spagine
Spagine della domenica n°44 - 21 settembre 2014 - anno 2 n.0
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri
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Animo presidente! I
l Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha fatto bene ad incazzarsi di brutto per l’incapacità del Parlamento di eleggere due giudici della Corte Costituzionale e due membri del Consiglio Superiore della Magistratura. Di fronte all’indecoroso spettacolo offerto da un parlamento riottoso è doveroso che un presidente della repubblica si adiri. Ma occorre anche saper inserire il fenomeno nel più vasto quadro della situazione italiana quale si è determinata in questi ultimi due-tre anni. Giusto per capire! Il Parlamento che fuma nero per tredici volte è lo stesso Parlamento che non riuscì nell’aprile del 2013, poco meno di un anno e mezzo fa, ad eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, offrendo uno spettacolo altrettanto indecoroso con le fumate nere per Marini e per Prodi. Saremmo tentati di dire, senza per questo mancare di rispetto a Napolitano, a cui vogliamo sinceramente bene, che la sua elezione formale fu una “non elezione” politica. Un altro Parlamento avrebbe votato senza problemi il nuovo Presidente e Napolitano oggi starebbe mettendo a punto memorie e riflessioni. La questione, perciò, come sempre, è politica. Cosa c’è dietro la riottosità del Parlamento, o per lo meno di chi, nel segreto del voto, impedisce l’elezione dei membri mancanti a due delle più importanti istituzioni nazionali? A noi sembra ci sia la volontà di rivendicare un diritto, che è una funzione imprescindibile in una democrazia, quella di legiferare nel pieno delle competenze riconosciute dalla Costituzione. Votare le persone indicate dai leader politici su loro diktat, in ossequio ad un patto, quello del Nazareno, che nessuno conosce, tranne i due diretti interessati, è l’occasione propizia, forse irripetibile, per dire no, basta, vogliamo contare per quello che la superiore legge dello Stato ci riconosce; non possiamo essere parlamentari usa e getta. I veti, neppure tanto in filigrana, non sono a Violante e a Bruno, ma a Renzi e a Berlusconi. Posta così la questione, appare di tutta evidenza che ormai a livello di partiti c’è una sorta di ammutinamento nei confronti dei loro capi, per ora contrastato dai loro fedelissimi. Un ammutinamento vile, subdolo quanto si vuole, ma “à la guerre comme à la guerre”. Semmai c’è da chiedersi: perché si è giunti a tanto, mentre il Paese boccheggia ed è esposto al ludibrio internazionale, con le oche del Campidoglio che starnazzano e più che richiamare l’attenzione di chi deve difenderlo richiamano l’attenzione di chi lo deride oggi, e forse domani lo minaccia? Matteo Renzi dice spesso che lui in certe cose mette la faccia. Non so cos’altro potrebbe mettere, se per faccia intende la dignità della persona e del ruolo pubblico che ha. Ma gli altri non hanno faccia? Non hanno dignità? Per lui, evidentemente, gli altri non contano niente. Incapaci, inconcludenti, gufi, rosiconi, parlano per avere visibilità, esistono solo per fare da contrappunto al suo mercuriale agitarsi e muoversi sulla scena.
di Gigi Montonato
Renzi ha bisogno non di collaboratori e di amici alleati, ma di avversari, acidi preferibilmente; e quando non ce ne sono alle viste lui se li inventa. Quale politico dice ai partner che se vogliono la guerra avranno la guerra? Un politico che si rispetti cerca di evitarla la guerra, di evitare i contrasti; cerca alleanze, consensi. Lui i consensi li cerca in un elettorato che finora si è dimostrato riconoscente nei suoi confronti per l’elargizione degli ottanta euro in saccoccia e perché non vede altro cui aggrapparsi. Il suo muoversi sulla scena ricorda certe opere dello scrittore latino Plauto e il suo metateatro, quando il protagonista ammicca agli spettatori con cenni di intesa, come a dire: mo’ vi mostro io cosa combino a questi fessacchiotti. Renzi pensa ai fessacchiotti della scena e ai fessacchiotti della platea. Gli uni – secondo lui – più fessacchiotti degli altri. Non so se incominci a rendersi conto che la festa sta andando verso l’epilogo. Sta di fatto che nel Pd se ne sono accorti e gli stanno prendendo le misure. Non c’è ancora una presa di posizione definita e compatta. Si procede occasionalmente e in ordine sparso. Oggi D’Alema, qua Bersani, là la Bindi e via di seguito. Ma, pur nella preoccupazione di non commettere passi falsi, che potrebbero essere politicamente letali, ognuno sta ipotizzando scenari diversi da quelli attuali. Di recente Matteo Orfini, un habitué del cambio di casacca, volto da cospiratore ottocentesco – l’ho sentito con le mie orecchie a Taurisano qualche giorno fa in un pubblico incontro – ha detto che se il governo fallisce nell’impresa delle riforme la colpa è del Pd, perché è il Pd che si è fatto l’intero carico dell’impresa. Un’esagerazione, perché tutti sanno che il governo va avanti con l’alleato interno del Ncd e con quello esterno, per le riforme istituzionali, di Fi. Ma, come tutte le esagerazioni, anche quella di Orfini nasconde qualcosa, nasconde la testa di Renzi. Perché se il governo fallisce, è scontato che tutti cercano la sua faccia, quella che lui ci mette ad ogni piè sospinto. In casa di Fi le cose stanno anche peggio. Credo che ormai tutti, anche i berlusconiani più fedeli si stiano rendendo conto di essersi messi su una strada che non ha sbocchi. Il disobbedirgli in maniera così insistita, a proposito dell’elezione dei membri mancanti della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura, è la prova provata che ormai l’ex Cavaliere non dispone più neppure della forza politica del centrodestra rimasto dopo l’uscita di Alfano e amici. Fitto, che continua a dire che lui non lascerà il partito, dimostra anche con il suo dissenso di non riconoscere più il suo leader storico. Per tornare a Bomba. Napolitano si arrabbia, ma la situazione della quale in un certo senso è padre e figlio, è quella che è. Una situazione che somiglia ad una rete attraverso la quale i pesci entrano ed escono e c’è il rischio che tirata su lasci a mani vuote i pescatori, che siamo noi, popolo italiano, alla fin fine.
della domenica n°44 - 21 settembre 2014 - anno 2 n.0
Diario politico Scuola e accessibilità Nelle scuole salentine sono 76 gli studenti in situazione di disabilità visiva che hanno bisogno di testi accessibili e di tutte le tecnologie assistive per svolgere una regolare e corretta partecipazione alle attività didattiche...
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Il diritto dimezzato
di Luigi Mangia* e Tony Donno**
l 17 settembre ufficialmente il suono della campanella ha dato inizio in Puglia all’anno scolastico 2014/2015, ma grazie all’autonomia di tanti istituti le lezioni erano state già anticipate. Il 2014 dovrebbe essere l’anno della rivoluzione della scuola del Governo di Matteo Renzi, parole, parole, solo parole: la scuola rimane vecchia inagibile, inaccessibile per le molte barriere architettoniche ma ciò che è molto più grave è il diritto allo studio dimezzato degli studenti privi della vista, diritto costituzionalmente garantito. Nei banchi delle scuole del Salento ci sono 76 studenti in situazione di disabilità visiva che hanno quindi bisogno di testi accessibili e di tutte le tecnologie assistive per svolgere una regolare e corretta partecipazione alle attività didattiche. Il Ministro del Governo Enrico Letta, Chiara Carrozza, si era fatta carico del problema dell’accessibilità dei testi e del materiale scolastico. Infatti, il Decreto Ministeriale n. 209 del 26/03/2013 sui libri di testo digitali, per la prima volta, propone l’accento sul fatto che i testi e i prodotti multimediali che verranno prodotti per le scuole dovranno essere tutti accessibili e senza difficoltà. L’allegato 1 al decreto, nello stabilire le caratteristiche che dovranno avere i testi e gli altri materiali multimediali di approfondimento digitali, fissa in più parti i punti che tutti dovranno essere conformi ai caratteri di accessibilità. Ora l’accessibilità dei libri costa e i sindaci dicono che non hanno soldi per farlo. Le famiglie sono mortificate dalle risposte dei sindaci e dei direttori degli ambiti sociali per la loro insensibilità verso il diritto fondamentale come è quello allo studio. La scuola di Matteo Renzi è quella della retorica vecchia e acida tradizione italiana fatta di forbici e nastri da tagliare per inaugurare inventate novità. Manca il coraggio, non ci può essere nessuna rivoluzione. Ci chiediamo se la colpa del diritto dimezzato allo studio, per i giovani non vedenti, in età scolare sia da addebitare ai gufi o ai risiconi o non invece ad un Presidente del Consiglio che parla della scuola senza conoscere e sapere quello che dice. Il diritto allo studio è nella nostra Costituzione per questo va garantito, promosso, assicurato, agevolato, curato. Non è un problema di poche famiglie quello del diritto allo studio, ma riguarda il grado di civiltà di tutta la società quindi l’intero Paese. Noi confidiamo nella Sua sensibilità al problema per questo Le chiediamo di pubblicare nelle pagine del suo giornale questa lettera appello e ancora Le chiediamo di voler approfondire il diritto dimezzato allo studio nelle scuole del Salento e di tutta la Puglia. *Responsabile istruzione Uic Lecce **Vice presidente Istituto per ciechi Anna Antonacci Lecce
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l pimpante e rampante premier Renzi, sulle questioni eticamente sensibili, fino ad oggi, s’è distinto per una pressoché totale latitanza. Ha fatto solo un vago annuncio relativamente alla eventuale formulazione d’una normativa sulle coppie di fatto omosessuali; purtuttavia, il dibattito e la discussione parlamentare tardano a partire. Effettivamente, si deve comprendere che certe tematiche non sono facili da affrontare, perché scuotono fondamenta ontologiche intricate e radicate. In un’ottica di etica pubblica, però, i politici dovrebbero avere la premura di accogliere strettamente un metodo laico, capace di far convivere varie convinzioni culturali, facendo prosperare il pluralismo dei modelli etici. Numerosi bioeticisti sostengono che, sul piano prettamente filosofico, sia molto complicato conciliare istanze antitetiche; epperò, su un piano politico, si deve avere la forza, la tenacia di dare a tutti la giusta cittadinanza e di fare “il pieno di morali”. Insomma, la politica dovrebbe essere il luogo fisico prediletto per la mediazione, per l’approfondimento. L’ex “rottamatore” è a capo d’un esecutivo ibrido, di larghe intese. Lo stesso Pd, al suo interno, sulle grammatiche del vivente, è da sempre frastagliato, diviso fra l’anima laica e quella cattolica. Il Nuovo Centrodestra, costola del berlusconismo, è un partito devoto particolarmente ai valori cosiddetti “non negoziabili”. Lupi, Quagliarello, Roccella, Giovanardi, Formigoni, Sacconi, già ai tempi dei governi Berlusconi, hanno dato prova fedele d’adesione rigorosa all’etica tradizionale. E poi c’è l’Udc di Casini, di Buttiglione, di Binetti. Cosa ci dovremmo aspettare di veramente laico d’una maggioranza così composta? Quali novità sostanziali possiamo attendere da chi, da sempre, è avvezzo a blandire i valori della dottrina cattolica? Non si sa quanto per intime convinzioni, o quanto invece strumentalmente per mero tornaconto elettoralistico. C’è, comunque, un assunto di cui tener conto: a una legge impopolare e illiberale, è preferibile nessuna normativa. Quantomeno, il giovanilistico Renzi e i suoi ministri, finora, sono inosservanti su certe questioni. Quindi, non hanno giovato, ma non hanno fatto neppure consistenti guasti. A differenza, dei trascorsi governi Berlusconi, quando il dibattito fremeva, le “trovate” improponibili fioccavano, e si aveva la pretesa di voler regolare e disciplinare la vita dei cittadini, obbedendo ad un unico e irreversibile modello morale. La famigerata Legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita è stata un “gioiello” di incostituzionalità, una normativa piena di divieti assurdi e inconcepibili, smantellata pezzo per pezzo dalla Corte Costituzionale. Il ddl. Calabrò, sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, sponsorizzato fortemente dall’ex premier Berlusconi e dal trasversale e agguerrito “partito della vita”, morì prima di nascere, tanto era pasticciato e impraticabile. Nell’agosto del 2010, il filosofo Maurizio Mori, presidente della Consulta di Bioetica, scriveva su “L’Unità”: “Forse, come si ventila, il Governo del Cavaliere cadrà proprio sui temi etici”. Verosimilmente, il governo Berlusconi andò a casa per altre più esplosive e meno nobili problematiche; ciononostante, il professor Maurizio Mori aveva pie-
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Contemporanea
Confusione
bioetica di Marcello Buttazzo
Ri-nascere scultura in bronzo di Marco Danielon
namente ragione: le tematiche etiche sono state, anni fa, il vero tallone d’Achille d’una maggioranza di centrodestra allo sbando. L’agenda biopolitica di Fazio, di Sacconi, di Roccella, sembrava scritta passo passo dalle alte gerarchie ecclesiastiche. Ci si genufletteva ai dettami della morale cattolica, e le motivazioni di tanta sentita devozione erano facilmente comprensibili. Ma il tempo è passato. Oggi, respiriamo l’era del cambiamento in camicia bianca, del renzismo che avanza. E, pertanto, in uno Stato laico e liberale, non si può accettare che aspetti vitali vengano espulsi con la forza dalla sfera pubblica, per entrare in un campo indefinito, dominato da una visione chiaramente paternalistica. Oggi vorremmo che la politica restituisse alla gente la voglia, il desiderio d’una appartenenza, e una superiore etica della cittadinanza, in nome della quale possiamo essere liberi e consapevoli. Non dimentichiamo, ad esempio, che Maurizio Sacconi, attualmente esponente di spicco del Nuovo Centrodestra, ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi era ministro del Pdl e propose più di tutti le antiscientifiche e impossibili dichiarazioni anticipate di trattamento del ddl. Calabrò. Sacconi e compagni avevano deciso arbitrariamente che l’alimentazione e l’idratazione artificiali dovessero essere considerate, sempre e comunque, “sostentamento vitale irrinunciabile”. I bravi paladini del popolo “prolife” e i succubi rappresentanti delle istituzioni ci volevano imporre la vita artificiale e il sondino di
Stato. Sappiamo, però, che le Società scientifiche nazionali e internazionali, e le associazioni stesse dei medici cattolici, affermavano e affermano che la nutrizione forzata debba essere assimilata a tutti gli effetti a una terapia medica, suscettibile all’occorrenza di essere interrotta. Ancora oggi, Sacconi ed Eugenia Roccella con malcelata arroganza ritengono che i registri dei testamenti biologici di tanti comuni italiani siano “totalmente inutili”, nient’altro che “carta straccia”. I registri continuano, dopo animate discussioni, ad essere approvati dai consigli comunali, subendo dei passaggi in aula: sono certamente un’espressione degli eletti e quindi del popolo. Essi sono documenti, forse, di valore simbolico, ma non solo, visto che potrebbero stimolare una classe parlamentare addormentata a legiferare in modo più liberale. Comunque, davvero, meglio l’inerzia bioetica del premier Renzi, che il passato attivismo frenetico del centrodestra berlusconiano. Tutti rammentiamo la campagna abnorme e insensata del centrodestra contro la pillola abortiva Ru 486, da venti anni inserita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nella lista dei farmaci essenziali, sperimentata con successo in diversi ospedali pubblici italiani. Il fiero proibizionista Maurizio Gasparri, anni fa, fece condurre addirittura una dispendiosa e inutile inchiesta parlamentare sulla pillola della discordia. Il Pdl, ai tempi dei suoi ultimi appassiti albori, osteggiò con tenacia la “pericolosissima kill pill”, “il pesticida”, “la mammana chimica”. La politica dovrebbe essere più accorta. Sposare un modello laico, vuol dire aprirsi alla luce del sole. I valori e i principi non vanno confinati nella privatezza della coscienza: essi devono essere resi pubblici e, se possibile, condivisi. Ogni morale concorre alla crescita della collettività, a condizione però che non si voglia imporre dittatorialmente qualche visione esclusiva per una interpretazione unilaterale del mondo, delle cose della vita. In questa società di richieste sovente disattese, la difesa dei valori e dei principi non può essere un esercizio di mera e astratta applicazione. Riuscire ad appellarsi alla salvaguardia della vita in senso ampio e non dogmatico, riuscire a proteggere giuridicamente tutte le forme di famiglia e tutti i cittadini, affermando sempre la sacralità della libertà d’espressione, potrebbe rappresentare un manifesto di distinzione da proporre in questo marasma generale.
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Teatro Giovedì 18 settembre è andato in scena ai Cantieri Teatrali Koreja per “I mari della vita” ciclo di eventi dedicato ai Cinquantanni dell’Odin Teatret
Ave Maria
requiem teatrale dedicato all’attrice cilena Marìa Cànepa da Julia Varley per la regia di Eugenio Barba
Slancio d’amore
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di Antonio Zoretti
osì il teatro era sempre davanti a sé, la circondava e la attraversava, e lei vedeva il mondo provenendo dal cuore del mondo. Altrettanto accadeva alla sua parola: auspicava incontro e partecipazione, coinvolgendo direttamente le persone. Marìa Cànepa era amore per il teatro, un amore possessivo ed incontrollabile, eccedente. Carattere antico e arcaico il suo, donna d’altri tempi, credeva nel prossimo e ne auspicava il bene. Con grazia e maestria l’Odin Teatret ha rappresentato ai Cantieri Teatrali Koreja la grande attrice cilena, scomparsa il ventisette ottobre del Duemilasei. In scena Julia Varley impersona la morte, dialogando con essa, cercando di svelarne i misteri, e in questa apprensione la morte si fa bella e ne scaturisce una riflessione intensa. Essa perde la tristezza, si fregia di luce, bramosa di conoscenza, riportando in vita memorie e ricordi e ciò che del dolore rimane. Il teatro è vita, e Marìa Cànepa ha donato la sua vita per il teatro, senza finzione né rimpianto, essa parlava dal teatro al mondo: il teatro che essa custodisce e reca in sé; quel teatro che è così raro e difficile saper ascoltare. Quello che ha offerto Eugenio Barba nel suo “Ave Maria”, attraverso l’attrice Julia Varley, non è solo una commemorazione della grande attrice cilena, bensì una profonda analisi e riflessione tra la vita e la morte, e quel che rimane una volta dormienti per sempre. In scena Julia Varley (sola peraltro) affronta il problema della morte, chiave di tutte le rimozioni messe in opera dal pensiero razionale. Ciò non tanto per andare oltre questo o quello, ma per praticare con un linguaggio e una visione più precisa un sentimento del mondo al cui centro sta il nulla. E manifesta proprio quello che sta nel mezzo (tra la vita e la morte), sostenendo l’azione e offrendo la possibilità all’atto di valutare a pieno la variazione nello stato di assenza. Dà alla morte quella considerazione che è stata sempre oggetto di pensamento e che solo oggi, purtroppo, la modernità rifugge. E sia dunque il teatro a risvegliare pensieri sopiti ma mai abbandonati. Lo spettacolo si articola su una antichissima forma di canto e su una trama di azioni fisiche, accompagnata da un impianto sonoro che mowww.odinteatret.dk
dula la voce di Marìa Cànepa, tradotta all’istante dall’attrice prestante. Ella disciplina e ordina i movimenti, nel suono dei ricordi ovattati Julia Varley sgombra il campo dall’illustrazione, lo impegna invece a dispiegare l’arte scenica in altro modo: prende in considerazione le sortite di due piani d’ascolto, assieme alla consistenza filosofico-religiosa che emerge soprattutto dalla rispettiva pratica teatrale. Una attribuzione metafisica – se vogliamo – in un contesto sacrale, di grazia, rituale. In questo senso l’attrice reagisce, liquidando espressioni appartenenti solo alla biografia dell’attrice scomparsa, aggiungendo risoluzioni esatte, precise, che spingono alla spiritualità, intesa come sinonimo di verticalità. Un teatro concepito come un mezzo, come luogo nel quale si è cantati dal canto e non autori di un discorso. Sintomatico è dunque il riferimento a Marìa Cànepa, ovvero a un pensiero che accetta e al tempo stesso capovolge il linguaggio dell’ortodossia teatrale. Tributo quindi ad una grande personalità del mondo culturale e artistico a cui Eugenio Barba attesta motivi di stima e ammirazione, ma anche e soprattutto pretesto per una profonda riflessione sulla morte, sull’assenza – possiamo dire. Così risuona l’ “Ave Maria” di Eugenio Barba e brava indubbiamente Julia Varley a ripagare le attese del regista, e di noi tutti. L’Odin Teatret ha voluto così omaggiare la grande attrice cilena, in quello che si può definire “un requiem teatrale”. Un impianto geniale, dove pure i particolari sono ben studiati, curiosano il divenire, l’arcano mistero su cui noi ci addentriamo e sottoponiamo. «Requiem aeternam dona eis Domine», designa la Messa dei Defunti (Missa pro defunctis). L’Ave Maria (che è anche il titolo della composizione musicale con cui si chiude l’opera teatrale) a cui abbiamo assistito giovedì sera ai Cantieri Teatrali Koreja va oltre la Messa. L’Odin Teatret ha voluto dimostrare un profondo slancio d’amore verso Marìa Cànepa, per evitare l’oblio dopo la sua morte ed Eugenio Barba ha saputo rendere bella la Morte. Quando la morte si fa bella. Come un lungo viaggio che dipana la mente e allunga il volo che apparentemente sembra struggente. Anche il suo è un teatro che resterà nei pensieri della gente. www.teatropubblicopugliese.it
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L’uomo
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telefonico
’era una volta il telefono cellulare, assunse poi nel lessico comune il terrificante nomignolo di “telefonino”, quasi si potesse contrapporre non già al telefono, ma al telefonone. Cellulare deriva da cella, lo impariamo dai telegiornali, ogni volta che c’è un criminale in giro la polizia “verifica quali celle ha agganciato”. Le celle sono in pratica delimitate da quelle simpatiche antenne che troviamo ovunque: sui palazzi, camuffate da abeti in un oliveto, su tralicci che guardano il mare ecc. Il principe di tutti i problemi del cellulare è però da sempre la batteria. Un tempo c’erano banali batterie al nichelmetalidrato che avevano l’effetto memoria. In pratica succedeva che, caricando la batteria quando era a metà, lei memorizzava quel tempo di ricarica ed avrebbe sempre caricato per quello stesso periodo indipendentemente dalla capacità della batteria stessa. Questo procurò enormi vendite di carica/scarica batterie. Si inseriva la batteria dentro il marchingegno, la si faceva scaricare e poi si caricava completamente. I più risparmiatori si ingegnavano con un cavetto elettrico ed una lampadinetta per scaricare il tutto. Poi arrivarono le batterie al litio ioni e la storia cambiò. Le prime batterie, studiate non già per essere miniaturizzate, ma per durare a lungo, avevano dimensioni importanti, i primi cellulari, venduti a prezzi stratosferici e con abbonamenti Telecom (allora monopolista) per i quali occorreva un consistente conto in banca, erano muniti di pacco batterie a parte, in apposita valigetta a tracolla con telefono appeso. In pratica erano telefoni come quelli di casa, solo che pesavano ed erano di dimensioni triple. I più estroversi (e ricchi) camminavano per la città con questo pacco di almeno 5 Kg. appeso al collo, a volte telefonavano urlando perché la copertura era limitata e pensavano (cosa che ancora succede) che la distanza si potesse coprire parlando a voce altissima. Passato questo periodo di immenso piacere nel prendere per i fondelli i telefonatori stradali che nel mese di luglio, a 40° si portavano appresso quel pacco, l’evoluzione fu rapida, i costi diminuirono e le batterie presero sembianze umanamente comprensibili ed accettabili.
di Gianni Ferraris
Al TACS (Access comunication system) che consentiva solo chiamate nazionali, si sovrappose presto il GSM (global system mobile telecomunication) che rendeva universale l’utilizzo. Il cellulare iniziò a diffondersi rapidamente soprattutto in Italia, nonostante tariffe care più che in altri paesi, ed iniziò a miniaturizzarsi, si assistette a cambiamenti semestrali, dal cellulare che occupava una tasca della giacca al rivoluzionario Startak della Motorola che si piegava in due e stava nel palmo di una mano e potevi perderlo nelle tasche dei giacconi. Io amai molto il Philips Genie, 99 grammi, batteria della durata di almeno 6 giorni, piccolo, maneggevole e intuitivo. Per stupire i giovanissimi dirò che addirittura questi telefoni avevano i tasti. Oggi sono spariti per lasciare il posto allo schermo dove digiti almeno 3 cifre per volta. Altra particolarità, i
nomi di tutto sono rigorosamente in inglese, lo schermo si chiama touch screen (schermo tattile) e via dicendo. Eh si, non ci sono più i telefoni cellulari di una volta, quelli che servivano per telefonare. Il telefono oggi deve avere quanto meno una fotocamera che riduce cittadini di ogni fascia d’età a sedicenti fotografi, si fanno almeno 100 scatti per volta (tanto non costano una mazza) e lunghissime riprese che nessuno guarderà mai. In qualunque momento pubblico, dai concerti alla presentazione delle pentole a casa della vecchia zia si vedono giovani e anziani che, anziché seguire quel che si dice, hanno le braccia levate al cielo a riprendere tutto. Se chi riprende riceve una telefonata in quel momento stramaledice chi utilizza lo strumento addirittura per chiamare. Poi devono essere in grado di fare il selfie,
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Contemporanea
Nell’immagine l'ingegnere Martin Cooper, il 3 Aprile del 1973 effettuò la sua prima chiamata con un telefono cellulare il Dyna Tac era alquanto pesante e ingombrante, circa 1.3 Kg la sua batteria aveva una autonomia di circa 30 minuti e per la ricarica "bastavano" solo 10 ore
la custodia da mare per iphone (quello che una volta, quando eravamo trogloditi, chiamavamo telefono cellulare), lo metti dentro e ci puoi fare il bagno. In effetti è pensabile, nel 2014, tuffarsi in mare senza cellulare? Metti che il tuo amico da Boston metta una foto osé su facebook e tu non lo sai in tempo reale, che figuraccia ci fai? Metti di incontrare uno scorfano, non te lo fai un selfie con lui che sorride? Più si ingrandiscono i telefoni cellulari che ora di nuovo non entrano nella tasca dei jeans, più si miniaturizzano alcuni ammennicoli. Esistono auricolari piccolissimi e senza fili (bluetooth), si infilano nell’orecchio e si può rispondere e chiamare con le mani libere, incredibile. I risultati sono spesso inquietanti, succede sempre meno raramente di vedere persone di ogni età camminare per strada parlando da soli, gesticolando, ridendo, incazzandosi, urlando. Hanno le mani in tasca e nessun filo che pende. Sono loro, quelli che amano infilarsi qualunque cosa nelle orecchie. Ora siamo in fremente attesa di vedere cosa ci offrirà il futuro prossimo, sicuramente cose che noi umani non possiamo immaginare.
non contenti di fotografare quello che si ha di fronte, e presi da una smania di egocentrismo incontrollabile, tutti a farsi fotografie da soli. La cosa mette molta tristezza, a ben pensare, un “fai da te” molto vicino alla masturbazione. Non solo, il telefono cellulare per essere degno di nota, deve essere un computer, si possono inviare e mail scrivendole con quella cosa che tastiera non è, soprattutto, lui, il perfido, trasmette anche la tua posizione geografica. Per le coppie di amanti sono tempi duri. Pare sia allo studio anche una mappatura dei luoghi chiusi, se si è in bagno a espletare bisogni elementari non si potrà più dire al rompipalle di turno che chiama: “stavo lavorando per lei”. Ebbene si, il telefono si porta anche in bagno, vuoi mai che si perda una chiamata? Con il telefono si possono acquistare azioni e fare buone azioni, donare quattrini o fare
shopping compulsivo on line, e mille altre funzioni. Però la tecnologia ha le sue esigenze. Eravamo rimasti ai telefoni miniaturizzati. Oggi tutto è mutato, per fare tutte le cose che offre un “normale” cellulare attualmente in commercio lo schermo deve essere più grande (altrimenti come conti i peli della barba quando fai selfie?), la tastiera deve consentirti di premere due tasti alla volta invece dei tre o quattro di prassi ecc. Ecco quindi che le dimensioni cambiano, diventano più grandi, ingombranti e delicati. Non è raro vedere qualcuno che telefona tenendo mezzo metro quadro di i pad (i pod?) attaccato all’orecchio, con un effetto ridicolo al punto di suscitare compassione. Una marcia indietro, qualcuno la chiamerebbe devolution. E non si preoccupino i bagnanti, oggi esiste
Altro capitolo sono i gestori, un tempo c'era Telecom Italia in regime di monopolio, poi arrivò Omnitel del gruppo Olivetti che passerà presto a Vodafone. Quindi giunse Wind. Incredibile e al limite della truffa allo Stato fu Blu, compagnia telefonica che si lanciò sul mercato. A quel tempo le nazioni europee facevano quattrini a palate vendendo all'asta le frequenze alle varie compagnie telefoniche. In Italia erano cinque quelle in vendita, arrivò Blu giusto in tempo per entrare nell'asta pubblica accanto ad altri cinque concorrenti (TIM, Omnitel, Wind, IPSE composta dalla spagnola Telefonica e Acea, e H3G) sei concorrenti per cinque frequenze, i prezzi sarebbero saliti come meteore. Giusto un giorno prima delle offerte, BLU si ritirò e chiuse baracca e burattini. In perfetto italian style (forse mafia style?) le altre compagnie si spartirono il bottino pagando quello che decisero di pagare, cinque concorrenti per cinque frequenze. Lo Stato incassò solo 27.000 miliardi, BLU venne multata e tutto si fermò lì. Chi erano i fondatori di BLU? Anche qui la storia è interessante, ci fu una cordata di imprenditori: Gilberto Benetton (dai pullover ai telefoni, passando per autostrade), Francesco Caltagirone (dall'abusivismo edilizio ai salotti buoni), British Telecom e (udite udite) tal Berlusconi Silvio. Dopo questa brillantissima operazione successe che BLU chiuse, vendette clienti e dipendenti a WIND, le frequenze agli altri operatori, marchio e perdite di bilancio se le accollò TIM. Insomma, qualcuno il regalo doveva pur pagarlo. Se passate vicino ad antenne telefoniche e provate ad annusare, ancora sentirete una puzza di marcio che spaventa
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Letture Francesco Piccolo Il desiderio di essere come tutti Supercoralli - Einaudi € 18.00
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i può dire così: la leggerezza dell’essere fa bene alla salute del singolo; fa male alla società. Ha scritto recentemente Luca Goldoni in un elzeviro: «Preferisco chi fa un dramma di tutto a chi non fa mai un dramma di niente» (Corsera del 18 settembre). Dello stesso avviso non è Francesco Piccolo, che col suo ultimo romanzo ha scoperto la leggerezza dell’essere e ha sposato la filosofia del “Chesaramai”. Il desiderio di essere come tutti (Einaudi, 2013) con cui ha vinto l’ultima edizione del “Premio Strega”, la LXVIII, quella appunto del 2014, è un libro plurale. Può essere letto in vari modi; e se tanto vale per ogni libro – il sociologo polacco Zygmunt Bauman ha recentemente affermato che Le città invisibili di Italo Calvino è uno straordinario saggio di sociologia (“L’eco della storia”, Rai Storia, 16 agosto 2014) – a maggior ragione vale per questo. E’ un romanzo di formazione, un Bildungsroman, è un saggio di politica, è un saggio di antropologia; a corollario: un contributo celebrativo di Berlinguer nel trentesimo della sua morte, l’ennesimo attacco di un antiberlusconista militante nel momento in cui l’ex Cavaliere è con un piede dentro e l’altro fuori della galera, pardon dei servizi sociali. Romanzo di formazione, dove ricorrono le due fondamentali componenti del genere: l’autobiografismo e la riflessione introspettiva, nella crescita spirituale e civile del protagonista. Narrazione autodiegetica. L’io narrante attraversa a partire dai primi anni Settanta il periodo della fanciullezza, dell’adolescenza, della prima giovinezza, della giovinezza e della maturità, passando attraverso eventi famigliari, scolastici, politici, sportivi, naturali, attraverso libri e film, da tutti prendendo qualcosa che va ad alimentare il suo processo formativo, come uomo, come cittadino, come scrittore. Sotto questo aspetto, che è il più per così dire narrativo e che giustifica il premio, accusa qualche stanchezza verso la fine, dove diventa ripetitivo e nel tentativo di trarre le
somme, quasi ce ne fosse bisogno, tradisce una non ben trattenuta tentazione di saggista. Era proprio necessario dimostrare? Il romanzo cede al teorema. La narrazione alla geometria. Filo conduttore il mito di Diana e Atteone sbranato dai cani rappresentato nella fontana della Reggia di Caserta, che viene assunto come chiave di lettura esemplare, insieme con altri desunti da libri e film. Lo stesso da dove parte il suo astio per Berlusconi, che in visita con capi di governo e di stato stranieri si era lasciato sfuggire una delle sue solite battute eroticoallusive, chiaramente inopportuna. Saggio di politica. Nel bel mezzo di un confronto tra i più duri ed esclusivi del dibattito politico nazionale, berlusconiani-antiberlusconiani, il protagonista, che è di buona famiglia della media borghesia, figlio di un missino che vota An, è un comunista e si schiera contro Berlusconi, associato all’impurità. Il suo idolo, che gli fa tanto detestare Craxi e perfino Bertinotti, pur votato, è Berlinguer, associato alla purità. Trova intollerabile l’accoglienza riservata dai socialisti a Berlinguer qualche mese prima che questi morisse. La posizione di Piccolo è quella mediana di minoranza comunista e minoranza democristiana, berlingueriani e morotei, convinti della bontà e della fattibilità del compromesso storico e della realizzazione in Italia di quelle riforme di cui il Paese aveva bisogno fino al rapimento di Moro e alla sua tragica morte per mano delle Brigate Rosse. Una posizione banale se pensiamo che è stata quella di circa l’ottanta per cento di intellettuali, giornalisti, scrittori, registi, attori e via elencando, quella che una volta si chiamava l’intellighenzia, nonostante il Paese fosse diviso in buona sostanza a metà, con addirittura una lieve tendenza a destra, a Berlusconi. Ma, del resto Piccolo vuole «essere come tutti». Tutti, per Piccolo, sono i buoni, i puri, quelli di sinistra, colti e votati ad esprimere il meglio del Paese. Una conferma che gli intellettuali italiani non sanno rappresentare il popolo e che il popolo italiano non segue i suoi intellettuali. Dall’altra parte, infatti, all’incirca l’altra metà, c’è l’Italia berlusconiana, che conta pure intellettuali e artisti,
ma cattivi maestri di pragmatismo, se non proprio di cinismo. Saggio di antropologia. L’approdo dell’eroe piccoliano, dopo la morte tragica di Moro (1978) e quella improvvisa di Berlinguer (1984), è il cittadino grigio, un po’ Villaggio e un po’ Kundera, personaggio un po’ veltroniano e un po’ deamicisiano, che trova nella compagna della quale si innamora e con la quale si sposa la stella polare di una visione della vita di basso profilo, ancor più banale di quella del politico. La donna si chiama Chesaramai, che la dice tutta già nel nome. Perché indignarsi, arrabbiarsi se Berlusconi vince le elezioni? Ma sì, che sarà mai! Una filosofia di vita che conduce il nostro eroe a ripensare criticamente i momenti più significativi trascorsi e alcune azioni compiute. Passati al vaglio di Chesaramai producono se non pentimenti, qualche piccolo senso di colpa; per esempio, per aver mancato di rispetto a delle persone tutto sommato oneste, quando finge di essere di An per andare a fare un reportage ad una manifestazione di questo partito; a partire da suo padre, missino, che però raccoglie e conserva di nascosto tutti gli articoli di giornale del figlio comunista. L’uomo che viene fuori da questo libro plurimo è il cittadino carrierista, che si mimetizza nel colore che ben si associa a tutti, come iperbolicamente si indica la parte vincente. Ha fiuto quando segue il successo e le opportunità fino a diventare giornalista e scrittore apprezzato e richiesto. Ma ha fiuto soprattutto quando con un libro, che può essere tante cose insieme, si assicura il “Premio Strega”. Nell’anno in cui si fa l’apoteosi di Berlinguer, la cui morte dispiacque a tutti, ma la cui politica entrò in decrescita già nelle elezioni del 1979, ossia dall’anno successivo alla morte di Moro, il romanzo di Piccolo è la celebrazione più significativa del veltronismo, ancora di più di quanto non sia riuscito a fare lo stesso Veltroni, col suo libro Quando c’era Berlinguer (Rizzoli 2014). In questo libro almeno non si risparmiano voci discordi a Berlinguer. di Luigi Montonato
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spagine
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In corsivo
Cose di donne
e donne in città si vestono come colonne di chiese barocche, tengono il passo ornate di orpelli come facciate di palazzi secenteschi; appaiono distanti… prese solo dall’amor del loro maestoso impianto ufficiano gli altari. Una fanciulla europea informale, con sottogonna normale, felicita la mente, dipana l’aria dall’atmosfera della parvenza imperante. Scevra dai lustri mosaici allegra le strade con la sua presenza; gioia manifesta. Un sandalo d’oriente, una maglietta e una pratica gonnella son più che sufficienti a passeggiare nella città dolente. Ma le nostre donne abbisognano d’altro… son troppo esigenti. Esse son reginette, e il loro trono è un avanzo di edifici crollanti, il loro regno una prateria, predomina solo la loro borsetta di vernice rossa. Escono di notte, come le antiche amanti, per difendere l’onore della loro vita. I maschi, intorno, a mucchi, allegri e bislacchi, dopo numerosi brindisi s’inoltrano alla loro conquista. Son pronti nella corte… Come capi reggenti nel buio conver-
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sano, accennando con gli occhi, in segno d’intesa, affari con donne mondane, come taciturni predatori. E nei meandri della notte nasce una nuova vita, una nuova miseria e nobiltà, crudele ed effimera. Quando credi che la vita finisca, essa ricomincia nella città perversa e avversa, ammantata di volti, dentro i dedali e sotto i ponti, o cantine e sterrati, o meglio dentro palazzi barocchi e dimore secentesche, atte a nascondere interi orizzonti. Nel facile orgasmo il maschio si sente uomo, affida la vita all’altra donna. Ella si getta, convinta d’esser nel mondo, e del sesso non prova più paura. Il loro disprezzo è nell’esser crudeli, la loro potenza è nella brevità, la loro speranza è di non aver speranza! Poiché sviliscono appena smettono di parlare; appena smettono d’illudersi d’esser nel mondo. Qui si muore appena nati. E in questa miseria essi si consolano. E nello stile barocco restano appesi, lusingano il lustro mondano che ad altro non ambisce che a incitare le morbose voglie dello spasimo ereditario.
La musica di Spagine
Valerio Corzani
nteriors è un duo composto da Valerio Corzani ed Erica Scherl.Liquid è l’album ricco di ricerche elettroniche, jazz e sperimentazioni timbriche. Un viaggio alla scoperta di nuove sonorità. Valerio, musicista, giornalista e fotografo, in questa intervista racconta come è nato il nuovo lavoro discografico. Liquid è un disco che spazia dal dub al jazz toccando diverse sfumature timbriche. Come è nato? “È nato dalla sintonia musicale mia e di Erica Scherl, la violinista di questo progetto basato sulla sonorità delle corde del suo strumento con interventi elettronici e l’aggiunta di parti mie con l’utilizzo del loop”. Come è nata la collaborazione con la violinista Erica Scherl? “Ci siamo conosciuti collaborando in un altro progetto denominato ‘Gli Ex’. Da lì abbiamo visto che eravamo sintonizzati, ci è venuta voglia di creare qualcosa e abbiamo deciso un duo con lo sguardo verso le sonorità timbriche dell’elettronica anche per arricchire un organico scarno”. Interiors, "Retrodub" dall’album "Liquid" (Minus Habens Records):
Di giorno si nascondono dietro i parventi, per mostrarsi di notte gai e suadenti, quando gli altri son dormienti. Così che alla vista appare solo il davanzale della cornice sulla quale posa lo stipite che regge la trave. Fuori dall’esser vita… fuori dall’esser reale… questa è la Movida, per voi che siete tutti uguali e questa è la donna ideale. Orsù, dunque, applaudite, bevete e ridete, se volete e statevi bene. Ma questa è pura follia. La luce della notte equivale al buio del mattino, non vedo altro all’orizzonte, neanche più le stelle. In quest’epoca si preferisce esser evanescenti ma, paradossalmente, intraprendenti e inghirlandati pronti sempre a far festa. All’alba gli operatori ecologici raccolgono per le strade quel che è rimasto. Delle mantiche folle non vi è più niente, solo detriti e mucchi di foglie morte. Già! “Les feuilles mortes” di Yves Montand: ma erano altri tempi. I nostri son di dispetto. Comunque, auguri e buon divertimento.
di Antonio Zoretti
Liquid il nuovo progetto degli Interiors di Alessandra Margiotta
Definisci Liquid con tre aggettivi... Psichedelico, dub e cameristico. Sei musicista ma svolgi anche l’attività di giornalista, fotografo e conduttore radiofonico. Come fai a conciliare tutte queste attività insieme? Queste attività sono tutte legate da un filo ‘comune’. Se mi chiedono che lavoro faccio rispondo che mi occupo di suoni e geografie, così sintetizzo e metto dentro tutte le cose che mi interessano, la radio e la musica suonata ma anche tante altre cose che hanno a che fare con lo scrivere e con la fotografia. Bisogna solo cadenzare gli impegni e conciliarli ma non è così difficile. Io poi sono laureato in filosofia della musica quindi lavoro per quello per cui ho studiato. Dove è possibile trovare i vostri contatti o conoscere meglio il vostro progetto? Noi abbiamo Soundcloud e la pagina facebook, basta cercare il nostro nome Interiors. Abbiamo anche un sito personale dove abbiamo messo tanti video e altre informazioni. https://www.youtube.com/watch?v=PzjrKQ02Buk
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Primum non nocere”: troverete queste parole scolpite nel legno di un maestoso bancone, entrando nello spazio Umuse, in Piazza del Popolo, a Ruffano. “Per prima cosa, non nuocere”, un assioma attribuito a Galeno che ricorda a chi si dedica alla cura dei mali che la prima necessità a cui far fronte, davanti all’infermo, è quella di vagliare la possibilità che la cura possa comprometterne la salute più di quanto non faccia il male stesso. Non a caso, questo locale è stato a lungo una farmacia. Forse, però, questa solenne scritta in latino non sarà la prima cosa che vi capiterà sotto gli occhi, perché Umuse appare, ad un primo sguardo, come una sorta di contemporanea wunderkammer, il regno di un collezionista colto ed eclettico, decisamente lontano dal moderno classificatore di oggetti ma il cui processo di accumulazione non potremmo definire del tutto asistematico. È vero che, se un criterio c’è, non è facilmente rintracciabile. Roberto Prøntera non mette insieme i suoi reperti secondo un ordine cronologico o tipologico, non li classifica per ordine di provenienza o per il materiale che li costituisce, né si può asserire che li raccolga e li metta in sequenza unicamente in base al suo senso estetico, o che la loro successione tenda il sottilissimo filo di un’eterea narrazione, né che si tratti della nebulosa espressione di un afflato magico o, magari, dell’effetto di un vortice di psicosi. Sovrapporre il concetto di apofenia, che gli è così caro ed è così presente nel suo lavoro di artista visivo, alla rete invisibile tesa tra i frammenti della sua strana collezione, potrebbe venirci in aiuto. L’apofenia è la tendenza a riconoscere schemi o connessioni in una serie di dati casuali. È il meccanismo, umanissimo eppure considerato ai limiti del patologico, che ci porta a vedere, per capirci, elefanti, caffettiere e donne nude negli sbuffi delle nuvole più irregolari e tra le venature del marmo degli scalini. Questa spiegazione, tuttavia, risulta estremamente riduttiva. Un ratto mummificato accanto ad un paio di antiquati occhiali da motociclista, una pietra dalla forma atipica e suggestiva, un vecchio scrittoio, un vaso antico, sono collegati tra loro da una visione, e la loro statica e polverosa danza è un mezzo per renderla fruibile. Niente a che vedere con l’ombrello e la macchina da cucire sul tavolo di dissezione che Lautréamont si augurava di trovarsi davanti: l’idea di collezionismo e quella di casualità non potrebbero che cozzare, giusto? Nella scelta quasi maniacale di questi oggetti e nel parossistico tentativo di conferire loro un ordine, seppur difficilmente intelligibile, si intravede, piuttosto, una disperata ricerca di senso. Dove sarebbe saggio semplificare, Prøntera lascia deflagrare la complessità e si diverte ad inseguire il significato come un cacciatore di farfalle perso nella foresta pluviale. Umuse non è una wunderkammer, una semplice accozzaglia di oggetti rari, curiosi o pregevoli né, tantomeno, una specie di narcisistico vittoriale, ma un labirinto di immagini dense di significato.
Il logo di Umuse e “frammenti” dall’allestimento
Nel labirinto di
Il fatto che offra le sue pareti alle opere degli otto artisti che saranno coinvolti nella collettiva e nella serie di bipersonali che si susseguiranno tra i mesi di giugno ed agosto di quest’anno, fa pensare ad un intento decisamente meno banale della volontà di mettere in mostra il lavoro di questi validi e giovani avventurieri del codice visuale. *** A tessere trame, innalzare muri per nascondere i sentieri più ovvi e confondere il visitatore in un ramificato dedalo per lasciarlo, poi, uscire più libero e consapevole della complessità del mondo, si corre il rischio di dare vita un labirinto di opere d’arte in cui lasciar balenare, di tanto in tanto, i riflessi scintillanti di quello, inarrivabilmente ricco ed ambizioso, che Warburg stava tracciando nel suo atlante incompiuto. In una breve discussione con Roberto è emerso che alcuni degli artisti che desiderava promuovere si sono mostrati atterriti all’idea di dare in pasto le loro opere ad uno spazio così saturo. Ora, non c’è dubbio sul fatto che alcuni lavori abbiano un sacrosanto bisogno di stagliarsi contro le neutre pareti del sopravvalutato white cube, per dire quello che hanno da dire, ma quale sfida è più affascinante, per un artista, un tecnico consacrato alla veicolazione di significato, di quella di farsi spazio in mezzo alla terribile densità di significato di un posto come questo? Lavorare squisitamente site
specific sarebbe troppo facile e, forse, risulterebbe noioso. Potrebbe condizionare la libertà espressiva dell’artista o portarlo ad appiattire idealmente la peculiarità dello spazio.
Qui si tratta di inserirsi nella sequenza apparentemente assurda architettata dal padrone di casa, cogliendone il codice nascosto e calando a tradimento, nel flusso semiotico esistente, i propri segni, i meno fragili a disposizione. Oppure di farci a cazzotti. Con la convinzione di un pugile dato perdente alla prima ripresa, ma con la rabbia nei nervi e la fame che gli strizza lo stomaco. Torniamo ora al bancone con la scritta “Primum non nocere”. Perché sceglierlo come titolo della mostra? Perché definisce l’identità dello spazio, lo ricollega alla memoria storica della comunità, che lo associa alla sua vecchia funzione di farmacia, perché l’iniziativa di Umuse non vuole sconvolgere la realtà che le sta intorno, ma adagiarsi sulla sua storia, già così ricca e stratificata, sulla sua ragnatela di rapporti e necessità. *** “Primum non nocere” significa agire nel rispetto di un corpo, di un intero, del complesso delle sue funzioni e dei suoi bisogni. Se consideriamo l’arte come corpo, in una visione più ampia che attraversa gli stili, il tempo e i luoghi, non possiamo che agire con umiltà, iniettando piccole dosi di nuovi composti e
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Spazi d’Arte
A Ruffano in Piazza del popolo il regno di Roberto Prøntera collezionista colto ed eclettidi questo luogo, esaltandone la natura labirintica ed aprendo porte su una miriade di labirinti ulteriori. Davide Russo, come fanno le pareti di un dedalo, occulta i sentieri che conducono alla fruizione più ovvia dell’immagine: la padronanza del suo gesto, sempre più potente e misurato, ed il controllo della densità delle sue paste cromatiche gli permettono di intervenire sulla fotografia nascondendo una parte dei dati che renderebbero immediata la riconoscibilità del soggetto e del suo stato d’animo, per far emergere sulla superficie delle sue opere qualcosa di indefinito, inquietante e terribilmente vitale, com’è la pittura stessa, quando è liberata dal compito di rappresentare.
Umuse
di Giovanni Matteo
sperimentandone gli effetti a breve e lungo termine. Anche Umuse è un corpo con le sue caratteristiche, e gli artisti interverranno interpretandone i segni, studiandone la fisiologia, dosando il loro apporto.
Probabilmente Marcello Nitti si sente a casa, in uno spazio come questo: in un luogo in cui lo stratificarsi del tempo e delle immagini diventa terreno fertile per la complessità, la sua pittura potrebbe perfino confondersi. Per il sapore “museale”, per le straordinarie capacità di mimetismo stilistico e l’estrema finezza tecnica che ne contraddistinguono il lavoro. La ragione per cui un suo dipinto non può diventare una semplice tessera del mosaico – Umuse è che ogni sua opera è un mondo a sé, un sistema di segni che contiene, nel giustapporsi delle pennellate e nel sovrapporsi delle velature sull’incrocio di trama e ordito, le ragioni del suo equilibrio ed il germe della sua catastrofe, due poli dei quali l’artista è perfettamente consapevole e tra i quali, giocando con gli stili e le icone, coreografa abilmente la danza della sua raffinata pittura. È stato Nitti a reclutare gli altri sette artisti che si alterneranno in coppia in “Primum non nocere”, e lo ha fatto senza preoccuparsi dell’omogeneità dei loro percorsi ma, probabilmente, mirando alla costituzione di un alfabeto di otto lettere che consente di imbastire centinaia di letture
Se Russo provoca eruzioni di materia viva dalle crepe della vuota rappresentazione bidimensionale del mondo, Alessandra Chiffi evoca il vuoto costruendogli intorno con il suo segno. Preghiere grafiche volte all’esaltazione del vuoto, complesse architetture pazientemente progettate per cullare l’assenza, questo sono molti dei suoi lavori. Non c’è niente di più arduo, nel labirinto di Umuse, ma le macchine grafiche di Chiffi sono in grado di agganciare le sue molteplici presenze e di condurle lungo le sue linee, i giochi di luce ed ombra tra i piani che esse ritagliano, e di indurle per un attimo al silenzio. Opere eleganti ed essenziali che danno un ulteriore chiave di lettura di questo spazio: il suo affollamento, la sua estrema densità potrebbero essere un viatico all’assenza.
“Un’impronta a caldo dell’anima”, “pochi minuti di vita pulsante”. Queste parole di Alfred Kubin sul disegno e, in particolare, sul genere di grafica veloce ed istintiva ma estremamente efficace, che costituisce il corpus di Luca Cuozzo, mi sembrano le più adatte ad aprire uno spiraglio sull’universo sottilmente inquietante di questo artista. La maniera peculiare in cui simboli, gesti, oggetti, storie e figure si accavallano nelle sue carte testimoniano la sua capacità di districarsi nelle nebbie del sogno, la sua estrema lucidità nel seguire i fili intricati del lato inconscio, incontrollabile ai più, dell’immaginazione. Cuozzo sa aprire porte nei labirinti del lato oscuro della mente, per trarne istantanee che riescono a regalarci, in un mondo affollato di immagini svuotate di significato, inediti squarci di verità.
Paulina Kortykowska dimostra una sconcertante padronanza nell’orientarsi nel labirinto della grafica. Penne, matite, chine, pennarelli, dai mezzi che richiedono la maestria dell’iniziato a quelli che troveremmo nell’astuccio di qualsiasi tappetto delle elementari, sono utilizzati da lei con la stessa fulminea consapevolezza e la medesima nonchalance. Il segno infantile e quello dell’illustratore professionista,
le staffilate da writer metropolitano e l’eleganza del grande maestro si configurano come tracce registrate con strumenti diversi e sovrapposte con naturalezza da un unico musicista per dare vita ad arrangiamenti semplici ed essenziali, eppure formalmente sorprendenti e capaci di provocare quel senso di sospensione che pochi sono capaci di catturare.
Una sorta di candore emana dal lavoro di Donato Magi. Non ingenuità, ma un candore sofferto, recuperato attraverso una profonda riflessione su di sé sul mezzo privilegiato. Il risultato è una pittura esplosiva sotto l’aspetto cromatico, complessa e sfaccettata a livello compositivo, sempre colta e ricca di riferimenti e citazioni. Nei suoi dipinti anche il dato autobiografico, che lascia intravedere una sensibilità non comune ed un raro gusto per la narrazione, viene processato attraverso le forme e i tòpoi della storia dell’arte.
Ammirare la pittura di Evan Piccirillo, che sia elaborata digitalmente o analogicamente, genera un incredibile senso di spaesamento. L’abbandono mortale delle sue figure evoca il delicato lirismo delle sculture simboliste del cimitero di Staglieno, ma le tinte violente e, soprattutto, il fatto che questi corpi si sfaldino e proiettino grumi di materia in ogni direzione, ci trasporta in scenari fantascientifici. L’artista manipola i byte con lo stesso spirito con cui veicola la tangibile materia pittorica ed affida le sue visioni al codice binario provocando le stesse suggestioni che riesce a suscitare veicolando pigmento in polvere disciolto nell’olio di lino, come nel XV secolo. Forse per questo, scorrendo le immagini dei suoi dipinti, la sensazione di trovarsi di fronte alle arcane illustrazioni di un antico testo alchemico si accavalla a quella di perdersi tra le maglie di un’immagine acquisita al microscopio elettronico, tra le pagine di un articolo sulle biotecnologie.
Artefice di una pittura intrisa della visceralità della scuola tedesca ma coraggiosa e del tutto personale, Giancarlo Mustich circoscriverà uno snodo del labirinto Umuse con un’installazione che sarà probabilmente percepita dal visitatore come una tenda piantata nel deserto durante una tempesta di sabbia. Quella della tenda è un’idea che ben si addice ad un’arte in continuo movimento: Mustich deforma, moltiplica, rompe la figura e lo spazio, oscilla tra una figurazione “selvaggia” ed un’astrazione calda e violenta, cerca i suoi limiti al di fuori del regolare supporto che sagoma a suo piacimento e giunge a sospendere le singole opere in un tutto che si configura come un microcosmo.
http://umuse.tumblr.com/
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della domenica n°44 - 21 settembre 2014 - anno 2 n.0
Oggi, domenica 21 settembre, alle 17.30 negli spazi di Liberrima l'anteprima di Teresa Manara il nuovo romanzo di Luisa Ruggio per Controluce
in Agenda
Lo sguardo,sottile lama talia, 1950. “Nei bar non si parlava d’altro che del processo Rina Fort, la commessa accusata di aver ucciso la moglie e i tre figli del suo amante. Pavese si era suicidato in un albergo di Torino, per amore”. In un angolo della penisola italiana, all’estremo Sud della Puglia, c’è un’altra penisola da cui molti partono in cerca di fortuna. Si tratta di una terra di frontiera “dove gli uomini e gli spiriti parlano ancora la stessa lingua”, dominata da un sole maestoso e impassibile. Una corte di spostati resta a vivere nei paesi senza tempo, poveri e superstiziosi, dove si produce il vino per gli industriali del Nord e dove si spingono, attraverso interminabili viaggi, solo i sensali. Lecce è la città dove il tempo scorre in ritardo e una vecchia stracciona, che si crede un’erede dei Savoia, rappresenta tutti quelli che “vivevano sapendo: il vento si sarebbe alzato cancellando per prima cosa le loro tracce”. In questo luogo senza importanza, decide di trasferirsi una giovane donna, Teresa Manara, nata e cresciuta a Imola – dove ha visto trascolorare le atmosfere degli anni ’20 e ’30 attra-
verso le eleganti vetrine dell’antica bottega di tessuti delle zie zitelle e dove ha subìto, insieme alla sua famiglia, l’occupazione tedesca. Teresa è la moglie di un venditore di vino sfuso convinto che “un vino, al pari di un uomo, è la sua storia”, ma è soprattutto un’instancabile osservatrice, nonché la protagonista delle due storie d’amore che scorrono parallele in queste pagine: quella che la spinge a seguire un uomo fino alla fine del mondo e quella per la terra che diventerà la sua seconda casa. Grazie alla sottile lama del suo sguardo, Luisa Ruggio ci racconta un mondo visto attraverso lo specchio delle barberie, quello delle vite marginali, degli inutili, ma soprattutto quello di una natura che concede una misura di sé, un fragile miracolo spremuto con fatica dagli uomini che decidono di restare. Vigneti, vicoli, stanze, volti e storie si compongono nella voce che sussurra al lettore: “Mi sono invaiata per ottant’anni, se così si può dire, proprio come gli acini d’uva durante la maturazione. E cammina, cammina, sono finita anch’io in una storia. Questa”. Dalla quarta di copertina www.luisaruggio.blogs.it
Il 15 ottobre il laboratorio aperto Unibookat a cura di Riccardo Bargellini e dell’Atelier Rohling di Berna alle Manifatture Knos
Teresa Manara nello scaffale di casa Ruggio con Afra, La nuca e Senza storie
Benvenuta in questa casa minuscola TeresaManara, una casa di carta che sta tutta su uno scaffale. Quando nascono figli si appendono alle porte fiocchi azzurri o rosa. Forse per un istante, sulle porte delle case in cui nascono libri compaiono asterischi, lettere dell'alfabeto, puntini di sospensione lievi lievi
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Dal profilo Fb di Luisa Ruggio
olte librerie in tutta Europa chiudono a causa della crisi, e pezzi di storia delle città spariscono con esse. UniBooKat è un progetto ideato nel 2013 dall’artista Riccardo Bargellini e l’Atelier Rohling di Berna in difesa e sostegno di una di queste liberie, l’Antiquariat Wild, Bücher Eule libreria storica della capitale svizzera. UniBooKat ha reso, tramite l'intervento di artisti, poeti, scrittori e comuni cittadini, alcuni libri dell’Antiquariat Wild non più copie in serie ma pezzi unici. Così, da quel momento all’Antiquariat Wild è disponibile un corner apposito per l’esposizione e la vendita dei libri prodotti da UniBooKat. L’esperienza di UniBookat giunge a Lecce nell’ambito delle iniziative del progetto “G.A.P. la città come galleria d’arte partecipata”. L’appuntamento è mercoledì 15 ottobre dalle 9.30 alle 13.30 alle Manifatture Knos di via Vecchia Frigole, 34 a Lecce. Il laboratorio sarà aperto ad artisti, poeti, bambini, cittadini che vogliono lavorare alla creazione di un nuovo libro ed utilizzare i materiali a disposizione del progetto. i libri creati saranno esposti nelle librerie della città; un numero di copie selezionate dai curatori del progetto saranno inserite nella collezione itinerante di Unibookat. Saranno messia disposizione dei partecipanti un numero limitato di copie di libri su cui lavorare per questo, è richiesto ai partecipanti di portare con se un volume su cui lavorare, si consiglia di cercare nelle antiche librerie dei nonni vecchie enciclopedie, edizioni illustrate e molto datate.
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Fino al 16 dicembre, a Lecce nell’ex convento degli Olivetani le opere di Salvatore Sava
alvatore Sava, scultore, esporrà nel leccese convento degli Olivetani fino al 16 dicembre 2014. Il titolo della mostra, aperta da pochi giorni, è “Follie Barocche”. Il percorso espositivo comincia già nel viale che conduce al complesso conventuale con opere che vedono il coinvolgimento diretto di alcuni alberi e siepi. All'ingresso principale troviamo poi due opere: sulla sinistra “il Tronco”, sulla destra “Millelabbra”. Una volta entrati nel convento l'esposizione interessa i due chiostri a cielo aperto dove il visitatore è condotto attraverso un percorso fatto di elementi scultorei, ora “sassi” dipinti in giallo fluorescente ora spezzoni di corda che a tratti si appropriano delle colonne cinquecentesce dell'edificio oppure diventano elementi di una “scultura naturale”. Nel primo chiostro, quello subito dopo l'ingresso, lo spazio centrale a prato naturale ospita l'opera dal titolo “Salento 2014”; nel secondo e ultimo chiostro, quello dove è il celebre pozzo con colonne tortili, il racconto dell'artista sembra amplificarsi e intensificarsi nel dare vita all'opera:“Il pianto della trozzella”. Anche in questo titolo, oltre che nella scelta di materiali e forme, c'è il riferimento all'ambiente naturale maltrattato. Se un tempo infatti la carrucola di quel pozzo (esso diventa però il simbolo per qualunque altra fonte) consentiva di issare acqua pura, adesso ciò non avviene più e di qui pertanto il pianto. Messaggio solo negativo quello dell'artista? Decisamente no perché attorno al pozzo S. Sava colloca tutta un serie di scarabei stilizzati allusivi, secondo una tradizione antica, alla sempre più sperata rinascita: salvaguardia della Natura attraverso la Natura dell'Arte, questo il messaggio dello scultore. Anche in questa seconda installazione abbiamo un susseguirsi di elementi naturalistici d'invenzione: sassi modellati in cemento con il solito colore giallo fluorescente, alberi metallici, spighe, cespugli, fiori ora solo in metallo ora in metallo e pietra naturale e non. Inevitabile il simbolismo di alcuni di questi elementi a cominciare dal colore dominante scelto dall'artista, il giallo fluorescente. Tale colore usato nella installazione del primo chiostro allude all'artificialità e a quella dei pannelli fotovoltaici in particolare; nel secondo chiostro, invece, lo stesso colore diventa simbolo visivo dell'avvelenamento costante del territorio. L'installazione “Salento 2014” è costituita da un insieme di 15 elementi a capanna poggianti su un ripiano lapideo tinto in giallo fluorescente. Gli elementi a capanna si ottengono attraverso la giustapposizione di due lastre di pietra leccese su cui l'autore ha passato una o più strisciate di colore nero che poi per gravità è colato sul resto della superficie lapidea inclinata. I materiali sono locali così come anche l'uso del colore nero; quest'ultimo in particolare, allude - dichiara lo scultore - ai trattamenti chimici di cui sempre più spesso è oggetto e vittima la pietra leccese. Di fatto, per questa installazione nel primo chiostro, ci troviamo di fronte alla ricomposizione di una immagine atavica che è quella di un cimitero formato da tombe (a capanna) in cui però il defunto è la pietra stessa.
Follie
barocche
di Fabio A. Grasso
Le opere di Salvatore Sava nelle installazioni per gli spazi dell’ex convento degli Olivetani
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el 2014 ricorre il centenario della Prima Guerra mondiale. In considerazione di ciò la Direzione Generale per la Valorizzazione del Patrimonio culturale del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, congiuntamente con la Direzione Generale per gli ordinamenti scolastici del MIUR e la Fondazione Benetton Studi e Ricerche, ha promosso il progetto e Concorso nazionale:" Articolo 9 della Costituzione. Cittadinanza attiva per valorizzare il patrimonio culturale della memoria storica a cento anni dalla Prima guerra mondiale". Nell'ambito di questo progetto, la Sezione didattica dell'Archivio di Stato di Lecce, propone - fino al 5 ottobre - a tutti e in particolare agli Istituti Scolastici della città e della provincia un percorso formativo dal titolo La Grande Guerra nelle fonti d'Archivio. Durante gli incontri i visitatori avranno l'opportunità di comprendere, attraverso la consultazione guidata di una significativa campionatura di documenti, l'importanza della conservazione, le potenzialità informative delle fonti archivistiche e il loro imprescindibile valore ai fini della ricerca e della ricostruzione storica del territorio. In particolare, una mirata selezione di testimonianze della Grande Guerra consentirà di mettere a fuoco alcuni aspetti della partecipazione al conflitto dei combattenti e delle genti della terra salentina. *** Le visite si terranno dal lunedì al venerdì e indicativamente dalle ore 9,30 alle 13,00. Per prenotazioni e ulteriori informazioni contattare il numero 0832/246788. L’Archivio di Stato è il Via Alfonso Sozy Carafa, 15 a Lecce as-lecce@beniculturali.it
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Schegge di storia
www.archiviosistatolecce.beniculturali,it
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Pagina a cura di Marisa Milella* e Fabio A. Grasso *Direzione Regionale Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia
S’inaugura venerdì 26 settembre, a Lecce negli spazi del Castello Carlo V° la mostra “Le donne tra analfabetismo ed emancipazione. Dalle carte di Tommaso Fiore” Le donne tra analfabetismo ed emancipazione. Dalle carte di Tommaso Fiore” è il titolo della mostra documentaria la mostra che si aprirà il prossimo venerdì 26 settembre a Lecce nelle sale del Castello Carlo V, dove saranno esposti sino al 15 ottobre una serie di pannelli, documenti e foto che raccontano la lunga storia delle battaglie femminili nel secolo scorso. Tra le numerose corrispondenti di Fiore vanno ricordate Sibilla Aleramo, Maria Corti, Rina Durante, Ada Gobetti , Maria Antonietta Macciocchi, Anna Maria Ortese, Carla Voltolina Pertini. Di particolare rilevanza storico-culturale la parte dedicata al rapporti di Tommaso Fiore con la scrittrice Rina Durante e la deputata comunista Cristina Conchiglia Calasso attraverso lettere, immagini e libri provenienti dagli archivi privati delle due donne salentine e da quelli della famiglia Fiore-Fazio e del giornalista Massimo Melillo, che testimoniano l’impegno e l’interesse del grande meridionalista per il Salento. Organizzata dal Cnr e portata a Lecce in collaborazione con l’associazione ”Muse del Salento”, la mostra, che nei mesi scorsi ha debuttato a Roma nella prestigiosa sede del Cnr e successivamente a Bari e Altamura, città natale di Tommaso Fiore, avrà anche una sezione dedicata all’asilo nido dell’Acai di Tricase, primo esempio nello scorso secolo di una struttura creata presso un tabacchificio in Puglia per accogliere i figli delle tabacchine, voluta e conquistata dalle operaie che lì lavoravano.
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Racconti salentini
Di Cici e dell’Africano requentava sì o no le elementari il mitico e compianto Lucio Battisti, nato nel 1943, ed era assolutamente inimmaginabile il suo successo, forse il più famoso, dal titolo “I giardini di marzo”, del 1972, che, come tutti ricordiamo, faceva: “Il carretto passava e quell'uomo gridava gelati”. Quando, invece, un andranese - per dire di Andrano, Sud Salento - dall'appellativo spagnoleggiante di Estrafallaces ma da tutti conosciuto con il nome di battesimo di Luigi, anzi Cici, vendeva i suoi gelati. Coni o coppette, esattamente identici ai contenitori usati oggi, riempiti non di palline, che sarebbero diventate di moda in tempi successivi, ma con spalmate a premere, mediante un'apposita palettina metallica, di prodotto artigianale o, meglio, ricavato interamente a mano. Si badi, non molti i gusti, al contrario limitati ai classici, ossia a dire: cioccolato, crema, vaniglia, fiordilatte e nocciola. Il prezzo di ciascun gelato era, rispettivamente, di cinque o dieci lire per formato piccolo o formato grande. Per lo svolgimento della sua attività, Cici non disponeva d’un locale tipo bar o gelateria; si serviva, bensì, di un veicolo a forma di strano triciclo, con ruote a raggi e copertoni in gomma, mosso, dunque, rigorosamente a pedali. Colpiva, soprattutto, la struttura anteriore - fatta di legno e/o compensato, con supporti di lamiera metallica e alloggiante alcuni pozzetti immersi nel ghiaccio e con cappuccio d’acciaio bianco, al cui interno era conservato il gelato - che richiamava pari pari la forma di un ferro da stiro e, per noi che siamo nati a abitiamo vicino al mare, anche di una lancetta (barchetta) in legno dalla prua e punta e con la poppa tagliata. Col mezzo in discorso, Cici esercitava la vendita ambulante, dalla primavera all’autunno inoltrato, girando per le vie o sostando in piazza, non esclusivamente in Andrano, ma anche attraverso numerosi paesi vicini, specialmente di domenica e nella ricorrenza delle feste patronali. In genere, anche se all'epoca, peraltro un po' come succede adesso, i denari in tasca erano contati, non mancavano i clienti davanti al carretto di Cici, in fondo quel capriccio dolce comportante un esborso di cinque o, al massimo, dieci lire, ogni tanto era possibile cacciarselo, sicché il bravo gelataio paesano riusciva a sbarcare il lunario. All'inizio, egli era di stato
di Rocco Boccadamo
civile scapolo, poi mise su famiglia, continuando sempre il medesimo mestiere, praticamente sino alla vecchiaia. Invero, non è dato di sapere se, attualmente, là dove si trova a riposare, il buon Cici fabbrichi e venda ancora gelati, ad ogni modo, nel suo paesello, a ricordare la sua figura, certamente non passata inosservata, esiste ad oggi, presente nell'antica abitazione, lucida e attiva nonostante le ottanta e passa primavera, la moglie Chicchina. *** Guarda il caso, pure andranese è il secondo degli omonimi citati nel titolo, Luigi Urso, soprannominato “africano” forse per via del colorito bruno, anche lui, in vita immancabile coppola in testa in tutte le stagioni, artigiano e venditore ambulante. Dedito alla fabbricazione, fra le pareti di casa, di una specialità dolciaria tipica del Salento, cioè i mustazzoli (sull’enciclopedia mostaccioli), dal classico colore tendente al cioccolato e con gusto piacevole di mandorle, miele e spezie varie. Una indubbia leccornia, prescelta e di moda anche adesso, sia per gli indigeni della zona, sia per i turisti e ospiti delle vacanze, che arrivano da Nord Italia e dall'estero. Luigi “africano”, per la vendita della sua specialità, inizialmente adoperava, al pari di Cici, un triciclo sospinto a pedali, poi un moto furgone Ape. Egli era solito caricare sul mezzo una montagnola, a forma conica, di prodotto, dalla quale attingeva, operando, a partire dalla vetta, con abilità per non creare frane o smottamenti, all’atto di soddisfare le ordinazioni dei clienti, cui consegnava incartate o cartocci con i profumati e gustosi mustazzoli. Anche Luigi si dedicò ininterrottamente alla sua attività, in pratica finché campò e, quindi, arrivò ad essere conosciuto e riconosciuto nell’intero circondario. Ho voluto dedicare queste righe a due umili figure di commercianti vecchia maniera, non presentanti alcuna caratteristica speciale e però entrambe contraddistinte da doti più che speciali, quali la semplicità, la correttezza, la cordialità, la serietà e l'onesta, che, il giorno d’ oggi, purtroppo, non sempre è dato di riscontrare in giro.
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Fotografia
Per Bitume photofest oggi al Cineporto la chiusura della sezione Photobook e la presentazione del libro “Nuovo rap italiano. La rinascita” di Luca Bandirali
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Sono da sempre stato un assiduo fruitore di Rap, e da sempre attento a quello italiano, da ragazzino sentivo di essere dentro la cultura HipHop, di condividerne gli ideali, ma mentre i miei coetanei erano inclini ad esprimersi attraverso l'Aerosol-Art o la Breakdance io, non sapendo disegnare o ballare, mi limitavo ad assorbire le vibrazioni positive di questa cultura vissuta come momento di aggregazione e condivisione; trovata la strada della fotografia mi ritrovai quindi a collaborare nel 2008 con un regista di videoclip che mi diede l'opportunità di lavorare a stretto contatto con quelli che in giovane età erano stati i miei idoli. Da qui ho iniziato a pensare che realizzare un reportage sul mondo del Rap sarebbe stato per me una incredibile opportunità. Qualche anno dopo il caso ha voluto che mi trovassi a discutere di Rap italiano con Luca Bandirali (durante il mio percorso universitario) nella fase preliminare della stesura del suo saggio. Da qui, l'idea di inserire una sezione visiva nel libro è stata molto spontanea e così mi sono ritrovato a lavorare a quell'embrione di progetto che già avevo in testa”. Nella mostra (IRA), le foto di alcuni noti rapper italiani sono associati a diversi luoghi (il mare, le strade, ecc.), c’è una relazione tra ritratto/luogo? “I ritratti sono quasi tutti urbani, tranne un paio indoor e uno realizzato al mare (con Killa Cali). Si può dire che quasi magicamente le locations si sono adattate ai personaggi che ho fotografato, ad esempio il ritratto di Coez sul lungo Tevere, nel gesto in cui lui butta via la sigaretta, esprime un senso di malinconia di cui spesso i testi dell'artista sono intrisi, ma anche la fotografia di Ghemon, che si distingue per una posa rilassata, racchiude in sè la semplicità e la purezza di un vero artista della paLuca Bandirali è docente di Storia Tecniche e rola”. Drammaturgia delle Produzioni Multimediali presso l’Università del Salento, conduttore radiofonico sul Giovane storico della Fotografia e fotografo freeterzo canale Rai e membro del Center for Black lance, Andrea Laudisa si è laureato presso la faMusic Research/Europe. Fra le sue pubblicazioni, coltà di Beni Culturali dell’Università del Salento con Musica per l’immagine (2002), Mario Nascimbene una tesi in “Storia e Tecnica della Fotografia” con il compositore per il cinema (2005) e Musica/regia critico e storico della fotografia Antonella Russo. Attivo nel campo della fotografia, dal 2005 Laudisa (2008)”. partecipa a numerose mostre personali e collettive, *** Andrea, come e quando ha origine Italian Rap impegnandosi anche nella realizzazione di alcuni Luca, come nascono un testo e una cronaca Antology? come si colloca in questo tuo pro- progetti, tra cui una ricerca sulle forme e i principi della fotografia erotica. getto l’incontro con Bandirali? così approfondite sul rap? “Il testo nasce da una lunga assiduità con l'hip hop AL: “Il progetto di creare una vera e propria Antolocome oggetto sociale e segnatamente del rap gia Visiva del rap italiano nasce diversi anni fa. on un reportage fotografico e la presentazione di “Nuovo rap italiano. La rinascita” di Luca Bandirali, BITUME PHOTOFEST rende omaggio alla musica e la fotografia di genere, domenica 21 alle 18 presso il Cineporto di Lecce, a chiusura della sezione PHOTOBOOK, dedicata all’editoria indipendente, accessibile ancora a tutti fino al 21, dalle 10 alle 13 (sempre al Cineporto). Edito da Stampa Alternativa, il testo di Bandirali ripercorre le tappe di quella che è comunemente ritenuta la seconda età dell'oro del rap italiano. Dalla definitiva affermazione di Fabri Fibra, Marracash, Club Dogo e la scalata dei giovanissimi Emis Killa e Fedez, si procede a ritroso verso le origini di questa seconda ondata di musicisti: in quel periodo cruciale fra XX e XXI secolo, quando il rap italiano sembrava finito come una qualsiasi moda e invece, come nella leggenda della Fenice, rinasce dalle proprie ceneri. Accanto alla cronaca di questi anni, 100 schede dei migliori brani del Nuovo Rap Italiano, e quattro interviste ad alcuni protagonisti – Dargen D’Amico, Don Joe dei Club Dogo, Baby K e Ghemon – oltre a una galleria di ritratti fotografici realizzati da Andrea Laudisa, completano il volume. Venti scatti dei ritratti sono esposti nel reportage fotografico Italian Rap Anthology, allestito presso le sale del Cineporto di Lecce, per la sezione indoor di BITUME PHOTOFEST (in scena a Lecce, dal 12 al 27 settmbre). Il primo festival urbano di fotografia del Sud Italia ha invaso, letteralmente, la città con 13 fotografie di grande formato appese a balconi e palazzi pubblici e privati del centro storico (Grand Tour) e oltre 30 progetti fotografici (Fab 30), sparsi per altrettanti esercizi commerciali (le mappe complete dei percorsi espositivi, Grand Tour e Fab 30, sono consultabili online al sito bitumephotofest.org o con un’app facilmente scaricabile). *** Alla presentazione di “Nuovo Rap Italiano”, che include l’ascolto ragionato di alcuni brani rap selezionati, saranno presenti l’autore Luca Bandirali e Andrea Laudisa. Con loro abbiamo conversato sui temi della mostra...
come fatto musicale. È una passione che coltivo fin dall'adolescenza, dunque per ragioni anagrafiche ho vissuto in diretta, negli anni del liceo, lo sviluppo della scena rap in Italia. Il libro "Nuovo Rap Italiano" però non ha niente a che fare con questo. È un testo che nasce da una commissione: il curatore di una delle collane musicali di Stampa Alternativa, il prof. Gianfranco Salvatore, mi ha chiesto, a seguito di lunghe conversazioni sull'argomento, un lavoro sul nuovo corso del rap italiano, e io ho risposto positivamente a questo stimolo”. Com’è stata affrontata la ricerca che porta alla nascita di questo volume? “Ho condotto questa ricerca sulla base di una cronologia dei fatti, quindi su uno studio dei documenti; e, al tempo stesso, su una suddivisione di temi. I capitoli del libro sono incentrati dunque su periodi e temi. Ogni capitolo si conclude poi con una serie di ascolti, perché vorrei che il testo rimanesse fortemente agganciato al suo oggetto, la musica”. Cosa ti ha trasmesso il rap e i rapper che hai conosciuto nel tuo percorso? “Non ho conosciuto, né conosco personalmente un gran numero di artisti del rap, non frequento la cosiddetta 'scena', né mi interesserebbe farlo, il mio territorio è all'intersezione fra i cultural studies e la storiografia della popular music, non certo il giornalismo musicale. Detto ciò, ho trovato particolarmente stimolante il confronto con un produttore storico come Don Joe. Il rap è un'area culturale frequentata da grandissimi artisti, fra i più significativi della nostra epoca: al primo posto c'è Fabri Fibra, un autore che in altri paesi verrebbe studiato con la deferenza che si deve a un grande maestro”.