spagine Spagine della domenica n°43- 14 settembre 2014 - anno 2 n.0
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri
Una fotografia di Julia Borissova per il Bitume Photofest
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Diario
della domenica n°43- 14 settembre 2014 - anno 2 n.0
Napoli: società aperta in una città liquida
Di spari consueti I
di Gigi Montonato
Anonimo, Scuola di Posillipo "Napoli da Posillipo"gouache, tempera su carta, fine '800.
n Italia accadono quotidianamente fatti che lasciano a dir poco allibiti. A Napoli, alle tre di notte, tre ragazzi in scooter non si fermano ad un posto di blocco dei Carabinieri. Inizia l’inseguimento. Inizia cioè la cosa più normale che possa accadere in casi del genere. L’inseguimento si conclude tragicamente: uno dei ragazzi, Davide Bifolco di sedici anni, è colpito da un proiettile sparato da un carabiniere. Un altro ragazzo cade e viene catturato, l’altro riesce a fuggire. Secondo i Carabinieri fra i tre c’era un latitante, a cui da tempo davano la caccia, e il colpo che ha ucciso il ragazzo è partito accidentalmente dalla pistola. Versione dei ragazzi, fra cui quello che era riuscito a scappare e che poi si è consegnato (ma è lo stesso?): non c’era nessun latitante e il carabiniere ha sparato alle spalle dopo aver preso la mira, dunque con l’intenzione di uccidere. L’analisi dei fatti ha confermato che il colpo del carabiniere era al petto e non alla schiena e che la traiettoria del proiettile era dal basso in alto e non orizzontalmente: dunque, il colpo è partito accidentalmente, dato che il ragazzo era in piedi quando è stato colpito e il carabiniere era inciampato. Ma, al di là dei cavilli, sui quali si daranno battaglia gli avvocati delle parti, c’è che a Napoli si rivendica il diritto di non fermarsi ad un posto di blocco delle forze di polizia e che se proprio inseguimento deve esserci va fatto a piedi e la cattura deve effettuarsi a mani nude, come al vecchio gioco dell’acchiappa-acchiappa. Va da sé che Napoli non ha niente a che fare con nessuna altra città europea. Non c’è bisogno di dirlo. A Napoli e in tutta la Campania si spara per le strade in pieno giorno e si ammazzano persone occasionalmente, che alla fine, poveracce, erano al posto sbagliato al momento sbagliato. Con queste parole, qualche tempo fa, è stata liquidata l’uccisione a Portici, alle porte di Napoli, di un povero pensionato che erra andato a fare la spesa per la famiglia. L’episodio di Napoli presenta quattro fasi, una più grave dell’altra, una causa dell’altra in progress. La prima è quando i ragazzi non si sono fermati al posto di blocco, mettendo in allarme i Carabinieri, che partivano subito all’inseguimento. La seconda, quando il carabiniere ha impugnato l’arma in maniera maldestra e ha ucciso il ragazzo inciampando. La morte del giovane è sicuramente il fatto umanamente più grave di tutta la vicenda. Morire a sedici anni per non essersi fermati all’alt dei Carabinieri è mille volte tragico, né il contesto del rione Traiano, notoriamente ricettacolo di criminalità diffusa, può rendere più comprensibile l’accaduto. Alla morte non c’è giustificazione che tenga. La terza, quando la gente di Napoli si è scagliata contro il carabiniere. Consegnatecelo – hanno chiesto al Comandante dei Carabinieri – quasi si trattasse di un
mostro reo di aver stuprato, seviziato e ucciso quattro-cinque bambine. In questo modo la gente di Napoli ha trasformato un episodio di inciviltà propria in un’autentica rivendicazione sociale, ribaltando le responsabilità. La quarta, quando nessuna importante autorità, dal Capo del Governo al Sindaco di Napoli (ex magistrato), dal Ministro degli Interni al Ministro della Difesa, ha detto mezza parola per difendere l’operato dei Carabinieri e per ribadire una legge che è vecchia quanto il mondo: se un’autorità di polizia ti indica di fermarti, ti devi fermare; se non lo fai ti metti fuori della legge e ti assumi tutte le responsabilità di quello che accade da quel momento in poi. Questo triste episodio deve far riflettere più di altri, di tantissimi altri, purtroppo. Qui non ci troviamo di fronte alla violazione della legge per il diritto naturale di campare, come a Napoli accade da sempre, ma di fronte alla sollevazione di un’intera città che pretende e rivendica il diritto di agire e di comportarsi fuori dalle leggi più elementari del vivere civile. Secondo i napoletani i Carabinieri e le altre Forze di Polizia a Napoli sono forze di occupazione, estranee alla popolazione, che avrebbe tutto il diritto di resistere. Quei ragazzi erano per la gente di Napoli tre bravi figliuoli. Se non si sono fermati all’intimazione dei Carabinieri è perché si sono spaventati non avendo il casco in testa né l’assicurazione allo scooter; e se erano per la strada alle tre di notte era solo per una bravata giovanile in una sera d’estate. I Carabinieri, che non hanno saputo leggere l’episodio in questo modo, sono da condannare. Essi non avrebbero dovuto effettuare nessun inseguimento. La loro giustificazione, secondo cui c’era il sospetto che fra i tre ci fosse un latitante, per i napoletani è un’assurda pretesa, una squallida bugia, dato che nessuno dei tre ragazzi aveva ben visibile la scritta “sono un latitante”, come usano in genere a Napoli i latitanti. Ironia a parte – ma non si capisce cos’altro usare per capire questa gente! – le giustificazioni di chi difende i tre ragazzi, privi di casco, loro, e di assicurazione lo scooter, sono delle aggravanti. Si può ridurre a ragazzate l’andare in scooter in tre senza casco in testa? Si può ridurre a cosa da niente l’andare in giro con uno scooter privo di assicurazione? Si può dire con disarmante nonchalance che per un ragazzo di sedici anni è normale andare in giro alle tre di notte? Se tutto questo si pretende di farlo passare per cosa normale, allora Napoli si dichiara fuori dal mondo civile dell’ordine e delle leggi. Invece di fare un mea culpa collettivo i napoletani, ancora una volta, se la prendono con le autorità, secondo loro, di occupazione. In questo caso non i tre giovani erano al posto sbagliato al momento sbagliato, ma i Carabinieri. Essi, a quell’ora, dovevano stare a letto o a giocare a briscola in caserma.
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Primarie del centrosinistra
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Con Dario Stefàno, nel “modello” Vendola tra i protagonisti più attivi del cambiamento della politica culturale
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La Puglia possibile
onosco il Senatore Dario Stefàno da molti anni, prima ancora che iniziasse la sua brillante carriera politica: come Consigliere Regionale, Assessore della Giunta Vendola, Senatore della Repubblica e Presidente della Commissione delle Autorizzazioni a procedere. La nostra collaborazione non comincia oggi, ma è lontana e risale a tanti anni fa. Quando è stato interessato, il Senatore Stefàno ha sempre risposto e con tutto il suo impegno si è speso per risolvere positivamente i problemi della disabilità spesso trascurati dalla politica. Oggi viviamo una crisi difficile, profonda, inedita rispetto alle crisi politiche e sociali del passato. Le grandi famiglie culturali, del Socialismo, del Liberalismo e del Cristianesimo Sociale non hanno più la forza positiva di imporre tutti quei valori che hanno promosso l’uomo e hanno reso grande la storia dell’emancipazione delle classi sociali deboli. L’uomo è un soggetto di diritto e chiede di avere rispetto dei diritti: la persona vive di diritti quindi la sua vita senza il rispetto dei diritti sociali è la negazione della civiltà e quindi la deviazione della storia rispetto alla persona che vive di diritti sociali. La strada del futuro che vogliamo vivere non è quella dell’egoismo individuale, della negazione dei diritti, ma quella di un grande impegno per riuscire ad affermare un nuovo welfare sociale: senza barriere, accessibile e con mai più disabili anziani e vecchi prigionieri della solitudine ed impiccati all’indifferenza. La crisi è complessa e la partita sociale molto difficile da affrontare, per questo bisogne scegliere le persone giuste, capaci, competenti, cariche di valori politici e sociali. Io per le primarie ho scelto di sostenere il Senatore Dario Stefàno perché la sua carta d’identità politica risponde ai valori giusti e necessari per costruire il modello sociale dell’inclusione e della convivialità secondo l’insegnamento politico di Don Tonino Bello, il quale, dava anche il suo letto ai poveri senza tetto. Dario Stefàno, nel modello Vendola, è stato tra i protagonisti più attivi del cambiamento della politica culturale. È proprio il cambiamento che serve per riuscire a reinventare i valori sociali di una Puglia migliore e più solidale. Il nostro è un modello urbani e sociale costruito sull’inclusione e l’accessibilità, dove escludere o emarginare persone significa perdere valori e avere gravi costi sociali. Dobbiamo
di Luigi Mangia
lavorare per avere una società aperta a tutti, in tutte le attività sociali, con la responsabilità culturale di trasformare le persone con speciali bisogni in persone con abilità speciali, e nella quale la cultura dell’avidità si trasforma in cultura della generosità e solidarietà. Bisogna lavorare per avere una nuova grammatica di vita e giungere ad abitare lo spazio e vivere il tempo in un paesaggio sociale misurato e costruito sui bisogni del corpo. Un modello di sanità quindi ispirato al rispetto del diritto alla salute, all’assistenza, a vincere il dolore e vedere la riabilitazione come sfida del terzo millennio. La salute va tutelata, la patologia va curata. L’altro grande diritto, spesso negato o poco rispettato ai disabili è quello dell’istruzione. Il modello di scuola che vogliamo realizzare in Puglia è quello in cui i luoghi dell’istruzione diventano strutture con porte aperte al quartiere e con il coinvolgimento delle famiglie. Una scuola dove i valori inclusivi siano la strada più ricca per giungere ad avere una formazione capace di ottimizzare tutte le potenzialità del soggetto impegnato nel processo formativo. Gli studenti godendo positivamente degli stimoli di tutta la comunità possono avere la forza trainante del nostro modello di scuola rivoluzionaria e pedagogica che fa dell’istruzione la bandiera sociale del terzo millennio. Il rinnovamento interessa tutti le imprese le famiglie le associazioni le istituzioni elettive. Col metodo della condivisione, insieme con gli insegnanti, gli studenti, le famiglie e con gli esperti promuoveremo un cantiere di idee e di proposte con cui ripensare l’istruzione e la formazione in tutte le sue dimensioni: la formazione degli insegnanti, una cura speciale per quelli di sostegno, le tecniche di insegnamento e apprendimento, i corpi e le menti, la nutrizione e la salute, la creatività e l’architettura degli spazi di apprendimento, tutti accessibili e senza barriere. Gli attori di questo processo sono: le scuole, le famiglie, le imprese, l’università i sociologi, gli psicologi, i neurologi, i tiflologi, i cuochi, gli artisti, gli architetti. La Puglia migliore deve avere una scuola migliore, una palestra di vita sociale dove realizzare il sogno di promuovere il cittadino che nella sua vita non sa rinunciare ad essere di aiuto verso l’altro, a dare una mano a chi ha bisogno perché non ha avuto fortuna nella vita.
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spagine
’uomo, modificatore e manipolatore di scenari, con la sua poe deleteria mano tente antropica, contribuisce quotidianamente a deteriorare l’ecosistema Terra. L’ambiente non è disponibile in quantità illimitata, le sue risorse sono scarse e andrebbero gestite con maggiore parsimonia. Il petrolio e gli altri combustibili fossili sono a termine, hanno già devastato ampiamente, eppure a diverse latitudini non si riesce a investire massicciamente e razionalmente sull’economia verde. Le fonti rinnovabili e pulite, opportunamente gestite (senza cioè intaccare gli habitat fisici), dovrebbero rappresentare la scommessa del presente e del futuro, ma per varie ragioni in tanti Paesi del mondo non si riesce a far partire compiutamente la nuova era. Eppure questa nostra Terra sporca e avvilita meriterebbe una saggia economia delle risorse, capace di decongestionare, creare sviluppo, ricchezza. La rivoluzione ad idrogeno, combustibile pulito, perpetuo, non inquinante, eterno, resta purtroppo un impiego di nicchia, scarsamente utilizzato. L’inquinamento atmosferico da idrocarburi è arrivato a un punto critico, in varie contrade del mondo. Secondo alcuni scienziati, i guasti causati agli ecosistemi dalle politiche scriteriate e invasive sono ormai spropositati. I danni prodotti dalle emissioni di anidride carbonica sono consistenti. A questo punto, è necessario più che mai ricorrere a strategie adattative. L’atmosfera è un sistema chimicofisico complesso, dinamico, in cui numerose specie chimiche sono in continua interazione. Il francese Gérard Mouvier, in un suo scritto, “L’inquinamento atmosferico”, si chiede: possono gli interventi antropici avere un’influenza sensibile sull’insieme del pianeta? Effettivamente, la crescente emissione di gas a effetto serra ha un’influenza negativa sull’atmosfera. Secondo gli studiosi, come conseguenza di ciò si potrà avere, oltre alla ricopertura da parte delle acque di vaste aree litoranee anche fittamente popolate, una notevole perturbazione del clima in varie regioni, una variazione nei regimi delle precipitazioni e, di conseguenza, della produttività agricola. L’ambiente è fortemente malato, malmesso viaggia, percorre stancamente quote insostenibili. La crisi ecologica è anche disorientamento economico e politico. Le grandi potenze, nei periodici summit mondiali sul clima, non riescono mai a strutturare piattaforme apprezzabili, condivisibili, vincolanti di riduzione degli inquinanti. Si discetta premnentemente sulla forma del tavolo delle trattative (rotonda o quadrata?), ma non si ha la risolutezza di pianificare sostenibili terapie d’urto. A cosa servono le memorabili assise deipotenti del mondo, se non riescono ad ottenere pragmatici risultati positivi? Sistematicamente i summit naufragano miseramente. La Terra malandata, ansimante, reclama interventi sicuri. Eppure, attorno al tavolo delle trattative si spengono tristemente le speranze dei cittadini. I Paesi più ricchi (quelli che insozzano di più), come al solito,
Contemporanea
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L’energia per il Mondo
di Marcello Buttazzo
si dimostrano incapaci di negoziare fino in fondo. La crisi ecologica è, soprattutto, perdizione morale. Le grandi potenze che, sovente, sono interessate direttamente dalle guerre “sante” e “umanitarie” per controllare le risorse energetiche, per accaparrarsi le ricchezze naturali e mano d’opera a buon mercato, dovrebbero avere un sussulto di dignità. L’etica della responsabilità imporrebbe soprattutto ai Grandi inquinatori, colonizzatori e “conquistatori”, di capire le ragioni dei Paesi più poveri a Sud del mondo, da sempre spogliati dalle politiche predatorie occidentali. Raggiungere accordi non vincolanti, né legalmente, né politicamente, è un fallimento, una disfatta. Continueremo a distruggere come prima, più di prima, vivremo in un pianeta sempre più ristretto, sempre più con il fiato corto. Ai nostri figli, ai nostri nipoti, lasceremo in eredità tutta la precarietà e la pochezza delle nostre man-
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chevolezze. La mansione morale è prioritaria, dovrebbe scuotere i cosiddetti potenti, che ambiscono a gestire e a disciplinare l’esistente a loro piacimento. La crisi ecologica è una sconfitta dell’uomo, uno scacco per tutti. Se non riusciamo, anche nei piccoli gesti quotidiani, a prenderci cura della “casa”,di fatto vuol dire che non sappiamo ascoltare l’umano sentire. La crisi ecologica è uno sfaldamento, uno smarrimento antropologico, d’un individuo perso a “ottimizzare”immediati risultati, senza rendersi conto che gli equilibri ecosistemici possono essere gravemente perturbati dalle attività antropiche, oltre la soglia della pericolosità. La Natura va amata, tutelata. Ha una connotazione religiosa e sacra la protezione di questa Terra, l’unica che abbiamo. E non c’è niente di più spirituale che rallentare, guardare in faccia il cielo e la luce del sole, condurre una vita più a misura d’uomo.
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Teatro
50 anni di teatro. Torna in Puglia l’Odin Teatret Ai Cantieri Koreja spettacoli seminari e momenti d’incontro
spagine
al 15 al 28 settembre prossimi, torna in Puglia con una lunga residenza nelle città di Lecce e Gallipoli l'Odin Teatret, storico gruppo teatrale fondato da Eugenio Barba ad Oslo nel '64, in occasione del compimento dei suoi 50 anni di attività. I legami del gruppo danese con il Salento non derivano solo dalle origini di Eugenio Barba (nasce a Brindisi e vive la sua infanzia-adolescenza a Gallipoli), si tratta di legami profondi con la cultura e la tradizione del Salento che l’Odin Teatret ha fatto conoscere in giro per il mondo, creando un modello di ricerca, formazione e produzione che non ha eguali sulla scena internazionale. L’Azione è finanziata a valere sul POIn - Programma Operativo Interregionale (FESR) 2007 – 2013 “Attrattori culturali, naturali e turismo”, Asse I – Valorizzazione e integrazione su scala interregionale del patrimonio culturale e naturale, nell’ambito dei programmi affidati dalla Regione Puglia al Teatro Pubblico Pugliese, col sostegno del Comune di Lecce, del Comune di Gallipoli e col patrocinio del Comune di Carpignano Salentino in collaborazione con i Cantieri Teatrali Koreja. A partire da lunedì 15 settembre si susseguiranno presso i Cantieri Teatrali Koreja seminari, spettacoli e attività di scambi culturali. Il primo incontro augurale con la comunità teatrale dell’Odin Teatret ci sarà lunedì 15 settembre alle 19.00 presso Koreja: all’appuntamento sono invitati amici, artisti, operatori culturali, amministratori, spettatori che vorranno rendere testimoniare affetto e gratitudine agli attori e alle attrici del gruppo danese con un brindisi augurale (ingresso libero). Dal 15 al 20 settembre si svolgerà IL PONTE DEI VENTI seminario con l’attrice Iben Nagel Rasmussen e la collaborazione di Sofia Monsalve ed Elena Floris. Il programma dell’Odin Teatret a Lecce prevede alcuni storici spettacoli della Compagnia: da martedì 16 a giovedì 18 settembre alle ore 19.00 MEMORIA, spettacolo con Else Marie Laukvik e Frans Winther per la regia di Eugenio Barba. E poi ancora BIANCA COME IL GELSOMINO, concerto d’attore con Iben Nagel Rasmussen (17 settembre ore 21.00) e AVE MARIA, spettacolo con Julia Varle per la regia di Eugenio Barba (giovedì 18 settembre). Sabato 20 settembre alle ore 19.00 si svolgerà il BANCHETTO DI POESIA E MUSICA (teatro della reciprocità) baratto/concerto con Kai Bredholt, Sofía Monsalve, Elena Floris, Erika Sanchez, Iben Nagel Rasmussen. www.teatrokoreja.it www.teatropubblicopugliese.it
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Il teatro
di Odino
Il programma Lecce, Cantieri Teatrali Koreja
Lunedì 15 settembre 9.00-13.00 Seminario Il ponte dei venti con Iben Nagel Rasmussen, Sofía Monsalve, Elena Floris 15.00-18.00 Seminario e preparazione baratto e concerto Banchetto di poesia e musica con Kai Bredholt, Erika Sanchez
Martedì 16 settembre 9.00-13.00 Seminario Il ponte dei venti con Iben Nagel Rasmussen, Sofía Monsalve, Elena Floris 15.00-18.00 Seminario e preparazione barattoconcerto Banchetto di poesia e musica con Kai Bredholt, Erika Sanchez 19.00 MEMORIA, spettacolo con Else Marie Laukvik e Frans Winther, regia di Eugenio Barba Uno spettacolo da camera con la musica e le canzoni sui bambini Moshe e Stella e le loro storie con un lieto fine. Memoria occupa l'onere di ricordare e l'impegno a non dimenticare, con le sfide di ritorno a casa dopo la deportazione, e con un canto sconosciuto sotto un albero. Lo spettacolo è dedicato agli scrittori Primo Levi e Jean Améry sopravvissuti di Auschwitz solo il suicidio in seguito. Le vere storie di Mosè e Stella provengono dal libro di Yaffa Eliach: Racconti chassidici dell'Olocausto .
Mercoledì 17 settembre 9.00-13.00 Seminario Il ponte dei venti con Iben Nagel Rasmussen, Sofía Monsalve, Elena Floris 15.00-18.00 Seminario e preparazione barattoconcerto Banchetto di poesia e musica con Kai Bredholt, Erika Sanchez 19.00 MEMORIA, spettacolo con Else Marie Laukvik e Frans Winther, regia di Eugenio Barba 21.00 BIANCA COME IL GELSOMINO, concerto d'attore con Iben Nagel Rasmussen L'attrice Iben Nagel Rasmussen percorre con la sua voce gli spettacoli dell'Odin Teatret dal 1966 ad'oggi. Ricorda e sperimenta ancora i cambiamenti della voce, da quella della "sala chiusa" (che permette all'attore di esprimere il suo mondo inte-
Sfoglia e leggi su Spagine un corposo contributo alla conoscenza dell’opera di Eugenio Barba a cura di Maurizio Nocera per la fanzine La contrada del poeta
riore), a quella degli spettacoli di strada (l'incontro col mondo esteriore), fino allo spazio che creano le parole attraverso i loro significati e sonorità.
Giovedì 18 settembre 09.00-13.00 Seminario Il ponte dei venti con Iben Nagel Rasmussen, Sofía Monsalve, Elena Floris 15.00-18.00 Seminario e preparazione barattoconcerto Banchetto di poesia e musica con Kai Bredholt, Erika Sanchez 19.00 MEMORIA, spettacolo con Else Marie Laukvik e Frans Winther, regia di Eugenio Barba 21.00 AVE MARIA, La morte si sente sola. Una cerimonia per l'attrice cilena María Cánepa spettacolo con Julia Varley, regia di Eugenio Barba “Trecento passi in pochi istanti. Pelle di pietra sulla mia testa. I morti e le mosche trasparenti - cosa sono? E cosa importa? Forse la morte non prende via tutto” Questi versi del poeta italiano Antonio Verri riassumono la performance. L'attrice inglese Julia Varley evoca l'incontro e l'amicizia con l'attrice cilena María Cánepa. È la Morte a celebrare la fantasia creativa e la dedizione di María che seppe lasciare una traccia dopo la sua scomparsa.
Venerdì 19 settembre 09.00-13.00 Seminario Il ponte dei venti con Iben Nagel Rasmussen, Sofía Monsalve, Elena Floris 15.00-18.00 Seminario e preparazione barattoconcerto Banchetto di poesia e musica con Kai Bredholt, Erika Sanchez 19.00 Baratto a Carpignano, organizzato da Iben Nagel Rasmussen e Pierangelo Pompa
Sabato 20 settembre 09.00-13.00 Seminario Il ponte dei venti con Iben Nagel Rasmussen, Sofía Monsalve, Elena Floris 15.00-18.00 Seminario e preparazione barattoconcerto Banchetto di poesia e musica con Kai Bredholt, Sofía Monsalve, Elena Floris, Erika Sanchez 19.00 BANCHETTO DI POESIA E MUSICA (teatro della reciprocità) baratto/concerto con Kai Bredholt, Sofía Monsalve, Elena Floris, Erika Sanchez,Iben Nagel Rasmussen e i partecipanti ai seminario Il ponte dei venti e Banchetto di poesia e musica.
http://issuu.com/mmmotus/docs/lcdp_per_eugenio_barba
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Il cinquantenario dell’Odin Teatret è il pretesto per noi per raccontare Koreja attraverso le parole di Silvia Ricciardelli che prima di approdare nel Salento fu attrice nella formazione di Eugenio Barba
Dall’Odin a Koreja
Preistoria e storia dei Cantieri Teatrali ripercorrendo le pagine di Graffiare i muri, Titivillus Edizioni
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essere un lavoro, ovvero un’attività con una dignità tale per la quale tu possa essere retribuito. Avere una vita che si lega allo spettacolo. Che si legittima attraverso lo spettacolo. Ogni giorno devi svegliarti e fare delle azioni che devono essere riconosciute sia come utilità per quelli che le incontrano, sia come onestà di quello che fai. Dico spesso ai giovani che sognano di fare ciò che gli piacerebbe fare: “Sì, capisco, ma perché ti dovrebbero pagare?”. La forza è stata proprio in questo “si può fare”! Dopodiché i pazzi sono stati Franco Ungaro e Salvatore, decidere di lasciare un posto di lavoro sicuro al Nord per tornare in Salento e guadagnare zero lire, non è da tutti! Vendere una casa al mare per comprare un luogo dove fare un teatro, non tutti lo fanno! La vera pazzia è sicuramente salentina! Il mio aiuto è stata la saggezza dell’esperienza. Un insegnamento che ho ricevuto nella mia infanzia-adolescenza napoletana, dai miei genitori che mi hanno detto sempre “si può”… e poi, sicuramente, da Eugenio Barba. Questa è stata la forza.
a storia [di Koreja] è molto lunga, non fosse altro perché rappresento una parte della memoria storica di questa esperienza cui si aggiunge una “preistoria” personale importante rispetto a Koreja, sulla quale non voglio soffer-
marmi molto. L’unico modo che ho per raccontare è di andare a ruota libera attraverso questi anni, non partendo, però, dai Cantieri Teatrali Koreja di Lecce ma dal come ci siamo arrivati. Sarebbe impossibile farlo, senza ripensare al percorso compiuto per giungere a costruire questo luogo, sia nel senso “fisico” del termine – il famoso “building” – ma soprattutto rispetto al perché è stato pensato e immaginato in questo modo. Chi viene e vede Koreja può pensare che sia il “risultato” l’unico aspetto importante mentre ritengo che, in un processo di creazione, il “come” sia determinante.
La “preistoria” è segnata da dieci anni di Odin Teatret, non solo un laboratorio, ma l’intero arco di un’esperienza, di un certo tipo di vita nel e per il teatro. L’incontro con l’Odin nella sala del tabacco di Carpignano Salentino fu per me anche l’incontro con un luogo fisico, il Salento. La prima volta, l’arrivo di un treno alle sette del mattino, in una Lecce senza stazione, era il luglio del 1974, e il tratto Brindisi-Lecce a quell’ora - con i colori del Salento - è qualcosa che difficilmente si dimentica: il rosso della terra, la luce, le tonalità del cielo e poi gli ulivi, che rendevano tutto il paesaggio magico. Un ricordo antico. Qui tornai molto tempo dopo, nel marzo del 1984, una volta “conclusa” l’esperienza all’Odin. Il Salento metteva insieme quei dieci anni di lavoro teatrale – vissuti peraltro in molti posti del Sud, viaggiando in Sudamerica, in Oriente… – univa la bellezza geografica del territorio a un’identità culturale molto forte (nel bene e nel male!). L’arrivo in questa terra aveva in sé le caratteristiche di quello che io avevo già sperimentato nella mia storia teatrale all’Odin. Al di là del piacere di ritornare al Sud sapevo che la mia esperienza avrebbe incontrato un “cuore pulsante”, una cultura molto seria, radicata, precisa. Nel Salento sono tornata per dare sostanza e forse futuro a un incontro. Quel “cuore pulsante”, possiamo chiamarlo Koreja,
La copertina di Graffiare i muri edito a cura di Mauro Marino nel 2010 da Titivillus
erano Salvatore Tramacere e Franco Ferramosca, Stefano Bove, Franca Carallo. Persone, un gruppo totalmente inesperto, acerbo di teatro. Non sapevano cosa fosse, ne percepivano la necessità, ne avevano voglia, ma non riuscivano a vederlo… In questa totale inesperienza era evidente però che c’era talento. C’era il luogo e un desiderio autentico e antico.
Dopo diversi anni di esperienza teatrale a Napoli città dove sono nata - e poi con l’Odin, di fronte alle inquietudini sul “che fare”, sul “Sì, vabbene il teatro, ma poi che mestiere fate?”, io potevo dire “Si può fare! Si può vivere di teatro”. Il punto è il “come”, il prezzo da pagare, l’energia da investire: il teatro non può rimanere un astratto desiderio, deve divenire un cosa di cui non si può fare a meno. Ho incontrato tanta gente che mi ha detto: “Beata te che fai teatro, che fai l’attrice, anch’io l’avrei voluto… ”. Ma non si tratta solo di “volere”! Semplicemente bisogna che sia l’unica cosa che abbia senso fare! Non è tanto l’amore per il teatro, il fatto che il teatro ci piace. Il punto è fare in modo che il teatro possa
La storia e le scelte Il percorso di Koreja è “autodidatta”. L’autodidatta non ha nulla di certo e niente di sicuro, chi lo è ha il dovere di osservare per strada a che punto sta e quale passo successivo deve fare. Chi impara un mestiere da un altro non fa altro che farlo proprio e applicarlo, e tutto va bene. L’autodidatta no, sceglie una strada e durante il suo percorso deve capire in che modo quello che fa può diventare un mestiere, proprio perché nessuno glielo dice direttamente. Nonostante io abbia un’esperienza pregressa, nonostante abbia imparato delle tecniche, di tutto ciò che ho appreso all’Odin e prima, mi è rimasto il “si può”. Poi gli aspetti più vicini al punto di vista prettamente estetico, dipendono dall’esperienza, dal posto in cui stai, dalle persone che incontri… e dai tuoi “fantasmi”. Il punto è che devi essere in grado di riconoscere ciò che intorno accade e finalizzarlo. La storia di Koreja è, ovviamente, ricca di aneddoti. In origine il nome scelto per la cooperativa nel 1985 era “Campo d’azione teatrale”, un nome ispirato dalla campagna che circondava il Castello Tre Masserie. Avevamo un accordo affittuario di dieci anni, nel ’94, il contratto sarebbe scaduto. In quei dieci anni – o meglio dire otto visto che i primi due li abbiamo vissuti senza pensare – ho passato quasi tutti i weekend a visitare le masserie del Salento per cercare il posto
Teatro
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verso. Diventava molto più semplice spiegare alle persone la nostra dimensione lavorativa, anche e soprattutto nell’esperienza del teatro ragazzi. Un luogo con un foyer che offre un certo tipo di accoglienza, dove la gente arriva, si ferma, chiacchiera, vede lo spettacolo, e dopo ne parla, facilita il lavoro di comunicazione dell’intero processo produttivo. Un aspetto più profondo e incidente sull’esperienza dello spettatore, ancor più su giovani e ragazzi. Nella loro crescita, infatti, è importante imparare che il lavoro non è solo fatica, o che serve solo a fare soldi. Ma anche che il teatro non è solo divertimento! Venire ai Cantieri a vedere gli spettacoli ha generato in loro la comprensione che dietro e dentro ogni spettacolo c’è una complessità che alla fine va in scena. Questa esperienza ha cambiato di molto sia le nostre modalità di produzione che il rapporto con le persone che sono venute a contatto con noi. Credo che l’aspetto della particolarità del nostro fare teatro sia visibile a tutti: i Cantieri non sono solo una sala di rappresentazione, ma un luogo di accoglienza, di preparazione, riflessione e incontro.
Silvia Ricciardelli con la fisarmonica in una parata con l’Odin a Volterra fotografata da Tony D’Urso
dove avremmo potuto fare il prossimo teatro. Poi è avvenuto altro, come sempre succede nella vita, il ’94 si è chiuso con qualcosa che è stato determinante anche ai fini dello spostamento, per il cambiamento di Koreja: la morte di Stefano. Anche se era già evidente la necessità di una trasformazione, quell’avvenimento ci fece capire che l’infanzia era finita: bisognava andarsene e fare altro. In realtà sono passati due anni prima di trovare questo “altro”, quando è stata comprata la fabbrica di mattoni abbandonata - un luogo finalmente - e altri quattro anni per “costruirlo” e ancora anni per farlo diventare quello che è ora. Chiamo “Medioevo” quel periodo dalla chiusura del Castello fino all’apertura dei Cantieri Teatrali Koreja di Lecce. Quattro anni vissuti un po’ da nomadi, da baraccati, un intenso lavoro sotterraneo senza avere una vera “casa”. Man mano che l’attività di Koreja – nata con i primi Convegni di Marzo, il Festival “Aradeo e i teatri” e il Teatro ragazzi, itinerante nelle scuole – cresceva, diventava un possibile lavoro (anche se solo per cinque mesi all’anno), si sentiva la necessità di trovare un teatro, una sala di rappresentazione. Mentre giravamo di masseria in masseria battendo la provincia, Franco spingeva per venire a Lecce. Per lui era necessario avere un luogo urbano, che maturasse la professionalità del lavoro che s’era fatto. La “casa”, il “castello” erano sempre luoghi con un forte limite di agibilità, buoni per l’ospitalità, per il casa-bottega.
Pensava alla città Franco – e lo dico ora ridendo – credendo di aver acquisito un po’ di potere politico. In realtà sperava in un luogo “istituzionale”, nell’appoggio politico per avere un Teatro da gestire. Poteva andar bene una delle proprietà della Provincia. C’era un palazzo bellissimo sulla via di San Pietro in Lama, c’era il Teatro Apollo che si doveva rimettere in piedi, il Teatro Paisiello che era stato ristrutturato. Su questo Salvatore era molto scettico e la sua frase era: “Se aspetto che mi diano qualche cosa sarò finito prima di provare”. Fu per questo che si era attrezzato a pensare all’ipotesi di un luogo privato. Un luogo soltanto di Koreja A volte ripenso a tutto il percorso, a quando siamo arrivati, il cancello, le rovine, il silos, la macchina di ferro... Il giorno che Salvatore portò me e i due figli all’epoca avevano sette e tredici anni - e disse: “Questo è il teatro che compra papà”, vidi i loro visi perplessi; si chiedevano: “Ma siamo sicuri?!?”.
Il luogo e la produzione creativa Nella vita ci sono avvenimenti che spingono al cambiamento e poi ci sono le conseguenze di questo cambiamento. Lo spostamento ai Cantieri Teatrali Koreja di Lecce ha fatto divenire necessario lavorare in un modo diverso e il tutto è successo automaticamente. Avere una sala nella quale fare uno spettacolo, dove far venire la gente, costruire le scene e gli allestimenti sono tutti fattori che hanno reso il lavoro inevitabilmente di-
Faccio un salto indietro! Giardini di plastica, spettacolo creato nel “Medioevo”, cioè in quel periodo in cui non avevamo nient’altro, è ancora, a mio parere, lo spettacolo migliore di Koreja, quello che può andare dovunque, che ovunque viene premiato, che la gente viene a rivedere quattro-cinque volte… Tutto ciò è paradossale! Quello era il momento peggiore per Koreja! Il Castello Tre Masserie non c’era più… ma neanche l’impegno pazzesco che la manutenzione del luogo richiedeva. All’improvviso non c’era più l’alibi di avere altre cose da fare fuori, si poteva solo passare tutto il tempo nel sottoscala, nei pochi metri quadri disponibili e lì qualcosa è “degenerato”! La clausura costringeva a essere creativi. Si poteva solo “fare di necessità virtù”. Ovviamente anche i Cantieri portano via del tempo, ma ci hanno dato meno problemi rispetto alla vecchia masseria e quello che Salvatore ha lamentato negli ultimi anni è che, nonostante avesse costruito il “suo” teatro, non riusciva a trovare i giorni per fare le prove dello spettacolo, c’era sempre da rispettare la programmazione o le altre attività. Ora le cose sono diverse, adesso, in qualche modo, pretendiamo di più. Produzioni come Mangiadisk e Paladini di Francia, ad esempio, sono molto più complesse, più strutturate, rispetto a Giardini di plastica. Quest’ultimo rimane tuttavia un momento creativo particolarmente fortunato, uno spettacolo che è già alla terza generazione di attori. Formazione e pedagogia All’Odin - sovvenzionato in Danimarca in quanto Teatro Laboratorio Interscandinavo per l’Arte dell’Attore - sono stata educata alla pedagogia. Era automatico passare da allievo-attore ad attore-pedagogo, ovvero trasmettere attraverso i laboratori le tecniche imparate. Quando sono arrivata in Italia, però, era molto evidente che quello che insegnavo era per un teatro che non esisteva, una tipologia di lavoro in cui l’attore impara a produrre materiali che poi il regista elabora per farli diventare uno spettacolo. È come se dicessi che Caravaggio usa gli oli e poi va da uno che usa gli acquarelli… Non si può fare quello che fanno i caravaggeschi, con gli acquerelli. L’importante è imparare a fare un buon quadro qualunque sia la tecnica utilizzata A distanza di venti anni mi rendo conto che la mia vera pedagogia, intesa come trasmissione di esperienza scenica, è stata quella applicata di fatto con le persone che hanno fatto gli spettacoli con me. L’idea di fare i laboratori qui ai Cantieri nasceva dal
Teatro
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Silvia Ricciardelli con la fisarmonica in una parata con l’Odin a Volterra fotografata da Tony D’Urso
precedente lavoro nelle scuole, ma le due esperienze sono estremamente diverse. Lo voglio spiegare partendo da un presupposto: fare teatro non fa mai male, qualunque cosa si faccia. Si può essere Pamela Villoresi o Albertazzi o Carmelo Bene o non esserlo, ma fare teatro è comunque un’esperienza importante per la crescita della persona. I laboratori fatti con i gruppi esistenti, nella scuola, coi portatori di handicap, con il carcere…, sono un’altra cosa perché, attraverso azioni fisiche e vocali guidate, si fa diventare “relazione teatrale” quello che abitualmente sono relazioni quotidiane. Con questo processo di astrazione si può ri-dare una crescita e una coscienza alla persona semplicemente usando la possibilità del ruolo, spesso nascosta. Ad esempio, quando io lavoro con i ragazzi spesso gli faccio fare la lotta senza che si diano dei colpi. In questo modo è possibile aggiungere una possibilità alla aggressività, conquistare coscienza della propria e farne un’azione teatrale. Questo è, dal mio punto di osservazione, pedagogicamente molto interessante, ma non ha nulla a che vedere con la formazione di un attore. Quando, invece, questa cosa la fai in teatro con persone che vengono e pagano per quelle ore, è facile che si crei un equivoco. Un imbarazzo che a volte abbiamo provato alla fine dei laboratori è il fatto che quando si lavora per uno spettacolo si fanno delle prove e gli ultimi due-tre giorni non ci sono degli orari perché bisogna lavorare sulla prima. In un laboratorio con persone che vengono in orari prestabiliti è facile innervosirsi. Noi sappiamo che la scena va costruita e poi bisogna mostrarla. Una volta uno mi disse: “Scusa ma io pago, devo venire, devo faticare, mi devo stancare, tutto questo per fare teatro?”. La mancanza di motivazione mette in difficoltà, si perde il senso di ciò che si fa. Per me fare teatro è stata una sfida. Spesso per chi ambisce a farlo è solo una necessità di conferme.
Pratica in cerca di teoria. Senza parole Forse è normale dopo aver fatto un percorso e aver ottenuto dei risultati sentire la necessità di trovare le parole giuste per raccontare la propria esperienza, la strada intrapresa ma anche il patrimonio di cono-
scenze maturate. Mi permetto di dire che, in qualche modo, questa è un’esigenza tipicamente maschile. La necessità della teoria, è insieme una possibilità di individuare e afferrare esattamente ciò che si è fatto e, al tempo stesso, ciò che si può lasciare. Il sentimento materno, invece, non ha finalità. Io sono felicissima quando vedo che le persone, dopo l’incontro con me, fanno cose, magari diversissime. Sento l’orgoglio e il piacere di coloro che mi dicono “Ma quella cosa che mi hai detto, quell’incontro che ho fatto, è stato molto importante per farmi capire questo”, più che l’esigenza di vedere formalizzata o scritta la mia teoria. Temo, scopro ed ahimè vedo, che le parole scritte spesso diventano mattoni. L’incontro, la persona, quello che io fisicamente ho sperimentato, per me è più forte del libro che ho letto. La frase, invece, è come una lapide, come se dicesse “ricordati che…”, solo una specie di memoria mentale, e la vivo un po’ come qualcosa di morto! L’incontro è inequivocabile, la parola scritta dà adito a interpretazioni. E così anche il teatro continua a essere pieno di sedicenti attori e spettacoli poco seducenti. I percorsi e la selezione ecologica Ricordo la scena finale di uno dei primi spettacoli di Koreja in cui c’era una processione e Franca veniva portata sulle spalle. Dovevo far capire agli attori semplicemente il modo in cui camminare, a tempo, tutti insieme… avremmo perso almeno quindici giorni per provare questa scena, una cosa assolutamente elementare, imparare un ritmo per uno stare insieme! Quando abbiamo iniziato c’era una incapacità totale di forma teatrale e questo problema si è riproposto per molti anni. Salvatore voleva fare un teatro suo, che nasceva da qui, però non aveva gli elementi capaci e quelli che riteneva tali non corrispondevano alla sua necessità poetica di legare lo spettacolo al territorio. Non aveva nessun senso chiamare attori che si erano formati fuori, avevano un altro linguaggio, un’altra storia. Il problema era quello di arrivare a una generazione di persone che fosse comunque della zona e che fosse preparata. Oggi è diverso, molto è cambiato e coloro che arrivano a Koreja sono già preparati a dialogare anche su quello che non
funziona, comprendono ogni correzione, ogni consiglio e sono in grado di accogliere le necessità del fare. Non so dire quale sarà il futuro di Koreja dal punto di vista degli attori, perché è un problema che sussiste ancora. Noi viviamo qui tutto il giorno! Un attore nuovo che viene a Koreja per imparare a farlo, però, non farà tutto il giorno l’attore. Allora, come fa a venire qui e rimanere il tempo necessario? Se ne chiamassimo uno solo per fare lo spettacolo non riuscirebbe mai a coglierne il senso, capire cosa vuol dire stare in scena quella mezz’ora… sarà bravissimo, ma ci sarà sempre questo limite, un livello di coscienza totalmente diverso, che si forma anche costruendo la pedana sulla quale farai lo spettacolo, vedendola crescere, prendendosi cura del proprio costume di scena. L’anima di Koreja è artigiana, non commerciale. Il problema è proprio riuscire a far passare questo concetto! Noi rimaniamo sempre e comunque una minoranza, soprattutto rispetto all’idea che passa attraverso Amici, X Factor, come se gli attori debbano essere cinquemila, trentamila, cinquantamila… mentre noi siamo davvero quattro gatti! Neanche io nella vita ho fatto sempre l’attrice, si va e si viene, cambiano ruoli e mansioni, ma ho sempre vissuto nei teatri, cosa diversa dal voler stare sul palcoscenico. Con gli anni sono diventata più sensibile all’energia degli altri, percepisco il disagio quando c’è, e cerco di aiutare. Tutto, nonostante le paure! È normale avere paura del futuro, ma credo che le persone debbano stare bene e al tempo stesso essere coscienti delle proprie sofferenze. Il teatro è maestro di vita, è stare insieme da protagonisti o da deuteragonisti, primi attori e secondi attori e tutto quello che intorno si muove, serve la scena. È come il mercurio il teatro: lo dividi, si apre, poi si riunisce. È un gioco di molecole che si aggregano e si disgregano, e se questo viene vissuto come un caos originario è la fine. Se, invece, lo si vive come logica evoluzione dei tempi delle persone e con il giusto rispetto per loro, è diverso. Il segreto sta nel rispettare che le persone sono così, reagiscono in questo modo, ci sono dei momenti in cui si possono incontrare e altri in cui questo non accade. Non si tratta mai di un giudizio qualitativo di ciò che è bene e ciò che è male, è solo questione di ecologia. Solitamente si dà molta importanza all’economia e invece si dimentica che ci sono altri principi di aggregazione che fanno funzionare le relazioni e le mettono a frutto. E purtroppo anche il male, le morti, le perdite, fanno parte della vita.
(...) Non è possibile che una storia si costruisca nel giro di pochi anni. È necessario capire che il “valore” può venire se c’è un percorso. Il mio sogno oggi ? Essere “perdente posto”! Penso che il massimo che possa succedere sia che i Cantieri continuino a vivere “malgré moi” e lo facciano senza timore e soggezione, con la stessa autonomia e capacità di resistenza che abbiamo avuto in tutti questi anni. Nei primi anni della nostra conoscenza Salvatore mi inviò una cartolina con una frase legata agli ulivi, al loro impiegare molti anni nel prendere forma, al loro forte radicamento. Credo sia anche una caratteristica del Salento quella di avere radici ben salde nelle persone forti. L’auspicio è che questo posto, diciamo “europeo”, sia veramente salentino, che possa avere la stessa capacità di resistenza di quei pazzi di Franco e Salvatore e del mio “si può”.
Silvia Ricciardelli
O
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In corsivo
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di Gianni Ferraris
nde! Sinuose, leggere, insistenti, possenti, avvolgenti. Stai seduto su balle di fieno, durante una verde notte verde, a Castiglione dove il mare non si vede, il pianista suona stupendamente, avvolge (come un’onda) e tu ascolti, guardi. Ignori i rumori della piazza, i bimbi che giocano, le mamme che chiamano, i ragazzi che telefoninano, quello seduto che non alza mai il capo dallo smaprtphone e chissà che c..avolo c’è in quello schermo che non gli consente di vedere attorno il mondo che turbina, sicuramente saranno notizie di bombardamenti sulla striscia di Gaza o arrivi di UFO in val padana. Se atterrano a Mirafiori non trovano neppure più la FIAT, che diamine dovrebbero venire a fare gli alieni in Italia? Vadano in Cina se proprio insistono. E se debbo pensare agli alieni li vedo bene mentre mangiano con le bacchette e non con posate griffate. Soprattutto li vedo malissimo ad assaggiare bagna caoda o lampacioni. Castiglione, dicevo. Arrivando ho trovato volti conosciuti, leccesi in trasferta, altri girovagavano, so che c’erano ma non li ho incrociati davanti a migliaia di fichi e mele, o a chi produce miele o ceramiche che hanno radici antiche, ricordano maestri ceramisti di Lenci o Ronzan, ma lei, la ragazza che li modella, è di qui, di Tricase, ha inventato ballerine di pizzica e altro, dolci, leggere come aria. La ceramica non è sempre fredda, a volte sogna. Onde e Castiglione, mare e balle di fieno, musica e bimbi e ceramiche e fichi. Tutto assieme nella notte verde. Onde, me le ha ricordate la signora seduta davanti a me su un’altra balla di fieno. Generosamente prosperosa, con la sua corporatura avvolta da un abito estivo fasciante, onde sinuose per tutto il corpo si intravedevano, ricordava il mare di Castro con lo scirocco che lo gonfia spingendolo verso gli scogli. Le onde d’acqua poi si frantumano, quelle sulle balle di fieno no, rimangono ad evocare morbidezza. E mentre vedo il “mare” di Castiglione mi passano accanto giovanissimi ragazzini, un gruppetto di adolescenti che hanno in comune un taglio di capelli che in altri tempi avrebbe procurato una querela al barbiere. Rasati fino alle orecchie, poi fluenti chiome di colori assolutamente improbabili. Con loro una ragazza che cambiava a seconda del profilo, a destra lunghi capelli biondi, a sinistra completamente rasata, anche lei fino alle orecchie. Abbassi lo sguardo per non farti prendere dalla commozione di tanta bellezza depredata e vedi gambe affusolate, sempre della stessa ragazza, che terminano in simil anfibi con tacchi altissimi grandi come pali della luce e zeppe davanti. Mezzo metro e, a occhio, almeno otto chili di peso. E mi dico che è vero, sono vecchio, acido e scontroso. Soprattutto mi dico quello che gli adolescenti dicono (o pensano) agli adulti “ma cosa vuoi capire tu…” E’ vero, non comprendo. Meglio le onde, sono naturali… C’erano stelle sulla musica e sulle onde, anche sui telefoninatori, e forse da qualche parte c’era un quarto di luna. Ho mangiato grano e bevuto birra. Poi a casa prima che la notte si facesse troppo bianca, passando fra uliveti e muri a secco.
Note a margine della Notte Verde di Castiglione d’Otranto
Le onde La locandina della Notte Verde edizione 2014
GroundGround T-shirt, una fashion collection made in Salento
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Tornare alla terra!
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Back to the earth with a bump...". Son come graffi. Cose del lavoro, cose delle mani: un rastrello, una zappa, un piccone… - resi con segno greve fuori da ogni ordinario lezioso - per auspicare ciò che manca: “Back to the earth”, l’“urlo”
esibito. La semplicità della terra è il futuro! I suoi odori, il caldo e il freddo del variare delle stagioni, i colori forti del marrone e del verde. Il “corsaro” Pier Paolo Pasolini nel suo allerta in difesa delle tradizioni pare tornare: “Il volgar’ eloquio: amalo. Porgi orecchio, benevolo e fonologico, alla lalìa, che sorge dal profondo dei meriggi, tra siepi asciutte, nei Mercati, nei Fori Boari, nelle Stazioni, tra Fienili e Chiese. Poi si spegne – e col sospiro d’un universo erboso – si riaccenderà verso la fine dei crepuscoli…”. Ecco, la nostra è epoca al crepuscolo e l’augurio di un ritorno, di uno sguardo volto all’indietro è ciò che rammentano queste “t-shirt manifesto” concertate da Silvia Dongiovanni come pagine di un album dove raccogliere ancora una possibile speranza: GroundGround è la label della fashion collection made in Salento, "Back to the earth with a bump", propone un nuovo modo di pensare al mondo in cui viviamo e al nostro stile di vita, un modo nuovo di riconoscere la natura, l'importanza del duro lavoro e del coltivare il senso del bello. Attrezzi agricoli, fili d’ erba, terra rossa vogliono essere un messaggio forte per la riscoperta di valori veri, per la riscoperta della nostra Terra, per promuovere il cambiamento culturale attraverso indumenti di qualità. Condividere e accrescere speranza, energia, consapevolezza e delicatezza per trovare una nuova strada nel nostro mondo antico. Il mondo in cui viviamo è la nostra casa; non abbiamo un altro posto in cui andare. Essere GrounGround è essere orgogliosi della nostra Terra, della nostra casa, del nostro lavoro, delle nostre radici. “Sporco” è il nuovo nero. Essere GroundGround non è smettere di sognare, è capire che la concretezza dei sogni deriva dal crederci realmente e soprattutto dall’ impegno costante che mira al riconoscere in concreto ciò che prima esisteva solo nell’ immaginazione; mettiamo i piedi per terra, accarezziamo con forza rude ciò che tutti i giorni calpestiamo inconsciamente, ignari o non curanti di essere figli della terra, ritorniamo al punto di inizio per acquisire maggiore consapevolezza, conoscenza e poter finalmente andare avanti con corpo e spirito rinnovati con la determinazione di proporre un nuovo modo di pensare al mondo in cui viviamo e al nostro stile di vita, un modo nuovo di riconoscere la natura, l'importanza del duro lavoro e del coltivare il senso del bello per la riscoperta di valori veri, per la riscoperta della nostra Terra M. M.
Nella foto grande la t-shirt indossata dall’attrice Helèna Stefanelli
Eventi
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Compie un anno il con-temporary lab di via Cairoli a Lecce
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Buon compleanno!
erzbau con-temporary lab è un luogo con molte anime. Le due vetrine di via Cairoli 21 a Lecce ospitano un negozio che è anche un laboratorio artigianale che è anche una piccola finestra sulle più svariate tendenze creative contemporanee a partire da prodotti handmade. Lo spirito di condivisione che connota questo spazio è tutto nel nome. È quello che l’artista tedesco Kurt Schwitters scelse per il suo appartamento-atelier di Hannover nel 1920. Una costruzione che continuò ad espandersi fino a diventare opera d’arte con il contributo di tutti coloro che vi transitavano. Una casa per il commercio (merz-bau) in molti sensi: non solo vendita di ‘cose’ ma anche baratto di idee. Una dimensione in perpetuo divenire dove esporsi al nuovo e lasciarsi contaminare. Il confronto con quanto accade nel mondo dell’handmade a livello globale
definisce la selezione dei prodotti da esporre ogni mese non senza dimenticare le esigenze del mercato locale e i suoi protagonisti. A partire da chi il Merzbau lo abita quotidianamente. Oggi, domenica 14 settembre il Merzbau compie 1 anno. Per festeggiare tutti gli amici sono invitati per un aperitivo alle 19. Clienti e venditori insieme ma anche artisti e artigiani che ancora non ci conoscono e chi artigiano vorrebbe provare a diventarlo. Per l’occasione infatti presenteremo non solo i brand in arrivo per l’autunno e l’inverno ma anche il calendario degli eventi che prevede un ciclo di 6 incontri dedicati al baratto delle competenze nell’ambito dell’handmade. È la Crafter Flotilla. Ultima ma non meno importante l’imperdibile Pesca Pazza! www.facebook.com/merzbaulab merzbaulab@gmail.com
La mostra di Simone Martina da Ergot a Lecce, fino a giovedì 18 settembre
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Arte
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Arguzie e amenità
É
stata inaugurata il 4 settembre scorso alle Officine Culturali Ergot di Lecce la personale d’arte di Simone Martina, intitolata “Arguzie e amenità”. La mostra si concluderà il 18 settembre prossimo. Una sensazione ci sfiora alla vista dei quadri di Simone Martina. Essi richiamano emozioni, stati d’animo ed evocano ricordi. Riflettono segni che toccano l’acqua musicando il mare con un flauto traverso, disposto sull’onde con su in alto le vele pronte ormai a salpare per nuovi orizzonti. In altra composizione scogli marini si ergono nei nostri mari, come fissa dimora a ricordo d’un amore mai dimenticato né rimosso. Nel “quadro di Rubik” piccoli dadi mirano a comporre l’esistenza uscendo dai meandri in cui essa è coinvolta. Di fronte, in un altro quadro, i dadi si uniscono e formano un simbolo come a segnare l’arcano mistero d’un mondo a noi lontano. La “Ville lumiere” e la “Tour Eiffel” ammiccate con stile in deliziosi quadretti aggraziano Parigi, dorandola con piccoli dosi di luci e colori. In un quadro più grande una striscia di cuoio serpeggia la tela, smuovendo il tessuto su cui essa è tenuta. Nell’altro accanto una corda mantiene appesa una molletta per appendere ancora i nostri sogni e le attese speranze... Insomma, segni, simboli, presagi mirano a favorire ripensamenti, semplificando l’ambiente, creando riflessioni e spunti su cui poggiare i nostri bisogni. Allietano manifesti momenti, trasmettono pulite emozioni all’istante nei brevi tratti appena accennati. Solcano misteri profondi e reconditi; sottili, mordaci e vivaci affrancano la mente, attendono un futuro che non ha bisogno di niente. Così Simone Martina voglio presentare, intuendo l’operato, dipanando enigmi in apparenza dimostrati. Cogliendo quindi la sensazione immediata, il solco vitale;
di Antonio Zoretti
eludendo il linguaggio tecnicistico degli altri. Fuori dagli ‘…ismi’ d’accatto di cui godono i critici, profanando l’arte, vittima suprema dei concetti e delle mode dei nostri tempi. Io voglio solo farmi investire da una ‘sensazione’ davanti alle opere di un artista, il quale attraverso la sua voglia d’esprimersi vorrà comunque comunicare qualcosa…; al di là del ‘bello’ o ‘brutto’ che sia, al di là della crocettina estetica narcotizzante, e soprattutto fuori dalla portata dei ragli d’asino di cui la critica settoriale è invasata, auspicandone il suo tramonto definitivo. Io opero per sottrazioni, espletando solo la mia sensazione, giusta o forzata che sia, respingendo così la possibilità di bollare e distinguere il genere dell’artista. Io non sono un critico (per fortuna), o un ‘addetto ai lavori’ – come si sol dire; ed è forse per questo che avverto il bisogno di farlo. Mormorava qualcuno in passato, ma tanto è presente che conviene sempre rievocarlo: “Quando si dice: «io non sono pittore…» è allora che bisogna dipingere! Van Gogh, né pittore, né musico, né letterato, attore ecc. ecc.” – E Landolfi: “non si può fare letteratura con la letteratura, musica con la musica, pittura con la pittura…”. Non si può fare critica con la critica – dico io. Essere ancora fermi agli schemini preconfezionati (dove un giudizio equivale a centomila) declamati dalle sedicenti figurine che frequentano la critica d’arte, ad insaputa di quest’ultima che indifesa vittima ne subisce i dolori inflitti dalla folta ‘rappresentanza sindacale’. Una emozione basta e poche sensate parole per descriverla, senza le smanie del successo nella critica d’arte, spossante, rea manifesta, che ruota sempre su inutili e vacui discorsi . Il loro ripetersi… che mal di testa! Sono così stanco di sentirli ragliare!
Un’opera di Simone Martina
Arte
Chiara Gatto alla Galleria Scaramuzza
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Un’opera di Chiara Gatto
Se l’arte ti divora
i è inaugurata venerdì 12 settembre la mostra di Chiara Gatto alla Galleria Scaramuzza in Lecce, intitolata “Divoramenti”. Col titolo l’artista vuole solo annunciare di essere consunta dall’arte mentre opera. Divorata quindi. Nei disegni invece appare la ‘foresta del mondo’ nei suoi meandri, e chi vede i suoi quadri è colpito dal suo immaginario visivo. Chiara Gatto si addentra, in veste visionaria, nel cuore dell’universo kafkiano – rappresentato principalmente, ma non solo, dai suoi “senza titolo” - e ne registra le visioni che ivi si tengono. Ogni altro quadro, anche se pronunciato con titolo diverso come del resto le immagini, ha peso nell’iter creativo da cui dipende il destino dei protagonisti. Questo, è l’angoscioso presupposto dei suoi lavori, la molla che li mette in tensione. L’artista tiene conto del mondo kafkiano e ne tira sino in fondo le conseguenze. Ne coglie allusioni e intonazioni e svela la sostanza profonda, con l’arte di nascondere l’aculeo. Su questa rete è impostato il percorso dell’artista. La critica, nella maggior parte dei casi, è accanita a cacciare una realtà esterna che allunga la sua ombra, sotto forma di simbolo o di incubo o di allegoria, si dice sempre il già detto… è tutto quello che si dice. E’ il risvolto di copertina, invece, che interessa: fare in modo che il mistero sia illuminato dalla sua luce. Come una slitta che ci prende e ci porta nei luoghi raffigurati, densi di significato. Chiara Gatto è una giovane artista poco conosciuta ancora ed estremamente discreta. Ma, osservando i suoi dipinti ella manifesta il suo squisito tatto e delicata premura, e noi avvertiamo chi sia il nostro corrispondente. Ecco una qualità fondamentale, ma anche una pietra d’inciampo in
di Antonio Zoretti
cui sbattono di continuo i protagonisti delle sue opere durante le loro tormentose esperienze: sapere con chi si ha realmente a che fare. Siamo nel cuore dell’universo di Kafka, ma anche nell’universo di Chiara Gatto: giacché l’opera a cui ella attende – un’opera che continuerà, di cui quella presentata alla Galleria Scaramuzza non è che un episodio – può e forse deve essere interpretata come un vasto tentativo di accertare dove si manifestino le potenze nascoste che reggono il mondo, e insomma lo «possiedono» nel senso, soprattutto, di «possessione»). Da cui il suo “divoramento”, cioè struggersi e consumarsi in arte e per l’arte. A volte l’artista percorre vasti orizzonti, altre volte rastrema il suo interesse strozzando l’ambiente. Senza dubbio questo restringimento è imposto per la specificità del suo oggetto. Kafka percepì che del mondo che sta intorno oramai andava espresso il minor numero di elementi. Dire il minimo e nella sua pura letterarietà. Poiché il mondo era carico di ignoti suoni e apparizioni, occorreva limitarsi a ciò che era più vicino, circoscrivere l’area del nominabile. Allora lì sarebbe defluita tutta la potenza, altrimenti diffusa. E la rigorosa delimitazione dell’indagine visiva è la strategia con cui Chiara Gatto cerca d’impadronirsi della forza insita in ciò che rappresenta. Sempre terso, mai offuscato dalla fatica di chiarire tutto e di prevenire ogni obiezione, lo stile è, in Chiara Gatto, sostenuto da uno scheletro elastico e resistentissimo che è l’intelligenza. Scheletro che già impedisce di cadere in un mimetismo molle, anche quando grande e in apparenza pericolosa è la prossimità con l’oggetto. Assistiamo così, come nelle altre arti, a una serie di spostamenti esatti e fulminei, che rinnovano, per noi tutti, la pittura di Chiara.
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Uno speciale
lungometraggio
di Rocco Boccadamo
M
i sono diplomato, con una sfilza di otto e di nove, nel luglio del lontano 1960. Ricordo che era appena passato a miglior vita un vecchio marittimese, maestro Vitale Bianchi, già falegname di mestiere e, soprattutto, per molti decenni, sacrestano della locale parrocchia, in tale funzione sempre presente ad ogni evento, lieto e non, che si verificava in seno alla comunità paesana. Una figura, insomma, ben conosciuta e quasi familiare. Poco tempo dopo, grazie a quel pezzo di carta e con la mente colma di tanta e convinta voglia di nuovo, ho detto ciao a Marittima e alla mia Ariacorte per incamminarmi verso il mondo del lavoro. Non sono rimaste disattese, per fortuna, le aspettative postemi in tema di traguardi e di carriera, anche se nessuno mi ha fatto regali e ho, anzi, dovuto impegnarmi, come si suole dire, anima e corpo. Mi è invero capitato di calarmi in un impiego, a diretto contatto e a confronto con la gente, che mi ha preso e coinvolto sin dall’esordio. In più riprese ho cambiato sede di lavoro, in giro per l’Italia, dalla Puglia alla Toscana, dalla Campania alla Sicilia e alla Liguria, dalla Lombardia al Lazio; e questo peregrinare – pur con le connesse scomodità logistiche, di insediamento, adattamento ed ambientamento – si è tradotto in un significativo supporto di arricchimento delle mie conoscenze ed esperienze, non solo a livello professionale, ma anche e soprattutto dal punto di vista culturale e umano. Devo riconoscere che ho avuto la buona ventura di essere assecondato – particolare non trascurabile – dalla famiglia, prima di tutto da mia moglie, quindi pure dai nostri tre ragazzi. A loro, perciò, un grosso “Grazie”. Trascorsi circa quaranta anni di servizio attivo da girovago, ho dovuto domandarmi e scegliere dove andare a vivere da pensionato. Il passaggio rivestiva molta importanza ed ha pertanto richiesto una lunga riflessione. Alla fine, ha prevalso, devo dire nettamente, l’opzione del ritorno alle origini, per cui mi sono ritrovato di nuovo abitante di Marittima, per l’esattezza abitante in part-time durante il periodo invernale, allorquando mi divido fra il paesello natio, appunto, e la vicina Lecce. All’inizio, sinceramente, ho talvolta avvertito un senso di disorientamento, mi sono posto degli interrogativi. Ma, adesso, sono, con convinzione, lieto e soddisfatto di essere ritornato. Certo, l’arco di tempo della mia assenza, sebbene non lunghissimo, ha coinciso con un’epoca in cui sono maturati e si sono sviluppati tumultuosi e radicali cambiamenti, sicché ora molti scenari risultano profondamente mutati. Anche a Marittima, di conseguenza, appaiono diffuse le tracce del nuovo: sui muri, nelle vie, sui volti e negli abiti della gente, nella stessa aria che si respira. Da sottolineare che i miei primi diciannove anni trascorsi qui erano stati caratterizzati e impregnati da un’elevata dose di “partecipazione” e di coinvolgimento, tanto che dopo, pur vivendo lontano e nonostante lo snodarsi del tempo, mi sono costantemente sentito “pieno” di quel periodo. Adesso, oramai ragazzo di ieri, mi rendo meglio conto che in quella fase, intorno a me, non esistevano steccati o fossati rispetto agli altri, più giovani, più grandi o più vecchi che fossero. Ai miei occhi, la comunità marittimese era un tutt’uno e basta. Di riflesso, nella realtà, mi succede ancora di sperimentare la profonda conoscenza delle persone acquisita allora, una vera e propria somatizzazione, sin dai caratteri e dalle sagome del loro fisico. Ad esempio, sono in grado di riconoscere agevolmente un compaesano, basta che lo osservi di spalle, senza alcun bisogno di scrutare i dettagli del volto. Eppure, di tempo ne è passato! Lo accennavo prima, anche qui, purtroppo, si scorgono, inevitabilmente, immagini comuni ad altri posti, si ha l’impressione di vedere in giro più autovetture e scooter che abitanti, sono ben presenti le mode in voga, i discorsi che si ascoltano risultano spesso imbevuti del tipico, moderno consumismo, delle usanze e delle tendenze
Racconti salentini
della domenica n°43- 14 settembre 2014 - anno 2 n.0 che prevalgono. Ma, ciononostante, per me, al massimo livello della scala dei valori, rimangono pur sempre le persone, non importa se ricche o povere, colte o poco istruite, eleganti o modeste e approssimative nell’abbigliamento. Non essendo un critico di professione, bensì soltanto uno spettatore e non ritenendomi, comunque, all’altezza per poterlo fare, mi astengo volutamente dall’esprimere giudizi o dall’additare negatività circa i cambiamenti intervenuti in maniera specifica nello spaccato della nostra piccola comunità. Tanto, la situazione attuale è perfettamente alla portata e nella consapevolezza di tutti. Mi piace, invece, tentare di offrire un “contributo” di tacito e sereno confronto costruttivo, attraverso qualche riflessione, testimonianza o ricordo. Come in uno speciale lungometraggio cinematografico di cui non ci si stanca mai di rivedere le sequenze, nella mia mente, e non solo lì, si succedono con incredibile freschezza molte scene della vita marittimese di circa sei decenni addietro. Qui, provo a metterne a fuoco talune, che maggiormente si sono incarnate nella memoria. Regnava una totale e assoluta familiarità, si conosceva tutto di tutti, i vecchi avevano presenti i nomi finanche dei neonati e, analogamente, anche i bambini conoscevano quelli degli anziani. Indimenticabili i semplici giochi delle serate estive nelle viuzze dei vari rioni, sotto una casuale lampadina dell’illuminazione pubblica, se e quando esistente, altrimenti al buio rischiarato appena dal luccichio delle stelle e dalla luna: si partecipava in numerosi, serenamente e gioiosamente, a prescindere dall’età. Quotidianamente, anche col tempo inclemente, i giovani, gli adulti e gli anziani, di sera, erano soliti “uscire in piazza”, con lo scopo prevalente, se non esclusivo, di incontrarsi, far crocicchi, parlarsi e, così, tener sempre aggiornate le reciproche conoscenze. Magari, ci stava anche qualche passata dalla bottega di mescita del vino, ma, ripeto, essenzialmente si discorreva, del più e del meno, come nell’agorà delle civiltà antiche. Le ricorrenze delle feste, almeno delle principali, rinfocolavano vie più gli stimoli ai contatti, alla socializzazione, alle passeggiate, in coppie o in gruppi. In quelle circostanze, si registrava anche il fenomeno dei numerosi compaesani – residenti altrove – che mai mancavano all’appuntamento di un rientro, seppure di breve durata; si materializzavano, in tal modo, più ampi e festosi spunti per incontrarsi. Quando qualcuno versava in cattive condizioni di salute, non passava giorno senza che i compaesani, a frotte, di solito al rientro dalle fatiche nei campi, passassero a rendergli visita, per informarsi sul decorso della malattia, per condividerne le sofferenze mediante due parole o un sorriso. In occasione, poi, della dipartita di un paesano, si registrava un unanime senso di autentico dolore, la partecipazione e la vicinanza alla famiglia coinvolgevano la totalità della popolazione; la chiesa, sovente, non bastava a contenere i partecipanti all’ultimo saluto allo scomparso, il corteo che si snodava verso il camposanto era quasi sempre interminabile, eppure – malgrado tanta folla – aleggiava un clima di assoluto raccoglimento, non volava una mosca. Con spontanea partecipazione e dignità, si tributava, così, un corale abbraccio finale a chi se ne era andato. Nei ragazzi e negli adolescenti, era radicata l’abitudine, alla domenica, di assistere alla “prima” messa al Convento; si saltava giù dal letto verso le cinque e mezzo, in certe stagioni ancora notte, si compiva il tragitto a piedi sotto l’incanto di cieli tersi e stellati. La funzione, per le otto, era già terminata e, così, si aveva a disposizione l’intera mattinata, per giochi e divertimenti nel boschetto sulla via dell’Arenosa. D’estate, i giovani, se non c’era altro da fare, si attardavano in piazza o nelle strade principali del paese per tutta la notte, sino alle prime ore del mattino, discorrendo e scherzando, ma senza schiamazzi, per non arrecare disturbo agli altri, in un clima di autentica amicizia e di
schietto cameratismo. Succedeva, non di rado, che la loro permanenza così prolungata si incrociasse con le prime sortite da casa degli adulti, i quali, ancora scuro, si avviavano verso i campi. Ed era molto bello scambiarsi, insieme, quel buongiorno avente un sapore assolutamente speciale. Saltuariamente, di solito nella tarda serata del sabato, si spostavano in gruppi verso le marine per pescare i granchi, qualche scorfano o, magari, i polpi, sorprendendoli sugli scogli bassi e nelle buche a ridosso del bagnasciuga erboso sotto il fascio di luce di rudimentali lampade ad acetilene. In qualche punto, i gruppi si incontravano e facevano il confronto dei rispettivi bottini che, intanto, strusciavano scivolando lungo le pareti interne delle caratteristiche anfore di rame o zinco (capase). Gli usci delle case restavano in genere aperti, il rispetto della proprietà altrui era sacro, le notizie di qualche furtarello costituivano un evento davvero eccezionale. All’intensità dei rapporti civili interpersonali, si abbinava una diffusa partecipazione alla vita religiosa della comunità; la chiesa, le messe e le funzioni erano assai frequentate, senza differenze fra le diverse fasce anagrafiche. Ogni marittimese sentiva un tantino suo, con umiltà ma con attaccamento, quanto doveva svolgersi in seno alla parrocchia: liturgie, cerimonie, manifestazioni eccetera. Siffatto coinvolgimento materiale, diretto e continuo, era avvertito, pesato e considerato da parte del Parroco, il quale lo rispettava e ne faceva tesoro. Queste, le immagini che con più frequenza si proiettano a distanza dentro di me, con riferimento al mio paese e alla sua gente. Ma le origini, e nella fattispecie il ritorno alle origini, non possono, ovviamente, prescindere dall’ambiente naturale – in primis il cielo e il mare – circostante. Attualmente, specie trovandosi a dimorare nelle grandi città, si avverte molto forte il rimpianto dei cieli azzurri di una volta, degli astri luccicanti e vicini, della luna che “sembrava ti parlasse”, del mare che, nelle giornate burrascose, pareva volerti rimproverare con il fragore sordo e cupo delle onde, mentre, negli altri momenti, con il suo sciacquio leggero, ti raggiungeva dolcemente alla stregua di una tenera carezza. Sotto questo aspetto, qui, al contrario, non è cambiato pressoché nulla, e ciò con grande appagamento per il mio animo che, di sicuro, non nutre rimpianti per l’atmosfera poco naturale delle varie località di precedente residenza. Concludendo questi appunti, confesso che mi rallegro dal profondo del cuore osservando le generazioni giovanissime, che si presentano come l’essenza più bella e autentica di questa società del ventunesimo secolo; soffermandomi a guardare fugacemente i loro volti freschi, dagli occhi vivi e intelligenti, mi viene spontaneo di dire “buona fortuna per voi stesse, creature che andate sbocciando, come pure per il vostro mondo del futuro!”. Egualmente mi rallegro, nell’osservare, o meglio ammirare, le persone anziane o vecchie, spesso di ottanta, novanta e ancora più anni, in buona salute, autonome, in certi casi addirittura più vitali e serene di come mi apparivano, all’epoca sotto il peso delle fatiche e delle preoccupazioni, quando ero ragazzo. E trovo, che tali ultime immagini stabiliscano un magnifico collegamento, un bel segno di continuità fra le realtà di ieri, il presente e il tempo a venire.
Si potrebbe con facilità obiettare che, in fondo, si tratta di discorsi, rappresentazioni e storie di un tempo passato, che i ricordi sono ricollegabili più che altro all’avanzare dell’età anziana. Da parte mia, vorrei però osservare che quando si fa riferimento alle proprie origini e alle proprie radici, il che vuol dire alla propria anima, è bene non cancellare tutto, ma, al contrario, custodire gelosamente i punti fermi e importanti, giustappunto, del passato, con l’accortezza, beninteso, d’adattarli ai mutamenti che man mano intervengono. Riconoscersi nei valori veri delle proprie origini è già e comunque un passo avanti.
spagine
Un ciclo di incontri a cura dell’Istituto Italiano di Cultura di Praga e della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia, in collaborazione con l'Associazione pugliesi nella Repubblica Ceca, per promuovere, attraverso brevi filmati e interventi di specialisti, la grande e variegata offerta culturale della nostra regione
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ei prossimi giorni si terrà a Praga, presso l’Istituto Italiano di Cultura, un ciclo di incontri sulla Puglia. L’Istituto Italiano di Cultura di Praga e la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia, in collaborazione con l'Associazione pugliesi nella Repubblica Ceca, organizzano una serie di incontri a cadenza settimanale presso la sala conferenze dell'Istituto per promuovere, attraverso la proiezione di brevi filmati e interventi di specialisti, la grande e variegata offerta culturale della Puglia. Si inizierà martedì 16 settembre, alle ore 18.00, con la presentazione in anteprima del filmato "Puglia in festa" relativo alle feste e ai beni immateriali della regione. Come sottolinea la relatrice dell'incontro, Marisa Milella, responsabile dell'Ufficio valorizzazione della Direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Puglia, "il progetto di ricerca sui beni immateriali della Puglia nasce dall’esigenza di trovare le 'radici' delle mille comunità che dalla terra, dai luoghi, da antiche ritualità, da voci del passato, da litanie dimenticate, da gesti della memoria, trovano e ritrovano linfa nel 'vivere'. Un viaggio, quello in Puglia, che fra eredità del profano, rivisitazione nel sacro, santi venuti dal mare, purificazione del 'fuoco', riti di fertilità, bisogno di protezione e cura, parla delle stesse paure, delle stesse speranze che da sempre accompagnano il viaggio dell’uomo". In calendario sono previsti altri quattro incontri. Il 23 settembre Augusto Ressa della Soprintendenza per i Beni Architettonici e paesaggistici per le province di Lecce, Brindisi e Taranto, progettista del MARTA (Museo Nazionale Archeologico di Taranto), presenterà due brevi filmati: “La tomba dell’Atleta e il Museo Nazionale Archeologico di Taranto” (MARTA), realizzato in occasione delle Olimpiadi di Pechino e un servizio della BBC sull’Atleta di Taranto. L’incontro consentirà di promuovere e presentare al pubblico praghese l’unicità delle collezioni del MARTA. Il 30 settembre sarà proiettato "Lo scrigno del Tesoro di San Nicola. L’indagine scientifica come mezzo di conoscenza nelle arti" (filmato in italiano/inglese). Relatore: Eugenio Scandale, presidente dell’Accademia pugliese delle scienze. Il 7 ottobre sarà la volta di “Cento anni di scavi ad Egnazia”, filmato realizzato in occasione dell’inaugurazione della riapertura del museo Nazionale archeologico di Egnazia “Giuseppe Andreassi”. Relatore: Luigi La Rocca, Soprintendente per i Beni archeologici della Puglia che illustrerà le caratteristiche del parco archeologico e del museo di Egnazia. Il ciclo si concluderà il 14 ottobre con “Pellegrino di Puglia da Cesare Brandi”, filmato in italiano realizzato da RAI 3 sulle orme del celebre libro di Cesare Brandi. Relatore: Raffaele Gorgoni, giornalista RAI.
in Agenda
della domenica n°43 - 14 settembre 2014 - anno 2 n.0
Puglia pellegrina
Nella foto Cesare Brandi a lui dedicato l’ultimo incontro praghese
La pagina è a cura di Marisa Milella* e Fabio A. Grasso. *Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia
spagine Terza di copertina
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Fotografia
della domenica n°38 - 20 luglio 2014 - anno 2 n.0
Il logo dell’Associazione Culturale Positivo Diretto
Il tourdel Bitume photofest i è inaugurata venerdì 12 settembre, a Lecce, la prima edizione di BITUME PHOTOFEST, in programma fino al 27 settembre. Con un fitto calendario di appuntamenti Bitume, primo festival urbano di fotografia contemporanea realizzato nel Sud Italia, si propone di portare l’arte della fotografia fuori dagli spazi canonici. Il Festival si è aperto - venerdì 12 settembre - con un’inedita passeggiata pubblica, alla presenza di autorità, ospiti e artisti internazionali, pronti a percorrere insieme le principali vie del centro cittadino in un “grand tour” visivo alla scoperta delle riproduzioni fotografiche (di grande formato) ‘esposte’ sui balconi di storici palazzi cittadini, abitazioni private e superfici murarie pubbliche. La selezione degli autori e delle opere è stata curata in maniera da alimentare il dialogo sul paesaggio urbano e sulla memoria, in un gioco di rimandi che invita il visitatore a fruire in maniera consapevole dell’intero percorso espositivo. Ben 13 artisti della fotografia contemporanea, provenienti da tutto il mondo, hanno collaborato alla realizzazione del BITUME PHOTOFEST GRAND TOUR: Giorgio Barrera, Julia Borissova, Andrea Botto, Michele Cera, Claudio Corrivetti, Paola De Grenet, Anna Di Prospero, Ren Hang, Allegra Martin, Anastasia Rudenko, Sasha Rudensky, Pio Tarantini, Lorena GuillénVaschetti. Il Grand Tour s’ispira, con ironia, alle suggestioni del "Gran Giro" di formazione e svago che tradizionalmente occupava la gioventù dei nobili europei a partire dal XVII secolo. Com’è noto, i visitatori affrontavano lunghi viaggi per visitare le bellezze del mondo e perfezionare la propria conoscenza dell’arte e del bello, raggiungendo spesso l’Italia come meta finale. Così, il camminare per il centro storico di Lecce, diventa giocosamente un piccolo Grand Tour di visioni, un’immersione in limpide geometrie del ricordo e in paesaggi urbani dalle forme intime e accattivanti. Non a caso, proprio intorno alle Memorie di strada si costruisce la prima edizione del Festival, realizzata dall’Associazione Culturale Positivo Diretto di Lecce, con il sostegno e la collaborazione di Apulia Film Commission e il patrocinio del Comune di Lecce e della Camera di Commercio. *** Ospite d’eccezione all’inaugurazione del Festival, il fotografo cinese Ren Hang. Dopo le esposizioni personali a Parigi, Francoforte, Pechino e Shanghai, e le mostre collettive in tutto il mondo, Hang approda per la prima volta in Puglia al BITUME PHOTOFEST, con alcune sue opere in grande formato e la partecipazione a un talk a lui dedicato (domenica 14 settembre, alle 19, presso il Cineporto di Lecce). "*** Il tour cittadino prosegue con BITUME FAB 30 e le visioni di 30 fotografi under 35 selezionati su call internazionale: Emile Antic, Giulia Flavia Baczynski, Massimo
Barberio, Anastasia Bogomolova, Daniele Brescia, Emanuele Brutti, Sofia Bucci, Alice Caracciolo, Claudia Corrent, MariePierre Cravedi, Ilaria Di Biagio, Emma Grosbois, Vika Hashimoto, Idume Studio, Joseph La Mela, Orlando Lacarbonara, Pierangelo Laterza, Eduardo Marcarios, Veronica Maccari, Stefano Maniero, Luca Marianaccio, Francesca Occhi, Tatyana Palyga, Luca Quagliato, Anne-Sophie Stolz, Giacomo Streliotto, LaraTabet, Vera Teodori, Shaun Tompkins, Alex Withey. FAB 30 sta per trenta “favolose” giovani leve della fotografia contemporanea che BITUME PHOTOFEST ospita dando loro adeguata visibilità espositiva in 30 esercizi commerciali sparsi per il centro storico di Lecce. Con le loro opere, i trenta artisti hanno declinato in maniera personale il tema della ‘‘memoria della strada’’, utilizzando i più svariati linguaggi e tecniche della fotografia contemporanea. Dal reportage alla fotografia documentaristica, dal ritratto al fotoritocco, dall’appropriazione di immagini del passato alla creazione di nuove immagini ‘‘tridimensionali’’, in un singolare rapporto che ambisce strategicamente a legare cittadini e operatori commerciali, cultura ed economia locale (le biografie degli artisti partecipanti al festival e le mappe complete dei percorsi espositivi, Grand Tour e Fab 30, sono consultabili online al sito bitumephotofest.org). *** Nel calendario degli appuntamenti la sezione BITUME INDOOR, presso il Cineporto di Lecce (Via Vecchia Frigole, 36). che include un ciclo di mostre più intime dedicate al tema principale della prima edizione, Street Memories e le attività collaterali al Festival di formazione e intrattenimento culturale. Patrimonio identitario della città e recupero della memoria locale sono al centro di un corpus fotografico degli anni ’50, “Memorie di strada”, firmato Salvatore Starace (dall’archivio personale dello storico dell’arte, Ilderosa Laudisa), che testimonia i più significativi mutamenti socio-antropologici e urbani di Lecce. Il 1955 fu un anno importante da un punto di vista culturale per la città di Lecce, fu istituita l’Università e il fermento che soffiava era nutrito da un folto gruppo di intellettuali, tra cui Vittorio Bodini. L’aria che si respirava era intrisa di cambiamento, di apertura alle più importanti esperienze artistiche e letterarie nazionali ed era presente una fervente necessità di emancipazione dal provincialismo che tuttavia mantenne salde le radici nella cultura popolare. “L’intento della mostra fotografica”, scrive Ilderosa Laudisa ne La città dell’anima, “era quello di svelare agli occhi distratti e pigri degli abitanti, la città per molti versi ignorata, fraintesa, trascurata”. Il ruolo primario per l’ideazione e strutturazione del progetto venne affidato a Francesco Barbieri, scultore ed artista eclettico nonché fotografo amatore, che si avvalse tuttavia della preziosa collaborazione tecnica e artistica del salentino Salvatore Starace, fotografo professionista ed esperto artigiano della camera oscura. La felice
liaison artistica si concretizzò in una mole di opere impressionante, circa duemila negativi, dai quali furono selezionate trecento fotografie per la mostra inaugurale del 9 novembre 1955. Ad oggi una più acuta disamina, circa la composizione e il taglio di queste immagini, rivela particolari storici importanti. Nato a Lecce l’11 luglio 1914, Salvatore Starace, iniziò l’apprendistato a 6 anni, frequentando il laboratorio fotografico di Rosario Carlino. Perfezionò poi la sua formazione presso il laboratorio di Giovanni Campagnoli e la scuola di Eugenio Maccagnani, dove seguì i corsi di disegno di Giuseppe De Cupertinis e poi di Gigi Balzani. Negli anni ’30, conseguiti alcuni riconoscimenti nei concorsi fotografici a cui partecipò, tornò a Lecce dove aprì uno studio fotografico in via San Cesario. Nel 1957, in collaborazione con alcuni dei più affermati nomi della fotografia locale (Guido, Campagnoli, De Vincentis, Barbano, Carlino e Palumbo), realizzò una vasta campagna fotografica per la pubblicazione La Provincia di Lecce - Nuovo Annuario di Terra d’ Otranto (da La città dell’anima). *** Al rap italiano e ai suoi protagonisti è dedicato il reportage fotografico “I.R.A. Italian Rap Anthology” di Andrea Laudisa, allestito anche questo al Cineporto. Giovane storico della Fotografia e fotografo freelance, Andrea Laudisa si laurea presso la facoltà di Beni Culturali dell’Università del Salento con una tesi in “Storia e Tecnica della Fotografia” con il critico e storico della fotografia Antonella Russo. Attivo nel campo della fotografia, dal 2005 Laudisa partecipa a numerose mostre personali e collettive, impegnandosi anche nella realizzazione di alcuni progetti, tra cui una ricerca sulle forme e i principi della fotografia erotica. “Il rap italiano è in giro da tanto. Alcuni artisti hanno fatto la sua storia; quasi nessuno, al di fuori degli artisti, si è però preoccupato di raccontare questa storia, o anche semplicemente di documentarla in modo accurato. Andrea Laudisa, che è figlio di una cultura hip hop autentica, persino ortodossa, è riuscito attraverso il dispositivo meccanico della fotografia a staccarsi anzitutto da sé (…). Lo scatto live di Fabri Fibra, attraverso i “boschi di braccia tese” del pubblico, racconta anzitutto un fotografo che vuol essere altro da sé, un fotografo che preferisce identificarsi con i mezzi piuttosto che con i fini” (Luca Bandirali). *** Archivio di memorie passate è, infine, la mostra “Terra di permanenza temporanea” di Ambra Biscuso. L’idea di fondo dell’esposizione parte da un gruppo di fotografie, ancora umide di mare, ricevute in dono alla fine degli anni '90 dall'artista Luigi Priore. Dal 2006 a oggi, il progetto è stato esposto a Lecce attraverso l'operato di piccole associazioni e la cura amorevole di Ambra Biscuso, che ne ha tratto anche un percorso formativo per le scuole. “Le foto fermano istanti allegri e
spensierati di persone che vengono da lontano: un matrimonio, feste familiari, coppie felici, bambini. Le Immagini ritrovate, che diventino oggetto d'arte, progetto formativo o riflessione sociologica, portano sempre con sé tutta la potenza atavica che sta alla base dell'esperienza fotografica: il rapporto dell'umano col tempo e l'identità. Specchio e monumento che nel profondo ci co-mmuove e ci parla dell'appartenenza alla comunità visuale dell'umano” (Gioia Perrone). Dal 1996, la leccese Ambra Biscuso, ha progettato, organizzato, coordinato, curato numerose manifestazioni, mostre, cataloghi d'arte, presentazioni di libri, seminari, laboratori culturali, collaborando con associazioni, enti pubblici e privati. *** Per la sezione off del Festival la mostra “Il segno totale. Poesia: dalla parola al segno” (presso il Fondo Verri di Lecce, dal 13 al 24 settembre). L’esposizione rientra tra gli eventi OFF del Festival e vede dialogare due generazioni poetiche differenti, che con percorsi diversi, si strutturano sulla portata sociale della parola. In mostra opere di Francesco Aprile e Luc Fierens (ospite a Bitume in un talk a lui dedicato, il 15 settembre alle 19 presso il Cineporto). Sabato al Cineporto di Lecce si è tenuto, Slideluck@BITUME PHOTOFEST. Coinvolgendo finora il pubblico di oltre 80 città nel mondo, Slideluck, con Bitume, sbarca nel Sud Italia per la prima volta. Strutturato intorno al tema del cibo e della fotografia, Slideluck (slideshow+potluck), è un momento di dialogo tra fotografi, curatori, collezionisti ed editori, concepito in un contesto creativo insolito. Durante la serata, a ingresso libero, si condivideranno cibo, musica live (con Dj Populous) e fotografia, in un insolito percorso, così come vuole il format originale. In un’atmosfera rilassata e non competitiva, si visualizzeranno in slideshow, insieme al pubblico, i migliori progetti fotografici street memories di autori emergenti, scelti dall'archivio di Slideluck e dalla selezione dei BITUME FAB 30. La proiezione fotografica è curata da Maria Teresa Salvati di Slideluck e dall’Associazione Positivo Diretto. La serata ha goduto dei suoni del Dj Set di Andrea Mangia in arte Populous. *** Dal 15 al 18 settembre il programma di Bitume prosegue al Cineporto con i workshop di approfondimento (a numero chiuso) e le presentazioni di libri sulla fotografia, con una specifica sezione dedicata all’editoria indipendente e autoprodotta (BITUME PHOTOBOOK). www.bitumephotofest.org
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O
spagine quarta di copertina spite d’eccezione all’inaugurazione del Festival, il fotografo cinese Ren Hang. Dopo le esposizioni personali a Parigi, Francoforte, Pechino e Shanghai, e le mostre collettive in tutto il mondo, Hang approda per la prima volta in Puglia al BITUME PHOTOFEST, con alcune sue opere in grande formato e la partecipazione a un talk a lui dedicato oggi domenica 14 settembre, alle 19, presso il Cineporto di Lecce. "La fotografia dovrebbe essere una rappresentazione dell’istinto" - afferma Ren Hang - "non è mai mia intenzione trasmettere un messaggio a qualcuno con la fotografia, tantomeno cambiare il mondo o la società attraverso essa. È come quando fotografi una persona che ami: scatti senza particolari artifici, ma appendi la foto al muro davanti alla tua porta. Perché quella è la foto che preferisci. Una fotografia più professionale, una foto perfetta, non potrebbe mai contenere tanto amore". Fotografo e poeta di origine cinese, Ren Hang, è nato nel 1986 a Changchun e attualmente vive e lavora a Pechino. Studia marketing, ma ben presto scopre la passione per la letteratura e l’arte, imparando le basi della fotografia da autodidatta. Per i suoi scatti utilizza una macchina compatta a pellicola e i modelli che utilizza sono quasi sempre amici o persone che lo contattano. In Cina le mostre di Ren Hang sono state censurate in più occasioni, i suoi lavori sequestrati o vandalizzati e lui stesso è stato arrestato per oscenità.
Fotografia
della domenica n°38 - 20 luglio 2014 - anno 2 n.0
Ren Hang per Bitume photofest
Una fotografia di Ren Hang