spagine Spagine della domenica n°47 - 12 ottobre 2014 - anno 2 n.0
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri
Fotografia di Milena Galeoto da Montrèal per Corrispondenze altre sue immagini nella terza e nella quarta di copertina
In Italia, occorre la bacchetta! Sissignori, quella bacchetta invocata da Pier Paolo Pasolini nelle sue “Lettere Luterane”
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spagine
’Italia sta diventando il paese dove nessuno più riconosce lo Stato, la legge, le gerarchie, i normali passaggi decisionali, inevitabili perché ogni organizzazione, pubblica o privata che sia, funzioni. Il fenomeno non risparmia neppure i militari. Il comandante della Capitaneria di Livorno Gregorio De Falco, diventato famoso per quel “qui comando io” nella disgraziata notte del naufragio della “Costa Concordia”, ha respinto il trasferimento ad altro compito ipotizzando un reato di mobbing. Gli esempi più negativi ed eclatanti procedono dall’alto in basso. Il Parlamento non nomina i due giudici mancanti della Corte Costituzionale. Impotenza o deliberata riottosità? Mettiamola come vogliamo. I senatori, che ormai sanno di avere i giorni contati, si vendicano nei confronti di un’istituzione che nulla ha fatto per impedire l’abolizione del Senato. Lo spettacolo offerto da importanti magistrati – vedi il caso della Procura di Milano – è indecoroso per le accuse reciproche e le reciproche delegittimazioni tra i procuratori-capo e i procuratori aggiunti. E dovrebbero essere loro i custodi della legge! Stanno dimostrando, essi giudici, di essere più colpevoli e più dannosi al paese dei loro giudicati. Il Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ex magistrato, non accetta la condanna inflittagli per abuso d’ufficio, respinge la sospensione comminatagli dal Prefetto, continua a riunire la sua Giunta in un luogo più ameno e manda a strafottere tutti. Il Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, dichiara di non voler obbedire alla politica estera nazionale, che in linea con l’Europa ha comminato sanzioni alla Russia di Putin, e dice che prenderà contatti direttamente con le autorità russe per riallacciare i rapporti economici con quel paese. I sindaci di molte città italiane, tra cui Milano, Bologna, Roma, non intendono obbedire alle disposizioni dei Prefetti e del Ministero degli Interni in materia di trascrizione di matrimoni tra coppie omosessuali celebrati all’estero perché illegali per la legge italiana. A Melendugno – si parva licet – il Sindaco con qualche cavillo amministrativo blocca i lavori della Tap, un’importante opera strategica per la politica energetica nazionale, deliberati dal governo. Ci sono zone di alcune città, come Napoli e Bari, dove i cittadini impediscono alla Polizia di catturare o solo identificare un pregiudicato. Il caso della sollevazione popolare a Napoli in seguito alla morte di quel giovane sullo scooter, che non si era fermato all’alt dei Carabinieri, è una delle pagine più eloquenti del discredito di cui gode lo Stato in alcune regioni italiane. Alla disobbedienza, ormai diffusa come costume imperante, si aggiunge un continuo insultare il diretto superiore. Ormai il cittadino, a cui non piaccia una legge, si sente legittimato a non osservarla, a disobbedire, convinto che la sua disobbedienza basti a far abrogare quella legge. Non il contravven-
tore della legge, dunque, deve essere punito, ma la legge. Sta venendo a mancare la base del Contratto Sociale, ipotizzato da filosofi e giuristi tra il Sei e il Settecento per tenere insieme il corpo sociale nell’ambito di un reciproco riconoscersi in un’autorità superiore. Il popolo – ma a questo punto è perfino improprio definirlo così – si è disgregato in un numero infinito di monadi che non riconoscono l’autorità dello Stato; lo Stato, da parte sua, non ha né la volontà né la forza di imporre il rispetto del Contratto. Chi dovrebbe dare l’esempio coi suoi comportamenti fa l’opposto, convincendo i cittadini di poter fare tutto quello che vogliono perché tutto è permesso, e se non permesso quanto meno concesso o graziosamente affrancato. Peggio: chi dovrebbe intervenire per far rispettare la legge non c’è; e dunque in assenza del guardiano tutto è a disposizione di tutti. Di fronte alla situazione catastrofica che si sta delineando, non solo sotto il profilo economico-finanziario – questo è quotidianamente iperpropagandato e purtroppo pesantemente sentito – ma anche e soprattutto sotto il profilo culturale e sociale, invece di correre ai ripari si fa finta di niente. Si vive nell’indifferenza, se non in una reciproca ignoranza.
Renzi dice di voler cambiare l’Italia. Ma perché cambiare l’Italia, e non piuttosto gli italiani, immeritevoli assegnatari di un bene che andrebbe altrimenti gestito e vissuto? Per cambiare gli italiani, però, occorre quello che nessuno di loro vuole. Del resto, come li si può cambiare assecondandoli? Li si può cambiare usando esattamente il contrario di ciò che essi vogliono. Vogliono l’anarchia, l’impunibilità, il faccio quello che mi pare e piace? E allora, a questo punto, occorre la bacchetta! Sissignori, quella bacchetta invocata da Pier Paolo Pasolini nelle sue “Lettere Luterane”. Come per altre situazioni, anche in questa, Pasolini seppe essere una formidabile spia di allarme fin da quarant’anni fa. Gli italiani vanno riportati nell’ordine nazionale e sociale; devono recuperare il senso dello Stato. Nessuno si spaventi per repressioni di massa, bastonature, incarcerazioni. Nessuno pensi a bibliche deportazioni. Non ce ne saranno. Gli italiani hanno dimostrato di essere docili e obbedienti ai primi colpi di bacchetta. L’italiano è uno che si uniforma all’anarchia come all’ordine, lesto e capacissimo di cambiare, passando da un regime all’altro, appena si accorge che è in atto il cambiamento. Preoccupa, in una simile congiuntura, l’assenza degli intellettuali a lanciare l’allarme. Essi hanno trasformato una torre di vedetta in una torre d’avorio. La stretta economica e la crisi di rappresentanza politica stanno facendo passare in secondo ordine la vera emergenza nazionale, che è quella di un paese che ormai non si riconosce in niente e in nessuno.
I sen
Diario politico
della domenica n°47 - 12 ottobre 2014 - anno 2 n.0
nza Stato di Gigi Montonato
Interrogazione al Ministro Maurizio Lupi
Ilva e Tap, la giostra delle parole
M
di Luigi Mangia
olti capitoli della nostra storia sono fatti di un lungo racconto della nostra debolezza politica e sociale legata all’incapacità delle classi dirigenti di rappresentare gli interessi del territorio e di saperli imporre nelle Istituzioni e nelle sedi decisionali che contano. Gli errori del nostro modello di sviluppo industriale non sono di oggi, ma di ieri, risalgono infatti al lontano passato. Le scelte invece sono nella continuità degli errori che continuano ancora. L’esempio più illuminante della classe politica incapace di difendere e valorizzare le potenzialità del proprio territorio è quello dell’investimento TAP, legato al recupero bonifica e vendita dello stabilimento Ilva di Taranto. Sono due pagine indigeste per le popolazioni locali legate ad un unico interesse: i tubi di acciaio prodotti dall’Ilva di Taranto. Il gruppo Mercegaglia ha grandi interessi nell’acciaio ed è interessato nel nuovo acquisto dello stabilimento di Taranto con gli indiani. Ora però, il Presidente Matteo Renzi, uomo di perfetto stile Cosimo Primo Medici Granduca di Firenze, ha messo con la Presidenza all’Industriale Emma Mercegaglia nelle mani gli interessi dell’Eni. L’Ilva di Taranto la TAP di San Foca Melendugno sono un conflitto di interessi fatto di molti zeri, che in economia valgono molto e quindi non si possono fare molte storie. Il gasdotto è fatto di chilometri di tubi di acciaio che danno miliardi di euro. L’Eni lo sa molto bene; Emma Mercegaglia, Presidente Eni, ancora di più; il Presidente del Consiglio Renzi pureanche perché non è sprovveduto; i nostri politici sono muti ma non si può dire che ignorino un conflitto di interessi di così grandi proporzioni. Io non mi meraviglio e mi sento invece sfiduciato di tanto rumore per nulla come risultano essere le ultime iniziative. L’investimento TAP non è un piccolo investimento, infatti è di quelli strategici che interessano il modello energetico dell’Italia e dell’Europa. È possibile credere che una scelta così rilevante per l’economia dell’Italia e dell’Europa venga fatta dalla burocrazia escludendo la politica? Nel terzo millennio si può continuare a pensare come faceva il Pinocchio di De Amicis che nascondeva con il ladro le monete sottoterra? I cittadini sono sfiduciati e stanchi di subire le conseguenze del conflitto di interessi che li rende poveri e li penalizza dello sviluppo delle risorse della propria terra a vantaggio di interessi lontani che rispondono a scelte subite. Per loro la lezione è molto chiara. Ormai le decisioni relative all’investimento del gas dall’Azerbaijan al Salento si prenderanno a Roma lontano da Bari e da Melendugno. Così si può fare poco. Bisogna portare il conflitto di interesse del gruppo Mercegaglia nelle Istituzioni per questo chiedo al Senatore Dario Stefàno di farsi carico della gravità e delle pesanti conseguenze di questo conflitto per il territorio e per le popolazioni locali promuovendo una Interrogazione urgente al Ministro delle Attività Produttive, Maurizio Lupi, per avere chiarezza sull’investimento del gasdotto da parte del Governo e mettere fine alla giostra delle parole e ai tavoli utili solo a fare facile propaganda di cui in questo momento nessuno avverte il bisogno.
U spagine
na discutibile e curiosa ricerca anglo-norvegese, tempo fa, indicava la formuletta “magica” per accedere alla felicità. Gli scienziati erano giunti alla conclusione che “chi ha due figli è padrone del mondo, è gioioso, gaudente”. Ovviamente, si trattava d’uno studio bizzarro, che lascia il tempo che trova. Davvero per essere persone serene e realizzate bisogna avere due figli? E chi ne ha tre o quattro? E chi ne ha solo uno? E chi, per mille ragioni, non si può contornare di fanciulli? Certa scienza con il suo piglio smaccatamente iperdeterministico e pseudomeccanicistico pretende di spiegare tutto l’esistente, di dare direttive, di indirizzare gli umani destini. Per fortuna, la vita non è solo calcolo o dominio della ragione, ma è anche imponderabilità, imprevedibilità. Casualità. Il mondo della realtà è lastricato di strade, di tristezza frammista a letizia: siamo individui in un flusso continuo e impreveduto di accadimenti. I figli sono sempre figli. Ad esempio, nel grande dibattito bioetico di stretta attualità, c’è purtroppo chi fa differenze. Ci chiediamo: a cosa serve assegnare i figli a due categorie? Quelli naturali, visti come frutto dell’amore; quelli della provetta identificati come pargoli “minori”, provenienti dal freddo, dal gelo? Le vicende umane sono vaste, difficili, intricate, ed anche chi ricorre a tecniche di laboratorio desidera sentimento, passione. Vita che vuole vita. La sentenza della Consulta e il successivo adoperarsi delle Regioni hanno dato il via libera all’eterologa ed hanno aperto interrogativi di vario tipo. In specie il mondo cattolico insiste su un punto particolare: i figli dell’eterologa, una volta cresciuti, dovrebbero avere la facoltà di poter conoscere i donatori che hanno ceduto il seme o l’ovocita. L’universo laico è molto più aperto. Senza ingenerare alcuna polemica, possiamo solo osservare che un embrione, ospitato nell’utero d’una donna che è ricorsa alla procreazione medicalmente assistita, cresce in un grembo caldo, che è la sua terra, la sua nuova memoria, la sua storia, di sangue e di nervi. Non a caso le disposizioni delle Regioni parlano di “donazione” di ovociti e di spermatozoi per genitori sterili, al fine di scongiurare qualsiasi deriva d’un pernicioso liberalismo genetico. Per i donatori è previsto solo un rimborso spese. Eppoi, la donazione e la successiva accettazione di cellule germinali comportano un percorso speciale, altruistico, di sani sentimenti. La donazione non è gioco, né un artificio: è una vocazione. Ricordo ancora quello che scrisse l’ex direttore de “Il Paese Nuovo” Mauro Marino, qualche anno fa, sul giornale in un’ altra accezione particolare: “Il dono è cosa da poeti”. Sempre in ogni campo del vivere, mettere in comunione parti di sé con l’altro da sé, vuol dire avere un cuore grande. Garantire la perpetrazione della specie è una mansione della moderna biologia e medicina della riproduzione, è una scelta degli uomini di buona volontà. Certo, è legittimo chiedersi se, nel caso di donazione eterologa di materiale genetico, il frutto della donazione debba rivendicare il riconoscimento del “genitore “naturale.
Contemporanea
della domenica n°47 - 12 ottobre 2014 - anno 2 n.0
Del dono di Marcello Buttazzo
Lo studioso Angiolo Bandinelli scrive su “Il Foglio” di Giuliano Ferrara: “Per dono si intende il passaggio di proprietà di un bene da un soggetto ad un altro senza compensazione diretta ed equivalente come avviene in uno scambio commerciale”. Poi, in modo più specifico, precisa: “Il donatore sa che il frutto del suo seme verrà raccolto da qualcuno, che si assumerà la responsabilità di far sì che il prodotto di quel seme divenga un uomo. A me pare che debba essere riconosciuto il diritto del donatore a non essere posto a rischio di dover rivelare di essere lui il padre d’un figlio da cui si è separato per sempre”. È proprio così. I genitori della provetta sono gli unici responsabili del nuovo arrivato. Essi hanno il diritto etico di rivendicare per sé l’intera genitorialità, hanno il dovere di proteggere al meglio il prodotto del loro amore. Dalle cronache dei quotidiani cattolici, sappiamo che le Regioni sono già in crisi, dal momento che esistono ancora scarse donazioni. Forse, i rimborsi spese dovrebbero essere
Robert Mapplethorpe - Due tulipani, 1984
compiutamente assicurati. Inoltre, sarebbe moralmente auspicabile che i cosiddetti embrioni sovrannumerari orfani congelati potessero essere impiegati nelle cliniche. Qualche anno fa, una commissione di esperti guidata dal professor Francesco D’Agostino s’espresse sul destino degli embrioni orfani, stabilendo che essi potessero essere dati in adozione a genitori sterili. Molti di questi embrioni hanno perso la loro vitalità e non possono essere più utilizzati. Altri potrebbero essere donati. La dottrina della Chiesa cattolica è molto critica con le tecniche di fecondazione assistita, perché esse verrebbero ad intaccare la naturalità dei processi biologici. Però, a rigore, non dovrebbe allarmare più di tanto l’artificiosità dei meccanismi, quando l’obiettivo è quello di concepire e di creare vita. È necessario dare sempre significato e valore alla vita così come si sviluppa: sia per via naturale, che tramite l’inseminazione.
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Osservatorio
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Pubblicati i dati 2013 sull’emigrazione degli italiani all’estero
Via dall’Italia
di Gianni Ferraris
È
stato pubblicato il rapporto sull’emigrazione all’estero di italiani relativo al 2013. La fondazione Migrantes della Caritas ha fatto un impietoso quadro della drammatica situazione in cui la crisi economica ha ridotto l’Italia e l’Europa intera. Aggiungerei che una mano l’ha offerta la politica miope degli ultimi governi e dell’Europa che hanno incentrato tutto e solo sui sacrifici, quando premi nobel ed esperti internazionali dicono che il momento di lanciare investimenti in infrastrutture e creare un volano per l’economia è proprio evitare eccessivo rigore. Ma tant’è. Nel 2013 sono partite dal bel paese 94.126 persone (78.941 nel 2012 con un incremento pari al 16,1%). A questo punto gli stranieri (esclusi gli irregolari) che arrivano da noi sono 43 mila ( dato 2010), abbondantemente inferiore a quello degli emigrati. Gli italiani residenti all’estero risulterebbero essere 4.482.115. A partire negli ultimi anni sono stati in prevalenza gli uomini (56% circa) di cui il 60% single. Fascia d’età più rappresentata dai 18 ai 34 anni (36,42%). Segue con il 26,8% la fascia 35/49 anni. Fra le donne si legge delle città di Macerata e Trieste che ne hanno visto partire molte per l’Argentina, seguite da Fermo e Pordenone. Queste sono le provincie dove la migrazione femminile è superiore a quella maschile. A livello regionale invece il primato spetta al Friuli che ha visto fra i migranti il 50,3% di donne. Un primato. Il Regno Unito è la meta preferita con una crescita di arrivi, rispetto all’anno precedente, del 71%, seguono Germania, Svizzera e
Francia. Sono dati interessanti, tristemente interessanti, che denunciano una situazione di recessione non solo economica, ma politica, etica e sociale, l’Italia torna ad essere paese di migranti, e non occorre essere raffinati economisti o sociologi per comprendere quanto distanti siano le scelte e i discorsi della (misera) politica dalle reali situazioni. L’Italia sta per essere deindustrializzata, la ricerca vede punte d’eccellenza a livello mondiale e non viene finanziata, consentendo a moltissime menti eccellenti, preparate e laureatesi in Italia di venire richieste all’estero dove si fanno loro ponti d’oro. Gli estensori della ricerca sottolineano come questa nuova emigrazione “ponga nuovi interrogativi e nuovi impegni… alla luce degli ultimi sviluppi e dell’incremento numerico degli spostamenti che riguardano migliaia di giovani, mediamente preparati ed altamente qualificati a livello medio alto, oppure del tutto privi di titoli di studio”. E pongono l’accento anche sulla mancanza dello Stato nell’assistere questi migranti, «Per oltre un secolo l’associazionismo ita¬liano all’estero ha sup¬plito all’assenza dello Stato e sovente ancora oggi è rintracciabile questa peculiarità di mutuo soccorso tra i membri, una tradizione di solidarietà reciproca che è entrata a far parte di un modo di essere e di ope¬rare dell’italiano fuori dei confini nazionali». In sostanza si tratta di un fallimento dello Stato italiano da ogni punto di vista.
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oma Est, marzo 2009. I Blocchi Precari Metropolitani, insieme a circa 200 persone di diverse etnie, rompono il lucchetto del civico 913 in via Prenestina. L’ex salumificio Fiorucci, da decenni abbandonato, si appresta a divenire Metropoliz, la città meticcia. Prima di tutto ci si conta, si perlustra il luogo e si dividono gli spazi. In occupazione la convivenza non è mai una favola, il conflitto è ovunque: contro la rendita e contro il vicino che non ti lascia un tubo per collegarti alla fogna. Assemblee, manifestazioni, picchetti, regole che si definiscono man mano, di pari passo con il recupero dei diversi ambienti cominciano a dar forma a una comunità. Metropoliz comincia a maturare. Il rischio di uno sgombero è una spada di Damocle sempre presente, e quando nel 2011 Giorgio De Finis e Fabrizio Boni si imbattono in Metropoliz qualcuno si chiede “Se ci cacciano da ogni parte dove dobbiamo andare? Sulla Luna?”. La battuta mette in moto l’immaginazione, nasce l’idea di Space Metropoliz, il primo programma spaziale autonomo. La Città Meticcia si trasforma in un cantiere scientifico, filosofico, artistico, gli abitanti partecipano attivamente ai lavori ponendo domande per nulla ingenue, cercando soluzioni tecniche e ingegneristiche e allestendo sontuosi banchetti per astronomi, artisti e alieni vari. Per un anno si lavora alacremente, tra intuizioni, illuminazioni, divergenze e anche qualche scazzottata.Nel frattempo la fabbrica è cambiata, murales e installazioni a tema lunare l’hanno trasformata recuperando spazi comuni e sollecitando la curiosità, il gusto estetico e una certa attitudine alla critica artistica degli abitanti. Sono loro, in barba alle lungaggini della progettazione architettonica a costruire il razzo che porterà tutta la comunità sulla Luna. Una grande festa, alla fine del 2011 accompagna il count-down che farà decollare lo shuttle, ma quando il nostro satellite è raggiunto si comincia a vedere qualche faccia triste, qualcuno ci avvicina e ci chiede “ma adesso? Voi artisti ve ne andrete e qui tornerà tutto come prima?” No. La Luna l’abbiamo presa e l’abbiamo portata a Metropoliz. Il motore di Giorgio continua a girare al massimo, la generosità degli artisti è il carburante gratuito. Cosìda una donazione di dipinti venduti all’asta per recuperare fondi e riparare il tetto della ludoteca nasce una pinacoteca domestica che inaugura il MAAM, il Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia. L’acronimo altisonante si vuole porre accanto e in concorrenza con le grandi istituzioni della capitale – MAXXI e Macro – ma ben presto le surclassa. L’economia del dono batte quella del capitale, della rendita e le lungaggini burocratiche che affossano il sistema arte tradizionale. Dal 2012 il MAAM non si è mai fermato, ogni giorno è un’officina artistica in piena attività, gli artisti si autopropongono e trovare spazio per tutti non è sempre così semplice. Qui l’arte si fa barricata, aiuta a scongiurare uno sgombero sempre imminente, ma il rapporto tra arte e movimento non è pacifico – come spiegano i Blocchi Precari Metropolitani – “l’azione dell’artista subisce un’attenzione determinante anche più aspra delle critiche più velenose. Qui la cosa diventa interessante e i movimenti e l’arte si misurano davvero, dentro spazi liberati e non omologati, dentro processi di valorizzazione non speculativi. Le pratiche di riappropriazione concedono opportunità importanti dove declinare il diritto alla città senza compromessi di sorta ed è qui che questa proposta di confronto ha ragione di esistere, così come appare clandestinamente su tanti muri e dentro le metropoli. La nave dei folli è in movimento dentro le periferie, torniamo a bordo”.
Dalla l Davide Ricco è nato a Maglie nel 1979. Curatore indipendente. Laureato in Conservazione dei Beni Culturali presso l'Università del Salento, ha conseguito un master di II livello per Curatore d'arte contemporanea presso l'Università di Roma La Sapienza. Dal 2010 è curatore insieme a Mattia Pellegrini del progetto artistico e di ricerca di Cesare Pietroiusti Museo dell'arte contemporanea italiana in esilio. Nel 2011 entra in contatto con Giorgio De Finis, Metropoliz e i suoi abitanti e collabora alla cura di diverse iniziative e installazioni nel Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia. Nel 2013 prende parte alla redazione di FART, il periodico del MAAM. Tra il 2013 e il 2014 partecipa al programma di residenze in Salento Free Home University durante le quali ha modo di indagare concetti e pratiche di Comune Bene e di riflettere sulla morte con il gruppo di artisti Lu Cafausu. Nel 2014 si trasferisce a Palermo.
in Agenda
Giunge al quinto appuntamento Reference #Aggiorniamo l’immaginario ciclo di incontri a cura di Lara Castrignanò per ASSAY Mercoledì 15 ottobre, dalle 20.30 al Cineporto di Lecce la proiezione di Space Metropoliz con il regista Giorgio De Finis e il curatore indipendente Davide Ricco della domenica n°47 - 12 ottobre 2014 - anno 2 n.0
luna al museo di Davide Ricco
Giorgio De Finis
Espace
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la musica di Spagine
della domenica n°47 - 12 ottobre 2014 - anno 2 n.0
La crisi delle istituzioni concertistiche e la Borsari Chamber Orchestra di Bologna
La musica insieme L
di Alessandra Margiotta
Simone Ginanneschi
a Borsari Chamber Orchestra è un’idea di Simone Ginanneschi, musicista bolognese. Il 21 ottobre ci sarà il secondo concerto presso la Sala Silentium in Vicolo Bolognetti a Bologna. Simone in questa intervista racconta come è nata l’orchestra. Ciao Simone, sei flautista e lavori da sempre nella musica. Come è nata l’idea della Borsari Chamber Orchestra? Ciao Alessandra e piacere di fare la tua conoscenza. L’idea di questa orchestra è nata dalla grande passione musicale e dalla necessità di fare musica in questo periodo di grande crisi economica. Il 21 ottobre a Bologna ci sarà il secondo concerto, cosa ti aspetti? Mi aspetto una grande partecipazione e un concerto capace di trasmette emozioni. Questo è da sempre il mio obiettivo, cioè comunicare attraverso la musica. Chi sono i componenti dell’orchestra e perché hai scelto proprio loro? L’orchestra è formata principalmente da amici, musicisti affermati e da giovani talentuosi che attraverso di noi hanno la possibilità di fare un’esperienza di crescita musicale importante alla loro formazione. Al concerto avremo come solista al pianoforte Floriana Franchina, una giovanissima talentuosa interprete diplomata sia in pianoforte che in flauto traverso, vincendo con entrambi gli strumenti primi premi assoluti in oltre 100 concorsi. Un artista vera a tutti gli effetti che ci incanterà
con le note di Chopin e Mahler. L’obiettivo? Divertirsi e far musica insieme. Eseguirete brani di Chopin, Mozart e Mahler. La scelta è stata casuale o dettata da motivi ben precisi? La scelta non è casuale ma è semplicemente determinata da una nostra voglia di suonare alcuni brani che ci piacciono particolarmente. Un programma sicuramente molto impegnativo di piacevole ascolto con brani molto conosciuti che partono dal classicismo Mozartiano fino all’estremo romanticismo di Mahler con un pizzico di virtuosismo Chopiniano. Davvero il programma che volevamo fare. Cosa ne pensi della situazione musicale nella città di Bologna? La situazione musicale è in generale molto tragica con Teatri che licenziano gli orchestrali, pensiamo cosa sta succedendo in questi giorni all’Opera di Roma, davvero impensabile. Bologna soffre come tutte le altre città. Noi musicisti Bolognesi cerchiamo di trovare nuove occasioni per poter suonare insieme. Come è nata la tua passione per la musica e in particolar modo per il flauto? La mia passione è nata alle elementari quando ho capito senza alcun dubbio che avrei fatto il flautista. Volevo suonare, ero molto portato nella musica e il flauto mi sembrava uno strumento magico. Fin da piccolino avevo le idee molto chiare.
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Luoghi del Salento
Castro, un sito da sogno, un tesoro da conservare ì della domenica n°47 - 12 ottobre 2014 - anno 2 n.0
Creatura senza pari C
Una fotografia panoramica di Castro alta
astro, fulgida perla del meraviglioso Salento, si pone alla stregua di sublime crogiolo, fantastico concentrato di bellezze e tesori, fra angoli d’incanto, fondali cristallini, luminosi soppalchi d’azzurro vivo. Tale e tanto insieme, immerso in un’atmosfera che avvolge, accarezza e rigenera lo spirito, alleviandone ambasce, debolezze e sfinimenti. E’ un sito di sogno, Castro, che si fa ammirare sotto un moto irresistibile, un bene, un tesoro che si lascia amare e preservare. Intorno ai bastioni possenti e alle mura di cinta del Borgo, alle chiazze verdeggianti e profumate degli orti, giardini e frutteti in declivio verso la marina, al palpito che aleggia e si muove silenzioso nelle piazzette raccolte e lungo i vincoli trasudanti storia e testimoni di vestigia lontane, si avverte la sensazione di essere più lievi e insieme più pieni. Si riscoprono ricordi ed emozioni, si compongono pensieri positivi, si vivono autentici stacchi rispetto al vortice e ai sobbalzi del quotidiano, ai malesseri della realtà, agli affanni nell’attesa del divenire. In termini diversi, ciascuno ha agio di tirar fuori la propria anima autentica, magari a lungo negletta, nella semplicità dell’accontentarsi dell’essenziale, come dire dei valori veri. Solo in apparenza, insomma, limitazioni e rinunce, mentre, nella realtà, si avverte, invece, appagamento, anzi gioioso appagamento. A seguire, quali e quanti misteri di sogno, spunti d’immaginazione e d’estasi nel rimirare le onde di Castro, nel trattenere lentamente lo sguardo a ridosso degli sviluppi – in su e giù, va e vieni – dei suoi confini di rocce brune, lunga e tratteggiata collana di tonalità scura e dolce. E’ bello, conferisce gioia, sebbene sotto un alone di mistero, il lontanissimo impatto del pugno di legni condotti dal troiano Enea di fronte agli scogli, al minuscolo falcato seno da riparo e al promontorio di Castro. Canto unico e senza confronto, poesia nel poema, i versi del terzo capitolo dell’Eneide: Le brezze sperate rinforzano, ormai vicino si schiude un porto e sulla rocca si
profila il tempio di Minerva. I nostri ammainano le vele e volgono a riva le prue. Il porto si inarca curvato dalle onde d’oriente; una barriera di roccia biancheggia di spume salate e lo ripara; scogliere turrite lo presidiano con dupliceabbraccio, e il tempio arretra da riva.
di Rocco Boccadamo
Una sorta di singolare battesimo per una creatura senza pari, come, fuori d’ogni esagerazione, si può definire Castro. E dopo l’antichissimo approccio dell’eroe esule, sullo scorrere del tempo e dei millenni, una ridda di altre immagini storiche, una lunga catena di personaggi, eventi e accadimenti grandi e minuscoli, che hanno lasciato segni e orme nell’habitat d’intorno e, soprattutto, fra i respiri di quanti c’erano e vivevano, volti e voci a loro volta perpetuatisi, idealmente ma inequivocabilmente, nelle albe che si sono susseguite e levate sino ai calendari presenti. Ci vuole poco per sognare, per richiamare, dal profondo, il meglio di sé, per scoprire, dentro, un altro io, un’essenza migliore. Come dire, l’umile moderno cantore di Castro non smette mai di volgere gli occhi verso Punta o Pizzo Mucurune, lingua naturale che si colloca fra i più conosciuti simboli della località; oltre a indirizzare lo sguardo, sofferma la mente sulla gran parte dell’estensione del promontorio, che, pur ricca di vegetazione che spontaneamente nasce e resiste nel tempo, di strati verdi che si rinnovano ad ogni primavera, di rovi riarsi e secchi quando il bacio del sole estivo diventa rovente, tuttavia, forse, non è mai stata calpestata da essere umano, è rimasta così come si trovava millenni fa. Deriva, da ciò, il ritorno a mondi per un verso lontani e distanti, e però vivi e vicini almeno sottoforma di speciali pensieri che si rincorrono, in particolar modo nelle calde e intriganti notti estive. Godere di simili spettacoli ed effetti nutre meglio di qualsiasi sontuoso banchetto, è il cibo ideale per ogni animo sensibile, amante del bello e dell’autentico, amante della natura.
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È
Pensieri e nostalgie a margine della mostra di Katarina Gatia La faccia del potere. Manifesti politici della Cecoslovacchia
Il socialismo appeso
stata presentata sabato 4 ottobre alle Manifatture Knos di Lecce una Mostra dal titolo “La faccia del potere. Manifesti politici della Cecoslovacchia dal 1948 al 1989”. La signorina Katarina Gatialova, coadiuvata da Michele Bee e Maurizio Buttazzo, ha curato l’esposizione motivandone l’enunciato: “Una mostra sugli stereotipi usati dalla propaganda, che non ha la pretesa di raccontare il comunismo in Cecoslovacchia, ma di esplorare il suo linguaggio visivo e la relazione tra libertà creativa e libertà politica in quel particolare contesto. Saperci trovare davanti a quei manifesti con il giusto senso critico è per noi una prova di autonomia di spirito”. Ella dichiara di aver trovato per caso quei manifesti, arrotolati in una cantina e destinati ai rifiuti. Li ha salvati poiché è rimasta colpita dall’aspetto grafico che i disegni offrivano, e forse con la stessa misura avrebbe trattato qualsiasi altro oggetto di quel periodo lì depositato: come bambole o giocattoli o modellini di autovetture Tatra o Skoda ecc. Secondo lei “i cecoslovacchi erano obbligati in epoca socialista a guardare tutti i giorni i .Manifesti esposti” Ci invita pertanto a “confrontarli con gli annunci dei cartelloni pubblicitari del mondo capitalistico”. Dice pure che “i Manifesti evidenziano la perdita di contenuto ideologico e un crescente vuoto visivo, e che a seguito della fine del regime comunista possiamo, tra le altre cose, anche ridere di essi”. Aggiunge anche che “quando il potere socialista nazionalizzò le fabbriche ed industrie private, i legittimi proprietari furono carcerati o mandati nei gulag o addirittura fucilati”. Ella si sottrae, in definitiva, a qualsiasi analisi critica che possa illuminare i fondamentali passaggi o aspetti di quel periodo storico, ed invita gli spettatori a fare altrettanto: lontani da ogni riferimento ideologico o sentimento nostalgico. S’affranca dunque, la signorina Katarìna, da qualsiasi retaggio storico e culturale che la possa avvicinare al ‘socialismo reale’ dell’epoca. A mio modo di vedere, questa spicciola ed improvvisata impostazione limita notevolmente la capacità di comprensione e la completa visione di un vasto movimento nelle sue proporzioni: politiche, economiche, culturali, sociali ecc.; poiché tutto è collegato, non si può discernere una fatto da un altro. Un siffatto avvenimento di tale portata non lo si può circoscrivere solo nel ristretto
La locandina della mostra e le insegne del Partito Comunista Cecoslovacco
ambito del linguaggio visivo o alla limitata libertà dei creativi, come se oggi l’avessero tale libertà: ‘l’autonomia di spirito’ di cui si parla nel testo di presentazione è un illusione, ‘il giusto senso critico’ è condizionato dal nostro contesto storico: la nostra democrazia è mera demagogia, altro che libertà. I Manifesti racchiudono un pensiero molto più profondo ed importante di quello invece prettamente formale a cui è interessata l’avvenente ma superficiale Katarìna Gatialovà, dimostrando tutto sommato una operazione puerile. Non si può formulare dunque un giudizio guardando solo i caratteri dei disegni che i creativi (liberi o legati che siano stati) hanno offerto in quella occasione storica. Oltre questo, non è affatto vero che i cecoslovacchi erano tenuti a osservare ogni giorno i Manifesti di propaganda politica, nessuno costringeva nessuno. Come non è vero che i proprietari delle fabbriche confiscate dal regime e statalizzate siano stati deportati o addirittura uccisi, come ella afferma. E non si può, infine, comparare la propaganda cartellonistica di allora con la pubblicità commerciale dei nostri tempi, come lei consiglia di fare. Sono due cose distinte, due storie diverse, due corpi a sé. Riderne poi di essi – come possibile reazione ai poster – mi sembra proprio una sfacciataggine. Insomma, umiliare in questo modo
un imponente movimento politico operante nel secolo scorso in mezza Europa – se pur discutibile – non serve a migliorare la nostra condizione critica di quel periodo storico, né ad approfondire lo sguardo sul passato e neanche a mettere in luce le contraddizioni del presente. Siffatta operazione congela solo la memoria. Dalla capitale della Repubblica Ceca mi informano che tra i sistemi politici ed economici conosciuti e attraversati dal popolo cecoslovacco, essi preferiscono quello ipotizzato dalla cosiddetta “Primavera di Praga”, capeggiata da Alexander Dubcek alla fine degli anni Sessanta. E pensano pure che abbia fatto più danni la presidenza di Vàclav Havel che quarant’anni di socialismo. La gente quindi, a conti fatti, si orienta verso una social-democrazia: questo non per nostalgia del passato da cui rifugge Katarìna Gatialovà, ma per prendere coscienza dei fatti; pensiero questo che la curatrice della Mostra ha volutamente sotterrato. Orientata solo a distinguere un segno grafico dall’altro o a proteggere la presunta ‘libertà’ espressiva dei creativi, che non a dipanare argomenti riguardanti quell’importante evento storico. Troppo propensa, come tanti altri, a offuscare e dimenticare e incenerire in un loculo tale esperienza; orientata semmai al folclore so-
alova alle Manifatture Knos a dal 1948 al 1989
ad un filo
cialista piuttosto che sottoporlo a riflessioni concludenti. I suoi Manifesti sono appesi ai fili che con folate o sbuffi di vento oscillano, come per allontanare tristi ricordi su cui non conviene tornare. Poiché bisognerebbe impegnarsi a pensare. Già, il pensiero: questo latitante sostantivo; nel vuoto odierno è un attributo inesistente, e in questo deserto culturale prolifera solo la ‘società dell’immagine’ che ci abbaglia, mortificando quell’esile frammento d’opinione e d’espressione a cui eravamo inutilmente attaccati. Ora le nostre memorie sono appese ai fili e ondeggiano in questi tempi incerti, mancanti di speranza, come a confermare che siamo tutti nella stessa barca. Così come si giudica una pentola a pressione o un opera d’arte contemporanea, allo stesso modo si concettualizza il passato. Non è rimasto proprio niente; rappresentiamo, attraverso queste generazioni, il frutto delle macerie rimaste. Risucchiati dal consumismo d’accatto, seguiamo questa tendenza anche nell’affrontare la Mostra sopra citata. Poi una volta a casa tutto evapora come un liquido e viene meno ogni ricordo, o presenza del passato. E non ci toccano nemmeno per sogno le immagini visitate, se non dal punto di vista grafico: obiettivo primario tanto caro e forse unico
Arte
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di Antonio Zoretti
dei curatori. Che tristezza! In questo sciocco e sciancato Duemila non ci si confronta più su niente, domina il vuoto imperante, i grandi temi esistenziali d’un tempo su cui ci esponevamo ardenti sono ora silenti, rappresentano ormai un vago ricordo. Siamo tutti risucchiati dalla involuzione democratica della società, dovuta al controllo sociale attuato dalla diffusione capillare dei mass-media. E la nostra cultura è suddita, schiava dell’immagine, versata ormai al consumo. L’operazione di Katarìna Gatialovà si annovera in questa contesto, e perciò è condizionata proprio dalla sua messa in immagine, del “prodotto” da consumare, in sostanza. Sottraendo ogni possibilità di comunicazione, di espressione, di dialogo. Di questo si tratta. Katarìna non offre neanche la possibilità di mancare l’immagine - tanto è presente e pressante in lei il valore stilistico, estetico, grafico del messaggio – per rendere tangibile quel periodo storico e per ricevere emozioni e sensazioni diverse. In verità, l’indagine della giovane ragazza slovacca non va da nessuna parte, cercando delle cose; si muove solo sul piano esteriore e attraverso questo presume di sapere tutto e invece non tocca niente. Funziona solamente nella sua ripetizione, con gli stessi simboli e segni, ritornando sempre sugli stessi temi, con le stesse immagini. Ridondante, quindi. A quel mondo, richiamato dai Manifesti, la bella Katarìna non è certo appartenuta, e non ha niente a che vedere con quell’arte grafica che mirava ad ottenere consenso, non consumo. Se l’arte ha una possibilità d’esistenza non è certo nel consumo, essa deve tendere a qualcos’altro: a farci riflettere per esempio, a farci pensare soprattutto e reperire ciò che non capiamo. Questo può essere il senso dell’arte nella sua totalità, che investe fenomeni complessi, non circoscritti nella loro veste grafica orientati a misurare il rapporto tra libertà politica e libertà creativa. Condannare la censura nei disegni oltremisura è una critica che si può fare anche nei regimi democratici. Non di questo si tratta. Se si vuole percepire i lavori della Mostra, o fruire di più la sua opera bisogna inserirli in un contesto molto vasto, sotto un complesso strumento d’indagine, capace di svincolarsi dal linguaggio visivo. Una funzione critica, dunque, auspicabile, che rompa i nessi grafici, che rovisti tra significato e segno, a vantaggio d’una comprensione corrosiva che vanifica l’immagine, rovina le rubriche dei rotocalchi evidenziati
dal coloro rosso, verde o azzurro. In questo la Mostra di Katarìna può essere importante. Oltre, chiaramente, all’aspetto grafico seducente. I Manifesti appesi rappresentano solo un tramite tra l’immagine e lo sguardo dello spettatore; immagine che assume in sé oltre ai segni grafici anche il profondo fenomeno in questione. Una Mostra dunque che deve esprimere un sentimento già in sé, che ricopra una totalità, che esamini l’insieme, con questa operazione complessa che è costituita da più elementi, riuniti nei Manifesti: “L’insediamento del Partito Comunista in Cecoslovacchia nel 1948 (17-25 febbraio)”; “I piani quinquennali, costituzione del Partito Comunista in Cecoslovacchia, congressi del Partito Comunista”; “Il giorno di Maggio (1 maggio)”; “Il giorno della vittoria contro il fascismo (9 maggio)”; “Pace, donne, bambini - (8 marzo) festa della donna - (1 giugno) festa dei bambini”; “Insurrezione nazionale slovacca – come tentativo di respingere le truppe tedesche che volevano occupare il territorio slovacco”; “La giornata della Radio, della Stampa e della Televisione (21 settembre)”; “Giorno della nazionalizzazione (28 ottobre)”; “Grande rivoluzione socialista d’ottobre (VOSR) e i suoi leader (7 novembre)”. Insomma, il contatto con quelle immagini deve aiutare a riflettere, altrimenti resta solo un appannato ricordo, da molti misconosciuto. Superare il mero consumo visivo che la ‘società dell’immagine’ ci propina. Deve cambiare il rapporto che noi abbiamo con l’immagine, in modo che i Manifesti vengano teorizzati ed esplicitati. Nelle sue caratteristiche più importanti quel movimento politico, se pur imposto, ha originato una forza singolare: il socialismo. Divenendo un sistema, col suo carattere autoritario certo, ma di particolare rilevanza. La percezione dei Manifesti da parte dei fruitori sarà inscritta nel sentimento da essi maturato nel concepire una società diversa da quella attuale. Il socialismo del secolo scorso è passato, la cosiddetta ‘dittatura del proletariato’ è superata; ora ci tocca il mercato unico globalizzato. Ma, solo il tempo potrà riconoscere se questo è giusto o sbagliato. Ossia, non è quel tempo passato che ha preceduto un tempo socialmente inteso, ma è il tempo che renderà possibile, necessariamente, un tempo della rinascita socialista e del sapere intellettuale. Dobry den e dasvidania.
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in Agenda
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C’è Crossroad
A Galatina negli spazi di Art and Ars Gallery appuntamento per la Giornata del Contemporaneo
E
che il contemporaneo sia di casa e sia una casa aperta a tutti. Potrebbe riassumersi in questo modo il senso della Giornata del Contemporaneo, manifestazione nazionale promossa dall’ Associazione Musei d’Arte Contemporanea Italiani (Amaci) giunta quest’anno alla sua decima edizione.
di Fabio A. Grasso
Un’opera di Massimo Pasca
prende come in fulmineo contropiede”. Passiamo agli altri due artisti Apollonio e Brizzo. “La percezione della dimensione urbana nei disegni di Giuseppe Apollonio invece, ha origine da un processo di sottrazione costruttiva che rende leggibile l’idea. Le città sono un groviglio di cose giustapposte e disarmoniche dove le forme stereotipate frantumano le relazioni umane. Il disequilibrio delle proAnche a Galatina, negli spazi della Art and Ars Gallery di Gigi Rigliaco, porzioni, visibile in alcuni oggetti del quotidiano, è l’unico appiglio per rimanere sarà festeggiata la Giornata con un evento dove l’incontro tra la performance legati alla condizione dello spazio reale. artistica, i fruitori e le dimensioni socio- urbane del territorio sono al centro In questi lavori, nei quali la contaminazione tra gli studi in architettura, il desidella questione espositiva. Crossroad, in mostra dall’11 fino al prossimo 26 gner e le illustrazioni caratterizzano l’operato di Apollonio, si percepisce Ottobre 2014, è il titolo dell’happening nel quale Massimo Pasca, Brizzo, un’esigenza stereometrica dove la sintesi figurativa, legata in parte alle sugGiuseppe Apollonio e Ivan Garrisi sono i protagonisti dell’idea performa- gestioni di matrice surrealista, diviene attraverso la genuinità e la precisione tiva. del segno una raffinata e labirintica riflessione sul paesaggio culturale. Le elaDella mostra abbiamo parlato con il curatore Giuseppe Arnesano. borate visioni di città di Giuseppe Apollonio sono in continua relazione ed Può spiegarci meglio l'iniziativa? evoluzione con il nostro Essere, che molto spesso pecca di responsabilità e “Crossroad è un fatto dove lo spazio architettonico interno e circostante, si- si adagia nell’indifferenza del caos. tuato tra via Orsini, corso D’Enghien, Del Ponte e piazza Toma, è vissuto in Crossroad accoglie in un continuo dialogo performativo gli scatti di Brizzo itinere e diviene un episodio sensoriale e allo stesso tempo luogo mentale di che, non da fotografo, ma da digital artist, percepisce in maniera intimistica confluenze nelle quali, il melting pot delle esperienze artistico culturali del ed analogica i sommessi gemiti di paesaggi ed architetture. L’artista, partito quartetto, s’armonizza e si relaziona con la gente in dinamiche, immagini, vi- dalla ricerca fotografica, porta avanti da qualche anno un progetto di elabocende e sonorità provenienti dal tessuto urbano, carico di contraddizioni razioni foto- digitali. Con questo linguaggio Brizzo affronta la questione e vive socio- ambientali che da un lato valorizzano e dall’altro degradano il territorio. il territorio con una propensione di indagine diretta nei luoghi extraurbani, inLa galleria dunque, vissuta come un open space soprattutto nei giorni che troducendo e documentando con sensibilità bucolica, un rapporto intrinseco precedono l’inaugurazione, si apre (In) ed accoglie (out) insieme agli artisti, ed immaginario dello spazio. le interazioni quotidiane che giungono dalla strada. Vivere e indagare il terri- In questi lavori, eseguiti con iPhone ed in particolare con l’app hipstamatic, torio vuol dire anche misurarsi con quella temperatura socio- culturale che l’artista non si sostituisce alla tecnica e all’occhio del fotografo professionista, caratterizza ogni zona urbana. In questo modo Pasca, Apollonio, Brizzo e ma piuttosto rappresenta delle pregevoli e calibrate ricognizioni visive effetGarrisi esprimono, attraverso medium e linguaggi totalmente distinti, una per- tuate attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie. In queste proiezioni, dove le sonale ricerca che gli accomuna nelle esigenze narrative, conoscitive e spe- ambivalenze e le interazioni tra in e out prendono il sopravvento visionario, rimentali. le prospettive distorte mettono in evidenza il disegno astratto di strade, piazze Questi metodi espressivi sono concepiti come quattro linee suddivise su al- ed edifici nel ricordo avanguardistico che fu di Alvin Langodn Coburn”. trettanti livelli che, in un’ottica prospettica, convergono senza mai congiun- L'ultimo degli artisti presenti è Ivan Garrisi. gersi e si sviluppano indistintamente in una singola percezione dimensionale. “Ivan Garrisi, giovane suond artist e performer, ragiona quasi in modo antaQuesto processo, che da un ambiente fisicamente definito ed interattivo tra gonista con il pubblico che, in maniera inconsapevole, entra a far parte delin e out, giunge tramite le pratiche artistiche ad una forma di connessione di- l’evento performativo. L’essenza urbana del performer è racchiusa nella rettamente attiva, coinvolge il fruitore, lo spazio ed il paesaggio nella sua am- capacità di contenere, modulare e far connettere le instabilità del suono e bivalenza”. con le reazioni comportamentali degli individui. Garrisi, che attraverso un proQuali sono le caratteristiche dei singoli autori? cesso di ibridazione tra video, musica elettronica ed informatica musicale, “Ognuno degli artisti presenti in mostra esprime la propria dimensione urban: rielabora un concetto di espressività multimediale nel quale il fattore sorpresa Massimo Pasca, live painter e poliedrico artista, conduce da anni una ricerca gioca un ruolo fondamentale. Urban texture raccoglie le interazioni sonore e pittorica sublimata nel rinnovamento colto del segno di Keith Haring. Non da le trasmuta all’interno dello spazio architettonico in immagini sonore. Ancora writer Pasca vive comunque d’istinto quel tempo urbano/musicale, tempo in- una volta in e out, interno ed esterno si compenetrano favorendo incorporeità teso come voracità interiore nell’esecuzione del gesto, paragonato ideal- transitorie e fluttuanti; dunque l’imprevisto è descritto nei sospiri della città fatti dai brusii, dalle macchine, dai passanti, dagli uccelli e da tutto ciò che mente al blitz illegale dei graffitisti. L’uniposca e il pennello come la bomboletta spray così nelle tele dell’artista, scorre, si muove, vibra e anima lo strato ed il substrato nel bel mezzo di queldove il procedimento della scrittura automatica si rivela nel suo modus ope- l’ideale incrocio urbano delle sensazioni. randi, la forza comunicativa si ammanta di poetica letteraria, storica e sociale. Il tessuto urbano genera all’improvviso un intreccio vitale e sonoro dove le Pasca elabora un cortocircuito iconografico pieno di brillanti cromie e di un suggestioni del hic et nunc stimolano l’interconnessione ed il dialogo artistico dissacrante senso ironico nel quale, l’elemento figurato ritrova in accenni pre- tra la pittura, le elaborazioni foto- digitali e il disegno, nel solco vivido dell’irrigevoli l’impronta fumettistica di personaggi quali Pazienza e Iacovitti. Le opere petibilità del gesto performativo e della comunicazione intermediale che veidi Massimo Pasca sono delle visioni complesse, coinvolgenti e psichedeliche colano e sostengono il messaggio in un punto comune. nelle quali l’attimo intuitivo si anima in uno stile decisamente pop che sor-
Cronache culturali
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Un viaggio nelle tradizioni popolari della Puglia promosso dal Ministero per i Beni Culturali e Paesaggisitci
L'immaterialità di un bene culturale e la materialità identitaria del ricordo
I
n un'epoca presa e tesa dalla tangibilità del tutto, dalla materialità delle cose, dal concetto orrifico del “se non si tocca non esiste”, una ricerca che si ponga come obiettivo l'identificazione, la conoscenza, la catalogazione, la diffusione dell'immaterialità di un bene culturale meriterebbe l'attenzione del lettore anzi, meglio sarebbe dire del cittadino, per un tempo pari almeno a quello necessario a leggere queste righe. Si parla di immaterialità di un bene culturale, lo si è detto, e in particolare di un aspetto che probabilmente diamo per scontato ma che incide nella nostra memoria e nella nostra formazione mentale più di ogni altra cosa. Un canto, un ballo, una processione religiosa sono presenti nei nostri ricordi e in mille modi hanno conformato i ricordi stessi tanto che con questi finiremo sempre con il confrontarci nel corso della nostra vita. Tutti, in sostanza, ricordiamo “i canti della nonna”, tutti inevitabilmente assaporiamo nella memoria il senso del distacco e della perdita di questo che è, a pieno diritto, un patrimonio culturale da salvaguardare. Meritorio, quindi, l'operato svolto in questi ultimi anni proprio dalla Direzione per i Beni Culturali e Pae-
saggistici della Puglia (MIBACT). Vediamo i dettagli della ricerca svolta.
Nella sera dello scorso venerdì 10 ottobre si è tenuta nella sala multimediale del Castello Svevo di Bari, la presentazione del progetto “Valorizzazione dei beni immateriali della Puglia”. Il progetto di ricerca nasce dall’esigenza di trovare le radici delle mille comunità che dalla terra, dai luoghi, da antiche ritualità, da voci del passato, da litanie dimenticate, da gesti della memoria, trovano e ritrovano linfa nel “vivere”. Un viaggio, quello in Puglia, che fra eredità del profano, rivisitazione del sacro, santi venuti dal mare, purificazione del fuoco, riti di fertilità, bisogno di protezione e cura, parla delle stesse paure, delle stesse speranze che da sempre accompagnano il viaggio dell’uomo. Il risultato dell’indagine svolta nell’arco di un anno su tutto il territorio pugliese si è tradotto nella produzione di documenti audiovisivi nonché di schede demoetnoantropologiche che consentono di verificare e documentare, attraverso i “luoghi della festa”, i modi di mantenimento della memoria collettiva e di strategie di coesione sociale.
L’immagine di Puglia in festa
La pagina è a cura di Marisa Milella* e Fabio A. Grasso. *Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia
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I libri di Rholing
in Agenda
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Alle Manifatture Knos UNIBOOKAT / LABORATORIO APERTO
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n corso di fotografia Si terranno (tra ottobre e novembre) il martedì e il giovedì, dalle 19.00 alle 20.30, all’ex Convitto Palmieri in Piazzetta Giosuè Carducci a Lecce, condotto da Dario Melissano Il corso si compone di dieci lezioni ed è rivolto a tutti gli appassionati di fotografia che vogliono imparare le tecniche ed i principi che gli permetteranno poi di produrre immagini migliori con la propria fotocamera, sfruttandone appieno le funzioni e selezionando le corrette impostazioni per ciascuna situazione. Un percorso che, attraverso lezioni pratiche e teoriche, porterà l'appassionato ad una piena consapevolezza ed utilizzo del mezzo fotografico. Il corso è diretto dal fotografo e regista salentino Dario Melissano, il quale ci ha spiegato come verrà strutturato il percorso didattico. Il fotografo, nella prima lezione intende dare uno sguardo alla storia della fotografia, attraverso le immagini dei grandi maestri che ne hanno scritto la storia, con primi accenni all'uso di una macchina fotografica e un confronto fra il sistema analo-
M
ercoledì 15 ottobre, GAP ospita il laboratorio di RHOLING presso le Manifatture Knos. Sono invitati artisti, poeti, bambini, cittadini che abbiano desiderio di aderire a questo progetto. Per 4 mattine il laboratorio rimarrà aperto per chiunque volesse cominciare o continuare la creazione di un nuovo libro ed utilizzare i materiali a disposizione del progetto. I libri realizzati, raccolti nei 10 giorni successivi al laboratorio, saranno esposti nelle librerie della città; Un numero di copie selezionate dai curatori del progetto saranno inserite nella collezione itinerante di Unibookat. E’ richiesto ai partecipanti di portare un propio libro ( consigliamo di cercare nelle antiche librerie dei nonni, vecchie enciclo- pedie, edizioni illustrate e molto datate). * Il laboratorio metterà a disposizione un numero limitato di copie. Da Mercoledì 15 a Sabato 18 Ottobre 9.30 alle 13.30 Manifatture Knos Via Vecchia Frigole, 34, Lecce
gico (la pellicola) e quello digitale. La seconda e terza lezione, ci spiega il docente, saranno dedicate alla tecnica fotografica, imparando il funzionamento dei tempi dell'otturatore, del diaframma, la profondità di campo, la sensibilità Iso e la temperatura colore. A queste prime lezioni seguirà un'uscita diurna, per immortalare alcuni scorci di Lecce, le sue viuzze, i monumenti, la gente che la attraversa e quindi mettere in pratica ciò che si è appreso in classe. Si continuerà con delle lezioni di inquadratura e composizione dell'immagine, in modo da capire come rendere uno scatto più artistico, anche attraverso il confronto con i grandi fotografi del passato, e inoltre le differenze fra i diversi stili quali il Reportage, la Street Photography, il Ritratto, lo Still Life. Infine, Infine due leziondi di post-produzione con programmi quali camera raw e lightroom ed una mostra il cui tema sarà scelto dagli studenti durante il corso e le due uscite fotografiche. Informazioni: ilgrifoneartecontemporanea@gmail.com 320.9654542 | 328.0576284
Un corso di fotografia di Dario Melissano all’ex Convitto Palmieri
di un clic
La consapevolezza Una fotografia di Dario Melissano per l’Accademia di Moda Calcagnile
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Corrispondenze
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A Montrèal ogni domenica la gente si ritrova sulla montagna in una sorta di rituale collettivo di liberazione e benessere
Il tam tam
suona la vita
di Milena Galeoto
Corrispondenze
spagine
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Quarta di copertina
È
Jamaican coiffeur
di Milena Galeoto
domenica pomeriggio a Montréal quando decido di attraversare Course Saint-Laurent, l’arteria principale della città, denominata la strada di mezzo, la spina dorsale del paese, lunga 42 km, quanto il perimetro dell’isola. E’ su questa strada che si alternano i diversi quartieri, incluso Little Italy. C’è la fiera sul corso. D’estate ogni quartiere, apre le porte di case e negozi che si estendono fin sopra i marciapiedi con bancarelle dove espongono tutta la merce in saldo. E anche gli abitanti montano delle tavole, sulle quali vendono manufatti artigianali del loro paese d’origine, cianfrusaglie vintage dei loro appartamenti. I protagonisti, naturalmente, sono giovani e bambini. Ti accorgi di quanto sia giovane questo paese, per la miriade di ventenni che si ritrovano nelle piazze, durante queste giornate, improvvisando una festa col dj di turno, esponendo magliette con le stampe più bizzarre, angoli bar fai da te, e tra loro c’è perfino chi allestisce un angolo da barbiere, specie se Jamaicano perché loro sono considerarti i migliori a tagliare i capelli. Si respira arte per le strade e i murales sono vere e proprie opere urbane, finanziate dal comune che offre agli artisti di strada delle sofisticate impalcature. Montréal è considerata la capitale degli artisti, vengono da ogni parte del Québec, dell’America, e anche dalla vecchia Europa per mescolarsi insieme in tanti stili, per celebrare insieme la “libertà d’espressione”. Mentre passeggio lungo Saint-Laurent, incrocio i diversi paesi latini che si susseguono lungo la strada. Cammino, percorro chilometri senza accorgermene perché ogni angolo mi sorprende piacevolmente, la domenica basta equipaggiarsi bene, procurarsi un vecchio container e realizzi un negozio, t’incontri con amici musicisti e improvvisi un’orchestra. Mi porto verso la montagna, attraversando vicoli stretti, le zone più suggestive del quartiere Plateau de Mont-Royal. Dalle case addossate esce odore di cucinato, a ogni ora del giorno.
Fiera Saint-Laurent
Montréal è considerata la capitale degli artisti vengono da ogni parte del Québec dell’America e anche dalla vecchia Europa per mescolarsi insieme in tanti stili
Ho presto imparato qui, che mangi quando hai fame perché quando si convive con tante etnie ti adegui ai ritmi dell’essere umano, fuori dai rituali abitudinari della tua cultura. Mi sorpassa veloce un bambino sul monopattino, sicuramente questa è la sua Ruelle per come sembra sicuro della strada che percorre da solo. Incontro una donna, un’anziana di colore e le chiedo se può prendermi una foto perché ho voglia di fissare la mia immagine in questa dimensione dove ritrovo me stessa. Mi dice che se proseguo verso la montagna, sentirò i tam-tams, sì, perché ogni domenica la gente si ritrova sulla montagna, in una sorta di rituale collettivo di liberazione e benessere. Molti si caricano sulla spalla un jambei, delle bacchette, e c’è perfino chi si arrangia con coperchi e pentole, e insieme si batte allo stesso ritmo una musica tribale. Un rituale che si ripete dalla fine degli anni ’60 inaugurato dalla generazione hippie. Salgo verso la montagna e ai piedi di un’enorme statua della libertà e indipendenza, si apre ai miei occhi uno scenario incredibile migliaia di persone costellare l’enorme monte, distese sul prato, in vortici di danza, a battere il ritmo che celebra la vita. Grandi, bambini, anziani, bianchi, neri, di ogni razza e genere che hanno in comune un’espressione di beatitudine. Mi fermo ancora davanti a questo scenario ma è impossibile stare a guardare senza lasciarmi prendere dal ritmo. Ho voglia di celebrare la vita anch’io, di purificarmi da tutte le inutili mortificazioni vissute nel mio mondo, ho voglia di liberarmi per rinascere a Montréal, libera da pregiudizi, da inutili pensieri, e sento che il mio cuore torna a battere forte a ritmo del tam-tam. Saluto la gente che ho conosciuto, tanta, saluto Steve, musicista Jazz. Rodrigo, muratore appassionato batterista. Lorena, impiegata delle poste che la domenica a piedi nudi balla finché non tramonta il sole. Il sole è basso e illumina i grattacieli di Down Town, scendo dalla montagna e decido di cenare all’americana, prendo un hamburger, patatine e un tè freddo della casa. Torno a casa con tante immagini e suoni nella mia mente, e capisco che a Montréal, anche se hai le scarpe bucate, ti senti la persona più ricca del mondo perché sei un uomo libero.