio lo scalpello delle convenzioni che muoiono schiantandosi al suolo. Eppure è così, ragazzi. La realtà non può essere mutata a nostro piacimento con i palmi madidi della consapevolezza dell’errore e la certezza che quello che ci sbatte dritto in faccia sta colando dalla linea della vita, addensandosi come nebbia in una pratica secolare di risposte svariate agli inquietanti perché del mondo, ti tira il tappeto da sotto i piedi mentre cammini. Con lo sguardo rivolto al nuovo orizzonte, i coni d’ombra formano il limbo della riflessione su se stessi e sul proprio percorso esistenziale, giocato su rocamboleschi

fuori pista e prese di coscienza da motore a scoppio. Siamo nel centro nevralgico ad alta reattività nucleare di Godzilla (2014) di Gareth Edwards, pellicola di fantascienza in cui l’aspetto apocalittico di genere assume valore documentaristico sfruttando la vena ampia, pulsante nella terra come ventre simbolico riproduttivo, della metafora della vita nel suo elemento primordiale. L’incipit mostra la prospettiva di un canovaccio del filone cine-catastrofico che si svolge lentamente, in un andamento tentacolare che prevede effetti domino e solo brevi pause nella prospettiva dell’osservazione di quello che è stato. È l’azione ad afferrare il timone del comando fin dall’inizio partendo dall’incidente della centrale nucleare di Tokyo, dove un potente ed ignoto segnale elettromagnetico disperde la colonia umana, totalmente all’oscuro dei fermenti di un antico mondo in incubazione nelle profondità della terra. La tragedia si porta dietro il suo strascico di vittime. Ad essere colpito in prima persona è il supervisore statunitense Joe Brody (Bryan Cranston) che perde la moglie Sandra (Juliette Binoche), risucchiata nel vestibolo radioattivo dell’incidente, purgatorio simbolico di un gran processo alle intenzioni dell’errore umano. Quindici anni dopo, la verità è una patina che ricopre buona parte del pianeta riducendolo ad un’immensa scacchiera in cui la sfida fra i “mostri” del mondo preistorico è interpretazione su vasta scala dello scontro umano come marchio del territorio e primarietà dell’istinto di sopravvivenza. Così la lotta diviene confronto spietato con il riflesso rettiliano delle proprie origini, nella caparbietà delle crisalidi preistoriche dischiuse che progettano la nidificazione nel mondo in rovina e la forza primordiale di Godzilla, la creatura che emerge dalle profondità dell’oceano come le crisalidi dalla terra, intraprende una lotta che è simbolo di confronto di elementi dominanti della creazione e scompare eroicamente riscattando la furia distruttiva del suo essere nell’eliminazione degli avversari, i M.U.T.O., salvando in extremis il suo alter ego umano, il tenente Ford Brody (Aaron Taylor-Johnson), ripristinando un vecchio equilibrio che ha il sapore del confronto viscerale con tutto ciò che si annida nel profondo.


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Beni culturali

Spagine della domenica n°35- 29 giugno 2014 - anno 2 n.0

“Si chiude un'era. Apre il Castello di Gallipoli”

copertina

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opo aver rilanciato il Castello Aragonese di Otranto e aver accolto oltre 250 mila visitatori con le mostre di Joan Mirò, Pablo Picasso, Salvador Dalì, Andy Warhol e Giorgio de Chirico, l’Agenzia di Comunicazione Orione di Maglie e la Società Cooperativa Sistema Museo di Perugia, con il coordinamento generale di Luigi Orione Amato e la direzione artistica dell’architetto Raffaela Zizzari, lanciano una nuova sfida, in collaborazione con la Cooperativa Kalecò. Aprire, per la prima volta al pubblico, dopo anni di chiusura e incuria, il Castello di Gallipoli. Il raggruppamento di imprese ha vinto il bando, fortemente voluto dall'amministrazione comunale di Gallipoli e in particolare dal sindaco Francesco Errico, per mettere in sicurezza, rendere fruibile e gestire l'antico maniero.

Dall’Adriatico allo Jonio la sostanza non cambia: competenza, passione, cura dei dettagli, innovazione, arte ed eventi per riconsegnare agli abitanti, alla Puglia e soprattutto alle centinaia di migliaia di turisti che ogni anno affollano la città bella, un patrimonio da troppi anni nascosto. La campagna di comunicazione annuncia: Si chiude un'era. Apre il Castello di Gallipoli. Nelle sale, nei torrioni, nelle gallerie e nei corridoi troveranno posto mostre e produzioni culturali, uno spazio per iniziative di respiro internazionale. L'apertura al pubblico è prevista da sabato 5 luglio (luglio e agosto ore 10-24; settembre ore 10-21).

Da sabato 5 luglio Gli orari: luglio e agosto dalle 10 alle 24; settembre dalle 10 alle 21 Nei periodi successivi furono effettuati numerosi interventi di ristrutturazione e fortificazione. I lavori più importanti vennero progettati dagli Aragonesi. Quando il Duca Alfonso di Calabria venne nel Salento tra il 1491 e il 1492, condusse con sé il celebre architetto militare senese Francesco di Giorgio Martini e volle che questi rinnovasse le fortezze salentine secondo i progressi dell'arte della guerra, che tendeva ad abbandonare la conformazione quadrilatera ereditata dal sistema romano per passare al pentagono. Il senese, non potendo demolire e ricostruire ex novo, ideò il “Rivellino” mediante il quale rese di forma pentagonale l’intero maniero. Prima dell'Unità d'Italia, quando nel 1857 il castello venne radiato dal Novero delle fortezze del Regno Borbonico, perse la sua funzione difensiva, ma mantenne e anzi intensificò la sua funzione civile e soprattutto commerciale. Durante il 1800 divenne deposito di sali e tabacchi, oltre che sede della Dogana nel 1882 e, successivamente, sede della 17^ Legione della Guardia di Finanza.

Nel 2014, in soli sei mesi, è stato reso fruibile un percorso di visita che mira a ricostruire la storia della città e dell’antico maniero, senza alterarne il carattere e senza avere la pretesa di essere un restauro integrale del monumento che richiederebbe ben altre risorse per ritornare agli antichi splendori.

Sino al 28 settembre le sale del Castello ospiteranno, inoltre, Scatti di cinema, la Puglia al cinema, realizzata da Apulia Film Commission e curata da Daniele Trevisi. Sono passati appena quattro anni dalla prima edizione della moIl castello si erge all'ingresso del borgo antico di stra allestita per la prima volta nel 2010 alla Gallipoli, città da sempre fortificata e, per la sua Mostra del Cinema di Venezia. Dopo il sucposizione strategica, contesa. È circondato cesso dell’anteprima veneziana, sono stati diquasi completamente dal mare. Ha pianta qua- versi i luoghi che hanno accolto la mostra drata con torrioni angolari, di cui uno poligonale. itinerante, anche fuori dal territorio regionale e

Philipp Hackert - Porto di Gallipoli 1790

nazionale. In questi quattro anni, grazie anche al lavoro di Apulia Film Commission, la Puglia ha ospitato numerose produzioni audiovisive nazionali ed internazionali. Ed è per questo che la Fondazione, ha deciso di riproporre un'edizione aggiornata della mostra con nuove e inedite fotografie di film che si sono avvicendate sul territorio in questi ultimi quattro anni, con un allestimento composto da circa 70 fotografie scattate durante la lavorazione dei film di Alessandro Piva, Edoardo Winspeare, Pupi Avati, Sergio Rubini, Mario Martone, Ferzan Ozpetek, Giovanni Veronesi, Daniele Ciprì, Pippo Mezzapesa, Giacomo Campiotti, Leone Pompucci, Ermanno Olmi, Eugenio Cappuccio. Fotografie scelte con l’idea di mostrare le location, i protagonisti e i backstage. La mostra vuole creare, infatti, un viaggio nel territorio pugliese attraverso le immagini dei film. Un percorso in cui vengono sottolineati tutti gli elementi caratterizzanti della Regione: la natura, il mare, le architetture, i colori, i centri storici e la particolare luce che ha sempre incantato i registi di tutto il mondo.

Emporio di Puglia è il titolo della rassegna degli eventi collaterali, omaggio alla citazione che il Vernole utilizza per descrivere l’importanza commerciale e strategica di Gallipoli: “… ove cicalavano ogni dì mille favelle e lingue e dialetti, vicini e lontani, italici ed orientali, mediterranei e nordici…”. La rassegna collaterale offrirà inconsuete esplorazioni del nostro territorio pugliese, attraverso un ricco programma di mostre ed eventi, dall’originale sperimentazione delle potenzialità della cartapesta di Francesca Carallo, alla forza materica delle ceramiche della Bottega Vestita, dalla poetica artistica di Beppe Labianca agli incontri d’autore con i registi e gli addetti ai lavori dei film in mostra. Un susseguirsi di concerti en plein air ma anche laboratori didattici per grandi e piccini.


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