spagine della domenica n°45 - 28 settembre 2014 - anno 2 n.0
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri
Carlo Michele Schirinzi, Ballata naufraga (particolare)
Diario politico
L’abolizione, un inutile regresso spagine
di Gigi Montonato
I
diciottisti una volta erano nel gergo universitario quegli studenti che si accontentavano del 18, il voto minimo per superare un esame, pur di passare da Italiano uno a Italiano due; da Analisi uno ad Analisi due e giungere quanto prima alla laurea. Poi sapeva Dio a chi dare i guai! In verità i diciottisti erano pochi; la gran parte degli studenti consideravano il 18 un’onta e lo rifiutavano. Ma quelli di stomaco tosto c’erano, c’erano! Oggi i diciottisti sono i difensori dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300 del 20 maggio 1970), quello che obbliga il datore di lavoro al reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa. Questa norma appare anche ad un orbo mentale essere una sacrosanta e irrinunciabile conquista a tutela della libertà e della dignità del lavoratore. Libertà, perché il lavoratore deve essere libero di votare partito comunista anche se il suo datore di lavoro è fascista e direttamente interessato alle votazioni; e viceversa. Ovvio, ho estremizzato per rendere più chiara l’importanza della norma. La dignità, perché il lavoratore, licenziato senza giusta causa, riceve un’offesa universalmente inaccettabile. Ma, poiché non si vive nell’Iperuranio ipotizzato da Platone, in tempi di sindacatocrazia e sinistrocrazia – e ci sono stati, oh se ci sono stati! – un giudice poteva far passare senza giusta causa un licenziamento più che legittimo e supermotivato. Non stiamo qui ad elencare tutte le possibili situazioni. I tempi e i luoghi – si sa – dettano legge oltre la legge. Sappiamo che i datori di lavoro prepotenti ci sono sempre stati e ci sono; ma sappiamo anche che i giudici di sinistra, cosiddetti democratici, non ci sono sempre stati, ma sono giunti a partire dalla fine degli anni Sessanta, in così forte numero da configurare una sorta di invasione. Sicché in forza dell’art. 18 un imprenditore non poteva praticamente licenziare mai, neppure se l’azienda era in crisi e occorreva ridurre il numero dei dipendenti, rischio fallimento. Neppure se un lavoratore era stato colto nel mentre boicottava l’azienda. Questo spiega perché gli imprenditori e la parte sociale e politica che li rappresenta se la siano presa tanto con l’art. 18. A maggior ragione quest’articolo è stato colpevolizzato da cinque anni in qua per la nota crisi economica e finanziaria che si è abbattuta sull’Italia. Già nel 2012, col governo Monti e con la riforma del lavoro del Ministro Fornero, l’art. 18 è stato modificato in maniera non banale perché al posto del reintegro del lavoratore, ove licenziato senza giusta causa, sono state previste delle opzioni risarcitorie, a seconda dei casi. Insomma, invece del reintegro, soldi per un certo numero di mensilità, fino a ventiquattro. L’indennizzo al posto del reintegro già lo prevedeva il punto XVII della Carta del Lavoro del 1927 previa conciliazione tra le parti. Figurarsi che passo…avanti! Pare – non se ne discuterebbe tanto altrimenti! – che la riforma Fornero
non abbia sortito gli effetti sperati e che l’art. 18, come un killer imprendibile, una sorta di primula rossa, continui a mietere vittime nel mondo dell’imprenditoria. Così il governo Renzi, che è dipendente dal centrodestra come un rimorchio dalla motrice, col cosiddetto Jobs act – non si capisce più un cazzo, in quest’Italia che ha rinunciato perfino alla sua lingua! – vuole addirittura abolirlo. Basta con gli abusi da una parte e dall’altra: gli imprenditori più liberi di licenziare; i giudici non più liberi di reintegrare. Contro l’ipotesi abolizione si sono scagliati i difensori, una cospicua parte, diciamo la sinistra, del Partito democratico; e ovviamente i sindacati, specialmente la Cgil, che oggi ha in Landini, segretario della Fiom, più che nella Camusso, segretario generale, il portabandiera più agguerrito. In Italia, come sempre, è sorta la nuova contrapposizione: diciottisti-antidiciottisti. I difensori del governo Renzi, che a volte diventano più renziani di lui, per delegittimare le ragioni dell’opposizione interna, lanciano l’accusa di strumentalizzazione: voi siete contrari non all’abolizione dell’art. 18 ma al rinnovamento dell’Italia e sperate di giungere ad una resa dei conti con chi invece è più che intenzionato a cambiarla quest’Italia. Simile modo di confrontarsi è incivile oltre che impolitico; ma tant’è, ormai in Italia è cavalleria rusticana. Se n’è accorto perfino Ferruccio de’ Bortoli, direttore del “Corriere della Sera” (editoriale del 24 settembre). Vero è che nel Pd nessuno spera in una conta, che sortirebbe solo l’effetto di rendere meno vivibile una convivenza che resta innaturale – ex democristiani ed ex comunisti hanno in comune solo la particella ex – e dunque le ragioni della sinistra dem appaiono oneste. L’art. 18 è qualcosa che va ben oltre l’ideologia, pur scomodata da chi lo vuole abolire, è una conquista irrinunciabile. Che poi, sul piano dell’applicazione, possa avere delle storture o delle forzature, non giustifica la sua abolizione. Quando mai si abolisce una legge per l’incapacità di applicarla correttamente? Invece di rispondere, menando il can per l’aia, chi pensa di risolvere il problema della crisi del lavoro, dell’occupazione e della crescita abolendo una norma di civiltà e minacciando gli avversari, farebbe bene a crearlo il lavoro. Ove, infatti, di lavoro ce ne fosse a sufficienza chi starebbe a battersi per una norma che sul piano pratico non avrebbe più importanza? Il problema vero è che questo governo, come quelli precedenti, è incapace di fare una politica di diminuzione delle tasse, di accesso al credito, di investimenti, di abbattimento delle pastoie burocratiche, di accorciamento dei contenziosi giudiziari, di tempestivo pagamento dei debiti da parte delle pubbliche amministrazioni. Incapace di creare lavoro, il governo se la prende con una norma, che, a questo punto, c’è o non c’è, conta poco. Se scarseggia la materia del contendere, ossia il lavoro, abolire l’art. 18, è uno sfregio all’idea stessa di progresso, è un precipitare all’indietro di quasi un secolo. E per che cosa? Per nulla!
Belli per un giorno?
“
di Gianni Ferraris
Popoliamo le strade, mangiamo in strada, portiamo fuori dalle case tavoli e seggiole… condividiamo con la giuria lo spazio democratico della città… facciamone la giornata dell’utopia…” Questo è l’invito del sindaco e del comitato organizzatore per il 6 ottobre prossimo venturo, quando la giuria che dovrà decidere sulla Capitale della Cultura Europea da scegliere per il 2019 visiterà Lecce. Facciamo il tifo perché Lecce si aggiudichi questo compito, auspichiamocelo, anche se il blindatissimo bild book lo conoscono in tre o quattro solamente ci sarà tempo per discuterne e magari condividerlo. La nota stonata sta invece nell’utopia. Perché deve essere utopia vedere vissuta la città? Quel giorno saranno finiti i lavori di ripulitura, come quando nelle case ci si prepara a festeggiare un matrimonio, i muri saranno finalmente liberi da quelle scritte fatte da quattro imbecilli che si vestono da Marcos, giocano a fare la rivoluzione e cacciano fuori le armi, lo spray nero, per scrivere idiozie su muri antichi. Gli stessi rivoluzionari che quando incontrano due avversari e se la fanno sotto. Ma tant’è, finalmente quelle scritte saranno eliminate. Una domanda solamente: tenere pulita la città non dovrebbe (il condizionale si impone) essere pratica quotidiana? Il 6 ottobre si trasformerà allora nel giorno dell’utopia, addirittura non ci saranno auto nel centro storico, tutto sarà ovattato, ovunque si canterà e si ballerà, spettacoli e probabilmente il meglio delle arti e dell’artigianato presentati dignitosamente (le pagodine di plastica bianca a sant’Oronzo non ci saranno, quelle le metteremo per il popolino). Il problema è cosa succederà il 7 ottobre. I tavoli e le seggiole dovranno essere rimossi entro la mezzanotte del sei per lasciar posto alle auto a Piazza Sant’Oronzo? Il traffico riprenderà il suo flusso naturale nel centro storico imbottito di parcheggi in ogni piazzetta? I turisti torneranno ad essere costretti ad uno slalom poco dignitoso fra le le auto per vedere una chiesa o un museo? Le biciclette dovranno guardarsi dal traffico quotidiano? Sarebbe stupendo veramente se la richiesta fosse stata “portate fuori tavoli e seggiole, vivete le strade e le piazze perché DAL 6 ottobre Lecce sarà così” invece DAL non c’è, al suo posto un misero IL e la dichiarazione che si tratta solo di utopia. Che bello sarebbe il sapere che esiste un piano traffico sostenibile, e sapere che nel centro storico non ci si passerà più con auto e moto. Che bello arrivare in Piazza Castromediano senza dover passare nei parcheggi che servono a noti cinque stelle, passare dal Corso a Piazza Sant’Oronzo senza il pericolo di venire arrotati. Che bello sarebbe poter lasciar liberi i bimbi di giocare. Utopia… forse solo quello. Però il sei sarà così (almeno, speriamo).
Lecce 2019
La torre inutile
della domenica n°45 - 28 settembre 2014 - anno 2 n.0
É
di Fabio A. Grasso
stata presentata sui quotidiani locali la nuova torre per Lecce 2019, sorgerà inprossimità della costa e sarà alta 40 metri in legno e metallo, costerà cinque milioni e 746mila euro. Si ispira alla focàra di Novoli, dicono i progettisti, ma solo perché, aggiungiamo, non hanno visto evidentemente un pescatore costruire una nassa. Basterebbe andare a Gallipoli o a Otranto per rendersene conto. Nassa o focàra che sia possiamo dire che il legame con la tradizione formale del territorio è assicurato? Assolutamente no, sembra di essere in presenza, al contrario, di una curiosa fiera delle vanità. La torre nascerebbe per guardare lontano. Per vedere cioè quale orizzonte? Quale orizzonte particolare si vede da un'altezza proprio di 40 metri? Cosa ha questo orizzonte (visibile dai 40 m.) in più di quello che si vede (o vedeva) da una torre cinquecentesca di avvistamento molto più bassa? Meglio sarebbe stato investire tutto il denaro impiegato per la costruzione di questa torre in un sicuramente più utile parco che sottolinei la dominante e caratteristica dimensione orizzontale di questo nostro territorio. I simboli non sono solo verticali, c'è bisogno di dirlo? Evidentemente sì. L'agganciarsi alla Storia architettonica, alla tradizione di un luogo è utile ma in alcuni casi, servendo solo a giustificare spese, di fatto mette in scena quel curioso spettacolo, molto chic, che è il suo abuso ovvero il citare il passato attraverso una sorta di mordi e fuggi, roba da fast-food insomma. Questo della torre non è un evento isolato, esso infatti fa i paio architettonico, a dire il vero, a un altro intervento pure “architectonical chic and choc” recentemente realizzato a porta Rudiae (lo stesso è stato spostato oggi a piazza sant'Oronzo, tanto un luogo urbano vale esattamente quanto un altro) dove sono stati collocati in terra blocchi di pietra leccese alti circa 30 cm che, in parte colorati, sono stati salutati su qualche social forum come elementi di una “...nuova installazione che è al servizio della città e dei cittadini come spazio per il dialogo e il ristoro”. Chiariamo subito che un sedile alto solo 30 cm è scomodo (per un anziano ad esempio) e scomodo e pericoloso è anche mettere questi blocchi vicini, troppo vicini (così come è stato fatto) gli uni agli altri perché è facile che qualcuno, un bambino in particolare, inciampi. Per quanto riguarda la grandiosa torre “Lecce 2019”, infine, vengono due domande tanto semplici quanto spontanee: prima di arrivare alla progettazione, dato il paesaggio e soprattutto la sua vicinanza ad una torre più antica, è stato sentito il parere della Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici di Lecce? E poi, last but not least, perché a Lecce non ci si comporta come in un qualunque paese europeo normale? Perché non è stato bandito un concorso internazionale per la progettazione di questa torre? A far tutto da soli si finisce con il commettere errori. Lecce ha bisogno di molteplicità è questo che la renderà più europea e forse più grande simbolicamente della stessa torre che vorrebbe costruire come suo simbolo. http://quotidianodipuglia.it/lecce/lecce_capitale_della_cultura_2019_torre/notizie/923905.shtml
spagine
I
Contemporanea
della domenica n°45 - 28 settembre 2014 - anno 2 n.0
La forma famiglia n questa contemporaneità che non riconosce, che sovente rinchiude e ghettizza, abbiamo il dovere di allargare le consuete maglie, di respirare aria nuova, di prospettare inedite possibilità a vantaggio di tutta la cittadinanza. Da vari indicatori emerge che accanto alla famiglia tradizionale, canonicamente riconosciuta, esistono anche altre forme di famiglia, uomini e donne che conducono una vita ordinaria e che attendono di essere legalmente tutelati. L’Italia è drammaticamente fanalino di coda in Europa per quanto concerne la pianificazione dei diritti civili. Chissà, forse nel “programma dei mille giorni” del premier Renzi ci sarà un piccolo spazietto dedicato alle coppie omosessuali. Di certo, da sempre, il nostro Paese paga retaggi antichi, vecchie incomprensioni, contese ideologiche d’una classe parlamentare litigiosa. Forse, dovremmo partire da una serena considerazione. Nessuno vuole mettere in crisi la sacralità della famiglia naturale fra un uomo e una donna: lo scopo prioritario, semmai, è solo quello di proteggere con dovute normative la comunità Lgbt. In questi ultimi anni, diversi consigli comunali, con Torino e Milano in testa, hanno approvato il registro delle unioni civili. È evidente che, in Italia, ci sia una frattura netta fra il Paese reale e la classe politica parlamentare, che ancora non si decide a legalizzare le coppie di fatto. In particolare, qualche anno fa, a Torino, i Radicali con un apprezzabile atteggiamento hanno coinvolto i cittadini, i quali si sono fatti sentire con le loro firme, portando ad una delibera di iniziativa popolare. L’obiettivo dei registri, ovviamente, non è quello di omologare le unioni civili al matrimonio canonico, depotenziandolo della sua intrinseca connotazione. Il proposito è quello di assicurare pari diritti, stesse possibilità, ai conviventi. Garantire comunque alle coppie (eterosessuali e omosessuali) l’accesso ai servizi sociali, sanitari, educativi, ai benefici relativi alla casa. Ancora oggi, le anime belle della politica (i Gasparri, le Binetti, i Giovanardi, le Roccella, i Sacconi) definiscono i registri come una “presa in giro” e come una “farsa giuridica”. In realtà, è incomprensibile, ingiustificato, il comportamento di chi vuole lasciare migliaia e migliaia di famiglie (eterosessuali e omosessuali) senza alcuna tutela: è questo un grave vulnus giuridico che andrebbe sanato. L’intervento di certe amministrazioni virtuose non è solo simbolico: è anche marcatamente politico, perché apre di fatto la strada a più specifici intendimenti. A proposito di diritti, a settembre dello scorso anno, la Camera ha approvato il disegno di legge contro l’omofobia, che però giace da allora nelle secche del Senato. Il deputato del Pd Ivan Scalfarotto è stato molto attivo nella proposta di legge e, da sempre, denuncia sulla “questione gay” il “silenzio spaventoso delle persone oneste”. Di tanto in tanto, la cronaca dei giornali impietosamente fa rimbalzare notizie d’una ferinità raccapricciante: giovani fidanzati gay che passeggiano tenendosi teneramente per mano, i quali vengono insultati fra l’indifferenza generale; ragazzi omosessuali vestiti con abiti attillati pestati
di Marcello Buttazzo
da gruppi di giovinastri. Il branco è rozzo, violento, non rispetta la diversità. Il branco non conosce la tolleranza e le regole basilari della civile convivenza. Ma in questa società contraddittoria e paradossale, come al solito, si sbaglia atteggiamento. Come può scandalizzare il “diverso” in questa triste civiltà, in cui il vero oltraggio all’umano sentire è la tendenza omologante verso l’appiattimento, la corsa dissennata ad apparire tutti eguali, a vestire tutti allo stesso modo, a desiderare tutti le stesse “meravigliose”cose? L’omosessualità, la transessualità, l’eterosessualità dovrebbero essere solo dettagli, varianti di vite umane, che contribuiscono a definire un tutto, ma non sono il tutto. Una cosa però è certa: non è possibile, non è ammissibile, che gay, lesbiche, trans, vengano quotidianamente disconosciuti, vilipesi, osteggiati, vigliaccamente presi a botte. La politica, che ha una funzione primaria di regolazione e di disciplina, deve a questo punto intervenire risolutamente, approvando una rigorosa normativa contro l’omofobia. C’è chi, purtroppo, è contrario ad una legge generale contro l’omofobia, perché “sarebbe una legge ideologica, con terribili contraddizioni da un punto di vista culturale”. L’unica regressione, però, è la sottocultura figlia della discriminazione, cioè il volgare differenzialismo di chi divide le persone in bianche e nere, in omosessuali ed eterosessuali.
Chi esprime, agisce odio eviolenza contro i cittadini deve essere duramente sanzionato. È necessario schierarsi contro la triste “omofobia degli onesti” e contro quella dei superficiali. Censurabile è, soprattutto, l’omofobia di chi ricorre ad un lessico povero per emarginare la gente, per bollare le coscienze: nell’ingiuria e nell’arbitrio semantico c’è la cifra più avvilente della discriminazione. Solo qualche sprovveduto può asserire, ancora oggi, che l’omosessualità debba essere intesa come una “devianza dalla norma”, come una “espressione di costumi sessuali disordinati”. Una società rispettosa e assennata dovrebbe cominciare a comprendere meglio se stessa, ad avere più cura delle sue individualità. Una società moderna e liberale dovrebbe cominciare a emarginare i discriminatori: chi fa differenze fra gli esseri umani vale il nostro disprezzo. Le strette securitarie sono indispensabili ma non sufficienti per assicurare maggiore giustizia. La vera rivoluzione deve essere culturale. La famiglia, la scuola, levarie agenzie educative dovrebbero diffondere i germogli della comprensione, dell’amore, del rispetto dell’alterità. Si è uomini di questo mondo se si riesce a dialogare razionalmente e umanamente con il proprio sé, se si veicola un appropriato messaggio all’interlocutore, se pazientemente si ascolta ciò che viene dall’altro da sé.
Letture
spagine
della domenica n°45 - 28 settembre 2014 - anno 2 n.0
I racconti salentini di Rocco Boccadamo per Capone Editore
C
Come un cantastorie osì ho deciso; ritorno a Marittima ché mi è rimasto nell’anima il sapore forte d’un caffè, quello che Rocco Boccadamo m’ha offerto mentre sfogliavo già “Compare, mi vendi una scarpa?” raccolta di luoghi, vicende e volti d’un “cantastorie salentino” fresco fresco di stampa per Capone Editore, offertomi in dono da Rocco, accanto a tazzina di caffè, nella piazza di Marittima. Sto qui ma è un’altra la Marittima che oggi osservo; c’è il lento passaggio di un gregge e c’è la voce del pastore e d’un tratto anche il rintocco della campana di S. Giuseppe; c’è la Campurra e son sicura che se volto strada, li ritrovo i miei artigiani del cuore. Questo è il mistero-miracolo della scrittura che entra dentro, come un sorso di caffè e la dolcezza del ricordo che è immagine e visione, mai triste ma ironica e serena. Tanto si sa che è il presente a regnare ed è lui ad abbracciarci, oggi; il futuro incalza ed è voce d’acqua di fontana che mi riporta alla realtà e mi fa piacere che esista, che abbiano pensato allo scroscio dell’acqua quando s’è deciso di sacrificare cappella. Avrà perdonato S. Giuseppe. Il “cantastorie” come Rocco sceglie di chiamarsi in questo momento del suo lavoro impareggiabile, il cantastorie racconta e il racconto diventa parte di me che rivivo vicende e rileggo i luoghi e riaccarezzo i volti; m’è compagno di viaggio il racconto e so già che dal momento in cui lettura mi assorbe, tutto avrà gusto diverso e ritornerò sui luoghi per accertarmi che almeno una bri-
di Giuliana Coppola
ciola rimanga, che non siano state cancellate radici; da loro si rinasce e si ricomincia. Rocco Boccadamo questo riesce a fare; guida i passi del lettore, un po’ come fa con il suo nipotino Andrea in “Note di diario da Marittima” e mentre il ricordo assale, il presente incalza e le immagini dei volti di generazioni diverse stabiliscono “un magnifico collegamento, un bel segno di continuità fra le realtà di ieri, il presente e il tempo a venire”. Così mi ritrovo a ripetere la filastrocca che sotto la cappa del mio compare c’era un vecchio che sapeva suonare e intanto raccolgo carrube che continuano ad esistere e mi perdo nell’infinito del mare e del cielo che s’abbracciano a Torre Lupo, a Castro “mio grande amore”, all’Acquaviva “un luogo dell’anima”; seguo i passi di Rocco e mi convinco sempre di più che onore e merito va a tutti coloro che, come Rocco sottolinea, sanno innestare a tradizione antica “un virgulto vitale e interessante per l’attenzione dell’utenza del terzo millennio”. Scelta coraggiosa di “Compare, mi vendi una scarpa?” che già nel titolo è tutto una sorpresa, un segreto da non rivelare; non solo s’abbracciano in questa nostra terra e nelle pagine che sfoglio, terra e cielo, ma anche passato e futuro a proteggere e coccolare presente; i cantastorie questo l’hanno capito bene; Rocco lo ha rivelato; egli ricorda e procede a vela sciolta con vento in poppa su barchetta-scrittura che ci accoglie come suoi ospiti-lettori ed è così allegra e scanzonata e giovane la traversata. Grazie, Rocco, e al prossimo viaggio!
L
spagine
’utopia anarchica nasce alle origini delle confuse e plurime istanze di liberazione e di emancipazione dall’assolutismo delle monarchie autoritarie e dal maturare delle guerre imperialiste, e assieme alleprimeconfigurazioni del potere “produttivo”, e non soltanto repressivo, della borghesia come classe generale e del capitalismo come generalizzazione del sistema di produzione e circolazione. L’utopia socialista e quella comunista prenderanno presto il sopravvento e già a partire da Karl Marx e Friedrich Engels innerveranno la teoria politica del movimento operaio post-tradeunionista, il movimento politico del lavoro, come lo chiamava Hannah Arendt. “Dalle rivoluzioni del 1848 alla rivoluzione ungherese del 1956, la classe operaia europea, la sola organizzata e quindi la frazione dirigente del popolo, ha scritto uno dei più gloriosi e probabilmente dei più promettenti capitoli della recente storia”, scriveva la Arendt in Vita activa, del 1958, e già allora vedeva prossimo a finire il ruolo politico e rivoluzionario del movimento del lavoro (ma non di quello sindacale né di quello di altri movimenti collettivi). Una storia tragica e assieme grandiosa di più di un secolo, che va dalla I alla III Internazionale e oltre, che si esaurisce quando la classe operaia non può più essere la classe “generale” e quando il movimento operaio “si fa Stato”, quando il socialismo diventa “reale”, quando il comunismo storico da utopia diventa regime politico nell’ex “campo socialista” e più avanti in Cina. Non deve meravigliare, allora, che l’elaborazione luttuosa della fine del movimento operaio internazionale occupi tanti decenni, né che la crisi dei marxismi lasci riaffiorare vecchie correnti minoritarie ed eretiche piuttosto che la presenza forte e immediata di un nuovo pensiero post-marxista di liberazione e transizione. Marx, in una polemica politica con i marxisti belgi, avrebbe detto: «Tutto quello che so è che non sono un marxista», ed era ben titolato a poterlo dire, da teorico originario e da leader internazionale del primo movimento operaio. L’utopia anarchica è sin dall’inizio un insieme di nobiltà, ingenuità, aporie, pratiche libertarie, oscillanti tra non violenza ed esaltazione salvifica dell’uso del gesto violento, spesso individuale. Nel secolo delle guerre e delle rivoluzioni, nel Novecento, mai ebbe luogo una rivoluzione anarchica, e quel pensiero può al massimo riguardare una piccola comunità autogestita, mai un corpo sociale o una formazione statale nazionale. Michel Foucault, che ironicamente si definiva un anarchico di sinistra, che tanto ha dato e dà ancora da pensare, ha prodotto un pensiero sul potere niente affatto rozzo, dal biopotere ai micropoteri. Foucalut si entusiasmò per la “rivoluzione khomeinista” che ebbe esiti niente affatto libertari, segno che sui macropoteri non ci indovinava poi troppo. Da Pierre-Joseph Proudhon a Michail Bakunin, da Wlliam Godwin a Petr Kropotkin e Errico Malatesta, da Max Stirner a Ernest Jünger, si va dal socialismo libertario utopistico all’anarco - individualismo, dall’anarco - comunismo all’anarco - sindacalismo, dall’insurrezionalismo a versioni propriamente di destra. Non si coglie quasi mai nel pensiero anarchico una critica dell’economia politica, al massimo un anticapitalismo esistenzialistico o morale, così come è presente persino un anarco - capitalismo nel versante ameri-
cano. Nessuna delle eresie del movimento operaio, dallo stesso anarchismo al trotskismo, sino al bordighismo, rappresentò mai un’alternativa possibile reale nel proprio orizzonte storico, senza con ciò inoltrarsi nelle aporie filosofiche, storicistiche e politiche, dello stesso Marx, di Lenin e molto oltre. La fine del movimento operaio come movimento politico internazionale resta ancora da elaborare a lungo, ma la sinistra non è un “cane morto”, è presente nella società, nelle culture, nei movimenti collettivi. Altra storia e travagliata è quella della sinistra nella sua forma politica. L’“altro mondo possibile”, vagheggiato dai movimenti altermondialisti, ha significato riaffacciare la necessità di un’orizzonte globale di cambiamento non semplificabile in un –ismo, né riconducibile alle ideologie storiche. Una democratizzazione radicale globale con elementi seri di socialismo e ambientalismo rappresenterebbero giàuna controtendenza al dogma neoliberista e al clima da stato d’eccezione permanente che produce post - democrazia e guerra civile globale endemica. Quello che ama autodefinirsi come l’“originale operaismo italiano” ha rappresentato un’aporia del post-marxismo, una delle tante a livello europeo. Neo e post autonomi sono entrati spesso in competizione, conflitto, alleanze episodiche con istanze anarchiche organizzate. L’autonomia sociale, che è già molto meglio dell’autonomia del politico, va rispettata nella sua realtà di movimento collettivo così come nelle occupazioni sociali che da decenni si misurano sulle pratiche, indipendentemente dai relativi riferimenti teorici più o meno plurali, in un melting plot spesso produttivo. Rimarcare ossessivamente la necessità dell’antagonismo politico, quando è già difficile l’agonismo e la competizione, è puro sfogo di parole, oltre che linguaggio propriamente e inutilmente guerresco. Senza il rinnovamento dei linguaggi e delle categorie interpretative si reagiscesolo con la regressione alle difficoltà storiche del momento. Se poi ci si rinserra in maniera settaria in quelle che Freud chiamava “formazioni reattive” si va oltre le resistenze reattive nevrotiche e le regressioni da difficoltà o da scacco politico-esistenziale. La formazione reattiva implica che l’individuo debba difendere con le unghie una sua costruzione nevrotica compensativa ed auto-giustificativa. La cosa funziona così anche collettivamente. Alcuni circoli anarchici, distinti e distanti da una tradizione libertaria e riflessiva storica tutt’ora presente, tendono a rinchiudersi in un universo paranoide e autistico da cui vedono incombere un tutto unico fatto di potere, istituzione, oppressione e repressione. Tendono ad avere un atteggiamento strumentale rispetto ai movimenti collettivi reali, ad esprimersi spesso in “azioni parallele” in piena scelta soggettiva. Spesso non solo non sono dialoganti, ma si manifestano come insultanti, con linguaggi che attingono a stilemi da teppa sottoproletaria. Tendono a darsi un’identità mitica in una immaginaria storia parallela del movimento operaio e del Novecento, delle lotte e delle repressioni delle stesse. Amano rappresentare il gesto improntato all’estetica del conflitto. Tutto sommato potrebbero rappresentare un esito post-moderno del nichilismo reattivo, in un contesto situazionale già segnato pesantemente dal populismo e dal nichilismo politico.
Pensiero
della domenica n째45 - 28 settembre 2014 - anno 2 n.0
Anarchia
non vuol dire bombe
di Silverio Tomeo
spagine
Accade in città
della domenica n°45 - 28 settembre 2014 - anno 2 n.0
Il Teatro di Ateneo trova casa nell’ex-segreteria del Principe Umberto
Le vie della vita Luoghi, teatro, ju jitsu
S
iamo tornati al punto iniziale, esattamente dove eravamo dieci anni fa, quando abbiamo aperto le porte di e a quello spazio che oggi è ritornato al suo punto iniziale, forse con qualche gabiotto e saldatrice in meno ma fermo, statico e
scarico come un tempo… ma questa ormai è già storia vecchia per tutti. Noi rinasciamo, ripartendo da zero, dall’inizio, almeno per il luogo. Ci ri-carichiamo il peso della storia rinchiusa in quattro mura e rinasciamo con esse. Ci troviamo così in una storia di passaggi lenti, di discussioni, di attese, di documenti, di percorsi di vita. L’ex segreteria degli studenti situata nello stabile del Principe Umberto, sede dell’Università del Salento. La vita di questo luogo fu interrotta nel 2009, quando, a causa di un cortocircuito, un grosso incendio divampò nell’aria retrostante il Principe Umberto; l’ex segreteria è uno dei luoghi che venne coinvolto, se pur in minor parte. Milioni di carte, avvisi appesi in bacheca, annunci di affitti, libri in sconto, interruzioni, fiamme, archivi, chiusura, questo rappresenta il luogo di cui vi stiamo parlando. Per noi e per chi pian piano inizia ad incuriosirsi, sta diventando come un dojo giapponese. Un luogo cioè, in cui si segue la via. Dallo scorso agosto, la compagnia teatrale “Teatro di Ateneo” si è stabilita proprio qui, facendosi spazio tra le insidie delle fiamme e della burocrazia. Jō (場) dō (道), letteralmente: luogo dove si segue la via. Nella tradizione giapponese si intraprende la via del Budō, la via (武) marziale (道), che al tempo stesso può significare “percorrere una via verso la guerra” o che “conduce alla pace”, fino a “cessare una guerra attraverso il disarmo”. Un ideogramma giapponese può voler dire molte cose, seppur con sottili differenze, ancor di più in questo caso dove Bu (道) è composto a sua volta da due altri ideogrammi, che vogliono voler dire “lancia” e “fermare”. Quindi, Bu (武), nella lingua e nello spirito della tradizione giapponese, significa letteralmente “fermare, arrestare, lasciare le lance”. Mentre l’ideogrammadō (道) vuol dire “ciò che conduce” visto come “percorso”, “via”, “cammino”, non in senso fisico ma piuttosto etico e morale. Il significato del termine Bu quindi, implica quello di “abbandono delle armi” e quindi di “disarmo” e non di “guerra”. Noi abbiamo deciso di intraprendere la via della vita, intrecciandola con la viamarziale giapponese. Teatro e Ju
jitsu, due pratiche che si intersecano dalle origini. I primi sensei (maestro) praticarono le prime tecniche proprio in un teatro. Qui non si parla certo di un teatro vero e proprio con loggioni, prime file, palchetti e quant’altro, anzi, l’ex segreteria somiglia per lo più, proprio ad un vero e proprio dojo giapponese. Un atrio esterno dove poter fare meditazione ed alternare gli esercizi tra luogo chiuso e aperto. Un porta trasparente come ingresso, aperta all’esterno, una sala vuota e verde intorno. Somiglia veramente poco ad un teatro, ma per fare teatro un dojo è perfetto. Masajūrō Shiokawa, Presidente della Fondazione Nippon Budōkan dice: «Le arti marziali giapponesi sono state tramandate fino ad oggi mantenendo inalterata la loro caratteristica principale, che risiede nel fine ultimo di far progredire lo spirito, attraverso il rafforzamento fisico del corpo e l’apprendimento della tecnica. Di conseguenza, l’approccio con l’avversario deve essere dettato non da ostilità, ma piuttosto da un senso di rispetto e di gratitudine: a conclusione di un combattimento in cui ognuno ha dato prova delle proprie capacità senza risparmiarsi, nasce spontaneo il desiderio di un ringraziamento che riconosca all’avversario tutto il suo valore. Ecco dunque che, infine, si può aspiarare alla costruzione di una società pacifica in cui valorizzare se stessi e gli altri». E cosa è il teatro se non un rafforzamento, un allenamento del corpo rapportato alle sue sfaccettature e allo svuotamento della mente. La voce ondula con il corpo, da ogni suo movimento fuoriesce un carattere, un sibilo, una tecnica. è il movimento del corpo stesso che indica la via all’attore, come nello Ju Jitsu dove l’allenamento, la concentrazione e la meditazione portano alla via marziale, ad intraprendere un percorso. Nascono in questo modo i due percorsi della compagnia “Teatro di Ateneo”: il teatro e lo Ju jitsu, nello stesso luogo, nello stesso teatro, nello stesso dojo. L’istruttore di Ju Jitsu Guglielmo Scozzi, presente nel mondo delle arti marziali dal 1984, ha spesso mescolato il teatro e l’arte marziale, concentrandosi sul training fisico, fondamentale per intraprendere i due percorsi, per riprendere il controllo del proprio corpo ed arrivare a capire le proprie potenzialità ed i propri limiti. Per informazioni sui corsi: 338/2433222 teatrodiateneo@unisalento.it, fb: Unisalento Teatro di Ateneo
Musica
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La musica “cuore” di Mirko Signorile
M
di Alessandra Margiotta
irko Signorile è un pianista pugliese. In attivo ha ben quattro album, l’ultimo ‘Magnolia’, e molteplici collaborazione. In questa intervista parla della sua passione musicale e dei suoi progetti. Il tuo percorso artistico nasce da una formazione classica ma nel tempo si è evoluta verso altri stili. Come è avvenuta questa tua evoluzione? Ho iniziato a studiare la musica classica all’età di 6 anni portando a compimento gli studi accademici a 21 anni, quando mi sono diplomato in pianoforte. Ma all’inizio il mio interesse era soltanto di tipo tecnico. Una specie di palestra dove allenarmi. Ciò che ascoltavo e che mi emozionava di più era la musica pop; fino a quando, grazie ad una cassetta di Pat Metheny che mi fu regalata dal mio insegnante di solfeggio di allora, ho scoperto il jazz, dapprima nella sua forma più moderna e contemporanea come la fusion; poi, attraverso un percorso a ritroso, nella sua forma più tradizionale. Il jazz è stato un colpo di fulmine, una di quelle cose che cambia la vita e indirizza i desideri. La musica che suono e ricerco è fatta di tutte le mie esperienze passate, gli amori che fanno girar la testa, ma anche di quello che ho in testa oggi e che rappresenta la mia personale visione del mondo. Mi sono evoluto in un modo naturale e direi, guardandomi indietro, guidato dalla curiosità.
ai magici mondi musicali dei bambini. Ma ci sono anche pezzi rock e richiami all’Africa. Quello che volevo esprimere è evidente nella foto di copertina: una bambina che cammina con una scarpa coi tacchi rossi, cioè l’incontro tra l’uomo Mirko delle passioni e il piccolo Mirko che vuole vivere ogni giorno come se fosse tutto da scoprire, esattamente come un bambino. E poi la novità è anche nell’ingresso nella band di Giovanna Buccarella al violoncello, che in qualche modo sottolinea la parte più romantica dell’intero album.
Hai collaborato con diversi artisti internazionali. Quale collaborazione ti ha lasciato maggiormente soddisfatto? Tutte le collaborazione mi hanno fatto crescere. Ricordo l’energia di Dave Liebman, la capacità di fare assoli lunghissimi riuscendo a tenere sempre alta la tensione. Dave Binney mi colpì per il suo linguaggio moderno e per la semplicità della sua persona. Ricordo anche Paolo Fresu la prima volta che ho suonato con lui: la sua capacità di trarre fuori il meglio da ogni musicista. Ognuno di loro mi ha dato qualcosa e spesso, oltre a idee musicali, anche consigli su come gestire la carriera; penso alle chiacchierate al tavolo alla fine di un concerto con Greg Osby avvenuto all’Orsara Jazz Festival.
Mirko Signorile Quintet. Come nasce? Come dicevo il Quintet è la naturale evoluzione del quartetto nato nel 2007 per Clessidra. I musicisti che ne fanno parte sono stati scelti sulla base della loro preparazione tecnica ma soprattutto sulla base dell’ampiezza di vedute che li contraddistingue. Con loro è un piacere suonare ma anche lavorare “in coro” sugli arrangiamenti. Sono indispensabili alla riuscita musicale e a rendere tutto “forte” dal punto di vista emotivo.
Come definisci il tuo stile? Le definizioni sono sempre un po’ pericolose e io, in generale, non le amo particolarmente; questo perché non amo confinarmi in un piccolo luogo. La musica che esprimo, come dicevo prima, ha elementi di classica, di cinematica, di rock, di pop. In generale, il brano che compongo mi convince se ha una bella melodia e un potenziale di sviluppo forte. E poi mi piace aprire porte che mi facciano entrare in luoghi che non conosco, e mi costringano, in senso positivo, a rimettermi in di- In attivo hai quattro album: In full time, The magic circle, Clessiscussione e ad evolvermi. Quello che cerco è l’emozione, il brivido dra e Magnolia. Quale consiglieresti a chi non ti conosce e vorsulla pelle. Direi che il mio stile è musica suonata con il cuore. rebbe ascoltare un tuo disco? Gli consiglierei di partire dall’ultimo, Magnolia, e poi di andare a ritroso “Magnolia” è il tuo ultimo lavoro discografico. Come è nato e senza dimenticare i due album che ho realizzato con Giovanna Caquali sono le novità? rone (Betam Soul e Far Libe). “Magnolia” nasce come evoluzione di “Clessidra”, il disco del 2009 prodotto da Universal. L’idea è stata quella di esprimere elementi musicali nuovi ed arrangiamenti più particolareggiati. Per esempio Magnolia contiene elementi fiabeschi, suoni di glochenspiel che riportano https://www.youtube.com/watch?v=6jc753GUwp0
A spagine
l Teatro Garibaldi di Gallipoli, nel cuore della città vecchia, mercoledì 24 settembre, Julia Varley ha dimostrato in sintesi la grande mole di lavoro sulla voce umana, praticata in quarant’anni di attività teatrale. Ne “L’eco del silenzio” ha offerto al pubblico il suo operato, sollecitato dallo stimolo e dal potere delle parole e dei suoni. La combinazione di suoni e parole permette – secondo Julia Varley – di congiungere le due parti dell’emisfero cerebrale: quello creativo e quello razionale. Privilegiando il primo col suono che, una volta intonato, costituisce un vero processo di rinnovamento vitale. Ella condivide le virtù della poesia e della voce: della voce-musica, come attributo e tramite che regge e nutre l’azione. E, per di più, nella sua notevole agiatezza timbrica, una particolare facoltà espressiva, abile a consigliare ciò che la parola drammatica non è in condizioni di manifestare compiutamente. Su questo concetto Julia Varley ha inoltrato il suo spettacolo e davanti agli astanti riversava acuta la sua voce. Riflettendo sul significato della voce, inserita in un contesto teatrale, scenico, che unisce gli attori agli spettatori. Affinché ascoltatore e cantore si fondono. La voce quindi come veicolo privilegiato, di unione tra il palcoscenico e la sala, le persone con gli attori, com’era nel tempo degli antichi greci. Un modo per sondarci, per avvicinarci. Il pensiero di Julia Varley vuole dimostrare che dobbiamo riuscire a “cantare la voce”, che esista in quanto essere, che divenga essenza. E allora noi saremo e ci apriremo agli altri, fuori dal nostro ‘io’, fuori da sé e al di là del sé. Distogliendo l’attenzione da e per noi stessi ci relazioniamo con gli altri, finalmente. Questa è anche la condizione necessaria che aiuta gli attori. E questo spiega l’importanza , che fin dalle origini, dagli albori, ha assunto il teatro. “Ma esso” dice Eugenio Barba “non ha mai cambiato nulla nel mondo, se non gruppi ristretti che occupano o si occupano di quest’arte, ma che comunque rimangono esperienze di straordinaria bellezza e restano nella memoria di chi le ha vissute e frequentate come grandi tensioni culturali ed intellettuali.” Julia Varley fruga all’interno e nelle pieghe della voce, rivista nelle piaghe del linguaggio per far uscire qualcosa di nuovo. Questo è il suo indirizzo nella sperimentazione vocale. Svincolato dal suo significato verbale, a cui è invece legato il suo regista, il quale predilige il testo. La sua voce esplora le possibilità vocali prodotte, e ne assolve la sua pratica liberatoria. E’ come recuperare la voce perduta, istintiva, grezza, rugosa, in grado di operare trasformazioni nell’intimo degli esseri umani. Julia Varley sviluppa quindi e pone al centro dello spettacolo la sua stessa voce e ripercorre i sentieri che essa ha tracciato. La vocalità assume allora un profondo ruolo, e in questo senso le ricerche dell’attrice assumono un inestimabile valore. Voce pronta ad essere emessa nella sua materialità, unendosi al corpo, in simbiosi e in perfetto equilibrio. “L’intelligenza mi guida nel mio lavoro d’attore, non l’intuizione” ella dice, “l’armonico della voce mi dà maggior conoscenza del testo. Il
L’Odin Teatret a Gallipoli per il ciclo I mari della vita. Dal Mediterraneo al Mare del Nord progetto internazionale per i 50 anni di attività del gruppo di Holstebro
Nel don
grande dialogo delle vocali con gli armonici mi allarga gli orizzonti” conclude. Quello che per lei da ragazza rappresentava un handicap è diventato un attributo, una particolarità, fondamentale per la sua vita, in teatro e nel suo modo di fare e intendere il teatro. Inusuale, come sottolinea Eugenio Barba, nell’assolvere l’Odin Teatret. Un grande lavoro sulla voce umana, dunque, e su come l’ascoltatore riceve il suono della parola, sull’emozione e la sensazione che ne riceve. Questa diviene la maggior preoccupazione dell’attore. La trance attoriale è per gli altri, in funzione di altri, e non per sé. La ricezione del messaggio ne pregiudica o ne stabi-
lisce il risultato. La buona riuscita dipende esclusivamente da questo presupposto. E le persone che vanno a teatro devono avvertire questo trasporto, come per induzione. Questa è la tesi di Julia Varley e questo è l’obiettivo di questa raffinata arte, e questo vale per tutti gli attori. Lavorando, insomma, sui tempi tecnici armonici, con vari passaggi, anche con spostamenti della lingua, ella conduce lo spettatore nel suo ritmo, e si sa che il ritmo è più importante del significato. O quantomeno viene prima. Julia Varley si libera, con la forza dell’esperienza, di forme, colori e modi tipici e comuni di fare teatro. Ella diviene l’inusuale, come emblema e
Teatro
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no della voce
di Antonio Zoretti
crescita teatrale e culturale. Per lei conta il sotto-testo, quello che non si legge ma si sente, inscena le indicazioni non testuali, come una scala musicale. Variando anche le lingue, a lei importa come suono quella parola, in una continua trasformazione in altezza, intensità, estensione, virata ecc., modificando la velocità dei gesti e delle parole. Aspira, infine, a comunicare gli affetti, per giungere al silenzio, al silenzio dei vecchi - ella dice, fonti di saggezza, carichi di speranza. Così noi avvertiamo l’eco del silenzio, l’eco che precede la voce. Una voce nostalgica, di ricordi passati, che evocano l’originario e l’arcaico. Julia Varley, con intuizione ammirevole,
parla del ritmo e della voce, ricordando l’espressività antecedente il linguaggio nelle pulsioni primordiali e musicali, che è il corpo stesso di ogni parola. Così pure traduce il gesto corporeo nella vibrazione musicale che, come tale, è a suo modo un’eco e un segno del ritorno. L’attrice dice che anche il gesto è musicale, non è semplicemente visivo. In breve, in quel teatro – dice Eugenio Barba – che non è nell’ordine delle cose, ma in quello inconsueto, diverso: in quello dell’ Odin Teatret. Quello a cui abbiamo assistito mercoledì mattina a Gallipoli al Teatro Garibaldi lo ricorderemo come una “Prova di voci d’altrove”, dove si uniscono senso e suono, sensibile e intelligi-
Eugenio Barba e Julia Varley
bile. Favorendo il fascino intramontabile della voce, Julia Varley mira al silenzio, riportandone l’eco. Da “Il gioco del silenzio” di Carlo Sini: «Così come il mondo non è mai davanti a me, ma sempre mi circonda e mi attraversa, così come non faccio che vedere il mondo provenendo dal cuore del mondo, altrettanto accade alla parola. Essa non parla che dal silenzio del mondo: quel silenzio che la parola custodisce e che essa reca in sé; quel silenzio che è così raro e difficile saper ascoltare». E sia quindi “L’eco del silenzio” a colpirci come un bacio, nel suono del mare nostrum.
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All’Istituto Anna Antonacci di Lecce e all’Ospedale Tricase un convegno promosso dalla Scuola Internazionale di Oftalmogia dell’Università di Bologna
A Trepuzzi dal 9 al 12 ottobre gli incontri promossi da Lucio Lussi per Fermenti Intraprendenti
Le Giornate La salute degli occhi del Giornalismo
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di Luigi Mangia*
a sempre la buona e serena qualità della vita è stata legata alla salute degli occhi. Abitare lo spazio e vivere il tempo con gli occhi malati è stato sempre estremamente difficile e molto faticoso senza la vista. L’ottanta per cento delle informazioni nel soggetto avviene attraverso le immagini, quindi, attraverso gli occhi. È facile capire come senza la vista la vita diventa difficoltosa con tanti ostacoli da superare in città sempre scarsamente accessibili, con barriere vecchie e nuove. Le tecnologie assistive dell’informatica hanno migliorato molto la qualità della vita dei disabili risolvendo tanti problemi, ma per avere una società accessibile bisogna fare ancora tanto lavoro e tanta educazione per cambiare i nostri comportamenti sociali. Oggi parliamo di smartctes e progettiamo città intelligenti ma la salute degli occhi e la prevenzione e la riabilitazione sono nelle pagine della sfida del terzo millennio rispetto alle quali la politica è in ritardo e non sempre attenta. Le età della vita sono cambiate, non sono più quelle della donna rappresentate nel famoso quadro di Gustav Klimt: bambina donna vecchia. Le nuove fasi sono infatti: bambina adolescente giovane anziana vecchia. Oggi si vive molto di più quindi le tappe delle fasi della vita e gli stati di salute sono cambiate in particolare la stagione della vecchiaia. La ricerca è molto attenta ai nuovi cambiamenti dei tempi di vita e quindi dei bisogni della persona. La medicina è sensibile e molto responsabile verso i problemi di salute legati all’età nel terzo millennio. La malattia è un costo, la salute un bene che bisogna raggiungere, realizzare, per questo in politica si parla si patto della salute. A Lecce da venerdì 26 settembre nella sala conferenze dell’Istituto per Ciechi Anna Antonacci (in Via De Sumo, 1) si parla della salute e della ricerca degli occhi. L’Unione Italian Ciechi conosce bene la durezza e la fatica della cecità per questo ne promuove la lotta e ne sostiene la ricerca. Il Convegno della Scuola Internazionale di Oftalmologia promosso dal direttore, professor Sergio Zaccaria Scalinci, della Clinica oculistica universitaria degli studi di Bologna e dal direttore onorario della Scuola, professor Renato Alberto Meduri. vuole scrivere una pagina su come vincere la cecità con la ricerca e con la riabilitazione. Di grande interesse scientifico e riabilitativo i temi e le lectio magistralis della sessione del convegno: “Retina-ipovisione-riabilitazione visiva”. “La neurorigenerazione retinica cellulomediata, quale potenziamento del residuo visivo” a cura della professore Paolo Limoli; “Retina artificiale: progetto italiano” a cura della professore Roberto Cingolani; “Cellule staminali in oftalmologia” a cura della professore Sergio Zaccaria Scalinci . “Anti-vegerop and oct in rop” a cura della professoressa Teixeira Susana Portogallo; “Diagnostica oct ed ipovisione” Professoressa Luisa Pierro; “Micropermetria e riabilitazione visiva” a cura della professoressa Maria Rosaria Franco; “Ausili in ipovisione” a cura del dottor Roberto Iazzolino. Ieri sabato 27 e oggi domenica 28 settembre, il Convegno terrà le sue sessioni di lavoro nell’Ospedale di Tricase Card. G. Panico, le lezioni si svolgeranno nella sala chirurgica dell’Ospedale sotto la direzione del professore Romolo Fedeli. Dal Convegno sicuramente verranno informazioni utili ad affrontare la cecità rappresentando la grande occasione per le scuole, per gli assessorati e per i medici di avere indicazioni su come gestire la cecità e come rispondere ai bisogni di chi ha problemi con gli occhi. *Responsabile Biblioteca Antonacci
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al 9 al 12 ottobre Trepuzzi si trasformerà nella città del giornalismo. Seminari, incontri formativi, lezioni e workshop. Questo e molto altro saranno Le Giornate del Giornalismo, un’occasione di confronto sulle nuove sfide e sulle prospettive future della professione giornalistica. Dagli open data ai social network, dalla trasparenza amministrativa alla partecipazione attiva dei cittadini nella costruzione delle notizie. Il giornalismo cambia rapidamente, e per svolgere al meglio un mestiere così difficile è indispensabile un consistente bagaglio tecnico di knowhow e competenze. Questo lo spirito delle Giornate del Giornalismo, l’iniziativa ideata dal giornalista Lucio Lussi dell’Associazione Culturale Fermenti Intraprendenti in collaborazione con la Regione Puglia e l’Arti (Agenzia Regionale per la tecnologia e l’innovazione) nell’ambito del progetto Laboratori dal Basso (azione della Regione Puglia cofinanziata dall’Unione Europea attraverso il PO FSE 2007-2013) è patrocinata dal Comune di Trepuzzi, dal Gal Valle della Cupa, dal Comune di Squinzano e dall’Associazione Amici di Maurizio Rampino. Le lezioni e i workshop saranno tenuti da docenti universitari, giornalisti ed esperti del settore, presso l’aula consigliare del Comune di Trepuzzi Tra i relatori interverranno Tommaso Labate del Corriere della Sera, Paolo Bracalini de Il Giornale, Michele Mezza, vicedirettore di Rai International, Federico Bastiani (fondatore della prima realtà di social street), Marzia Antenore (docente di comunicazione alla Sapienza di Roma), Ernesto Belisario (esperto di open data) e Sergio Talamo (giornalista ed esperto di trasparenza delle Pubbliche Amministrazioni) e un nutrito gruppo di giornalisti locali (Marco Renna, Pierpaolo Lala, Mauro Marino, Emilio Faivre, Vincenzo De Filippi, Salvatore Papa). Le Giornate del Giornalismo rappresentano, inoltre, un utile momento formativo. Ai giornalisti che parteciperanno alle lezioni pomeridiane del 9 e dell’11 ottobre saranno rilasciati i crediti formativi obbligatori dal 2014. Numerosi gli eventi collaterali. Il giornalista di Rai 3 Fulvio Totaro racconterà il giornalismo agli alunni delle scuole medie ed elementari. Presso la libreria Fanny di Trepuzzi nella serata di venerdì 10 ottobre si terrà la tavola rotonda “Il Salento degli scrittori e dei poeti”. L’incontro sarà moderato da Mauro Marino e vedrà la partecipazione di Luisa Ruggio, Osvaldo Piliego, Danilo Siciliano, Simone Giorgino, Ada Fiore e altri. Le Giornate del Giornalismo si chiuderanno domenica 12 ottobre con il convegno “Un giornalismo libero e indipendente: come costruire una professione autonoma dalla politica”. Parteciperanno all’incontro il responsabile Comunicazione del Pd Francesco Nicodemo, Stefano Cristante (docente dell’Università del Salento), Valentino Losito (presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia), giornalisti, parlamentari e amministratori locali. Il dibattito sarà moderato dal direttore di TG Norba 24 Vincenzo Magistà. Per informazioni pagina Facebook (Le Giornate del Giornalismo). Iscrizioni alla mail: giornatedelgiornalismo@gmail.com
La bibliovaligia spagine
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Da oggi l’iniziativa di LabLib nel Parco Tafuro a Lecce
O
ggi, domenica 28 settembre negli spazi del Parco Tafuro a Lecce parte La Bibliovaligia, a cura dellAssociazione Culturale LabLib, iniziativa che rientra nel programma di Rigenerazione Urbana del quartiere Leuca (II stralcio). Il progetto vuole stimolare e rendere un servizio alla comunità locale, in particolare ai bambini, tramite l'installazione nel quartiere Leuca di Lecce di una biblioteca mobile per l'infanzia: La Bibliovaligia - che contiene una selezione accurata di libri per l’infanzia, con una piccola sezione in lingua tedesca - vuole offrire ai bambini l’opportunità di provare il piacere della lettura ad alta voce, insieme al gusto di scoprire nuove cose, storie fantastiche e giochi all’aperto. Sarà allestita una biblioteca all'aperto con aree lettura e anche uno spazio dedicato al baratto in cui i bambini, e non solo, potranno avviare una pratica di scambio e cessione dei libri, attività che potrà proseguire nel corso del tempo tramite la creazione di una vera e propria libreria di quartiere. Per due settimane la postazione mobile di biblioteca all’aperto, sarà presente tutti i po-
meriggi nel parco. La Bibliovaligia porta i libri laddove solitamente i libri non ci sono e, in questo caso, il luogo scelto è l’area giochi del parco Tafuro, collocato nel quartiere Leuca, oggetto di riqualificazione urbana. L’intento dell’Associazione LabLib è quello di ricreare un luogo fantasioso e allo stesso tempo reale in cui i bambini, i ragazzi e le loro famiglie possano ritrovare situazioni accoglienti, stimolanti, invitanti e attraenti. Un luogo che diventa spazio di condivisione in cui riunirsi, socializzare, scambiare esperienze, condividere storie attraverso la consultazione e la libera circolazione dei libri, piacevole da frequentare, un luogo in cui la lettura è vissuta come gioco e partecipazione, in linea con le tendenze dello swapping (baratto) e del bookcrossing, che ritroviamo oggi diffuse nelle più grandi capitali d’Europa, a partire dalla città di Berlino, con l’esempio del Book Forest, con la quale si portano i libri gratuitamente negli spazi pubblici di tutto il mondo. Con la Bibliovaligia il parco potrà essere vissuto, anche al termine del progetto, come uno spazio appartenente alla collettività, da vivere, curare e far ‘crescere’.
Dal 28 settembre al 12 ottobre 2014 Tutti i giorni dalle 15.30 al tramonto Sabato e domenica anche la mattina dalle ore 10.00 Parco Tafuro, Lecce (Quartiere Leuca)
Associazione culturale LabLib Info: asslablib@yahoo.it Tel. 3398168515
L
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spagine
o scorso martedì 23 settembre, alle 18.00, l' architetto Augusto Ressa della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Lecce, Brindisi e Taranto, progettista del MARTA (Museo Nazionale Archeologico di Taranto) – ha presentato a Praga “La tomba dell'alteta di Taranto”. Il tema è doppiamente interessante sia per l'importanza storico-archeologica di quest'opera (descritta di seguito) sia per l'allestimento museale curato proprio dal relatore. Il nuovo volto del MARTA, infatti, è in Puglia e nell'Italia meridionale uno dei più interessanti interventi di restauro e riqualificazione di un museo archeologico. Se è vero che la cultura è un punto fondamentale da cui far partire lo sviluppo di un territorio il MARTA è un esempio positivo del quale oramai non si può fare a meno a cominciare dall'attenzione e dagli sforzi compiuti dal progettista per far capire al visitatore una materia difficile come l'archeologia. Avremo modo di ritornare sull'argomento, inevitabilmente. I due brevi filmati, che presentati durante l’incontro, sono stati realizzati uno per l’esposizione a Pechino, in occasione dei Giochi Olimpici, nel Beijing World Art Museum per la mostra “Games and athletes in the ancient world”, nata dalla collaborazione tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Direzione Generale per i Beni Archeologici e Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia) e l’istituzione museale cinese. Il corredo della tomba del famoso Atleta, proveniente dal Museo Nazionale Archeologico di Taranto (MARTA), è il più importante esempio di arte funeraria tarantina di età arcaica (fine VI - inizio V secolo a.C.). La tomba, rinvenuta nella città pugliese nel 1959, tramanda la memoria di un atleta più volte campione olimpico di pentathlon. La sepoltura era costituita da una cassa monumentale costruita in blocchi di pietra locale, all’interno della quale era stato inserito un sarcofago litico, con pareti decorate da un fregio dipinto con palmette alternate a fiori di loto. La copertura a spiovente, formata da due parti unite a incastro in una pietra più tenera, era decorata a motivi vegetali negli spazi frontonali e a meandro sulla fascia perimetrale inferiore; il rosso, l’azzurro, il verde e il nero i colori utilizzati. Il corpo del defunto era stato deposto all’interno del sarcofago su una kline (letto) in legno. Vicino alla mano sinistra era stato collocato un alabastron, un contenitore in alabastro per gli oli e gli unguenti usati nella preparazione atletica. Agli angoli erano state sistemate le anfore panatenaiche, trofei dell’attività agonistica del giovane defunto: le anfore, infatti, contenenti l’olio ricavato dagli uliveti sacri dell’Attica, erano il premio simbolico dei vincitori delle gare delle Grandi Panatenee, che si svolgevano ad Atene ogni quattro anni e nelle quali si sfidavano concorrenti provenienti da tutte le aree di cultura greca del bacino del Mediterraneo. Realizzate con la tecnica a figure nere, rappresentano Athena Promachos (combattente), la dea in onore della quale si gareggiava, e scene sportive riguardanti diverse discipline. Prodotti della ceramica attica dei primi decenni del V secolo a.C., sono state attribuite all’officina del Pittore di Kleophrades e raffigurano diverse gare: una corsa con la quadriga, un incontro di pugilato, il salto con gli halteres (pesi di piombo) e il lancio del disco, le ultime due specialità del pentathlon. Il secondo filmato, realizzato alcuni anni fa dalla BBC, si basa sulle ricerche scientifiche sui resti ossei. La struttura ossea, molto ben conservata, ha fatto stimare un’età intorno ai trent’anni, una statura di circa un metro e settanta, eccezionale per l’epoca, e una corporatura robusta, oltre a fornire indicazioni sulla dieta e sulle possibili cause della morte, tra le quali non si esclude l’avvelenamento da arsenico. Il relatore ha illustrato, inoltre, il procedimento di rilievo del complesso funerario e di riproduzione con tecnica laser scanner, che ha consentito l'esposizione a Pechino del sarcofago e dello scheletro, inamovibili per la particolare fragilità.
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A cura della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia e dell’Istituto Italiano di Cultura di Praga con l’Associazione Pugliesi in Repubblica Ceca un ciclo di incontri con cadenza settimanale, a Praga per far conoscere l’offerta culturale della Puglia
La tomba dell’atleta
Sopra il ritrovamento della sepoltura e a fianco l’allestimento che la mostra al MARTA
La pagina è a cura di Marisa Milella* e Fabio A. Grasso. *Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia
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Scritture
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Una memorabile notte in treno
di Rocco Boccadamo
N
ato e, sino all'età di diciannove anni, vissuto costantemente in un paesello del Basso Salento abitato da poco più di duemila anime, con l'unica eccezione delle brevi trasferte in autobus per e dalla cittadina di Maglie durante le Medie e le Superiori, Martino aveva poca dimestichezza e confidenza con le ferrovie e i treni, anche a motivo che la relativa stazione più prossima, delle Sud Est, si trovava a quattro chilometri di distanza, nella località di Spongano. Per la massima precisione, due viaggi su strada ferrata li aveva, invero, compiuti, rispettivamente nel 1952 e nel 1953, accompagnato dal padre, al fine di raggiungere Anagni, in Ciociaria, dove avrebbe potuto attendere agli studi, senza alcuna spesa, in una struttura-convitto dell’Inadel, Ente di previdenza e assistenza per i dipendenti degli enti locali, cui faceva capo l’anzidetto genitore. Chiaramente, in quella circostanza, fu molta l’emozione a bordo del direttissimo notturno Lecce- Roma. Particolare, la memoria delle voci dei venditori che sfilavano lungo i vagoni, durante la sosta nella stazione di Benevento, con la proposta di torroni e liquore Strega, e il cambio intermedio di convoglio, a Caserta, per utilizzare il diretto che avrebbe consentito di raggiungere la destinazione. Due esperienze, reiterate con esito purtroppo inglorioso, giacché Martino, sia la prima che la seconda volta, rimase in collegio appena un paio di settimane, per, poi, fra nostalgia della famiglia, accampata disperazione, sconforto, pianti eccetera, farsi ricondurre a casa, lì ricoperto di commenti non proprio belli: “Il Padreterno dà i biscotti a chi non ha denti per mangiarli” oppure “Questo ragazzo è un rovina famiglie”. Episodi, a ogni modo, rimasti impressi nella mente del piccolo protagonista, a causa della coincidenza temporale rispetto a due eventi, anche se del tutto avulsi dal “dramma” diretto e personale, ovvero la scomparsa del grande e famoso filosofo Benedetto Croce e la morte, in un incidente stradale presso Cento dove prestava servizio, del soldato specializzato Luce M., di vent'anni, cugino per parte materna. A prescindere dalle “fughe” da Anagni, per Martino, in seguito, si compirono regolarmente i corsi scolastici, fino al diploma, conseguito -
mette conto di ricordare - con una sfilza di otto e nove. Correva il 1960, da un po' il giovanotto aveva preso a fare il filarino a una pari età originaria del paesello ma residente altrove, la quale sarebbe successivamente divenuta sua moglie e, tuttora, è accanto al ragazzo di ieri. Sempre grazie all’ottimo profitto scolastico, ecco, a questo punto, presentarsi l'opportunità di andare a frequentare il quadriennio universitario a Parma, con spese di viaggio, tasse, libri e soggiorno, analogamente a carico dell’Inadel. Cosicché, esattamente a distanza di un secolo dalla spedizione dei Mille, ai primi di novembre, ebbe luogo la spedizione di Martino verso la città emiliana, con itinerario da percorrere, ovviamente, in treno, e però non sulla tratta LecceMilano, bensì su quella Taranto-Milano, dovendo l'interessato, prima della partenza, accomiatarsi dalla fidanzata ivi residente. Anche nella circostanza, viaggio di notte. Montato sul treno, Martino si sistemò in uno scompartimento, dove il suo sguardo si posò subito su una ragazza, semplice e nello stesso tempo di bell'aspetto, in compagnia della madre. Iniziò la corsa il convoglio, prima sosta a Gioia del Colle, animata dall'annuncio dell'altoparlante sulla partenza di un altro treno per Rocchetta Sant'Antonio, Lacedonia e Avellino, mete sconosciute e misteriose per il non assiduo viaggiatore del Basso Salento. Passò poco e Martino si trovò sistemato in piedi nel corridoio, guarda caso al pari della ragazza, a far finta di scrutare fuori dal finestrino, nel buio. In realtà, fra i compagni di viaggio e coetanei, prese subito abbrivo, con naturale scioltezza, una fitta e intensa conversazione: come ti chiami, dove abiti, chi sei, quanti anni hai, quali sono i tuoi gusti, dove vai, a fare che cosa, che tipo di scuola hai frequentato, quali cantanti ti piacciono, hai un ragazzo, e ancora a procedere su lunghezze d’onde del genere. Martino a Parma, la ragazza, della quale, purtroppo, a distanza di quasi cinquantacinque anni, non si serba più il ricordo del nome, era diretta, invece, a Bologna, presso il cui Ateneo s’era iscritta alla facoltà di Lettere, con l'obiettivo di svolgere, una volta laureata, lo stesso lavoro della madre, l’insegnamento. Carina, gentile e apparentemente a modo la
partner dei dialoghi in corridoio, aperta al sorriso, i suoi occhi mandavano lampi scintillanti nel semi buio della notte che s’andava viepiù inoltrando, piacevole parlare con lei, con saltuari stacchi per spuntini a base di biscotti o di caramelle mou. Le ore si susseguivano, le stazioni lungo il tragitto si oltrepassavano, ma la coppia si manteneva più vispa che mai, fresca come se si trattasse di un incontro in riva al mare e non di un lungo e, oggettivamente, pesante viaggio notturno. Completamenti inascoltati gli inviti con un gesto della mano, ogni tanto, della mamma di lei, a ritornare a sedere nello scompartimento e a provare a dormire. Parola dopo parola, un discorso dietro l’altro, il direttissimo raggiunse la grande stazione di Bologna, dove, per l'amica, appena e occasionalmente incontrata e tuttavia, nel volgere di una notte, divenuta conosciuta, se non intima, il viaggio sarebbe terminato, mentre per Martino si sarebbe reso necessario cambiare treno, prendendo cioè un diretto che avrebbe fatto sosta a Parma. Sia perché la ragazza non potette lasciare l'indirizzo di Bologna, non avendo ancora reperito un alloggio definitivo, sia in mancanza, allora, di cellulari e via dicendo, sia per mera distrazione d’entrambi i temporanei partner dell’avventura sul treno, il saluto a terra fu cordialissimo ma si concluse, semplicemente, con l’incrocio della domanda o meglio auspicio “chissà che non ci sia dato di rivederci”. In realtà, come sovente se non nella norma accade, le stagioni successive andarono a porre, innanzi ai due giovani, strade distanti e sconosciute, a ciascuno, insomma, il proprio distinto destino. Del resto, così girano le cose per i comuni mortali. Certo è, però, che, adesso, all’ombra degli sparuti capelli bianchi e di una vita sostanzialmente già vissuta, con uno scorcio ancora da trascorrere che, almeno nella mente e nel sentire interiore di uno come Martino, potrebbe ancora contenere, senza tema d’azzardo, un immaginario nuovo piacevole viaggio di notte in compagnia, sulla strada ferrata, non dispiacerebbe recuperare il ricordo di un nome e, possibilmente, rivedere quel volto.
spagine
Alessandra Chiffi e Giancarlo Mustich
Se la pittura
è vita
L
Due opere di Giancarlo Mustich
a ricerca artistica di Alessandra Chiffi e Giancarlo Mustich comincia per entrambi presso il Liceo Artistico “Lisippo” di Taranto, prosegue presso l'Accademia di Belle Arti di Lecce per poi avere un punto di svolta significativo, dicono i giovani artisti, a Berlino dove sono rimasti per circa due anni. La scelta della capitale tedesca non avviene casualmente ma sulla base di esperienze precedenti di uno dei due, Giancarlo Mustich. Ciò che caratterizza entrambi è una passione particolare per Carmelo Bene, per la filosofia francese (e non solo), la voglia di indagare l'Arte come campo della conoscenza senza porsi i limiti ideologicici, a volte, delle singole discipline. L'immagine del doppio e la ripetizione sono chiavi di lettura e strumenti comuni ad entrambi anche se in modo diverso. Cosa attrae, attira due giovani artisti verso Berlino ovvero una realtà che è tanto lontana quanto diversa dal nostro Sud quotidiano? “In effetti dicono Chiffi e Mustich, Berlino è un laboratorio d'arte a cielo aperto con oltre 6000 artisti dove è facile organizzare e partecipare a una esposizione, fare Arte per dirla in una parola. La città offre molti luoghi per l'arte sia indipendenti sia quelli più istituzionali come le gallerie. E' questa la doppia faccia di Berlino, città internazionale. Edifici abbandonati, vecchie industrie recuperate come luoghi dell'arte, molteplicità degli spazi artistici e mutevolezza con rapidità”. Difficile descrivere e riassumere nell'attimo di queste righe un'esperienza così densa e per questo è meglio avvicinarsi maggiormente all'agire artistico a tratti uguale, a tratti diverso, si potrebbe dire
di Fabio A.Grasso
di Alessandra Chiffi e Giancarlo Mustich. Per entrambi la ricerca artistica attuale è la naturale continuazione di quella precedente filtrata, però, attraverso l'esperienza berlinese. Muovendosi fra pensiero orientale e i concetti della fisica moderna Alessandra Chiffi, in particolare, affronta la tematica non semplice del vuoto e del pieno dove i colori bianco e nero svolgono un ruolo fondamentale nel rendere concretamente artistico questo confronto. Il bianco e il nero, il pieno e il vuoto dove “l'uno è l'opposto dell'altro ma sono nella stessa misura uguali.” Paradosso, contraddizione che sia questo concetto appare un nodo che solo l'esercizio della pittura o di una installazione può, forse deve, sciogliere. E quando si chiede di esporre il suo modo di agire sulla tela Alessandra Chiffi afferma: “Nel disegnare un albero, ad esempio, parto dalle radici e poi strada facendo, si gioca con le struttura e si procede per sottrazione. La prospettiva è parte integrante del progetto e del disegno ma è solo una delle prospettive possibili”. Simile il modo e il mondo operativo di Giancarlo Mustich: “Agisco direttamente sul supporto avvertendo una esigenza, un' urgenza. I lavori nascono all'insegna di una improvvisazione che potrebbe definirsi jazzistica. Si parte da un tema e da qui si sviluppa un discorso che riguarda la tela e il rapporto contemporaneo di artista e ambiente esterno fosse anche la strada nella quale si espongono i lavori”. Un'ampia rassegna delle opere dei due artisti sono a link segnalato a piè di pagina.
http://chiffimustich.altervista.org/works/?doing_wp_cron=1411803623.7767629623413085937500
Arte
della domenica n°45 - 28 settembre 2014 - anno 2 n.0
Un’opera di Alessandra Chiffi
Aggiorniamo l'immaginario
spagine copertina
Dal 6 al 15 ottobre, al Cineporto di Lecce un percorso ideato e organizzato da Lara Castrignanò per ASSAY
I
tempi sono ormai maturi per aggiornare i modelli, i temi e le personalità di riferimento nel campo dell'audiovisivo italiano, nelle sue accezioni di cinema di finzione, film documentario, illustrazione e animazione, opera cinematografica, fattore sociale. Una prima riflessione in questo senso la propone Reference #aggiorniamo l’immaginario, non un festival, non una rassegna, non un workshop ma semplicemente una serie di sei appuntamenti e incontri dedicati in programma ad ottobre a Lecce nei luoghi del Cineporto, con altrettanti autori e autrici, provenienti da diverse regioni italiane e scelti in base alle loro opere, ai temi trattati, ma anche alla valenza sociale e solidale di alcune delle loro produzioni, quella valenza che fa del cinema un fattore aggregante, di scoperta e conoscenza continua. La via prescelta per raggiungere l’obiettivo è l’attraversamento, inteso proprio come il passare attraverso i generi, soffermandosi sui tre diversi linguaggi di scrittura di un'opera audiovisiva sceneggiatura, regia, montaggio - per analizzare ulteriori narrazioni e linguaggi personali e sperimentali, che, partendo da modelli di riferimento classici, ne rielaborino di ulteriori, capaci di indagare, raccontare e rappresentare una società sempre più complessa e in piena trasformazione. *** Gli autori e le autrici ospiti di “Reference #aggiorniamo l'immaginario” saranno introdotti da altrettanti critici cinematografici, docenti universitari, curatori indipendenti, artisti relazionali, cartoonist e visual makers. Per ogni data, l'appuntamento comincia alle 19.00 con “Chiacchiere e degustazioni”: la Cantina Quattro Casali di Copertino proporrà ad autori e pubblico una degustazione dei propri vini autoctoni, accompagnati da assaggi di prodotti tipici locali a cura del neonato laboratorio di cucina e marmellate Impero Verde, sempre di Copertino. A seguire, l'incontro preliminare e, intorno alle 20.30, l'inizio delle proiezioni. Subito dopo si aprirà il dibattito sui temi affrontati. Si comincia, quindi, il 6 ottobre con la presentazione della rivista di cultura cinematografica Moviement, edita da Gemma Lanzo Editore, in programma durante la degustazione. Moviement analizza lo statuto estetico dell’immagine cinematografica nelle sue componenti materiali e si avvale del supporto di esperti di settore nazionali ed internazionali. Subito dopo, ci sarà l’incontro con Francesca Marciano, scrittrice di successo, autrice e sceneggiatrice di vari film di Salvatores, Verdone, Bertolucci. In quest'occasione l'attenzione sarà focalizzata su Miele, film che segna l'esordio alla regia di Valeria Golino, per cui la Marciano firma soggetto e sceneggia-
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della domenica n°45 - 28 settembre 2014 - anno 2 n.0
Un’opera di Carlo Michele Schirinzi ospite degli incontri di ASSAY
tura, e che tratta il complesso tema della pratica illegale della ''dolce morte''. A dialogare con la Marciano e il pubblico sarà Gemma Lanzo, critico cinematografico del SNCCI, nonché editore. Il 7 ottobre ci attende invece una selezione di lavori e opere cinematografiche di Carlo Michele Schirinzi, autarchico dell'immagine con cui si parlerà di sovversione dei linguaggi, rielaborando pratiche e poetiche audiovisive al limite della narrazione, ma anche dell'antinarrazione. Con lui ci sarà Gianluca Marinelli, storico dell'arte, curatore e artista relazionale, nonché socio fondatore di ASSAY, il quale ha selezionato dal vasto repertorio di Schirinzi una serie di 7 opere che, per l'occasione, assumono il titolo Voglia di trachea non di tramonti. L’8 ottobre ospiti saranno Giovanni Piperno e Agostino Ferrente con Le cose belle. Il film racconta la fatica e la bellezza di crescere al Sud in una narrazione che attraversa tredici anni di vita di quattro persone. Autentico caso cinematografico dell'estate, apprezzato dalla critica e dal pubblico, il documentario si è aggiudicato anche il Grand Prix come Miglior Film alla settima edizione del Festival Internationale del Documentario – Faito Doc Festival. Dialogherà con i registi Leonardo Gregorio, autore del saggio L’arte del sogno. Il gioco dell’enfant Gondry, compreso nel volume Michel Gondry. L’eterno dodicenne, a cura di Emanuele Protano (Edizioni Il Foglio, 2012), giornalista e critico cinematografico collabora con il Manifesto e riviste specializzate di settore come UZAK, Point Blank, Sentieri Selvaggi, CineCritica. Il 9 ottobre sarà la volta di Virginia Mori e delle videoinstallazioni e proiezioni di una serie di illustrazioni, disegni animati e corti d’animazione
che, per l'occasione, sono raccolti sotto il titolo Bisbigli Nero Inchiostro. La sua arte, in penna bic e non a matita, si sviluppa attraverso diversi linguaggi, non ultimo quello delle pagine del libro Vento con Virgilio Villoresi per i tipi della Whitstand. Converserà con la Mori Hermes Mangialardo, cartoonist, visual maker, 3D mapping expert, nonché socio fondatore di ASSAY. Il 15 ottobre sarà dedicato, invece, al progetto Space Metropoliz di Fabrizio Boni e Giorgio De Finis, un esperimento sociale di riqualificazione e progettazione urbana partecipata, un film documentario, un corto di finzione, uno spazio temporaneo per l'arte. De Finis dialogherà con Davide Ricco, curatore indipendente e artista relazionale, per raccontare il percorso e lo sviluppo di un'ex fabbrica di salami alla periferia di Roma, che oggi ospita circa 200 persone di varie nazionalità ed anche il MAAM - il Museo dell'Altro e dell'Altrove di Metropoliz che pian piano sta trasformando l'ex salumificio in un oggetto d'arte collettiva. Si chiude venerdì 17 ottobre, con Sebastiano Riso e Marco Spoletini, regista e montatore di Più buio di mezzanotte. Presentato a Cannes 2014, è un film sui confini fluidi, labili, ispirato all'adolescenza di Fuxia, regina trasgender del mitico Muccassassina di Roma, e racconta, in una Catania degli anni '80, l'emancipazione e la formazione di un ragazzo 'diverso'. Ha destato scalpore il fatto che la visione del film sia stata vietata ai minori di 14 anni. A dialogare e discutere con gli autori Mimmo Pesare, docente di Piscopedagogia dei linguaggi e coordinatore del centro ''Laboratorio Studi Lacaniani'' del dipartimento di Storia, Società e Studi sull'Uomo dell'Università del Salento. Questa serata finale proseguirà, poi, dalle 22.30 circa con una festa aperta a tutti. Protagoniste saranno le PLAYGIRLS from CARACAS, il cui progetto musicale-culturale e live show invaderà i Cineporti di Puglia/Lecce con sonorità e videoproiezioni ricercate e ispirate dalla video-arte e dalle tematiche di genere.
Reference #aggiorniamo l'immaginario è un percorso ideato e organizzato da Lara Castrignanò per ASSAY. Con il sostegno di Apulia Film Commission, il patrocinio del Comune di Lecce, della Provincia di Lecce, e a sostegno della candidatura di Lecce2019. In partenariato con: MOVIEMENT - pubblicazione di cultura cinematografica; LABORATORIO STUDI LACANIANI del Dipartimento di Storia, Società e Studi sull'Uomo dell'Università del Salento; Associazione LEA - Liberamente e Apertamente; Spazio Cineforum - CINIT, Lecce; Cantina QUATTRO CASALI - Copertino; Laboratorio di Cucina e Marmellata IMPERO VERDE; SOUNDPUSHER. Media partner: SPAGINE - periodico culturale dell'Associazione Fondo Verri, Lecce; POINT BLANK - rivista web di critica cinematografica; URKA! Eventi e Luoghi del Salento.