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spagine Spagine della domenica n°38 - 20 luglio 2014 - anno 2 n.0 Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri


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“Silvio Berlusconi assolto dalle accuse di concussione e di prostituzione minorile, nel cosiddetto processo Ruby... Lo stesso bicchiere, una volta è stato visto mezzo pieno; un’altra volta, mezzo vuoto, anzi vuoto del tutto”

Solo un po’ sporcaccione I

giudici della Corte d’Appello di Milano hanno assolto Silvio Berlusconi dalle accuse di concussione e di prostituzione minorile, nel cosiddetto processo Ruby, per le quali era stato condannato in primo grado a sette anni. Il fatto non sussiste per la concussione, il fatto non costituisce reato per la prostituzione minorile, peraltro non provata. Questo il succo della questione. Mo’ – dico io – si può vivere in un paese dove la giustizia si propone con simili aberranti sentenze? Qui non siamo in presenza di un processo che nel secondo grado di giudizio ha avuto a disposizione elementi di giudizio che non aveva avuto nel primo grado; qui siamo con gli stessi elementi, né di più né di meno. Ne sapremo di più quando sarà pubblicato il dispositivo della sentenza. Allora, che cosa è cambiato? Nel merito, niente. Lo stesso bicchiere, una volta è stato visto mezzo pieno; un’altra volta, mezzo vuoto, anzi vuoto del tutto. Sono cambiate, però le circostanze, almeno tre: la situazione politica generale ormai avviata a destinazioni diverse da quella di due anni fa; l’accusato ormai politicamente fottuto; la corte composta non più da donne ma mista a prevalenza maschile. Se a tutto questo aggiungiamo che la Procura di Milano è in preda ad una guerra di tutti contro tutti, con accuse reciproche incredibili e inconcepibili in un paese civile, il quadro è completo. Dice: e questo, che c’entra? C’entra. Nello spirito di Papa Francesco, anche i giudici devono osservare il Vangelo: non vedere perciò la pagliuzza nell’occhio dell’altro, quando nel proprio si ha una trave. Chi ancora non aveva capito – la mamma dei ritardati mentali ormai è l’unica in Italia ad essere sempre incinta – beh, ormai ha capito che la giustizia nel nostro paese è un’arma politica, come neppure negli stati

totalitari accade. Ma una simile giustizia è veramente un’arma politica? Se lo è, qualcuno la deve impugnare. Oppure è semplicemente malata? Probabile che siano vere tutte le ipotesi, perché è difficile che un’ipotesi possa essere così prevalente sulle altre, c’è sempre in casi simili un concorso di cause. Non è difficile, oggi come oggi, giungere a identificare chi brandisce la giustizia come un’arma. Ne sono pieni i giornali, specialmente i non allineati, come “Il fatto quotidiano”, “Libero” e “il Giornale”. E’ pure vero, però, che questa giustizia è affetta da tutte le manie tipiche di cui soffrono i soggetti megalomani, con sindromi di onnipotenza, compiacenti e compiaciuti di fare tutto e il suo contrario pur di dimostrare che al di sopra di sé non c’è nessuno. Si pensi ai Tar, che annullano interi esami di stato, mettendo in discussione il lavoro di professionisti, qualche volta anche seri e certamente non inferiori professionalmente ai magistrati, solo perché in un verbale manca una parola o una virgola. E’ appena il caso di ricordare che ormai in Italia i concorsi in magistratura spesso vengono annullati per una serie di vergognose irregolarità, fra cui la conoscenza delle tracce prima della stessa prova e l’evidente reato di plagio dei candidati “futuri padreterni” in quanto giudici. Ora, questa giustizia non ha accertato, a proposito del processo Ruby, l’inesistenza dei fatti in rubrica, anzi li ha ribaditi; ha detto però che le sporcaccionate di Berlusconi non hanno avuto niente a che fare coi reati di concussione e di prostituzione. Va da sé che i cittadini italiani sono sconcertati sia per la prima sentenza, sia per la seconda. Se valesse anche oggi la ragion politica – quella seria e coerente – Berlusconi dovrebbe essere sacrificato sull’altare della credibilità di uno Stato, che forse, a questo punto, ha più bisogno di credibilità

di Gigi Montonato

che di Pil. Cosa potrebbe accadere dopo questa sentenza après-saison? Berlusconi esce rafforzato. Potrebbe essere tentato di rialzare la testa, di ribadire la sua insostituibilità al vertice di uno schieramento politico che ormai si avviava ed è avviato al raggiungimento di una nuova dimensione politica, di recuperare addirittura sogni quirinalizi. La prima cosa che è stata sparsa ai quattro venti è che si va avanti con le riforme nello spirito del Nazareno, inteso come patto tra Renzi e Berlusconi. Appare allora chiaro che la prima sentenza, di condanna, serviva a rottamare un politico ancora forte, mentre la seconda, di assoluzione, serve a restituire al rottame efficienza e forza, per continuare a sostenere lo stesso processo politico. Tutto questo va a scapito di chi oggi, dentro e fuori la maggioranza di governo, tenta di percorrere una strada diversa. Soprattutto è penalizzato il centrodestra, ridotto al ruolo di valvassino nel neofeudalesimo politico italiano. Bisogna avere una bella faccia tosta o vivere fuori dal mondo per dire, come ha fatto Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera” di sabato, 19 luglio, che tutti dovrebbero essere contenti, perché la seconda sentenza, di assoluzione, ribadisce il principio-cardine dello Stato di diritto secondo cui si è innocenti fino a sentenza definitiva. E non dovrebbero «essere scontenti – secondo l’ineffabile uomo del “Corriere” – tutti quelli che hanno virtuosamente negato di aver voluto mischiare vicende giudiziarie e vicende politiche». Per Battista questa sentenza celebra, insomma, ancora una volta, i fasti della nostra giustizia. Incredibile! Giuro che alla lettura di simili untuose parole, mi son tenuto con due mani afferrato alla sedia per non ritrovarmi col culo per terra, scivolato per tanto profluvio di materiale oleoso.


Diario

della domenica n°38 - 20 luglio 2014 - anno 2 n.0

La Germania Campione del Mondo

S

Ordine eseguito!

i saranno accorti tutti i milioni e milioni di spettatori del campionato mondiale di calcio, conclusosi domenica 13 luglio in Brasile, che i calciatori tedeschi, campioni del mondo, avevano indosso due divise, una banale: maglietta, pantaloncini e calzettoni coi colori e i fregi della Germania; l’altra più importante: capelli e barbe rasati, nessun tatuaggio sul corpo, nessuna cresta in testa o altre stravaganze cromatiche e folkloriche; nessuna lacrima o conato di vomito; nessuna sceneggiata per falli veri o presunti subiti; nessuna protesta per decisioni arbitrali discutibili. Questa seconda divisa, che in realtà è la prima, i tedeschi la fanno indossare perfino a quegli stranieri che finiscono per essere naturalizzati tedeschi e conseguentemente utilizzati nella nazionale di calcio. Se non fosse perché i tratti del viso e il colore della pelle erano diversi i Khedira, gli Ozil, i Boateng, nonostante qualche piccolo irrinunciabile vezzo etnico, sembravano autentici tedeschi. Tutti decisivi nel costruire il successo: tutti protagonisti, nessun personaggio. Nulla di strano. Anche noi italiani facciamo indossare agli stranieri che giocano nella nostra nazionale la divisa comportamentale italiana; così abbiamo fatto di Balotelli un italiano doc. Chi saprebbe distinguerlo da un Cassano, colore della pelle a parte? Lungi dall’ancorare la vittoria del mondiale alla sola divisa comportamentale, non si può tuttavia non fare qualche considerazione. Né si può scemare il valore critico di quanto sopra con le solite obiezioni che furoreggiano nel calcio: se quel tiro invece di andare di poco fuori fosse andato dentro, non staremmo qui a celebrare le teutoniche divise. Da che mondo è mondo si valutano i fatti, quelli che sono accaduti e non quelli che sarebbero potuti accadere. Dunque tedeschi campioni del mondo in duplice divisa. Il mio professore di lingua e letteratura tedesca e germanistica all’Università, Francesco Politi, che i tedeschi li conosceva bene essendo stato per anni in Austria e in Germania come direttore di istituti italiani di cultura prima dell’insegnamento universitario, diceva che i tedeschi fanno le cose di pace con la stessa serietà e con lo stesso impegno con cui fanno le cose di guerra. “In pace decus, in bello praesidium” diceva di loro Tacito circa duemila anni fa nella sua “Germania” (in pace splendore, in guerra difesa). Aveva perfettamente ragione. Nell’immediato dopoguerra lo scrittore Carlo Levi, ben noto per il suo libro “Cristo si è fermato a Eboli”, si fece un giro in Germania e trasse un reportage che pubblicò col titolo “La notte dei tigli”. Pensava Levi di trovare una Germania devastata dalla guerra, un fumar di rovine e i tedeschi avviliti, pentiti, imploranti perdono mondiale e aiuti stranieri per riprendersi dall’immane catastrofe. Pensava, lui ebreo, di godersi la rivincita per quanto la sua gente aveva patito per

Il Commissario Tecnico Joachim Löw della nazionale tedesca e alcuni suoi ragazzi. Cli abiti sono di Hugo Boss

colpa del nazismo. Invece lo scrittore rimase stupefatto: tutto ricostruito, tutto in ordine, le vie e le piazze ben pulite, non si vedeva un muro sbrecciato, i servizi funzionanti, la gente come se non ci fossero mai stati in Germania né nazismo né guerra. Una cosa che non sembrava neppure vera al reduce di Eboli. Sorpreso e spiazzato, scambiò il ben di Dio trovato con l’indifferenza di un popolo che aveva rimosso completamente con le rovine anche le colpe. Ecco, i tedeschi giocano al calcio, che è cosa di pace, come sterminavano interi quartieri nelle città occupate in tempo di guerra, con la stessa divisa comportamentale. Nel distruggere le cose degli altri in guerra e ricostruire le proprie cose a guerra finita esprimono la stessa serietà, ligi ad uno stesso dovere, obbediscono a degli ordini. Li abbiamo sentiti dire più volte i criminali di guerra nazisti, a partire dal processo di Norimberga ai nostri giorni, di non negare nulla di ciò di cui venivano accusati ma di non sentirsi responsabili di nulla; ognuno ha ripetuto: ho solo obbedito a degli ordini. Chi li ha condannati a morte probabilmente non ha creduto al mantra “ho obbedito a degli ordini” o forse sì, ha creduto, ma doveva pur dare al mondo un messaggio che scongiurasse il ripetersi di simili tragedie. Oggi la Germania è la potenza politica ed economica più importante dell’Europa. Se a tanto è giunta, dopo l’annientamento subito con la seconda guerra mondiale, significa che il suo popolo ha delle doti eccezionali, tra queste il senso della disciplina, del decoro, della serietà, dell’impegno, dell’obbedienza. “Obbedire agli ordini” non è un fatto in sé negativo; anzi, in tempo di pace significa progresso, efficienza, successo in tutti i campi. I successi, infatti, giungono grazie a queste doti; non sono regali piovuti dall’alto di un Signore universalmente misericordioso, che distribuisce beni a pioggia; ma da un Signore selettivo, che premia chi merita. Dobbiamo convincerci che la mamma non ce la scegliamo, ma Dio sì: a ciascuno il suo. Ma il vero ordine a cui i tedeschi obbediscono non è affatto esterno, come sosteneva Curzio Malaparte, che pure tedesco era per parte di padre, narrando un episodio sicuramente inventato in una delle sue più celebri opere, “Kaputt”, in cui i soldati tedeschi non obbedivano all’ordine del comandante solo perché non era in divisa; il vero ordine sentito dai tedeschi – dicevo – è tutto interiore, è un obbedire a se stessi, a quel loro essere insieme individui e popolo, singoli e insieme. E’ quell’imperativo categorico, teorizzato da Kant, uno dei più rappresentativi filosofi tedeschi, a cui il tedesco tipo non sa sottrarsi. Dei calciatori della Mannschaft campioni del mondo, ci sarebbe solo da sorprendersi che alla fine hanno perfino gioito! Gigi Montonato


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uante volte ci siamo sentiti cittadini estranei e incompresi di questo mondo ipertecnologizzato, di questo villaggio globale improntato alla massimizzazione del profitto, al culto estremo dell’economia? Quante volte le leggi inappellabili e “auree” del mercato si sono disvelate ai nostri occhi come esangui teoremi, privi di sostanza? Quante volte ci siamo sentiti espulsi o, comunque, messi ai margini al cospetto di abnormi meccanismi iperefficientistici? Dovremmo, forse, uscire all’aperto e respirare aria pura. Dovremmo oltrepassare i domini limitati del piccolo cabotaggio, del povero tornaconto personale, dell’insignificante ripiegamento su se stessi, guardando con fiducia oltre gli angusti e stretti giardini. Mirando al di là della siepe, l’orizzonte che roseo e, comunque, meno angoscioso può schiudersi. Anche se tanti mezzi di informazione sono molto parsimoniosi e stitici nel divulgare certe notizie, negli ultimi anni, è cresciuto nel nostro Paese un movimento plurale di donne e di uomini con l’intento primario di valorizzare l’inestimabile ed inalienabile patrimonio dei beni comuni. L’acqua, la cultura, la casa, l’accesso gratuito e libero ad Internet, le ricchezze energetiche edecologiche, il gusto insopprimibile della libertà, dovrebbero essere risorse ad appannaggio di tutta la comunità. Il bene comune è “carne” viva, da mangiaretutti assieme, da dividere e spezzare devotamente con mani compagne, in una mensa imbandita di comprensione. Il bene comune non è davvero quello che ci ammannisce subdolamente una deteriore vulgata. Insomma, non è quell’esercizio retorico ostentato come belletto da alcuni politici, che sanno annaspare fragorosamente nei dibattiti televisivi e nelle quotidiane interviste sulla carta stampata. Il bene comune è un antidoto potente contro l’individualismo sfrenato, oltre l’inconsistente e ferreo giogo della convenienza. Fa bene la Chiesa cattolica a tuonare vigorosamente contro il virus pernicioso dell’ individualismo spinto allo stremo: “Se le grandi manifestazioni dell’umano sono pensate in chiave autoreferenziale è l’uomo a perdersi”. È vero, se trattiamo la realtà effettuale con attenzione, possiamo notare che s’apre intorno un universo più fascinoso: la solidarietà, la gratuità, il dono, l’amicizia, la compartecipazione. Indubitabilmente, viviamo un cambiamento d’epoca: patiamo una crisi lavorativa senza precedenti; le sacche di povertà diventano sempre più ampie. Siamo immersi in un’era lacerata, sconfitta, dolente: siamo in tanti, confusi, alla deriva a soffrire lo stigma dell’esclusione sociale; la pervicace economia capitalistica mostra ogni giorno il suo volto sfatto e terribile; l’ambiente fisico, naturale, viene devastato dalla scriteriata mano antropica dell’uomo occidentale, che non sa ancora coniugare compiutamente disposizione e diffusione partecipata dei beni comuni con una saggia economia delle risorse. La Chiesa cattolica segue i suoi dettami e fa bene quando denuncia “l’impoverimento delle relazioni, dei legami fra gli individui”, quando inveisce contro la sacralizzazione e l’idolatria del “dio-denaro”, in nome del quale vengono perpetrare colossali ingiustizie e inverecondi misfatti. Nei periodi di invalidante depressione, è necessario più che mai incrementare la cultura del-

Contemporanea

della domenica n°38 - 20 luglio 2014 - anno 2 n.0

La fraternità e la civile accoglienza sono beni comuni da coltivare

Oltre

la siepe

di Marcello Buttazzo

La victorie - Renè Magritte l’amore, dell’accoglienza, del rispetto reciproco. E siamo in tanti, sia cattolici che laici ( credenti, non credenti, diversamente credenti), ad essere smarriti, feriti, ai margini di questa filosofia dominante, che esalta la produttività ad ogni costo e innalza sperticati inni di lode ai cosiddetti strati vincenti. Siamo cattolici e laici, ben disposti ad apprezzare il silenzioso ed alacre Paese delle anime pure. La Caritas e la comunità di Sant’Egidio, da anni, offrono conforto ai poveri, agli ultimi, ai diseredati che fanno fatica a tirare avanti. Nell’odierna società multietnica e multiculturale, che velocemente cerca di edificare nuove ragioni di vita, la Caritas e la comunità di Sant’Egidio vivono anche con il cuore dei volontari, che aiutano i migranti. Anche il presidente Napolitano ha sempre usato nei confronti del popolo “straniero” parole calde: “Integratevi, rimanendo quel che

siete e allo stesso tempo diventando italiani ed europei”. È giusto che i migranti onorino le nostre leggi, la nostra Carta costituzionale, ma è impensabile che rinuncino alle loro vivide culture. Qualche differenzialista, razzista politico del Nord, irrispettoso della ricchezza multipolare dei cittadini del mondo venuti da terre lontane, vorrebbe uniformare in un unico calderone nazionalistico gli usi, i costumi, le religioni varie. Come se svilire la fecondità dell’altro da sé, servisse a stabilire una supposta superiorità di noi abitanti autoctoni. Nella bellezza smisurata della diversità traluce la pacifica convivenza dei popoli. L’alterità è una gemma luminosa. Accostarsi con delicatezza e con dolcezza all’altro da sé, vuol dire dare sostanza e significato al proprio sé, alla propria interiorità. Il francese Pierre- André Taguieff, filosofo e storico delle idee, scrive che “in nome della fraternità universale, l’Umanità deve realizzare la propria unità, deve divenire, insomma, quella che è, ossia una grande famiglia”. La fraternità e la civile accoglienza sono, senz’altro, beni comuni da coltivare. Vorremmo intensamente che l’Europa delle banche si fornisse, finalmente, d’una sensata e praticabile politica immigratoria. Inoltre, sarebbe auspicabile che le istituzioni italiane e il governo del rampante Renzi imparino a leggere la questione antropologica con occhi chiari: con la tenacia, ad esempio, di Papa Francesco. Con la dolcezza e l’intraprendenza d’un uomo carismatico e autorevole, che pone alla base del suo agire la misericordia. In Italia, purtroppo, in questi anni, certa politica demagogica di centrodestra ha sfruttato le emergenze dei disparati in fuga per vellicare la pancia d’un elettorato timoroso e influenzabile. Per confezionare leggi e pacchetti sicurezza, che, invece di risolvere i problemi, hanno avuto più che altro, con la loro malcelata vocazione strumentale, il risultato d’incancrenire una tematica già incandescente. Solitamente, le sinistre sono storicamente attente alla questione immigrazione. Ci chiediamo: nel settembre del 2013, dove erano i dirigenti, i militanti e i simpatizzanti del Pd, quando ai banchetti dei Radicali si raccoglievano le firme per il fallito referendum abrogativo della infausta legge Bossi- Fini? Verosimilmente, erano impegnati altrove, per il semplice fatto che il Pd non è propriamente un partito di sinistra.


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Corsivo

della domenica n°38 - 20 luglio 2014 - anno 2 n.0

Il tempo di un tweet

di Gianni Ferraris

L

a vita ai tempi di twitter... C’era una volta la politica, poi è arrivato twitter.C’erano una volta discorsi e analisi e commenti, c’erano comunicazioni agli elettori. Poi è arrivato twitter. Il ministro Padoan (in sintonia con il suo premier ragazzino) in piena riunione Eurogruppo twitta: finalmente si parla di crescita. (Dei capelli? Ricrescita?) Renzi, dopo l’affaire Errani che vede un presidente di regione accusato di reati inquietanti, invia perle di saggezza: Finché non c’è sentenza passata in giudicato un cittadino è innocente. Bella botta veramente, verrebbe da ritwittare: però quando uno è condannato per reati contro lo Stato non può essere interlocutore per le riforme istituzionali in nome del popolo italiano. Meglio Dudù. Ormai twittano tutti, anche il buon Papa Francesco ci fa sapere cinguettando: Con Dios nada se pierde, pero sin Él todo está perdido. Insomma, tutto è tweet. Anche Civati, le riscossa della sinistra, ci casca come una pera, arriva un tweet che annuncia la morte di Ciampi (solamente ricoverato), l’assemblea a Livorno si interrompe e si sperticano in un commosso ricordo del Presidente Ciampi, applauso dolente compreso. Era solo uno scherzo. E si che ci sono computer accesi ovunque, a nessuno viene in mente di digitare www.ansa.it ? Macchè.Una notizia simile andrebbe quanto meno verificata. In fondo quella di Papa Francesco è fede, in Dio si crede e basta, non si discute, neppure si riforma. E la fede, sappiamo, è fatta di dogmi e principi insindacabili, a costo di portare avanti, in nome e per conto di Dio, la scomunica di Galileo per qualche secolo. Ma questo è altro discorso. Il problema è quando i tweet riguardano l’economia, la politica, la giusti-

zia, la vita pubblica. Che me ne faccio di un tweet di Padoan se non mi dice qual è il parametro per la crescita? Ormai con twitter si annunciano anche divorzi o fine di rapporti: “stasera non torno per cena, neppure i prossimi anni tornerò” Oppure la tolleranza zero: “Nessuna tolleranza per le moschee abusive” (Letizia Moratti già sindaca di Milano). Scritto così, come fosse la lista della spesa, abusivismo religioso trattato alla stregua di una qualunque riforma costituzionale. Me la vedo la Moratti scrivere sull'agenda: Comprare Pane, caffè, latte, pasta integrale, abbattere una moschea. E c’è Gasparri che con i tweet riesce pure a litigare con Paolo Virzì reo di aver detto una banale verità: “Incredibile avere avuto personaggi mediocri come Gasparri al governo…” per tutta risposta riceve un “si curi ne ha bisogno, avvertirò i suoi parenti”. Se non è dibattito alto questo… Poi ci sono quelli divertenti: “Silvio infuriato per l’ora legale, la definisce: un complotto contro di noi” Oppure uno che tenta di salvare twitter: “Uno dei vantaggi è che i cafoni restano cafoni, però almeno sono sintetici” E non è poi così male. Ci sono i tweet meteorologici: “a 40° il condizionatore non serve, meglio il rosmarino”. E per tornare alla politica, Renzi è “al lavoro su terzo settore, ILVA, semplificazione” intanto voi state al mare e soprattutto state sereni! (Questa non la scrive però. Letta si tocca le palle ogni volta che la sente). Leggevo da qualche parte che prima c’erano gli sms, poi facebook, poi twitter. E pensare che quando l’umanità era retrograda, addirittura le persone si parlavano guardandosi in faccia, giurassici!


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- Sono stata a Roma e sono ritornata appena ieri. Prendiamo un caffè insieme? - Sì, volentieri. - Mio marito e i ragazzi non mi lasciano un attimo di respiro. Tutto il tempo che non dedico agli impegni universitari è interamente monopolizzato da loro, quindi non riesco a fare niente di quello che mi piacerebbe. Pensa, ho anche dovuto lasciare la palestra. - Uhh.. c’è da diventar matti, guarda, fra i compiti a casa, la palestra dell’uno, la danza dell’altra, il corso di computer.. e poi cucinare, lavare, stirare, e con i tempi che corrono non posso nemmeno più permettermi una donna di servizio... - Immagino. Io vivo sola, ma, nonostante non abbia i tuoi problemi, mi rendo conto come sia faticoso stare dietro ad una famiglia come la tua.

Nella penombra della piccola casa lo scrosciare mattutino del rubinetto aperto andava a mescolarsi con il rumore dello spazzolino che energicamente sfregava sui denti, poi gargarismi e sputi secchi indirizzati allo scolo del lavandino. Pulì con un dito la parte superiore del tubetto, prese il tappo e lo chiuse. Era sempre attenta a non sprecare il dentifricio, da qualche parte aveva letto che molti anni prima una nota marca, ormai sull’orlo del fallimento, aveva escogitato i' idea di ingrandire il buco del tubetto: la gente abituata ad esercitare un certo tipo di pressione per far fuoriuscire il prodotto, con il buco allargato, si sarebbe trovata a gestire sulle spatole del proprio spazzolino una quantità tanto maggiore che una

parte di essa sarebbe inesorabilmente caduta nel lavandino. Più dentifricio nel lavandino, più vendite per l’azienda produttrice. Chiuse il rubinetto e si asciugò il viso. Spalancò la finestra, l’atmosfera irrorata dagli ancora flebili raggi solari dava al cielo una tonalità di turchese chiaro, striato da riflessi giallognoli. La città stava lentamente iniziando con il suo rantolo fatto di grida di bambini, del rombo di motociclette e auto, e qualche volta dall'abbaiare di cani. Molto più in alto il nero dello spazio siderale. Anny, tagliandole furtivamente la strada, con un balzo andò ad appollaiarsi sul cornicione. - Maledetta Anny! Prima o poi mi farai cadere!

Anny amava passare le sue giornate sul cornicione del terzo piano di quella casa costruita nei primi anni cinquanta grazie al piano Ina case. Politiche di edilizia popolare e urbanizzazione delle periferie che suo padre, operaio del Comune, grazie all’interessamento di un compare, assessore militante DC, era riuscito a fare proprie, ottenendo un appartamento di circa 60 mq in muratura, in sostituzione della vecchia baracca in cui, nel primo dopoguerra, aveva trovato dimora e aveva messo su famiglia. Ricordava ancora la sorpresa e la gioia quando da bambina ero entrata per la prima volta in quella nuova casa. Profumo di pulito e di vernice ancora fresca; quattro stanze ampie e vuote, che sarebbero state riempite, nei giorni successivi, con la mobilia di seconda mano proveniente dalla vecchia baracca, trasportata a bordo di un arrug-

ginito apecar. Era ancora vivo il ricordo della prima volta che spalancò quella finestra , così come era ancora vivo nei suoi ricordi il profumo inebriante di salsedine che attraverso l'abbaino il vento portava da quel mare distante solo pochi chilometri. In basso, si snodava intorno all'edificio l’asfalto nero e gommoso, perdendosi più in lontananza in mille sterrati che finivano in profonde voragini, in cui uomini e macchine gettavano le fondamenta della futura espansione della città. I giochi con i nuovi amichetti lungo quei sentieri, il rincorrersi a perdifiato nei pomeriggi di fine giungo, quando la scuola era ormai finita, tra le campanule selvatiche e il lentisco, sguazzando nelle pozzanghere, e il sali e scendi da quelle collinette con le scarpette che si riempivano di terra rossa. Ricordava con nostalgia le avventurose esplorazioni nelle nuove costruzioni, la domenica, quando gli operai non lavoravano al cantiere; li conoscevo tutti nei loro intimi dettagli quegli appartamenti, che con il passare degli anni erano stati completati, tinteggiati di rosso, giallo e rosa, chiusi con enormi porte e poi assegnati a famiglie nuove di zecca. Ora, erano ancora lì davanti a lei, sbilenchi, con le loro lenzuola come vele spiegate al vento. Erano passati molti anni da allora, e il tempo come carta vetro aveva raschiato e consumato, fino a volte a cancellarli, molti dei volti felici che ancora popolavano i sui ricordi. Anny c’era sempre stata in quella casa, dal primo giorno, quando salendo le scale


Scritture

della domenica n°38 - 20 luglio 2014 - anno 2 n.0

Anny

di Alessandro Vincenti

dell’immobile appena costruito, in un antro del muro, suo padre notò la nidata di piccoli micini affamati e miagolanti. Erano in tre, un quarto non ce l’aveva fatta ed era lì, steso e morto. Mamma gatta, dal grado di lamentele dei cuccioli, erano giorni che non si faceva vedere. Era probabilmente anch'essa morta. Decisero, la sua famiglia insieme agli altri neo inquilini, di farsi carico dei micini. A loro toccò Anny. Da allora, Anny aveva seminato figli, era andata a finire sotto un gran numero di auto, volata dal terzo piano, cambiato dimensioni, sesso, carattere, colore del manto e degli occhi, ma per lei era sempre rimasta la sua Anny. Come quel giorno nella cucina della nuova casa, quando la prese per la prima volta tra le sue piccole manine. Tremante e con quel materiale rattrappito e di colore giallognolo che le serrava gli occhi, riducendoli a due piccole fessure che lei amorevolmente aveva ripulito con dell’ovatta imbevuta nel caldo infuso di camomilla; e poi la piccola bocca che ritmicamente si apriva e si chiudeva per chiedere cibo, o chissà che cosa, e ancora lei, bambina, che la nutriva attraverso una siringa piena di latte. Era inverno inoltrato, e le finestre erano tutte bagnate dalla condensa. Da lassù, osservava le persone passare lungo la strada assolata che costeggiava il fabbricato, ascoltava il clangore dei bambini nella strada chiusa, poco più in là; le mille finestre del palazzo di fronte che si aprivano e si chiudevano, quasi sospinte da quella calda brezza che le accarezzava il pelo.

- Sono all’Università. - Che cosa vuoi ? Perché hai fatto questa pazzia di venire fin qui? - Ma come fai a dire che non può finire quando sai bene che è finita ed è finita già da tanto? - No, io non ho nessuna intenzione di stare lontano da te. Dammi un’altra chance ...

Sul fermo immagine dei due volti degli attori partì la sigla di chiusura della puntata n.1046 della fiction “Manca la madre”, tratta dal best sellers di P.J. Viquente, sul canale 433 della tv via cavo. Era anche l'ultima puntata di quella stagione televisiva e i titoli di coda iniziarono a scorrere veloci, sfumati nel loro andare dall'alto verso il basso dalle proprietà organolettiche, dissetanti e rinfrescanti del té estivo della pubblicità, da sorseggiare sotto il solleone di spiagge esotiche. Le dieci di un mattino di inizio estate, con il caldo che iniziava ad entrare turbinoso dalla finestra. I rumori della città si fecero più assordanti: voci maschili gonfie di rabbia e violenza iniziarono a mischiarsi all’ozono del cielo, rendendo l’atmosfera lattiginosa, opaca e poi sporca. Ricordò le urla lontane del suo defunto padre, e in preda ad un impeto si lanciò verso la finestra e afferrando le ante, le chiuse con violenza. Anny volò ancora un'altra volta dal terzo piano. Mentre con gli artigli cercava ancora di afferrarsi al drappo dello spazio vuoto, arrivò il rumore sordo dello schianto. Alcuni giorni dopo, come d'abitudine, uscì di casa per

comprare il necessario, al ritorno, in un antro del parco, sotto la siepe incolta, sentì dei miagolii, vide Anny lamentarsi insieme ai suoi 2 fratellini sopravvissuti, il quarto non ce l’aveva fatta; dall’intensità dei miagolii capì che mamma gatta non si faceva vedere da molti giorni. Forse era morta. Prese con sé Anny e la portò a casa, dove con della ovatta imbevuta nel caldo infuso di camomilla iniziò a pulirle gli occhi da quel materiale rattrappito e di colore giallognolo che le chiudeva gli occhietti, trasformandoli in piccole fessure; e per i primi giorni la nutrì tramite una siringa piena di latte. Con il passare delle settimane, Anny prese l’abitudine di trascorrere le giornate sul cornicione della finestra spalancata.

Le strade erano ancora bagnate dalla pioggia della sera prima. Dalle aiuole le lumache, lasciando i loro nascondigli tra la fitta e bassa vegetazione, si avventuravano lentamente lungo il viale in cemento. Nella piccola casa il profumo di caffè e il solito brusio della televisione accesa si mescolavano al rumore dello spazzolino che energicamente sfregava sui denti, poi gargarismi e sputi secchi e precisi indirizzati allo scolo del lavandino. Si asciugò il viso. Spalancò la finestra, la città iniziava il suo rantolo, Anny, tagliandole furtivamente la strada, con un lungo balzo andò ad appollaiarsi sul cornicione. - Maledetta Anny! Prima o poi mi farai cadere!


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Workshop

della domenica n째38 - 20 luglio 2014 - anno 2 n.0


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N

L’ate di costruire la città

della domenica n°38 - 20 luglio 2014 - anno 2 n.0

A Surbo un altare dello scultore leccese

ella chiesa dedicata alla Madonna di Loreto a Surbo (prov. di Lecce) è collocato (navata destra) un interessante altare che, dedicato oggi al “Cuore di Gesù, è una felice espressione di quel periodo artistico noto più comunemente come Barocco leccese. Ad una analisi più ravvicinata si scopre che le forme di tale altare fanno riaffiorare nella memoria in modo chiaro quelle di uno dei maggiori scultori e architetti della storia dell'Arte e dell'Architettura locali, il leccese Giuseppe Cino (1635 - 1722). L'altare di fatto ha una struttura compositiva molto semplice: due colonne tortili (con relativa trabeazione) avanzate rispetto al piano di fondo; al centro di quest'ultimo, e compresa fra le due dette colonne, è una nicchia che, inquadrata da una cornice dal profilo spezzato e decorata con motivi vegetali, ospita una statua di fattura moderna (così come il tabernadi Fabio A. Grasso colo). Alle spalle di ogni colonna si intravede una parasta (il capitello corinzio di quest'ultima è simile a quello delle colonne tortili) il cui andamento verticale nei suoi margini laterali è “spezzato” dal succedersi di volute ad “S” e angeli a mezza figura con ali chiuse cui si agganciano, come nelle citate volute, grappoli di frutta. Entrambe le colonne poggiano ognuna su un basso piedistallo sulla cui faccia frontale è scolpito un cherubino alle cui ali spiegate sono appesi altri grappoli di frutta. Al di sotto di ogni colonna e piedistallo (all'altezza cioè del primo ripiano posto immediatamente sopra la mensa attuale) ancora un secondo piedistallo (più alto del precedente) che, oggi parzialmente modificato, arriva fino al pavimento. La storiografia locale ritiene che questo altare provenga dalla chiesa matrice di Surbo e sia quello un tempo dedicato al Rosario. La mensa, estranea ai modi esecutivi di Cino, è caratterizzata da uno stile riscontrabile in altri casi simili scolpiti in tempi non molto distanti da quelli di realizzazione dell'altare. Tornando a quest'ultimo ciò che colpisce è la ricchezza del suo apparato scultoreo costituito da motivi vegetali e animali (come quelli che si inerpicano sulle le colonne tortili oppure quelli presenti nelle superfici piane) nonché da putti scolpiti anche a tutto tondo (a figura intera o meno). Da questa solo succintamente descritta articolazione, quasi un incessante inseguirsi si potrebbe dire, di forme ne scaturisce un sistema figurativo che appare caratterizzato da un singolare quanto equilibrato gioco di ombre e luci. Sopra la trabeazione è una epigrafe in posizione centrale dove però la tinteggiatura superficiale non consente di leggervi alcunché ammesso che qualcosa di scritto vi sia. Uno scudo partito con gli stemmi delle famiglie Pepe-Severino, infine, nel sormontare l'epigrafe non solo chiude la struttura triangolare sommitale (composta da più elementi singolari: due angeli laterali, epigrafe con angeli, stemma appunto) ma in più suggella e sigla sia la proprietà dell'altare stesso che la devozione di cui l'opera scultorea si fa portavoce. Andrebbe ricordato infine che nella chiesa madre di Surbo (da cui proverrebbe l'altare come detto) è inoltre una statua raffigurante la Madonna con in braccio il Bambino (foto 2). Tale opera, oggi collocata in una nicchia posta in alto al centro della parete di fondo del coro, è pure attribuibile allo stesso Cino. Questi, ricordiamolo, è l'autore di molte opere fra cui l'autografato e datato altare (1705) del Rosario nella chiesa madre di Martignano (prov. di Lecce) oppure il progetto per la costruzione di quello che oggi è definito l'antico Seminario in piazza Duomo a Lecce. Se questa attribuzione fosse avvalorata da un ulteriore riscontro (documentario e non solo) tali due opere (e l'altare in particolare) a Surbo potrebbero una volta di più e con maggiore certezza confermare il valore storico-critico della figura di G. Cino, artista che, particolarmente prolifico, fu in più capace di una sostanziale “costanza esecutiva” che è quella cioè di riuscire, nel corso di tutta la sua lunga carriera, a riprodurre sempre le stesse forme, gli stessi tratti umani per esempio, tanto da generare una cifra stiliSopra, nella foto piccola, l’altare dedicato al Cuore del Gesù. In grande Madonna con in braccio il Bambino (foto 2) stica davvero inconfondibile.

Nel segno di Cino


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spagine

rotagonista di queste righe è una compaesana, signora pressappoco a metà tra gli ottanta e i novanta, precisamente della classe 1930, tuttavia dal portamento ancora solido e ben eretto, in certo qual modo figura tipica della comune piccola località natia. L’ho presente da quando era ragazza e non aveva ancora un “vero” fidanzato, che, poi, alla fine, trovò in un bravo giovane di un paese dei paraggi, al quale andò in sposa - dopo una non proprio insolita, almeno per quei tempi, fuitina - dando alla luce tre figli. E però, si può dire che A. abbia una storia, piccola quanto si vuole ma pur sempre storia, nel senso che, a modo suo, è conosciuta e fa notizia a partire dalla tenera età, periodo in cui iniziò a distinguersi e ad emergere, nell’ambito della sua leva e anche fra le ragazzine più grandi, per via del carattere esuberante, sempre pronta e incline agli scherzi e alle birichinate, allegra, immancabilmente in primo piano, battuta lesta, peraltro anche disponibile a rendersi utile in ogni occasione. Genitori contadini, la madre originaria della confinante località di Andrano, un fratello più grande e uno più piccolo. Iscritta alle elementari, voglia di studiare zero, uno più due, lo ammette candidamente la diretta interessata, erano, nella sua testolina, un’incognita, degli stessi libri, quaderni, penna e calamaio le importava poco e niente. In classe, il suo posto era, naturalmente, in un banco dell’ultima fila, giacché cresceva alta, in ciò distinguendosi, di gran lunga, dal resto della scolaresca. A quanto da lei stessa raccontato, la mattina, entrata nell’aula, si preoccupava di adempiere a un preciso compito, auto attribuitosi in esclusiva, cioè a dire di pulire e mettere in ordine la cattedra degli insegnanti: gliene toccarono due, nel corso degli anni, donn’Elvira e don Pippinu. In aggiunta a tale incombenza, grazie a un rudimentale armamentario ben celato in tasca, fatto di un ago, un batuffolo di bambagia imbevuto d’alcool e piccoli fili di cotone, approfittando di momentanee assenze o distrazioni del maestro, si occupava, si pensi un po’, così come una persona adulta aveva fatto nei suoi confronti, di forare i lobi delle orecchie delle compagne, per quella che sarebbe stata l’eventuale successiva applicazione degli orecchini, così, a crudo, a sangue freddo, suggellando il suo “intervento” con il passaggio, attraverso i buchetti, degli anzi indicati piccoli fili di cotone. Talora, ovviamente, l’insegnante arrivava ad accorgersi delle sue strane, temerarie e pericolose “distrazioni”, al che, è ovvio, scattava un castigo. Tiene ancora a memoria, l’amica, in particolare, che in una circostanza, don Pippinu, avendola sorpresa in flagrante, la chiamò intimandole di avvicinarsi alla cattedra e di “stendere la mano” per ricevere la classica, allora purtroppo in uso, bacchettata, mediante una riga di legno che l'insegnante aveva in dotazione, anche se, in occasione delle visite della Direttrice didattica, la faceva sparire.

Correvano altri tempi, in questo caso meno male che son passati e lontani, purtroppo i genitori, benché fossero a conoscenza del “sistema”, occupati come si trovavano in altre faccende, forse più vitali, e nel convincimento, in fondo, che gli scolari dovessero essere educati, pensavano che non fosse il caso di andare tanto per il sottile in merito alle modalità correttive, una sorta di passiva accettazione del fine che giustifica i mezzi.

Ma, anche all’atto dell’anzidetta marachella, ecco scattare l’intraprendenza e prontezza di A.: un istante prima che le arrivasse addosso la riga, fu lesta a tirare indietro braccio e mano, col risultato che il colpo, tutt’altro che carezzevole, finì col riversarsi sulla coscia dello stesso maestro, il quale dolorante, sbottò in una fragorosa imprecazione all’indirizzo dell’alunna: “Nu furmine cu te bruscia!”(che un fulmine ti incenerisca).

Anita

In quel mentre, la ragazzina, da parte sua, pensava bene di schizzare via dalla scuola, con la velocità giustappunto di un lampo, incurante di abbandonare libri e quaderni sul suo banco dell’ultima fila. Anita, insomma, non scolara modello, da bambina, ragazza, piccola donna e adulta, parimenti, carica d’energia, intraprendente, ardimentosa, sempre pronta a dire la sua, una figura, secondo la felice definizione di un coetaneo, che “voleva paglia per cento cavalli”, a significare che “faceva fuoco e fiamma”. A tredici anni, Anita è fisicamente sviluppata, alta, formosa, capelli neri e lunghi, un viso simpatico incline al sorriso e, soprattutto, un seno fiorente, anzi straripante già allora. E’ l’età in cui la ragazza viene a trovarsi accanto (eufemismo) il primo fidanzatino, a sua volta appena quindicenne, un ragazzo del paese che, in linea con le usanze di allora, tutte le sere, dopo il lavoro e la cena, si reca a casa di Anita, bravo figlio di temperamento completamente opposto, molto calmo, tranquillo, dotato di scarso spirito d’iniziativa, lo accomuna ad Anita solamente la bella voce intonata. Ricorda, l’Anita d’oggi, non senza un pizzico di nostalgia ed emozione, che durante la quotidiana visita, presenti i genitori, il fidanzatino se ne stava seduto immobile vicino al tavolo, le gambe accavallate, non proferiva parola, una scena totalmente muta. La ragazza non gradiva siffatto comportamento dell'aspirante compagno di vita e anche suo padre, a un certo punto, si rese conto che la situazione era proprio da ragazzini, strana e insostenibile, per cui, con garbo, pensò bene di far osservare al giovane che, forse, i tempi non erano maturi e, quindi, a suo parere, si rendeva opportuno rimandare la frequentazione: se si trattava di destino, le cose si sarebbero riprese in mano regolarmente.

Si concluse così, per Anita, la prima esperienza da fidanzata, negli anni successivi non maturarono ritorni di fiamma formali con quel primo fidanzatino.

Tuttavia, grazie alla sua avvenenza ed esuberanza, le si presentarono una dietro l’altra numerosissime profferte amorose, proposte di fidanzamento, mittenti sia giovani del paese, sia residenti nei centri vicini. La ragazza, però, preferiva svolazzare leggera e libera da un soggetto all’altro, a guisa di farfalla, posandosi appena su foglie e petali: nel momento in cui dava ai pretendenti l'impressione che stavano per conquistarla e acchiapparla, riprendeva il volteggio, allontanandosi e scansando ogni insistenza. Le piaceva la frequentazione viva e attiva con coetanei e adulti, uomini e donne, durante i lavori in campagna, quali la coltivazione del tabacco, la raccolta dei frutti estivi, la vendemmia, la raccolta delle olive, facendo scorpacciate di tiri maldestri e/o scherzosi, specie all'indirizzo di determinate figure bonaccione o che erano solite reagire maggiormente alle burle. In occasione di fortuiti contatti con giovanotti, poteva eccezionalmente succedere che qualcuno, particolarmente intraprendente e brillante, riuscisse a cavar fuori qualcosa di concreto, al di là di uno sguardo e delle parole pronte che, ad A., di certo non mancavano.

Ad esempio, un bel ragazzo dei dintorni, una volta si pose a seguire Anita intanto che lei, verso l’imbrunire, si stava recando, insieme con un'amica, a un piccolo vicino cantiere edile con l’intento di raccogliervi un secchio di tufo bianco, derivato dalla segatura dei conci utilizzati per una costruzione abitativa. Il tufo, sarebbe stato sparso sul pavimento lastricato di casa che, soprattutto quando non c'era il sole, trasudava


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Racconti salentini

della domenica n°38 - 20 luglio 2014 - anno 2 n.0

La Nnita

di Rocco Boccadamo

umidità e si scuriva, e, quindi, la spruzzata del bianco materiale faceva in qualche modo migliorare la situazione di agibilità e di aspetto fra le mura domestiche.

spunta l’erva/ la vado a pascolar. // La vado a pascolare/ insieme alle mie caprette/ e l’amore con le civette/ non lo farò mai più”. Già si diceva, prima, che ormai Anita era divenuta una donna in pieno fulgore, capelli crespi e neri, il seno vistosamente oltre misura. Successe che, durante i lavori in campagna a Nuova Siri, un giorno ella si vide seguire da un giovanotto del posto, poliziotto in licenza, il quale, evidentemente colpito e ammirato per le fattezze e il portamento della giovane, le rivolse questa “sicuramente” ardita domanda: “Permettimi signorina, ma tu lo porti il reggiseno?” (allora, non era costume, per una giovane contadina, indossare alcunché del genere). Immediatamente, la nostra amica, al solito pronta a rispondere, replicò al giovane: “Ma perché, caro, tua madre lo porta?”

Ora, avvenne che, proprio quando Anita era intenta, piegata, a riempire di tufo il suo secchio, nel levarsi e girarsi per rialzarsi, improvvisamente le si accostò la figura del giovanotto in questione, che fu abilissimo a rubarle un bacio intenso sulla bocca, il primo per la diciassettenne, un autentico trauma anziché un piacere o una scarica adrenalinica.

Bisogna, onestamente, tener conto anche della mentalità e dell'educazione sessuale (?) che vigevano in quell'epoca, fondamentali purtroppo rimasti ancorati alle calende greche, addirittura c'era la credenza, maldestra e malsana e coniugata con l’ignoranza, che, attraverso un bacio sulla bocca, una ragazza potesse restare incinta e fare un figlio. Sia come sia, il “predatore” scappò via in un baleno, e però l’eccezionale scena fu goduta interamente dall’accompagnatrice di Anita, con l’inevitabile effetto che, a volo, si cominciarono a diffondere in giro voci sull'accaduto. Non n’ebbe notizia unicamente la madre di Anita con cui la “vittima”, rientrata di corsa e agitata in casa col tufo, si confidò immediatamente; il mattino seguente, nel magazzino e/o manifattura del tabacco, dove la giovanissima aveva da poco iniziato a lavorare, le colleghe più adulte presero subito a deriderla e sfotterla, tanto che la vittima del bacio rubato proruppe in un pianto a dirotto. Intanto, con l’avanzare dell’età, per Anita cresceva progressivamente anche l'impegno lavorativo. Non solo durante la stagionale adibizione al magazzino del tabacco, in cui la nostra protagonista, ancora inesperta, era addetta alla prima fase operativa, cioè a spianare e a rendere lisce le singole foglie che, poi, passava a una collega più anziana e pratica la quale le riuniva in piccole balle. I genitori di Anita, difatti, conducevano in regime di mezzadria alcuni terreni, in particolare uno denominato “Pastorizza”, che rappresentava una sorta di base d'appoggio per tutte le attività agricole della famiglia, anche perché a breve distanza dal centro abitato. Lì insisteva una piccola casetta rurale in cui si dormiva molto alla spartana, fra mosche, zanzare e lucertole, tuttavia, fiaccati dalla stanchezza, non si faceva fatica a prendere sonno, gli occhi si serravano quasi automaticamente. Dalla “Pastorizza”, all'alba, con genitori e fratelli, Anita partiva per una “scarpinata” di quattro/cinque chilometri, in genere a piedi scalzi, sino a un altro terreno, in zona “Mito” di Andrano, in cui crescevano, in particolare, numerosi alberi di fico che davano frutti in abbondanza. Si riempivano panare, panari e panareddri, del prodotto raccolto; quindi, nuovamente per quattro/cinque chilometri, con contenitore rapportato all'età di ciascuno caricato sulle spalle, si faceva ritorno alla “Pastorizza”, dove, sullo spiazzo antistante al precario bracchio/ dormitorio, si passava a spaccare i fichi e a spanderli, per l’essiccazione, su stuoie di canne intrecciate: tanta fatica, anche per un’adolescente, del resto, allora, in ogni età arrivavano le fatiche. Poi, c'erano anche temporanee trasferte di tutto il nucleo, per il tabacco e/o la mietitura e trebbiatura dei

Anita, in una foto giovanile

cereali, verso le fertili pianure della Lucania, a Nova Siri, ricorda ad esempio Anita.

Intanto, il primo fidanzatino, ormai divenuto giovanotto, si era impegnato con un’altra ragazza del paese, con quest’ultima le cose avevano preso un corso serio, tanto che si approssimavano le nozze e la promessa sposa era finanche arrivata a esporre il corredo che avrebbe portato in dote (in dialetto dota) nella dimora matrimoniale. Ma, evidentemente, nella testa del giovane era rimasto un ricordo forte, qualche suggestione incancellabile avente per protagonista la sua prima fidanzatina; sta di fatto che, quest'ultima, mentre i suoi genitori erano in Lucania e lei soggiornava nell’abitazione di una cugina, scorse, appoggiata sull’uscio di casa, una busta contenente un biglietto vergato dal ragazzo che, più o meno, recitava apertamente: “Senti Anita, anche se son passati molti anni, anche se io dovrò prossimamente sposarmi con un’altra, se sei d'accordo, io ti voglio sempre, possiamo andarcene via insieme”. Evidentemente, l’ex giovanissimo fidanzatino quindicenne doveva essere ancora innamorato della ragazza e sperava, o s’illudeva, di poter ricominciare la storia. Così, tuttavia, non fu. Per la precisione, per opera del medesimo “primo fidanzatino”, c’era stato un episodio precedente, un sussulto sotto forma di serenata. Una sera, Anita se ne stava, in compagnia di alcune amiche, sul terrazzino attiguo al vicoletto della casa dei suoi genitori; ai piedi di una fioca lampadina d’illuminazione pubblica posta in prossimità, s’era contemporaneamente riunito un gruppo di ragazzi e giovanotti paesani e, allora il giovanotto, con la sua bella voce, volle dedicare alla morosa d’un tempo alcune brevi strofe speciali in dialetto, tanto semplici quanto indicative: “La zita vecchia mia/ la tegnu pe riserva/ per quannu

Numerosi continuarono a susseguirsi gli inviti a “fidanzarsi”, con Anita nel consueto atteggiamento di farseli scivolare appena addosso, con leggerezza, senza prenderli sul serio per oltre una/due settimane. Fino a quando non le si presentò quello giusto, per opera di un giovane di Vignacastrisi, il quale, guarda caso, come nome di battesimo faceva proprio Giusto, più giovane di tre anni rispetto ad Anita. Dal matrimonio nacquero tre figli, accolti e allevati con amore, cura e sacrifici; purtroppo, il bravo marito della compaesana su cui scrivo non ebbe, personalmente, granché fortuna, andandosene ancora giovane. Anita, che ancor prima della scomparsa del suo Giusto, aveva dovuto subire la dolorosissima perdita del terzogenito Sergio, vittima a soli sette anni di un’accidentale caduta da un casa in costruzione (strana coincidenza, a distanza di decenni: un cantiere in corso come ultimo scenario per un tenero bambino, il tufo bianco di un altro cantiere edile come scenario del primo vero e traumatico bacio per Anita), è quindi rimasta con gli altri figlioli, man mano pure essi cresciuti e sposatisi, rendendo, la genitrice, nonna di nipoti già grandicelli. Si, Anita è nonna, ma, sinceramente, il tempo, per lei, sembra essere trascorso sono sui fogli del calendario; invece, dentro, si è mantenuta una “ragazza” tra gli ottanta e i novanta, vivace, estroversa, che seguita, tuttora, a “volere paglia per cento cavalli”. Un'esistenza, in fondo, non facile né in discesa, la sua, eppure con accoglimento e accettazione degli eventi secondo la semplicità e il rigore dell'educazione ricevuta da piccola e l’innata rettitudine civile. Vita intessuta di buoni rapporti con gli altri, Anita è conosciuta e si fa ben volere da tutti, nel borgo natio rappresenta un piccolo, umile ma autentico personaggio, con la sua cassaforte di saggezza e l’immancabile parola pronta, accompagnata da un sorriso accattivante, oggi, com’è noto, merce assai rara.

Per terminare, amava tanti decenni addietro, Anita, e le sono cari anche adesso, i seguenti versi dialettali di un canto contadino della terra prediletta:

"Quannu lu ceddru pizzica la puma,/ la ucca se la sente zzuccarata"

(in italiano, quando l'uccello imprime col becco un piccolo morso alla mela, avverte in bocca un sapore di zucchero).


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Arte

della domenica n°38 - 20 luglio 2014 - anno 2 n.0

La Biennale del Salento 2014. L’installazione di Enza Mastria a Palazzo Vernazza

Un Mondo di carta di Antonio Zoretti

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ndate a visitare la Biennale del Salento nelle sale di Palazzo Vernazza a Lecce. Una rassegna d’arte pubblica intrisa di Graffiti, Fotografia, Grafica, Pittura, Scultura, Performance art e Installazioni. Come quella di Enza Mastria, la quale ci avvicina nel suo percorso artistico invitandoci a partecipare con alcuni pensieri o riflessioni incisi su un foglio di carta, atto a prendere la forma di una barchetta, unendosi alle altre, ad esse accanto sul pavimento. Come se vicino alla sua provvedesse anche la nostra vita, tout court.

Le vele di Enza sembrano sospinte da un esile vento, lento e lontano, in mare aperto, girando intorno alla terra per avere conoscenza; alimentate da un alito lieve di speranza auspicano presto un approdo, in un ignoto cielo notturno, rapite da una melodia di ricordi. In un viaggio solenne tutte le barchette son tornate a rumoreggiare, di mare, di vento, per restare così in vena per l’alba sonante quando la dolce riva toccheranno. Dentro i vicoli marini chiariscono gli orizzonti, svaniscono le ombre illanguidite; salgono, salgono e mai s’arrestano… per ritrovare, col pretesto del viaggio, il nostro perduto Io.

E poi, pazienza poi… se del domani non c’è certezza. Il tempo si sa… corre e s’affanna, e a noi perituri e veritieri ci inganna, ma vogliamo comunque esser lieti e mai sfuggenti. Il mondo figurato di Enza, in pezzi di carta, man mano si scopre e solo il nulla s’accresce. Ma proprio nel nulla si può cogliere il tutto. L’essere è la contingenza, il non essere è l’essenza. «I fanciulli trovano tutto nel nulla, gli uomini trovano il nulla nel tutto». (Giacomo Leopardi). E noi del gioco facciamo tesoro, che di altro non si contenta, giova aver dolcezza chi ha ardore tuttavia… Una persona può conoscere l’universo

e trascurare se stesso. E le nostre aspettative trovano sostegno in un avvenire migliore. Noi non sappiamo quale fine avranno le cose, ma conosciamo come sono iniziate. Il mondo, il creato, è cosa buona e giusta. Questo segno di benevolenza rimane a dispetto di tutte le malvagità dell’uomo, passate, presenti e future. Questa è l’attesa d’un bene che si desidera nel mondo; il bene non arriverà domani, ci guida sin dalla prima alba. E allora tanto vale star lì, attendere, e guardare l’opera di Enza Mastria: l’armonia celeste. E’ così bella.


Il Razionalismo a Lecce spagine

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rogetti, bozzetti, schizzi, foto d'epoca e plastici provenienti da archivi pubblici e da collezioni private; a legare insieme i materiali originali, lungo un percorso espositivo del tutto nuovo un tema inedito per il Capoluogo salentino: "Razionalismo a Lecce: stile arte e progetto 1930 - 1955", è il titolo della mostra che sarà ospitata nelle sale dell'ex Chiesa di San Francesco della Scarpa dal 21 luglio al 30 settembre. L'esposizione a cura dell’architetto Andrea Mantovano vuole fornire in modo organico ed interdisciplinare un primo

in Agenda

della domenica n°38 - 20 luglio 2014 - anno 2 n.0

contributo ad un tema inedito: la produzione dell'architettura e delle arti decorative nel Salento fra il 1930 ed il 1955 un periodo denso di interessanti esperimenti sul tema dell'abitazione privata e dell'edificio pubblico, fatti oggetto di una vera e propria rivoluzione nelle forme e nelle idee artistiche. Lo slancio innovatore derivante dai fermenti delle avanguardie europee e dal movimento razionalista venne recepito nel Capoluogo salentino grazie ad una nuova generazione di tecnici e di artisti decoratori che, formatisi nelle facoltà o negli ambienti artistici di Roma e Milano, rientrano nel Salento proponendosi

Hasa&Mazzotta alla Masseria Ospitale

come alfieri e diffusori della nuova architettura e della decorazione di interni. Tutto ciò si tradusse in una decisa frattura rispetto alla produzione del panorama dell'architettura locale dei primi due decenni del Novecento, standardizzata in una stanca ripetizione di stilemi dell'architettura tardoumbertina, dell'eclettismo e del liberty. Lecce si configurò come un centro partecipe in prima linea al dibattito sul volto della nuova architettura nazionale. I tecnici locali reinterpretarono il linguaggio razionalista con l'uso di materiali tradizionali come la pietra leccese ed il càrparo. Inoltre, sul territorio salentino operano alcuni tra i maggiori

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ercoledì 30 luglio, alle 21.30, ingresso gratuito la Masseria Ospitale sulla Lecce - Torre Chianca ospita la presentazione di Ura, progetto discografico d'esordio del duo che vede la voce della salentina Maria Mazzotta, solista tra l’altro dell’ensemble Canzoniere Grecanico Salentino, intrecciarsi abilmente con le corde del violoncello albanese di Redi Hasa, solista dell’ensemble di Ludovico Einaudi. Prodotto da Finisterre e promosso con il sostegno di Puglia Sounds, da ottobre Ura sarà distribuito da Felmay anche all'estero. *** Il progetto, dal significativo titolo

architetti e ingegneri del Novecento italiano come Pier Luigi Nervi, Luigi Piccinato, Marcello Piacentini, lo studio romano Paniconi e Pediconi, Concezio Petrucci, Gaetano Minnucci e altri. Il discorso architettonico fu poi strettamente connesso all'apporto proveniente dalle arti decorative, appannaggio di una nutrita schiera di artisti - decoratori locali, che con le proprie opere connotarono in modo inedito e contemporaneo le facciate e la spazialità interna: si pensi a personaggi come Antonio D'Andrea, Nino Della Notte e Michele Massari, la cui produzione in questi ambiti viene per la prima volta esplo-

di “Ura” (ponte in albanese, adesso in salentino) porta alla luce i legami possibili tra irepertori che navigano attraverso l’Adriatico unendo i Balcani e i Carpazi con le regioni del Sud dell’Italia. La voce di Maria Mazzotta si muove leggera e ricca di mille sfumature tra le lingue musicali delle due sponde mentre le note di Redi Hasa propongono, ogni volta, una e mille soluzioni possibili alle melodie tradizionali. "Grazie ai due musicisti, ci si trova subito catapultati nei densi e vivaci aromi dei Balcani", sottolinea nell'introduzione al disco Ludovico Einaudi. "Della maestria vocale e strumentale si resta sbalorditi, c'è unione perfetta e grande naturalezza nell'esecuzione di brani melodicamente e ritmica-

rata. L'intento quindi del progetto espositivo è di colmare un vuoto su tale ricca e interessante produzione artistica ed architettonica, estendendo il discorso anche a centri della provincia come Maglie e Gallipoli. L'allestimento della mostra è curato dalla ditta "MQ Allestimenti". Il progetto grafico e la comunicazione sono curate dalla visual designer Beatrice Bambi.

La mostra sarà aperta al pubblico fino al 30 settembre, dal lunedì alla domenica, dalle ore 10 alle ore 13 e dalle ore 18 alle ore 21. Il costo del biglietto è 5 euro, ridotto 3 euro.

mente molto impegnativi. Preziose sfumature armoniche insieme a un piglio improvvisativo che trasmette un senso di freschezza che si rinnova ad ogni istante". “Abbiamo sfidato le freddi notti d’inverno con tempi dispari, strofe in rima, il vibrato del canto", sottolineano Maria e Redi. "Così, nota dopo nota, l’anima si è liberata giocando svelata tra le corde della voce e del violoncello. Abbiamo poi cercato e mescolato la musica e le lingue. Dalle pianure del Sud Italia ai Balcani, fino ai Carpazi. Sembrava una sfida solitaria, un gioco di virtuosismo e invece con quelle melodie e quei ritmi abbiamo costruito un ponte - ura in albanese - e vogliamo attraversarlo insieme a voi, adesso - ura in salentino”.


in Agenda A Bari, nella Sala Bona Sforza del Castello Svevo in Piazza Federico II di Svevia, fino a lunedì 15 settembre

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della domenica n°38 - 20 luglio 2014 - anno 2 n.0

Đuro Janeković , fotografo croato, artista europeo

opo il successo ottenuto a Roma presso la Sala del Refettorio di Palazzo Venezia (17 dicembre 2013 12 gennaio 2014), arriva a Bari in mostra una significativa selezione di immagini del fotografo zagrebese, realizzate tra il 1932 e il 1935: una gamma vasta di soggetti, motivi, inquadrature, approfondimenti che Janeković coglie con il suo obiettivo. Il visitatore può guardare, attraverso le fotografie, verso l’altra sponda dell’Adriatico e ancor più lontano, alla Zagabria degli anni Trenta. Questa presentazione in Italia di un segmento dell’eredità fotografica croata rappresenta un’ulteriore conferma dei legami fra i tanti, intercorsi tra l’Italia e la Croazia, anche tramite la fotografia. Il lavoro di Đuro Janeković (1912-1989) è rimasto fino ad alcuni anni fa completamente sconosciuto al mondo fotografico croato ed europeo, e contribuisce a completare con suoi lavori il racconto dell’atmosfera tipica degli anni Trenta. Đuro Janeković è stato, a cavallo fra gli anni Venti e Trenta, un personaggio speciale della scena di Zagabria, testimoniando la nascita di una città moderna, con una vita urbana dinamica che recepisce a pieno respiro l'ondata del modernismo europeo. Attraverso le sue fotografie Janeković diviene cronista della sua città, della vita cittadina, dalle signore agli accattoni, dalle ballerine agli emarginati che vivono in periferia. Gli anni Venti e Trenta rappresentano per il fotogiornalismo, grazie all’urbanizzazione, all’avvento della società dei consumi ed alla diffusione dello sport e degli svaghi di massa, anni di grande creatività. Seguendo l’esempio della Berliner Illustrirte Zeitung di fama mondiale, anche a Zagabria si inizia la pubblicazione di riviste illustrate e dal taglio piuttosto moderno, come la Svijet (Il Mondo) e Kulisa (La Scena), che offrono alla fotografia uno spazio importante. Nel 1933 Janeković diviene uno dei primi fotocronisti professionali della Croazia, e le sue numerose fotocronache sono pubblicate proprio nella rivista Kulisa: le sue foto notturne di Zagabria sono uniche, scattate con una esposizione lunga o doppia; le prospettive e i punti di vista fotografici di Janeković sono particolarmente intriganti se si collegano a quelli di Aleksander Rodčenko del quale sono, anche per tempo di nascita, paralleli. Le vedute dall’alto e dal basso e le composizioni diagonali dimostrano nei due autori un’eccezionale affinità e una sensibilità comuni. In uno stile che ricorda la miglior fotografia tedesca di quel tempo, le sue fotografie sportive annotano in prevalenza il movimento e l’uso di prospettive trasversali e di angoli di ripresa inusuali. Janeković mostra uno speciale talento per l’azione ed il movimento: cogliendo la palla appena lanciata, il corridore al momento dell’arrivo al traguardo, il saltatore nello stacco. Egli stesso, sportivo appassionato, correva accanto o innanzi al concorrente, ritrovandosi così protagonista e fotografo, con risultati sorprendenti per le possibilità tecniche del tempo. Janeković non è solo un documentarista fotografico. Bisogna capire cosa c'e dietro i fatti, per poterli rappresentare, come dice Tiziano Terzani.

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Alcune delle fotografie in mostra

a mostra (accolta tra gli eventi della Presidenza Italiana del Consiglio dell’Unione Europea) è organizzata da Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Bari, Barletta – Andria – Trani e Foggia, Ministero della Cultura della Repubblica di Croazia, Ambasciata di Croazia in Italia MUO Museo dell’Arte e dell’Artigianato di Zagabria. L’organizzazione della mostra è stata curata da: Marisa Milella (Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia) Annamaria Lorusso (Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Bari, Barletta – Andria – Trani e Foggia) Elena Federica Marini (Present SpA). Orario: ogni giorno dalle 8.30 alle 19.30. L’accesso alla sala chiude alle 19.00 La visita alla mostra non ha costi aggiuntivi al prezzo del biglietto d’ingresso al Castello Svevo di Bari

La pagina è a cura di Marisa Milella* e Fabio A. Grasso. *Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia


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della domenica n째38 - 20 luglio 2014 - anno 2 n.0


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Musica

della domenica n°38 - 20 luglio 2014 - anno 2 n.0

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Dal 24 luglio al 13 agosto l’ottava edizione del

Festival Sud Est Indipendente

il manifesto affidato da Coolclub a Cekos’art

Cat Power, in apertura il manifesto a lei dedicato di Cekos’Art

omenica 20 luglio, alle 21.00 al Caffè Letterario di Lecce si terrà un aperitivo di presentazione dell'ottava edizione del Sud Est Indipendente, festival firmato Coolclub, che si muoverà dal 24 luglio al 13 agosto nelle province di Brindisi e Lecce tra rock, folk e musica d'autore con grandi nomi della musica italiana e internazionale affiancati sul palco da alcune delle migliori esperienze della scena pugliese. Tra gli ospiti Avion Travel, Mannarino, Afterhours, Bud Spencer Blues Explosion, Brunori Sas e Cat Power. Proprio alla cantautrice statunitense, icona della scena alternative rock mondiale, è dedicato il manifesto celebrativo di questa edizione. Dopo "Storia di ecologia, coscienza e surreltà" di Massimo Pasca, con un John Lennon in versione "santo" che ha caratterizzato l'edizione 2013, la Cooperativa Coolclub ha affidato l'opera a Chekos'art, artista di origini salentine che si muove nel campo del graffitismo e del freestyling, che ha voluto omaggiare l'artista statunitense per la prima volta nel Salento il 24 luglio a Torre Regina Giovanna di Apani (Br). Chekos'art, nasce a Lecce nel 1977. Spirito combattivo e ribelle, da giovanissimo si trasferisce a Milano dove intraprende il suo percorso artistico cominciando come writer, tra centri sociali, case occupate, quartieri popolari, lavori precari vivendo ed assorbendo tutto ciò che la strada contiene. Il suo spirito artistico e la sua voglia di scoprire ed interagire con le diversità e le novità, lo spingono ad abbandonare l'Italia per intraprendere diversi progetti artistici attraversando i paesi dell'Est Europa, fino ad arrivare in Cina, in India, a New York, per poi ritornare definitivamente in Puglia, a Lecce, la base in cui opera tutt'ora. Artista autodidatta che si muove nel campo del graffitismo e del freestyling, riscopre se stesso rivoluzionando giorno per giorno il suo carattere artistico, sperimenta e fonde diversi stili e diverse tecniche. Intorno la fine degli anni 90 diviene uno dei pionieri della Street Art in Italia, rige-

nerandosi in forme procreative, porta avanti nella vita come nell'arte i valori dell'antirazzismo, ama ricercare e ricercarsi condividendo la sua arte e i suoi valori con altre diversità artistiche. Fondatore del movimento “South Italy Street Art”, il cui obiettivo è quello di creare una piattaforma dinamica tra vari artisti nazionali ed internazionali, chi vi partecipa ha l'obiettivo di uscire dai tradizionali canoni dell'arte, arricchendo così il progetto e contemporaneamente se stesso. Una "piattaforma contaminata" in continua evoluzione, completata da artisti che fanno della propria arte una periodica ricerca e amor di vita.

Giovedì 24 luglio a Torre Regina Giovanna di Apani (Br) (ore 21.30 - biglietti 20 euro + d.p. nei circuiti Bookingshow e Ticketone), Cat Power arriva nel Sud Italia per una delle due tappe italiane del tour mondiale "Sun"; una giovinezza vissuta da Bohémien girovagando per gli States, l'approdo nella New York underground e l'inizio di una carriera che l'ha portata in poco tempo nell'olimpo dell'Indie-Rock con venti anni di carriera e nove album alle spalle. Prodotto da Chan Marshall, mixato da Philippe Zdar "Sun" è l'ultimo album in studio di Cat; scritto, suonato, registrato e interamente autoprodotto è una dichiarazione di completo controllo che si ritrova anche nei temi delle canzoni. Coloro che conoscono la discografia di Cat Power ritroveranno elementi della pietra miliare del 2003 "You Are Free", che sperimentava forme vocali e basi prese in prestito dalla urban music. La serata, tutta al femminile, sarà aperta da tre cantautrici pugliesi: Una, Mery Fiore e Sofia Brunetta. In chiusura spazio alle selezioni di Panic Indie Rock.

Il Festival proseguirà con Afterhours (1 agosto al Parco Gondar di Gallipoli), Avion Travel (8 agosto all'Anfiteatro Romano di Lecce), Brunori Sas e Bud Spencer Blues Explosion (9 e 10 agosto al Parco di Belloluogo a Lecce nell'ambito del Green Sound Festival), Mannarino (13 agosto in Piazza Libertini a Lecce).


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