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spagine della domenica n°52 - 16 novembre 2014 - anno 2 n.0

Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri

Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri

Paola Leone regista della Compagnia Io ci provo con l’attore Alessio Pallara in una foto di Mattia Epifani


Se il padre è deluso

spagine

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opo le “annunciate” dimissioni di Giorgio Napolitano da Presidente della Repubblica da parte di Stefano Folli su “la Repubblica” dell’8 novembre scorso – «c’è anche la certezza che la decisione del Presidente è presa» – si è scatenata una ridda di ipotesi e di chiacchiere, ai limiti della decenza, culminata nella satira politica di Crozza e nella politica satirica di Grillo. Folli ha scritto che Napolitano si dimetterà entro la fine dell’anno, al termine del semestre italiano di presidenza dell’Unione Europea. Se la cosa non è vera, è comunque verosimile; direi normalissima. Tanto è bastato per innescare il chiacchiericcio perfino sul genere del suo successore, come si faceva una volta quando una donna s’ingravidava e tutti nelle famiglie interessate e nel vicinato ad augurarsi e a scommettere se sarebbe nato un maschio o una donna, “nnu masculazzu” o “nna fimminazza”. Poi magari arrivavano dei gemelli, a tener tutti contenti o scontenti. Eventualità da escludere per la presidenza della repubblica. La reazione del Quirinale non confermava né smentiva. Napolitano faceva sapere che sarebbe stato lui e solo lui a decidere se e quando si sarebbe dimesso. Tutto come nel protocollo, direi nell’ovvio. Che Napolitano non avrebbe portato a termine il secondo settennato lo disse lui stesso. Disse che avrebbe lasciato quando fossero state superate alcune criticità, fra cui quella economica, e si fossero realizzate le riforme istituzionali; come un buon vecchio padre di famiglia, insomma, che prima di andarsene vorrebbe vedere tutte le cose in ordine e tutti i figli sistemati. Napolitano avrebbe voluto che il suo “straordi-

di Gigi Montonato

Il presidente Giorgio Napolitano fotografato da Roberto Paglianti

nario” fosse almeno ripagato dagli stessi che lo avevano pregato di restare a farlo. Ora se ne vuole andare perché gli obiettivi sono stati raggiunti? Non scherziamo. La crisi economica c’è e continua ad esserci con sempre minori speranze per un paio di generazioni di giovani, i quali sono defunti anzitempo alla vita produttiva del paese. Luci in fondo al buio – per usare un’espressione abusata – non se ne vedono. Senato e province c’erano e ci sono: sono stati solo sottratti al popolo sovrano. Quanto alle riforme istituzionali, legge elettorale inclusa, si è realizzato ben poco. Si litiga sul premio di maggioranza, sui capilista bloccati, sul voto di preferenza, sulla soglia minima di accesso; si litiga su tutto. Mentre sulla riforma del mercato del lavoro soffiano venti di guerra, che potrebbero spazzare via tutto: la manna di Renzi, i livori della sinistra piddina, l’esagitazione di Grillo, i piani di Berlusconi e via piazza pulendo. E a proposito di piazza, dico di quella reale, essa lievita di giorno in giorno, come dimostrano le manifestazioni di protesta guidate dai sindacati. E monta in maniera sempre più pericolosa anche la protesta della gente contro violenze e degrado delle zone urbane dove dimorano gli extracomunitari salvati da morte certa nell’operazione “Mare nostrum”, di cui il governo italiano mena vanto in Europa. Come al solito, anche questa volta, il potere con cinismo ha scaricato sui cittadini deboli i costi dei suoi vanti. Non occorre avere particolare intelligenza o spirito di osservazione, perciò, per rendersi conto che Napolitano è stanco e deluso. Ma avrebbe deciso di lasciare non solo e non tanto per le sue condizioni psicofisiche – è un combattente della vecchia guardia, di quella buona – quanto e soprattutto perché quegli obiettivi da lui auspicati invece di avvicinarsi si allontanano sempre più o piuttosto vanno trasformandosi in qualcosa che somiglia tanto a ciò che a parole si dice di voler finalmente cambiare.

Fosse stata vicina la realizzazione di qualcosa, Napolitano avrebbe tirato coi denti, grazie ad una lucidità mentale che finora non lo ha abbandonato minimamente. A conferma di questa lettura sta la reazione di Renzi e del suo partito, i quali per un attimo hanno perso il buon umore e hanno detto sommariamente: dobbiamo accelerare, se Forza Italia non ci sta, cercheremo in Parlamento una maggioranza che soddisfi le sacrosante aspettative di Napolitano. Ma è durata un giorno o due la voce grossa, poi si è affievolita e spenta negli incontri Renzi-Berlusconi, inutili e ripetitivi. E’ tornata, invece, a farsi sentire la minaccia del voto di fiducia, che sembra un’autentica ghigliottina. Ora c’è poco da sperare. Quando in politica ci si propone come il risolutore a breve di tutti i problemi, il nemico peggiore è il tempo; più passa senza le soluzioni prospettate e più si annuncia la sconfitta. Renzi lo sa perfettamente. Fino ad ora ha fatto molti annunci, molte minacce, molti voti di fiducia; ma in concreto ha conseguito poco o niente. La sua forza finora è stata la debolezza degli altri. Ma se gli altri, come pare che stia accadendo, si riorganizzano e recuperano la forza, allora le cose si mettono male davvero. Il rischio è di tornare al punto di partenza senza nulla aver combinato. La carta che può giocare Renzi è quella delle elezioni, per la quale però manca lo strumento indispensabile: la legge elettorale. Se Napolitano si dimetterà prima della sua approvazione, allora la partita per l’elezione del Presidente della Repubblica diventerà drammatica, perché dipenderà dal successore di Napolitano l’indirizzo che prenderà la politica in Italia. Per continuare i suoi mille giorni Renzi dovrebbe impegnarsi a fondo per portare al Quirinale un suo “tutor”. Riuscirci non è impossibile, ma la politica – si sa – non è algebra.


Diario politico

della domenica n°52 - 16 novembre 2014 - anno 2 n.0

La sinistra, un miraggio?

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e il populismo e il nichilismo sembrano le cifre della politica moderna, le guerre e le crisi, ormai croniche, rappresentano il nuovo disordine mondiale. Il paradigma neoliberista è più di una teoria economica, è parte di una teologia politica dominante ed egemonica, dentro un dispositivo di potere che ci governa in una sorta di stato d’eccezione permanente. Carl Schmitt, il filosofo che diede avvio alla ricerca sulla sovranità politica nello stato d’eccezione, tentò invano di formulare una nuova Costituzione per l’immaginata era nazista (organicista e corporativa, gerarchica e improntata al Volk germanico), ma la Costituzione di Weimar non venne mai abolita ma solo sospesa, e prese via il Fhüreprinzip. Ora, che ci siano pulsioni per costituzionalizzare lo stato d’eccezione permanente in direzione post-democratica è certo, in nome della cultura dell’emergenza (economica in primis, ma anche per volontà di disciplinamento, di semplificazione delle procedure di decisione, verso una sovranità sovranazionale non democratica), ma è tutt’ora un processo tendenziale sottoposto al conflitto ed anche all’imponderabile, che è una bella caratteristica propria dell’a/venire, da non scambiare per la lo slogan fatuo “il futuro è solo un inizio” della Leopolda renziana. Fare dello spazio politico comune dell’ Altra Europa per Tsipras un’associazione ad adesione individuale e di massa è la proposta del tutto ragionevole del coordinamento nazionale scaturito dall’esperienza dei Comitati per l’Altra Europa delle elezioni mag-

gio. Provando a farne un processo costituente nella direzione, attraverso un processo di lunga durata, verso un “soggetto politico europeo della sinistra e dei democratici italiani”. Quest’ idea-forza del coordinamento nazionale è contenuta e argomentata nella bozza del documento di Marco Revelli, che oggi si sta discutendo. Una sorta di schizofrenia tra partecipazione alla rete sociale in Europa e quella in Italia, è stata evidente nella vicenda del lungo ciclo dei Forum Sociali Europei: divisi qui ma nello stesso spazio comune europeo, per motivi attinenti all’atteggiamento verso i governi di centrosinistra, ma sostanzialmente per differenze esasperate relative al riferimento sindacale, alla tematica della non-violenza, all’atteggiamento verso il movimento per la pace. Una schizofrenia da non riprodurre oggi nelle esperienze regionali, non se ne sente proprio il bisogno. La mutazione genetica del PD renziano? E da quale ghénos? O si tratta piuttosto di una mutazione sistemica? Il giudizio sul PD, sul governo nella Grande Crisi Globale (come la chiama Luciano Gallino), il conflitto d’autunno, sono tutti temi da trattare. Il populismo di governo e quello reattivo, da Grillo al nuovo tentativo della Lega dei popoli come una sorta di Alba Dorata in salsa italiana ma con accenti lepenisti. La crisi della destra autoritaria e affarista del lungo ventennio berlusconiano, che non venne sconfitta dal centrosinistra ma dalle dinamiche della stessa crisi. Pensare rozzamente che il PD sia il principale nemico del popolo è un’idea già messa a valore e profitto da Grillo, pensare d’altronde che si possa essere a lungo ondivaghi nel rapporto con il PD porta inevitabilmente alla subordina-

di Silverio Tomeo

zione culturale e politica. La “Syriza italiana” è un miraggio stante la situazione attuale ed ogni forzatura ne segna l’impossibilità, sino a che non si misurerà con il principio di realtà e responsabilità. Prendere una rappresentanza alle prossime elezioni politiche, con qualsiasi legge elettorale si metterà in piedi, non sarà una cosa semplice. Se dal movimento in Spagna degli indignados è nato Podemos, qui in Italia ci è nato Grillo (oltre che dall’antiberlusconismo, necessario ma troppo parziale) e si sprecò in maniera scomposta il 15 dicembre del 2011 a Roma una possibile vasta alleanza sociale contro la crisi grazie a 400 incappucciati in nero fuori controllo dediti ad azioni parallele pseudo - insurrezionaliste. Non si può glissare sulle culture politiche del conflitto e sullo spazio costituente necessario all’alternativa. Così come sulla questione del macropotere, che va bene affrontata sul piano del ruolo dell’Europa nella nuova risorgenza della questione internazionale, oltre ai famosi dispositivi dei micropoteri su cui ragionava Michel Foucault, che si definiva ironicamente un anarchico e arrivò ad entusiasmarsi per la rivoluzione khomeinista. "Il neoliberismo ortodosso ha fallito, c'è bisogno di più sinistra", ha detto Tsipras quando sbarcò a Cernobbio, sottolineando che "la sinistra è viva anche in Italia, nella società. E anche all'interno della base Pd, anche se adesso vota Renzi”. Dov’è oggi la sinistra in Italia? È nella società, nelle reti sociali, nelle pratiche sociali, nelle culture critiche. È ancora uno spazio e non ancora una forma politica.


N spagine

ella società contemporanea, l’antropologia mercantile avanzante imposta dal capitalismo finanziario ci sventaglia addosso quotidianamente la sua truce faccia. La politica attiva, invece, talvolta scivola sulle chine invereconde del rampantismo e dell’arrivismo. E, secondo certuni, perfino la ragione non se la passa bene. C’è chi ritiene che il modello culturale razionalista, dominante almeno negli ultimi cinquant’anni, mostri crepe vistose e consistenti. Alcuni studiosi pensano che la ragione abbia fallito: per questo motivo le persone ricominciano a sognare. Un giudizio troppo severo, categorico. Di certo, la filosofia, la matematica, la fisica, la biologia, la medicina, e le corrispettive applicazioni, hanno reso l’esistenza degli umani più agevole, più feconda. Sia dal punto di vista teorico che pratico. La ragione, impiegata adeguatamente a fin di bene per far germinare conoscenza e per costruire ponti di sapienza, è un baluardo inespugnabile. La ragione, pur rispondendo a sistemi di causa ed effetto, non è mai statica, perché può sempre preannunciare scenari sorprendenti. Semmai, è la pessima e deteriore utilizzazione che alcuni fanno della ragione ad ingannare e a ingenerare obbrobriosi mostri. Le virulente guerre di potere, di dominio, di sterminio per fame, i cruenti conflitti etnici, lo sfruttamento del lavoro, le persecuzioni religiose. La ragione, se non viene intaccata e sporcata da manie e prepotenze distruttive, può essere pura. Ma la ragione da sola è orfana. Un mondo, che obbedisse unicamente a teoremi della fisica e della matematica, sarebbe dimezzato. Questo teatro dell’esistente e dell’incertezza trova singolari barlumi di gioia con il supporto vitale del sogno. Il sogno, quello sognato e quello vissuto ad occhi aperti. Sogno e sogno. Sogno è un giorno al mare, all’alba, quando le nuvole rosee drappeggiano arabeschi mai visti. Sogno è correre per i prati riarsi con i piedi sanguinanti e con i ginocchi piagati, senza provare dolore, ma sentendo il sapore dolceamaro del tempo. Sogno è intrattenersi idealmente e fittamente con la propria sfuggente chimera del cuore, anche se lei staziona perennemente e inesorabilmente nel suo altrove. Sogno è leggere con trasporto uno scritto elegante di grazia di Ilaria Seclì. Sogno è intrattenersi e dialogare nel giardino incantato con Vito Antonio Conte, laddove perfino le rose e le gaggie emanano effluvi poetici e d’amore. Il sogno è potente, evocativo. I sogni sono liberi, si formano nel nostro intimo, navigano nel sommerso ed emergono in superficie. Essi sono intimamente intrecciati a vissuti, a desideri, a emozioni, a una marea di onde che si agita e si muove dentro noi. Essi rappresentano quella dimensione “immate-

La materia della ragione La materia del sogno

Contemporanea

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di Marcello Buttazzo

riale” che, insieme ad un’ampia costellazione di beni non consumistici, aiutano a vivere meglio. In quest’era di gravissima crisi economica, di disoccupazione e precariato dilaganti, il sogno è un provvidenziale balsamo salvifico. È un sollievo non da poco al cospetto d’un mondo di macerie d’intorno. Addirittura possiamo dire che finanche il sogno frustrato e deluso possa essere benaccetto, perché esso presuppone un percorso, un cammino, include un positivo movimento. Il sogno e l’attesa. “Sogno. La vita è triste ed io son solo. O quando, o quando in un mattino ardente l’anima mia si sveglierà nel sole. Nel sole eterno, libera e fremente”, canta Dino Campana. Ci chiediamo: cosa c’è di più creativo che inseguire fantasie speranzose? Proprio ora che la incidente emergenza economica assale e mortifica, è tempo di aprirsi più che mai al sole, a una stagione rinnovata. L’economia capitalistica, con le sue regole ferree, con i suoi programmi iperrazionali, ha

determinato sacche di esclusione, ha sfoderato un ghigno impietoso, una bocca brutta e divorante. E noi tutti lambiti o toccati strettamente da varie forme di disagio, possiamo attivare un valido sistema di anticorpi: vagheggiamento, bellezza, fantasticheria, nonostante gli impedimenti che ci incatenano e ci limitano. Alcuni intellettuali troppo “rigorosi” includono nel supposto “deragliamento della ragione” addirittura le tecnoscienze, di cui danno un giudizio negativo. Certo, la scienza talvolta può peccare di onnipotenza, pretendendo che sempre e comunque ogni meccanicismo rigido possa spiegare dettagliatamente le più riposte leggi dell’universo. Purtuttavia, non si può disconoscere il valore inerente dell’ultima rivoluzione scientifica, dalle nanotecnologie alle bioscienze. Le biotecnologie, ad esempio, non sono un illusione, ma una realtà concreta. Eppoi, la scienza non è solo ragione: è anche immaginazione, visione. Gli scienziati sono come i poeti, sanno maneggiare il sentimento e sanno gettare uno sguardo oltre l’ul-


Oltremare O spagine

scritture

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E’ IL MOMENTO DI LASCIARLO, QUESTO SALENTO

utremer era il nome che i primi Crociati diedero al regno di Gerusalemme, la Terra Santa: destinazione finale, agognata mèta per tanti e tanti giovani che, dalle nostre coste, si imbarcavano non già o non solo alla volta di un luogo fisico, ma più che altro alla ricerca del proprio destino, della propria fortuna. Con questo nome venivano indicate nel Medioevo quelle terre del vicino Oriente che rappresentavano, nella fantasia degli artisti e dei sognatori, nella brama di ricchezza dei mercanti e degli affaristi, un favoloso altrove, un “oltre”, di là dal mare, dove tutto era possibile, realizzabile, una nuova terra promessa vagheggiata da cavalieri, religiosi, derelitti, ciarlatani, filosofi e poeti. Outremer è dunque il sogno, il desiderio di fuga, l’ansia, l’aspirazione. Oltremare, “overseas”, è l’anelito di libertà che agita i cuori tormentati, che scioglie il torpore , che smuove quell’inerzia in cui a volte si è precipitati dalla noia, dalla disperazione, da un incidente dei tanti che la vita può riservare. Oltremare è un colore: un blu intenso che prende il nome proprio da quei territori del vicino Oriente da cui venivano importate le pietre preziose come il lapislazzulo, dal quale deriva questa gradazione di blu. Oltremare è l’anelito, il desiderio di partire per rotte che nessun comandante ha tracciato, per traguardi che nessun equipaggio sa indicare o soltanto immaginare. Noi sappiamo solo, come il protagonista de “La linea d’Ombra” di Conrad, che bisogna salpare, che, quando è il momento, zaino in spalla e coraggio nel cuore, non si può indugiare, ma bisogna partire, “perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno; “ dice George Gray, uno dei morti sulla collina di Spoon River, “l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti./E adesso so che bisogna alzare le vele /e prendere i venti del destino, /dovunque spingano la barca./ Dare un senso alla vita può condurre a follia / ma una vita senza senso è la tortura /dell’inquietudine e del vano desiderio/ è una barca che anela al mare eppure lo teme”. Ché, da sempre, viaggiare non è solo andar per mare, esplorare il mondo, ma è soprattutto esplorare il proprio animo, conoscere sé stessi. Come dice Kavafis in “Itaca”, “I Lestrigoni e i Ciclopi /o la furia di

Nettuno non temere, non sarà questo il genere d'incontri /se il pensiero resta alto e il sentimento /fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.”: Itaca non è solo la mèta del viaggio ma è il viaggio stesso, è il pensiero che cammina e si perfeziona strada facendo. Il viaggio è ragione di vita per Ulisse che attraverso le insidie tese da Nettuno cerca la sua isola pietrosa e materna e compie così un percorso di purificazione attraverso le mille prove che deve affrontare. Ma l’eroe omerico diviene per Dante uomo astuto e intraprendente, il simbolo stesso dell’uomo moderno, mosso da inestinguibile curiosità verso il mondo e le cose, riscatto dalla condizione di brutalità e spinta verso la virtù e la conoscenza. Dal prode Odisseo fino a noi, quella spinta è forte in colui che “al largo sospinge ancora il non domato spirito” come dice Saba nella poesia intitolata proprio “Ulisse”. Varcare i limiti, insomma, superare quella fatidica soglia delle Colonne D’Ercole, per sapere cosa c’è al di là del mare, nell’oltremare. E non farsi vincere dalle tempeste, non farsi abbattere dalle avversità che certamente si incontreranno nel viaggio ma anzi, dopo un naufragio, trovare la forza di ripartire, proprio come nella poesia di Ungaretti: "E subito riprende / il viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare." Il mare è inconscio, arcano mistero, Il mare è sintesi perfetta fra quiete e movimento, stasi e azione, desiderio e paura, ragione e sentimento. Il mare è traversia, spirito di avventura, sfida con sé stessi prima ancora che con la sua eminenza blu. Non sappiamo cosa ci aspetta domani, quali sorprese ci riserva il nostro cammino, ma la bellezza della vita è proprio questa, è questa la seduzione del nostro misterioso destino. Partire, lasciare questo Salento è decisione sofferta, dolorosa, è un salto nel vuoto, spina nel fianco, dubbio tormentoso, notte dell’Innominato, travaglio di pene. Ma è scelta da farsi, urgente, improcrastinabile, inevitabile. Perché troppo si è scritto, troppo si è detto, e chi è abituato a cantare solo, alla lunga prova disagio, non ce la fa più, a cantare nel coro. Oltre il mare, forse, c’è soltanto il mare, ma l’importante è viaggiare. E’ venuto il momento di lasciarlo, questo Salento. Buon viaggio a tutti!

di Paolo Vincenti


spagine

riviste

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E' online il n. 3/2014 di "Amaltea. Trimestrale di cultura"

Addomesticare e non ascoltare

Con il dossier: I Territori sono narrazioni Summer School di Arti Performative e community care Ediz. 2014 Ecco di seguito l’editoriale del direttore...

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ndavo in macchina l’altro giorno, ero fuori dall’abitato, su una di quelle tante strade salentine che corrono lunghe, senza interruzioni per molti chilometri, complice la pianura, larghe quanto basta perché due auto riescano a sfilarsi, provenendo ciascuna dal senso di marcia opposto a quello dell’altra. Ad un certo punto notavo sul ciglio della strada un mucchietto di piccoli fiori selvatici, bianchi, gialli e arancioni, assortiti in modo impeccabile, la giusta quantità di giallo, di bianco e di arancio per rendere quella visione appagante. Ho pensato a quanto la bellezza di quel mucchietto floreale stridesse terribil-mente con l’aggettivo ‘selvatici’. Eppure nessuna correzione, nessun intervento, nessun addomesticamento, li avrebbe resi più belli di com’erano. Chiedevano solo di essere guardati e accettati, selvatici e belli. Ho pensato a quanto siamo disabituati al selvatico, perché non possiamo fare a meno di intervenire, di modificare, sempre e comunque, prima ancora di guardare. A quanto siamo disabituati ad ascoltare quello che la materia ci suggerisce. Ho pensato a quanto sia addomesticato ogni aspetto che ci riguarda. E a quanto lo riteniamo giusto e indispensabile. Scontato, addirittura. Tutto nella nostra cultura invia il messaggio ‘addomesticato è bello’, ‘addomesticato è meglio’. Tutto, crediamo, può e deve essere addomesticato: la nostra mano è senza dubbio migliore di quella del Caso, o della Natura. È un valore addomesticare i comportamenti, il proprio aspetto, lo spazio intorno. È un valore lasciarsi addomesticare. Ciò che è addomesticato è ‘normale’, pulito, corretto, civile. Il selvatico è tutto il contrario di questo. La sequenza degli aggettivi dell’addomesticamento ‘normale, pulito, corretto, civile’ se ne tira

dietro, scavando scavando, anche altri: gestibile, controllabile. E pure innocuo. A forza di addomesticare, questa ‘pratica di civiltà’ diventa pervasiva al quadrato, al cubo, finisce per vincolare, bloccare, inibire, condizionare. Il consumismo capitalista si serve a piene mani dell’addomesticamento. Quanto sono addomesticati i nostri pensieri? Il nostro immaginario? E i nostri discorsi? Prendiamo il cosiddetto ‘politically correct’: è diventato oramai, in molte, troppe circostanze, un velo che nasconde, una museruola ai pensieri, una censura soft. Il ‘non si dice’ blocca le possibilità di pensiero alternativo. È una gabbia conformistica che poco ha a che vedere con il garbo e la correttezza. Addomesticare. Anche il linguaggio, come la terra, l’aria e l’acqua, lo abbiamo inquinato di elementi tossici: slang esterofili, gerghi falsamente tecnici, e poi tutto il vasto repertorio del burocratese e del politichese, e altri simili stratagemmi per annacquare il senso, per divaricare le parole dal mondo, per addomesticare il linguaggio e ammansirlo, renderlo innocuo. Addomesticare. Le cose si allontanano sempre più dalle parole, bozzoli svuotati, depauperati della capacità di impattare nel mondo. È questo lo scopo di chi le usa disincarnate, dematerializzate: pronunciandole senza pudore, senza onorarle, senza preoccuparsi che corrispondano alla vita, propria e altrui. Le parole disincarnate tolgono spazio alla conversazione, al confronto, alla costruzione condivisa e lo lasciano al solipsismo senza effetto. Ognuno parla, poi chi ha il potere di decidere, decide. La forza viene praticata, ma assume forme addomesticate: sottili, implicanti, a volte persino simpatiche. Sempre meno riconoscibili, sempre più invischianti. Il corpo tradisce questo inganno. Dice quello che le parole non dicono, diventa schizofrenico. Allora lì possiamo lavorare, lì possiamo praticare qual-

http://nuke.amalteaonline.com/

di Ada Manfreda

che forma di disvelamento. Ma questo lo si sa, lo si sa fin troppo bene! Tanto che è uno degli ‘oggetti’ su cui l’addomesticamento si esercita con più forza. Anche i corpi sono sempre meno fatti di carne: bisogna negarlo il corpo, annullarlo il più possibile, nasconderne gli odori, eliminarne la peluria, cambiarne i connotati , più si è simili e meglio è. Non deve avere nulla di selvatico. Va addomesticato. Così come il piacere. Siamo una società (l’Occidente, si intende) profondamente edonistica e tuttavia l’addomesticamento consumistico è ancora più importante: il godimento va privato della sua dimensione eccessiva, delle sue esuberanze inquietanti, creative, difficilmente prevedibili, controllabili, condizionabili. Il piacere non è politicamente corretto: vi è asimmetria nella seduzione, squilibrio tra il desiderio e il suo oggetto. Perciò va circoscritto, addomesticato, magari tirando fuori questioni di salute, di rispetto dell’altro, di sicurezza. Mai come oggi vi è tanto sesso addomesticato: sempre meno scoperta, relazione, ignoto, sempre più una compravendita codificata di servizi tra contraenti, secondo modalità da ‘catalogo’, anche quando sono trasgressive (si attinge al catalogo tematico). Guai a lasciarsi andare, guai ad ascoltare ed ascoltarsi, ad accogliere l’evento. Ma se invece provassimo per un attimo a sospendere tutta la negatività attri-buita al selvatico dalle ragioni dell’addomesticare? Forse verrebbe un po’ più facile metterci in ascolto di ciò che ci suggerisce il ‘fuori di noi’ prima di farci sopravanzare dall’urgenza di metterci le mani dentro, essere maggiormente ricettivi e curiosi, disposti ad includere costruttivamente l’evento prima di rifiutarlo e di provare ad annullarlo. Forse ci potremmo meravigliare di tutta la bellezza che c’è e di cui non siamo noi gli artefici.


L’abecedario di Gianluca Costantini e

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Maira Marzioni

Aspettavamo assieme l'armata dell'amore l'àncora arruginita s'arrendeva all'aurora c'appigliavamo ad ali d'alloro ancòra aspettavamo assieme un accidenti un altrove l'autunno appeso a un Bacio a Bacco a un bicchiere di Barolo.

Angeli


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Surreale per chi?

Ovvero: leggere se non è una passeggiata di Francesco Pasca

H

Caro Ignazio, « “come camminare sulla superficie terrestre” (?)» è forse «“come descrivere il bello senza averne la dimensione esatta” (?)» (da, sketch-Poesie).

o già conosciuto Ignazio che racconta, affastella favole per adulti e non; Ignazio che parafrasa, bubboleggia, razionalizza in predisposizione; Ignazio che unisce le cause e, per quest’ultime, persegue dapprima l’Aristotele, in quel che se ne percepisce con il surreale di una “geometria tutta aristotelica”. Così m’è parso, è stato il mio leggere, nel e per un sentimento di scrittura che ne ha trascurato la sensazione: (come se Ignazio volesse vedere il mondo di sbieco.). In Cartesio ne ho veduto elaborare la stessa causa e ascriverla “nell’efficiente". Con Spinosa è tuttora nell’intento a riprovare e si è poi ri-trovato nel campo di Cartesio, in particolari identificazioni per altra estensione. Per il movimento e per il pensiero l’ho veduto anche, è in un Hume, nelle cui cause hanno effetti che, non possono essere scoperte dalla sola ragione. Traduzione logica è stata ed è nel tuttora una scrittura di transito per l’esperienza. Nel Suo surreale il difficile o il complicato è veduto nelle idee. Nella forma semplice è fra l’essere natura o sostanza. Gianfranco Labrosciano lo ha “introdotto” ultimamente per l’ennesima sua scrittura. Questa volta sono racconti surreali per Edizioni Arianna. Per il Labrosciano è un’abbondante e liberatoria nevicata, di libri ovviamente. A me che, di lui voglio scrivere, e ho già scritto per altre sue “favole” e per Racconti patafisici e pantagrue-

lici nell’edizione Manni, sono appena nell’inizio del raccontare. Del e nel suo dinamismo “futurista” mi piace acchiappare almeno un fiocco di quella neve, di quei cristalli per far “sciogliere” e “scegliere” i nuovi racconti, farne magari le sue stesse metafore, quelle ad esempio con cui vengo accolto nella lettura con il suo scrivere d’inizio. Ora, Caro Ignazio, sono con lui in un Central Park, magari di una New York metropoli, nel seme gigantesco di una mela piccina piccina piccina; fra le tante ed altre sue dislocazioni sono come: l’essere in lui nel West End o correre verso il Met. Sono anch’io fra i pochi che ascoltano per essere ancora alba o in un giorno pieno di imprevisti, così sono con il mio apprestarmi a leggere del suo surreale. Mi diverte e sono fra i tanti palloncini che esplodono, per bocca e per fiato di Ignazio (Apolloni). Ti confesso che, l’Apolloni ho avuto la sorte di conoscerlo personalmente per lettering in un laboratorio di provincia, in una cittadina del nord leccese, a Novoli, in quel LPN di Enzo Miglietta, ma non per la scelta dei soli caratteri tipografici da utilizzare nel suo e nostro essere poeti visivi. Il nostro è stato, è il lettering del rinnovamento nella Poesia monoglossica per la singlossica. Per lui in particolare, per noi, non è stata scelta di solo testo, né divagazione per altre pubblicità assordanti o tracciabilità cubitali da far stupire, né per essere rispecchio di sole immagini. Nel lavoro, qualunque sia stato il luogo dove ci siamo fatti esplodere coi palloncini, si doveva rigorosamente essere nel rifugio stesso del soffio, esplodere con essi e in esso. Il rumore, in quel silenzio era ed è nel rumore della Singlossia. Quanti i giorni di un febbraio non bise-

La copertina del libro di Ignazio Apolloni a cura delle edizioni Arianna

Ignazio Apolloni e il suo doppio, ritratto di Nicolò D’Alessandro


autori

della domenica n°52 - 16 novembre 2014 - anno 2 n.0

Ignazio Apolloni è nato a Palermo dove è ritornato, dopo una lunga permanenza a Torino, Roma, New York e Los Angeles. Memore di Berkeley e sulla scia del ’68 ha fondato, assieme ad alcuni altri arrabbiati, il movimento politico-letterario denominato Antigruppo. Esauritasi questa fase ha dato vita, unitamente a Rossana Apicella, ad una feroce contestazione della poesia visiva in nome del lettering e della singlossia, producendo opere di tale genere come Lavoro poetico su una locuzione avverbiale; Sketch poesie; Poesie Impossibili; Tra il dire e il mare c’è di mezzo la poesia: raggruppate poi nel volume Singlossie edito dalla Novecento nel 1997. Su tutta la sua opera narrativa Stefano Lanuzza ha composto la monografia “Dall’Isola Universale. Scrittura e voce di Ignazio Apolloni”, Edizioni Arianna, 2012. Per un parrofondimento della sua opera vi rimandiamo al sito di Edizioni Arianna

www.edizioniarianna.it

L’opera di Ignazio Apolloni sto? Sì! Tanti sono i racconti surreali di Ignazio (Apolloni) per le Edizioni Arianna. Tanti i ghirigori per afferrare la memoria e immergersi nell’improvviso. ” Dov’ero arrivato? Quanto manca alla fine, e cosa ricordo di aver letto fino ad ora?” (pag. 26) Questo è il suo surreale, essere il dipinto in: “… foss’anche la punta del naso di una mosca da colpire stando a dorso di un cavallo in corsa e mentre tengo la pistola dietro le spalle.” Questa è la sua memoria, colpire nell’assurdo, come per l’incontro descritto con Franca Alaimo nel chiosco di Monreale, in un divertimento lessicale, fra un Orate frates e un Orate soroses. Questo quel che sarebbe divenuto Singlossia, questo il sostare “nell’orrendo” di un trabocchevole, questo il dimorare fra assi cartesiani da decifrare nelle collocazioni dei punti di un fonosemantico, di un idosemantico, di un diacronico. Come vedi caro Ignazio, leggo passo dopo passo e scrivo, m’appunto, disserto come la sua scrittura sulle “proporzioni poetiche”. Mi nutro di pesce gotico, per le edizioni Geiger di Giorgio Celli; ciclostilo in proprio le descrizioni in atto di Roberto Roversi; recito anch’io gli sguardi i fatti e Senhal di Andrea Zanzotto; mi tuffo di corpo e animo anch’io nel Laboratorio delle Arti, in un Domenico Cara. (pag.37) Ora smetto di fare. Fine di un globertrotter. Ho altro da leggere o meglio scrivere di Ignazio e voglio sottrarmi da qualsiasi effrazione o meglio ancora, dallo scassinare o ricavare il verificare, trovare il contraffatto. Caro Ignazio, brandelli di fotolito impresse sono da sempre pronti per altre lacerazioni, per nuovi decollage, per altrettanti brandelli da collocare nel Palazzo della Penna in quel di Perugia e in attesa di infrarossi da proiettare sui tanti Mimmo Rotella da indagare. Ignazio mi stupisce sempre nel suo macinare, dà opportunità a me che scrivo di trovarmi all’unisono nel surreale. L’Apicella, Rossana, me lo ha sempre additato, descritto fra i poeti da cogliere, al volo, come il lettering di un

fumetto colto o di un lettering situato fra “Pensieri Minimi e Massimi Sistemi”. Ora, se mi consenti, viaggio ancora per i racconti di Ignazio(Apolloni), è lì il Mito e mi diventa tapis roulant. Mio caro Ignazio, il Mito è anche il mio cavallo e, il suo Arturo, quello dell’Ignazio(Apolloni), è come fosse il mio Alber(t)o, entrambi mostrano Opere da galleria per tele di Caravaggio e Tintoretto. Sai bene ch’è difficile: “mettere ordine alle idee per tracciare un quadro verosimile del personaggio.” (pag. 91) Fortuna vuole che il suo Arturo viva da turco e per nome ha Kabib e che viva nella dimensione onirica d’immagine musico-visiva per una chitarra (reale) a firma di Giuseppe Chiari. Nel surreale però vi possono sostare firme come sul retro delle tele del Caravaggio e del Tintoretto. Il Barone di Münchhausen m’è parso in quel racconto. Personalmente l’ho tagliato a metà come il suo cavallo, ora può con quest’ultimo continuare a nutrirsi all’infinito, come fa con i suoi racconti surreali e non solo, in quel ch’è detto per: la scomparsa di Ettore e Andromaca. Sì, caro Ignazio, surreale è il ritrovarsi nel metafisico di Giorgio De Chirico, in Caffè Greco, e poi sedersi a Trinità dei Monti. Non farà specie nel surreale passare anche da Cosenza e ammirare “la scomparsa” in quella splendida collezione all’aperto. Il suo libro l’ho letto d’un fiato, tutto, nelle sue centonovantasei pagine, ma di rimbalzo (pag. 132) ritorno a leggere, così, per averlo veduto sparato su di una palla da cannone e con un magnete in tasca per annullarne la gravità, sino ad Osaka. Caro Ignazio, sono stupito ancora, m’accorgo ora del palloncino e del suo avere: (un’asticella ricoperta anch’essa di striscioline di lattine piene di colore, in piena torsione). Michele Lambo le ha offerte a Franco Spena come manciate di lettere. Spero siano come le mie, come questa mia divagazione. Un abbraccio. “Scagliare la pietra in un abisso” È “sciogliere il sale nel mare”. (da, sketch-poesie)


La vita è meraviglia spagine

La copertina di Monsieur L’Alchimiste di Mauro Ragosta

di Alessandra Peluso

...Nella giungla della societĂ il poeta si divincola, a tratti felice, altri fiero, altri ancora mansueto, ma mai sottomesso nĂŠ stanco del suo vivere...


N

poesia

della domenica n°52 - 16 novembre 2014 - anno 2 n.0

Excursus della produzione poetica di Mauro Ragosta

ella logica folle, quasi schizofrenica, boicottando ogni struttura, gioca il poeta Mauro Ragosta sino a penetrare negli interstizi della mente. Pervade e invade la poesia di Ragosta, pone lo scacco al più abile mago, scrivendo “Monsieur L'Alchimiste”, pubblicato nel 2010. In questo prezioso pamphlet poetico scorre un'energia creativa inconscia al di là del reale, coinvolgendo - da avanguardista quale l'autore si dimostra - anche una visione politica nelle sue poesie. I versi sono valorizzati da segni grafici che formano acrobatiche figure, muovendo a delineare quella che è la poesia visiva, una poesia che si esprime andando oltre l'uso della parola e servendosi dei simboli, comprendendo tutti i sensi dell'essere e non essere umano. Una nuova forma di poesia sperimentale che maturerà in “Salento mio” (2014). In avanscoperta maneggia il verso, carpendo i segreti più intimi di se stesso, della donna, dell'universo. L'amore per lui è “balsamo dell'esistenza”, è “il desiderio di libertà”, è il bisogno di una vita e di colui che insegue un amore come un segugio. Tenta di raggiungere ciò che gli è proprio, ciò che resta un mistero e allora “dopo la lunga / e faticosa salita, / eccoti finalmente / di fronte al mistero, / senza orpelli, / nudo e bello / guardi ad est / ti volti ad ovest / il probabile / equivale al possibile”. (p. 47). E nelle possibilità della vita l'uomo, il poeta, Mauro Ragosta, compie il viaggio, una sfida che pone a se stesso e al lettore, aiutandolo a orientarsi come un marinaio, la rotta. Sono versi di natura intimistica, che non inducono alla semplice autoreferenzialità fine a se stessa, ma a un identificarsi con l'altro, a essere parte dell'Universo come solo un eclettico alchimista sa fare. Allitterazioni, metonimie, anafore campeggiano e attraversano il mare sconfinato della poesia astrale di “Monsieur L'Alchimiste” che si paventa drammatica come nel “Riccardo III” poetato in modo sublime da Shakespeare. Ecco sì, la vita è drammatica in alcuni momenti dell'esistenza, forse troppi, pare dirci Ragosta, e come il poeta statunitense Edgar Lee Masters - al quale ha dedicato anche dei versi - oltrepassa il destino, più dolce, a volte, del dormire. La poesia è distacco, lontananza, assenza, separatezza, malattia, delirio, suono, e soprattutto, urgenza, vita, sofferenza. È l'abisso che scinde orale e scritto. (Carmelo Bene). Da questo abisso Ragosta si tiene lontano, esaltando la magia della vita nella sua più elevata profondità anche in una stagione apparentemente decadente come l'autuno o fredda e penosa come l'inverno: «Io come la natura / in autunno, / con le gialle foglie, / che cadono / sotto un cielo brumoso. / E sì, / mesto mi ritiro / per affrontare / l'inverno conio, / crogiuolo incantato

/ là dove si compie la magia della vita / nella sua massima profondità». (p. 57). Senza inganno, prosegue, dunque, il percorso poetico di Mauro Ragosta nel 2012 con la pubblicazione di “Diletti e Delizie”, una silloge che pare si contrapponga all'opera di Dostoevskij “Delitti e Castigo”. Così magistralmente batte sul proscenio del nulla la sua melanconica esistenza. Una sorta di panacea sono le poesie contenute in “Diletti e Delizie”, una cura per le ferite che la vita pone e impone. Un dolore che mitiga servendosi dell'arte poietica della poesia, o forse è la poesia che si serve del poeta, garantendogli una guarigione sicura. Anche in questa raccolta i versi solfeggiano, seguendo un ritmo alternato, a volte incrociato, altre contrapposto, spesso libero, stagliandosi su quel mare benigno nel quale “il capitano”, ora “mercenario di mare, sempre impigliato in/ guerre non sue”, si dimostra “un uomo chiamato a / difendere col cuore il proprio vascello, / quando la sorte lo richiede. (p. 33). Sul filo dell'esistenza, come un funambulo Ragosta si regge sul verso, destreggiandosi nei piaceri della vita, nella quale anche i dolori, come una sorta di alchimia, si trasformano in luce, in gioia e “la vita / quella vera / quella arancio / dove tutto è stupore e meraviglia / emozione intima / e / trionfo del cuore” (p. 39).

È una meraviglia la vita, un equilibrio di anime e corpi, un sostentare a morsi un'esistenza di sofferenza, senza mai voltarsi a capitolare, ad abbassare il capo o ad ammainare le vele; il poeta in “Diletti e Delizie” scorge la certezza di esistere, palesando una poesia sociale, politica, la stessa idea di poesia che manifestava Pier Paolo Pasolini. Ecco, allora, Mauro Ragosta esprime in versi la sua idea di società, la funzione dello Stato, l'idea di libertà, incita ad una non omologazione della gente perché “Dio non ama il conformismo / perché ci ha fatto opere uniche”, e non possiamo “essere pecore consumistiche / incapaci e paurose di esprimersi / se non nella più becera omologazione / e / squallida imitazione / svuotate dell'essere”. (p. 53). Si paventa l'eco di Carmelo Bene che agogna la massa, affinché il singolo possa trionfare nella più folle distruzione del soggetto che depone la volontà, s'ignora, non sceglie il deserto. Certamente, neanche il poeta Ragosta ha scelto il deserto, ma è possibile che lo abbia attraversato come un signifcato ha superato il significante per darne un senso alla vita. E cosa c'è di bello, se non vivere? Un interrogativo che rimbomba a tal punto da sentir risuonare l'eco, intenso, acuto, lancinante. Vive il poeta e ne è consapevole semplicemente perché il cuore batte, il sangue scorre nelle vene, i desideri accendono le passioni, atte a motivare l'esistenza, e allora si legge: «Che cosa c'è di così perfetto / se non sentire il proprio cuore che batte / e la vita, / con i suoi bizzarri desideri / e con

le sue folli passioni, / che scorre nelle vene?». (p. 55). Mauro Ragosta dimostra di vivere e amare la vita esaltando la terra natìa, di contro a poeti come ad esempio Vittorio Bodini, Carmelo Bene, Antonio Verri, sebbene il Salento non sia stato sempre generoso con l'uomo-poeta. Eh sì, questo connubio è presente e onnicomprensivo nel libro di poesia visiva “Salento mio”. In quest'opera sono coinvolti tutti i sensi. L'estremo lembo di terra ionica si sente, si assapora, si osserva e sconvolge, lasciando a bocca aperta il lettore, visitatore di questa galleria d'arte - appare un po' così - sfogliando il libro. Immagini e parole, foto e versi, il tutto condito con delicata e raffinata cura. Dietro a frammenti di paesaggio salentino, oculato, tipico di un attento osservatore, si celano parole, brevi fraseggi, che rendono manifesto il piacere nel vivere, gustando l'acre sapore della sofferenza. Il faro, l'ancora, i lampioni, il mare, la rete dei pescatori, il fico d'India sono emblemi di un essere che - trovata l'essenza del sé - cerca di darsi, offrire un punto di riferimento, un ancoraggio, un modo per liberarsi dalla rete dei luoghi comuni, dalle celebri faziosità di un'omologata società. Irrompe col verso, stordendo lo sguardo di un'anima inquieta, che trova sollazzo nelle meravigliose immagini, pennellate dai colori vivaci e decisi. La poesia è vita, provoca forti battiti di cuore, fa rabbrividire, arrossire, coinvolge i sensi così come avviene in “Salento mio” nel quale Mauro Ragosta esige la presenza di immagini nel tempo che fugge, per catturarlo - in una dolce illusione - esplicitandone il senso in poche parole, superando l'ostacolo stesso della parola. Ragosta è tenacemente convinto di sperimentare la poesia visiva non più in auge nel meridione da parecchio tempo. Economista della parola e del numero, sostiene la necessità di un Salento che deve evolversi non solo culturalmente. È un “Salento d'Esportazione” come il titolo della piccola casa editrice salentina, nella quale sono contenute le soluzioni culturali innovative da esportare, affinché questa terra non contenga soltanto miriadi di incontri dei quali resta poco; ma produca, emani la fierezza dell'uomo contro ogni archetipo limitante e costrittivo. Nella giungla della società il poeta si divincola a vivere, a tratti felice, altri fiero, altri ancora mansueto, ma mai sottomesso né stanco del suo vivere che da “Monsieur L'Alchimiste”, passando per “Diletti e Delizie, sino a giungere in “Salento mio”, si dimostra fedele amante della sua patria il Salento, per il quale combatte le battaglie di una vita. È valoroso come un capitano, solca i mari del Sud, senza mai perdere di vista la meta. Raffinate creazioni poetiche che sembrano essere un ponte tra sé e gli altri, dialogando con la vita.


Congo spagine

letture

della domenica n°52 - 16 novembre 2014 - anno 2 n.0

David Van Reybrouck, Congo. trad. dal nederlandese di Franco Paris, Feltrinelli 2014

È

di Sebastiano Leotta

probabile che siano stati gli Iddii della lettura a condurmi dalle parti di Congo del belga David Van Reybrouck. Sulla mia scrivania circolavano da un po' di tempo La sofferenza del Belgio di Hugo Claus, e il Congo è stato una colonia belga; Gli anelli di Saturno di W.G. Sebald, e un capitolo di questo libro fascinoso è dedicato a Conrad e a Sir Roger Casement che hanno denunciato, verso la fine dell'Ottocento, lo spietato sfruttamento coloniale da parte del Belgio; infine, l'autobiografia di Mark Twain che, nel 1905, pubblicò un atto d'accusa contro il re del Belgio Leopoldo II, il quale, a partire della 1876, aprì alla colonizzazione dell’Africa centrale. Non potevo, dunque, non concludere con la lettura di questa magnifica storia del Congo. Un libro in cui tutto mi è apparso degno di attenzione, perfino la bibliografia commentata e ragionata (lo ha notato anche J.M. Ledgard nella sua recensione sul “New York Times” del 1 maggio 2014) e i ringraziamenti a fine volume, di solito ridicoli e tediosi, ma che qui sono quasi un racconto, nel racconto, della genesi pratica di questa storia del grande Paese africano. Il Congo ha una estensione di 2,3 milioni di km2 e meno di mille km di strade asfaltate, la vita media di un congolese non supera i 45 anni, la mortalità infantile è tra le più alte del mondo,le incalcolabili ricchezze del sottosuolo sembrano una dannazione più che una benedizione; si aggiungano una geografia complessa, una biodiversità tra le più spettacolari del globo, due fusi orari…. La forma saggistica di Congo è capace di intrecciare sia il dato storico alla narrazione dei singoli destini, sia le riflessioni personali all’impianto giornalistico (numerosissime sono le interviste rifuse nel libro). Con uno stile e una scrittura stratificati ed evocativi, Van Reybrouck rende anche un dettaglio materiale, il farfallino di Lumumba, il copricapo leopardato del dittatore Mobutu, la spada di Re Baldovino, veicoli di un significato storico. Tutti elementi che dimostrano l'attitudine umana di questo archeologo e giornalista di Bruges, e cioè la capacità di cogliere, nella grande Storia, le voci individuali di un intero popolo. Come il fiume Congo – semplicemente le fleuve per i congolesi – accoglie centinaia di affluenti prima di sfociare nell'Oceano Atlantico, così Van Reybrouck è in «cerca di ciò che

finisce raramente in un testo, perché la storia è molto, molto di più di ciò che si scrive […] volevo intervistare delle persone, non necessariamente personalità influenti, ma individui segnati dalla Storia con la S maiuscola». Una immensa epica fluviale. Congo è il racconto di un continente nel continente, è il racconto di un Paese che è grande come l'Europa occidentale provvisto di straordinarie ricchezze naturali e anche umane, direi. Dall'avorio e dalla gomma ai quattro milioni di deportati che divennero schiavi tra il XVI e XVIII secolo; dal rame al coltan, dai diamanti all'uranio e al cobalto del presente. Come immaginare la nostra modernità senza le risorse del Congo? Senza coltan, per esempio, niente smartphone, tablet, tivù a schermo piatto, pc portatili… Congo copre un arco temporale amplissimo. Si parte dalla storia del Congo precedente all’arrivo degli occidentali e alla colonizzazione belga (paternalistica e spietata e tuttavia modernizzante) da parte di una nazione europea ridicolmente minuscola rispetto alla grandezza del Congo (85 volte più grande), e si continua con la narrazione dell'indipendenza, confusa e terribile, del 1960, (centrale l’assassinio di Patrice Lumumba, nel 1961, il primo capo del governo del Congo libero). Il caos postcoloniale culminerà nella dittatura grottesca di Mobutu (1965-1990). Van Reybrouck conclude, infine, con la storia più recente: le due guerre del Congo tra il 1996 e il 2002 con più di tre milioni morti, l’attuale presidenza dei Kabila, padre e figlio e con il neocolonialismo soft della Cina.

Ma il libro è anche un affollarsi di personaggi: Leopoldo II, Henry Morton Stanley, il negriero arabo Tippo Tip, i missionari cristiani, i funzionari belgi, Patrice Lumumba carismatico e dilettantesco, l’egocentrismo patologico di Mobutu, ma anche il primo ciclista congolese, il fondatore della religione kimbanguista, Simon Kimbangu, i musicisti dell'African Jazz autori del pezzo musicale più famoso di tutto il Congo, Indépendance cha cha. E, ancora, il mondo congolese: le sue molteplici lingue come il lingala, lo swahili, il kikongo; le sue tribù (bakongo, baluba, tutsi, ecc.) e le città, soprattutto Kinshasa, autentico termitaio di 8 milioni di abitanti… Uno degli aspetti più incisivi di Congo sono le pagine sulla cosiddetta tribalizzazione. Attualmente vaste zone del Congo, come il Kivu, dove sono concentrati i maggiori distretti minerari, sono dominate da milizie paramilitari di etnia tutsi in rivolta contro l’autorità dello stato centrale come l' M23 o il CNDP del signore della guerra Laurent Nkunda. Difatti il Kivu è sottratto all'autorità di Kinshasa: le violenze e i crimini contro popolazioni inermi non si contano. Apparentemente sembra una guerra fra tribù ma, come cerca di dimostrare Van Reybrouck, la “coscienza tribale” è un effetto del discorso coloniale ottocentesco: «Ciò non significa, scrive l’autore, che non ci fossero state tribù, ovviamente sì […] adesso però quelle differenze venivano ingrandite e fissate per sempre. Piovevano stereotipi. Le tribù non erano comunità rimaste immutabili nel corso dei secoli, lo diventeranno nei primi decenni del Ventesimo secolo». Nel caso del Congo, e del Ruanda, le società etnografiche belghe isolarono, quasi in vitro, alcuni caratteri originali di una tribù opponendoli a quelli di un’altra tribù. La manipolazione dell’appartenenza etnica è diventata sempre più un elemento chiave dei conflitti in Congo. E i primi a comprenderne l’alto potenziale distruttivo sono stati proprio gli attori belligeranti. Politici, militari, uomini d’affari, miliziani e trafficanti sono stati capaci di nascondere, dietro l’illusorio scudo etnico, obiettivi e interessi che vanno ben al di là dei cosiddetto “odio tribale” Quando si tratterà di appropriarsi e saccheggiare coltan, tantalio , stagno e rivenderli illegalmente alle multinazionali, si riscoprirà l’appartenenza etnica solo come pretesto conflittuale. In Congo bellezza e dolore umano vanno di pari passo, sembra dirci Van Reybrouck. Da quelle parti, come scrive Badibanga, un poeta congolese degli anni Trenta, «la Rėve et l’Ombre étaient de très grands camarades». Ultime notazioni. La traduzione italiana è nella collana “Varie” di Feltrinelli, il libro ha più di 650 pagine, è incollato con poca perizia e tende a sfasciarsi durante la lettura; la mia copia è oramai a pezzi. Sarebbe stato utile inserire alla fine del libro una sintetica cronologia storica congolese, soprattutto degli ultimi cinquant’anni. Anche questo significa fare buona editoria.


spagine

c’era una volta

della domenica n°52 - 16 novembre 2014 - anno 2 n.0

Corte della misericordia

Q

uesta è una storia che inizia con “C'era una volta” Lupiae, la contea fondata da Roberto il Giuscardo che ne fece uno dei luoghi di riferimento della cultura cavalleresca. E dopo le varie dominazioni che non hanno oppresso ma tanto amato, nel XV Lupiae divenne il fulcro culturale che avrebbe caratterizzato tutto il Salento. Era il Rinascimento. Ancora oggi Lupiae è capace con la sua magia di attrarre persone e luoghi. Di questa bellezza restano stanze di memoria che ogni tanto affiorano per quel caso e per quella sorpresa che rende straordinaria la gente che abita questa città oggi chiamata Lecce. Era il '98 del secolo passato, e camminando nei pressi della Basilica di Santa Croce, c'erano strane orme che ti conducevano in un luogo chiamato “Corte della Misericordia”. Sorrido pensando che chi legge non potrà trovare questo luogo sulla cartina della città. Non una delle tanti corti che rendono belle queste nostre vie che sanno alzarti lo sguardo verso un cielo di azzurro infinito e verso lune saracene, “Corte della Misericordia” è un luogo che esiste solo nella memoria di chi lo visitò. Nacque per caso dall'anima di uno dei tanti viaggiatori che una volta guardato il nostro cielo invece di proseguire il loro viaggio per un po' si fermano e per quel che basta, mai abbastanza, donano frammenti di magia. Quel viaggiatore era Davide Nettuno, di passaggio tra qui e altre terre. Napoletano per nascita e cittadino del mondo per vocazione portò passione, abilità e sogno per i figli che questa terra avrebbe generato. “Corte della Misericordia” era un piccolo laboratorio di sogni per bambini dove Nettuno dalla sua anima al cuore di un bimbo costruiva giocattoli in legno forse per regalare l'opportunità di fare un’esperienza diversa e così dev'essere stato se penso a quanti negli anni mi hanno raccontato con il rimpianto nel cuore di quel laboratorio. Davide aveva solo venticinque anni quando per per una via di Napoli, sempre tra un viaggio e l'altro, magari anche tra una vita e l'altra, rimase folgorato dinanzi alla vetrina

di Rosanna Gesualdo

di un artigiano che costruiva giocattoli in legno. In quel momento decise che l'avrebbe fatto anche lui. Non essendo un improvvisatore da quel momento trascorsero ben quindici anni di studio e approfondimento prima che fosse pronto per fabbricare i suoi giocattoli. Nacque così “Corte della Misericordia” e così molti dei nostri bambini ebbero accesso a uno spazio di sogno e ne divennero protagonisti assoluti. Erano mani sapienti quelle di Nettuno, capaci di trasmettere tutta la sua passione in un pezzo di legno. Dalla passione dell'Artigiano al cuore di un bambino che avrebbe potuto creare il proprio mondo e scrivere a sua volta un'altra storia, la propria, con “C'era una volta....” Ora c'è che dopo vent'anni di assenza Davide Nettuno, ancora una volta di passaggio incontra il nostro cielo, il caldo intollerabile delle nostre estati

torride, lo scirocco che spezza il respiro e l'amore che ognuno di noi rincorre per una vita intera e al di là della stessa. Riamato con la medesima passione da una tra le “figlie” più controverse e impegnate sul fronte dell'ardore culturale di questa nostra terra, invece di proseguire il suo viaggio decide di restare. Resta con un nuovo progetto, con la promessa di una nuova magia scegliendo ancora una volta il legno come suo compagno di viaggio. A un'intervista ancora dice no, schivo come un tempo, fedele a quel pudore delle emozioni che in lui diventa passione dell'agire. Cosa tanto nota quanto cara a chi dell'agire su questa terra né ha fatto vocazione al di là di tutte quelle brutte e sporche “lungaggini” che come una presa al collo tolgono il respiro. Per fortuna siamo terra di guerrieri che trova la sua forza nel dire ancora: “C'era una volta....”


spagine

Il 29 novembre a Brindisi una manifestazione in difesa di Torre Guaceto

I

l 29 novembre 2014, a partire dalle ore 16, a Brindisi prenderà il via la manifestazione pubblica Save Torre Guaceto: tutti i cittadini scendono in piazza e invitano alla mobilitazione civica, artistica, poetica, studentesca, istituzionale, di legalità, di cultura, di azione e di pensiero per dichiarare con forza il proprio dissenso.

Le sorti della Riserva di Torre Guaceto sono appese a un filo d’acqua che dal 26 settembre sfocia nel cuore dell’Area Marina Protetta. Un filo d’acqua che pesa ben 5000 tonnellate al giorno di scarichi fognari provenienti da due comuni della Provincia di Brindisi. Uno filo d'acqua abnorme che non potrà far altro che gonfiarsi ulteriormente con le forti piogge della stagione autunnale. La Regione Puglia e l'Acquedotto Pugliese hanno autorizzato il depuratore di Carovigno allo scarico nel Canale Reale che sfocia nella zona Riserva di Torre Guaceto, unico pezzo rimasto incontaminato e trainante per l'economia, nel territorio brindisino. Lo scarico rappresenta il primo collegamento industriale che si allaccia alla Riserva dopo vent’anni di apparente pace per la tutela dell’area; è un brutto pasticcio istituzionale, tecnico e politico attorno al quale Regione Puglia e Acquedotto Pugliese girano a vuoto da vent’anni chiudendo il cerchio con il disastro degli ultimi mesi. Lo scarico rappresenta la voragine di sperpero di denaro pubblico. Cifre da capogiro per un paese dove intanto crollano le scuole e la politica diviene esercizio di promesse e parole senza fiato, chiacchiere allo stato puro. È una precisa e ragionata manovra che cancella tutte le prove del crimine ambientale. Eppure Torre Guaceto sarà il manifesto del mare protetto d’Italia all’Expo 2015, rappresentando il modello di equilibrio tra agricoltura, pesca e tutela degli ambienti naturali per lo Stato Italiano. Una vera beffa. Uno sfregio a quello che di buono, con il lavoro di decine di anni, un intero territorio produttivo, turistico e culturale è riuscito a costruire intorno a Torre Guaceto, un’offesa meschina ad un ideale di bellezza, cura e cittadinanza che in questa terra vive sotto le ceneri di un'area martoriata fino alle profondità del sottosuolo. Di contro abbiamo l’unica cosa positiva di questa brutta vicenda: la forza di migliaia di cittadini anonimi e comuni che da mesi, e da tutta Europa,

in agenda

della domenica n°52 - 16 novembre 2014 - anno 2 n.0

si sono incontrati e riconosciuti in una mobilitazione contro lo scarico in mare, che pretende il rispetto per chi non è più disposto a sopportare anche quest’ultimo saccheggio. Cittadini che non vogliono fidarsi ancora e non voglio perdere anche Torre Guaceto. Per questo, tutti i cittadini scendono in piazza e invitano alla mobilitazione civica, artistica, poetica, studentesca, istituzionale, di legalità, di cultura, di azione e di pensiero, il 29 novembre 2014 a Brindisi, per una manifestazione che dichiara con forza: - che non ci bastano e non crediamo alle soluzioni d’emergenza da attuarsi in quattro mesi (a partire da ottobre) promesse da Regione ed Acquedotto e che costeranno 800.000 euro; - che Torre Guaceto e la bellezza ancora custodita nella nostra terra non si toccano; - che noi non ci riconosciamo in questa gestione prevaricante, dannosa e cieca; - che la Regione Puglia e la sua Presidenza devono chiudere subito lo scarico nella Riserva.

Di seguito gli altri appuntamenti in programma per novembre: sabato 22 novembre, ore 15,00 Punta del Serrone, Litoranea Nord Brindisi Alberi di pace e controvento Aspettando la manifestazione per Torre Guaceto del 29 novembre, si piantano gli alberi promessi dello spettacolo Storia d'amore e alberi nell'ambito del progetto Un bosco in Paradiso. Un'azione pensata per nutrire la bellezza e l'impegno contro l'inciviltà e la distruzione proprio dove la stupidità ha distrutto quello che di buono si sta costruendo nel territorio brindisino. Vieni a piantare il tuo albero domenica 23 novembre, ore 16,00 Piazza 'Nzegna, Carovigno La festa della torre In programma, nella piazza centrale di Carovigno un appuntamento con l'arte dedicato ai più piccoli e a tutta la famiglia. Il programma, in fase di aggiornamento, prevede, performance artistiche, lettura di fiabe e laboratori per bambini.

Per difendere la bellezza


D’amore e di rabbia spagine

L

in agenda

della domenica n°52 - 16 novembre 2014 - anno 2 n.0

H24 Fabrìka: per Special Guest Writers Rosanna Gesualdo e Luigi Indraccolo

a rassegna “Special Guest Writers” ideata e curata da H24 FabrìKa venerdì 21 novembre, alle 20.00 c/o la sede di H24 FabrìKa in Vico Dietro Spedale Pellegrini, 29/a – Lecce propone “1970-D'Amore e Rabbia” un reading poetico in cui la scrittura di Rosanna Gesualdo incontra i versi di Luigi Indrac-

colo. “1970-D'Amore e Rabbia” è un canto a due voci quella del poeta Luigi Indraccolo e di Rosanna Gesualdo scrittrice, critica e curatrice d'arte. Una sorta di “lotta” in cui la parola insieme ad emozioni e vita vissuta diviene protagonista assoluta. Una scrittura la loro scevra da compromessi che non manda a dire ma che talvolta sa rimandare al mittente. Provocatoria come i due interpreti, che nulla hanno a che spartire con la “bella” società del perbenismo. Perché ai nostri la tipica famigliola in perfetto stile “Mulino Bianco” non va giù neanche addolcita da mugnai e gallinelle. Perché ai nostri il meccanismo stritola pensiero del “produci-consuma-crepa” non garba. Entrambi nati nel 1970, belli sani e di alto lignaggio, sotto una buona stella come si direbbe, che nel periodo dell'adolescenza sarebbe stata parzialmente oscurata dal loro particolarissimo modo di sentire e guardarsi attorno. Entrambi ribelli, da sempre e per sempre irriverenti nei confronti delle ipocrisie del buon vivere, insofferenti alle regole senza ragione, Luigi e Rosanna si conoscono da ben ventisette anni. Al di là dei viaggi e della vita vissuta altrove, il tempo e la scrittura segnano il passo della loro amicizia.

Un tempo fatto di segni, cicatrici e riscatto, una scrittura che di sangue proprio è interprete e cantore. Sangue vivo spremuto dal proprio cuore, non potrebbe che essere così per questi due poeti che non hanno mai piegato la testa davanti al compromesso. “1970-D'Amore e Rabbia” è dunque il gioco di quei due bambini nati nel 1970, il loro tributo a se stessi, alla parola che sa fermare l'attimo e salvare la vita. Attestazione del vero, dito puntato contro i “mercanti nel tempio” e al contempo un dolcissimo canto di amore nei confronti dei propri compagni di vita.

Il ragazzo dalla faccia pulita

editoria indipendente / poesia

Da Elio Ria un saggio su Arthur Rimbaud

Nel terzo millennio si avverte l’assenza del poeta, del sognatore, del pazzo ispirato. La poesia è stata estirpata, non attrae più nessuno, se non nei casi di commemorazione. Non un canto riesce a sconvolgere un’alba: si odono voci rauche». È a partire da queste considerazioni che Elio Ria ha inteso ricomporre un affresco del «poeta maledetto” che lo libera da quel tratto malinconico dominante, restituendoci un’immagine finalmente diversa di Arthur Rimbaud. Attraverso una narrazione emozionale della sua vita, dei suoi viaggi, dei suoi incontri e della sua poetica, riscopriamo un «ragazzo dalla faccia pulita» che non può smettere di appassionare e ispirare nuove generazioni di poeti e di amanti della parola. ISBN: 9788898119332 Pagine: 158 Prezzo: €14,00 per acquistarlo clicca sotto...

http://www.villaggiomaori.com/catalogo/#!/Elio-Ria-Il-ragazzo-dalla-faccia-pulita/p/44007437


La musica accessibile di Teo Ciavarella

spagine

della domenica n°52 - 16 novembre 2014 - anno 2 n.0

di Alessandra Margiotta

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eo Ciavarella è un noto pianista pugliese che vive da anni a Bologna. Attualmente è docente presso il Conservatorio di Musica G. Frescobaldi di Ferrara e nel suo curriculum si leggono svariate collaborazioni anche con personaggi famosi nel mondo dello spettacolo. ‘Il Piano B’ è il libro scritto da Ciavarella e rivolto a chi vorrebbe imparare a suonare ed improvvisare. Un metodo semplice ed efficace per rendere il linguaggio della musica accessibile a tutti. Maestro Ciavarella, come è nata l’idea di scrivere Il Piano B? Io faccio seminari estivi da diversi anni, sia per persone adulte ma anche per bambini. In tutti questi anni ho sperimentato delle cose che rendono la musica più fruibile per chi vuole avvicinarsi al mondo della musica senza essere immediatamente travolto da note musicali, scale, teorie che portano ad abbandonare. La forza di questo libro sta nei video che entro la fine dell’anno saranno pubblicati tutti su Youtube. Chi legge il libro, pagina per pagina, può avere proprio un riscontro sonoro e consigli di come sviluppare l’esercizio. Il libro è stato scritto solo per chi non conosce la musica? Non proprio, è stato scritto principalmente per chi parte da zero, invece per chi già conosce la musica può trovare degli stimoli oppure può essere preso come spunto didattico dagli insegnanti di musica nelle scuole medie. Questo manuale, per chi non ha mai letto la musica, potrebbe risul-

tare difficile? No perché le risposte si trovano nei video dove gli esercizi vengono suonati e spiegati. Perché ‘Il Piano B’? Nel senso che è una via alternativa per chi volesse iniziare a suonare. E’ chiaro che poi chi volesse approfondire deve studiare il percorso completo fatto di teoria ed armonia musicale. Nella parte finale del libro ci sono degli esercizi di improvvisazione utilizzando i nomi di persone… Quando eseguo questi esercizi durante le presentazioni sembra una sorta di rito magico perché ogni persona ha una storia da raccontare e soprattutto ognuno dentro di sé ha una melodia. Come è nata la passione per la musica, in particolare per il jazz? Sono nato in un paese dove la musica tra i miei coetanei era una pratica molto diffusa quindi fin da piccolo ho sempre suonato. Quando un giorno mi regalarono il pianoforte mi alzavo la mattina e mi mettevo a suonare tutto il giorno. Mio padre poi ascoltava molto la musica jazz e mia madre era una cantante, quindi nella mia casa la musica era importante. Agli inizi degli anni ottanta mi sono trasferito a Bologna per l’università ed ho passato le serate a suonare in giro conoscendo tanti artisti bolognesi. Maestro lasci un messaggio a chi è interessato a leggere il libro... Ringrazio molto chi lo leggerà. Spero che piaccia e soprattutto che venga travolto dalla voglia di fare musica e di improvvisare.


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in agenda

della domenica n째52 - 16 novembre 2014 - anno 2 n.0


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Afferrare il soffio

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ritratti

della domenica n°52 - 16 novembre 2014 - anno 2 n.0

ell’Armonia, della Carmen e d’un quarto stato ma di fiori…già, l’Armonia; ora la vado cercando e mi ricordo d’un tratto che non è che devo cercarla io, l’Armonia; è lei che mi viene incontro, andando, nelle cose tutte che mi circondano, a patto che su di loro io fermi sguardo e attenzione. Oggi è il “quarto stato”, di Volpedo e dei fiori della Carmen; non l’avevo mai pensato, ma esiste anche questo, il quarto stato dei fiori, a Lecce e, se giro l’angolo di Santa Croce, ne sento il profumo ed è primavera eterna come eterno è il sorriso dell’arte. Giorni di pioggia, lunghi; sento davvero che penetrano nell’anima e non so come difendermi perché sono continue continue le lacrime del cielo sui mali del mondo. Eppure , mi piace tanto la pioggia, ma ci sono momenti e momenti e ora che neppure è iniziato inverno e domina scirocco d’autunno, ho bisogno di primavera, di soffio di vento leggero (ricordi Salvatore Toma?), o di vento forte che spazzi via nuvole e asciughi lacrime. E vado, anche se piove, e mi piacerebbe sentir dietro passi di gente che avanza con me, che mi dà la spinta perché sfida scirocco, così andando avanti tutti insieme ché lunga è la

di Giuliana Coppola

strada; poi mi volto e non vedo nessuno e dico “son sola” e invece ritrovo la Carmen e c’è la sua primavera e c’è il quarto stato, un uomo, una donna, un bimbo in braccio, e ancora, accanto, intorno, in ogni frammento di spazio, il suo quarto stato, quello del suoi fiori, che mi viene incontro e sa di carta e di colla e di colore ed io non distinguo se sono viole e primule o girasoli ed iris e gelsomini e rose, una prima, una seconda, una terza fila che avanza; bocciolo di rosa a dirigere passi sicuri e lo so, lo sento che sono una forza, che hanno la forza del bello, del fresco, del nuovo; respirano; sono la vita. Poi ho cercato la definizione, quella giusta e non l’ho trovata in me; me l’ha suggerita d’un tratto un maestro di violino tra le pieghe d’un film “La vita è un soffio, la vita è un respiro, la vita è un sospiro; l’arte è afferrare il sospiro della vita”. Ecco Carmen, la Carmen Rampino, e chi altro se non lei, nell’angolo di Santa Croce a Lecce, afferra con l’arte sua, il soffio, il sospiro e il respiro della vita e crea con l’arte sua un quarto stato antico e giovane, insieme, un secolo racchiuso in un profumo di carta, di colla, di colore che scaccia inverno ed è primavera di viole o primule, chissà, mentre acqua di pozzanghere infinite arriva alle caviglie e non m’importa nulla, tanto sorride angolo azzurro di cielo.


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racconti salentini

della domenica n°52 - 16 novembre 2014 - anno 2 n.0

Cose del natale

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er il ragazzo di ieri che scrive, le reminiscenze collegate al Natale sono naturalmente molteplici, sia come numero, sia come genere e contenuto: circostanze, azioni, vicende e sensazioni indubbiamente pregnanti, ma, per la verità, nient’affatto trascendentali. Nella mia lontana infanzia, la festività della venuta al mondo del Bambinello aveva la sua configurazione centrale nell’allestimento in casa, per opera materna, di un piccolo e rudimentale presepe, fatto di vecchi cartoni modellati a grotte e montagnole, colorati di vernici e, alla fine, ricoperti di muschio e di polvere di calce. Nella stalla della nascita, le tradizionali statuine del Pargolo e, intorno, la Madonna, S. Giuseppe, il bue e l’asinello, con la graduale aggiunta, quando le finanze familiari lo consentivano, d’altre effigi, vale a dire Magi, pastori e pecorelle. Momento religioso fondamentale era la Messa di mezzanotte, con il Salvatore portato in processione lungo il perimetro interno della chiesa – oddio, fredda quasi come la grotta di Betlemme, e però nessuno sembrava curarsene – gelosamente nella mani del vecchio Parroco, preceduto da uno stuolo di bimbe e ragazzine vestite di bianco e con elementari coroncine sul capo, a guisa d’angeli, frutto, l’insieme, delle amorevoli cure della signorina Nena. I regali per i piccoli a casa? Molto poveri e spartani, come i doni recati a Gesù, vale a dire una pigna e un’arancia a ciascuno. A tavola, niente panettoni o torroni (prodotti del tutto sconosciuti nel paese natio), ma solo una coppa di pittule bagnate nel miele e qualche altro semplice dolce, sempre di preparazione materna. Prerogativa tipica del pranzo, poi, le letterine scritte dai già scolari e infilate sotto il piatto del papà, recitanti, in poche righe, montagne d’impegni e promesse che però, di solito, non avevano attuazione concreta, eppure abituavano al concetto dei buoni propositi. Intanto che si mangiava, ogni anno, puntuale come un orologio svizzero, si materializzava il passaggio per strada – a cavallo di una bici sgangherata recante una sporta di vimini appesa al manubrio

di Rocco Boccadamo

– di un omino proveniente da un piccolo centro del Capo di Leuca distante una decina di chilometri, il quale si annunciava con il grido – sospeso nell’aria, sincopato e sommesso – di “càrtine, pétrine!” (si ponga attenzione alla posizione degli accenti). Chiarendo, quel velocipedista venditore proponeva, di contrabbando, rettangolini di carta sottili (cartine) raccolti in minuscole bustine, con cui era dato di fabbricare, privatamente e ovviamente in maniera non lecita, le sigarette, affrancandosi, in tal modo, dall’onere di acquistarle dal tabaccaio. Inoltre, microscopiche pietrine, cilindretti di cerio e ferro, che, a, loro volta, inserite negli accendini, generavano, con il semplice sfregamento, le scintille sufficienti a infuocare e accendere le sigarette, come anzi arrotolate a mano; così, si risparmiava anche l’acquisto dei mitici zolfanelli. Veleggiando sulle onde del tempo, fra le date del Natale che mi hanno lasciato dentro le impronte più profonde, mi sovviene il 25 dicembre 1965, con mia moglie e Pier Paolo appena arrivato, e quello immediatamente successivo, orfano del sorriso della mia ancora giovane mamma. Quindi, agli sgoccioli dello scorso millennio, il Natale che, appena sveglio, ho voluto dedicare, prima ancora che a qualunque altra persona o atto, alla visita in ospedale a un amico sottopostosi a un delicato intervento chirurgico, al quale, nell’occasione (unica volta nella mia vita), mi sono peritato di radere la barba. Intanto che vado riferendo quest’ultima scena, credo che il mio amico, da lassù, mi dica ciao con un sorriso. Infine, il Natale 2005, contraddistinto, oltre che dalla consueta riunione di tutta la famiglia d’adulti, anche dalla presenza del mio primo e diletto nipotino Paolo (nel frattempo, si sono aggiunti Gaia, Andrea, Elena ed Ester). Ho riferito una piccola sequenza di ricordi natalizi lontani e recenti, forse fuori dagli abituali schemi, se non, addirittura, completamente atipici: di ciò, chiedo umilmente venia, assicurando, a ogni modo, che, nell’esprimere queste righe, ci ho messo il cuore.


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COPERTINA spagine

’avevamo incontrata all’indomani di “Io non sopporto niente e nessuno, nemmeno Spoon River”. Era il 2012. Sono passati poco più di due anni e torniamo a parlare di “Io ci provo”, il percorso teatrale laboratoriale coordinato da Paola Leone e rivolto ai detenuti della sezione maschile della Casa circondariale Borgo San Nicola di Lecce. In realtà quello che allora era solo progettualità è andato oltre il termine della laboratorialità, fino a diventare una vera e propria compagnia di attori: «Il lavoro non si è mai fermato - spiega la regista - Ho continuato a costruire intorno a noi fiducia e relazione, non solo con i detenuti, ma anche con la direzione, la polizia penitenziaria e la popolazione fuori». Le ore da dedicare al percorso sono aumentate, fino a dar vita ad una vera e propria consuetudine nel tempo del carcere: i momenti per le prove ma anche la trasformazione del personale interno, che da sonnecchiante spettatore è diventato vero e proprio pubblico. Moltissimi anche coloro che hanno deciso di andare oltre le mura, in questi anni, per assistere alle rapresentazioni e a “Ubu R1E”, il cortometraggio di Mattia Epifani presentato l'anno scorso alle Manifatture Knos di Lecce. La prossimità con l’evoluzione di questo progetto non può non attestare l’entusiasmo dei suoi protagonisti (fra cui anche l’aiuto regista Antonio Miccoli). «L’entusiasmo mi piace – spiega la coordinatrice – ma ho visto tante persone spegnersi subito, e quindi preferisco dire che semplicemente amo questo lavoro perché non posso farne a meno. È il privilegio della scoperta. La condivisione della lettura di un testo nuovo con altre 20 persone e il tentativo di raccontarlo senza avere un modello in testa. E questo per me è bellissimo». L’ultimo testo esplorato è “La panne” di Friedrich Dürrenmatt, modellato insieme fino a diventare “L’ultima cena di Alfredo Traps…”. «Un testo che ho incontrato per caso ma che ho deciso di proporre perché sembrava molto adatto a mettere in scena il diritto e la giustizia. Un diritto e una giustizia molto diversi da quelli raccontati dal diritto e dalle istituzioni… Ma il teatro e l’arte hanno questa funzione: rimescolare le carte e riattivare possibilità rimosse permettendo di vedere il possibile nell’impossibile». Ecco dunque come nasce l’osservazione di

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La giustizia in scena

teatro

della domenica n°52 - 16 novembre 2014 - anno 2 n.0

di Paola Teresa Grassi*

da Krapp's Last Post http://www.klpteatro.it

Martedì 18, alle 11.30, Paola Leone e la compagnia di Io ci provo, al Teatro Paisiello incontrano gli studenti dell’Università del Salento

quella che forse è una ‘panne’ nel funzionamento di quel meccanismo di riflessione sul momento presente che è il pensiero critico. La dimensione del paradosso quasi surreale esplode molto bene nella resa di questo copione presentato in quattro repliche lo scorso aprile in carcere, ma riallestito per una sera ‘oltre le mura’ al Teatro Paisiello di Lecce (nuova replica martedì 18 novembre). Una conquista importante, ma anche un contenitore adattissimo (il piccolo elegante teatro abitato per l’occasione da una folla di agenti) ad arricchire in maniera quasi meta-teatrale l’originaria drammaturgia. L’intelligente ed interessante meccanismo infatti offre allo spettatore due diverse prospettive che sono anche due diverse tonalità emotive: da una parte la rappresentazione, che porta dentro

alla narrazione in maniera quasi sognante, complice la bravura di chi la agisce, facendo dimenticare d'essere di fronte a una compagnia di ex imputati ora detenuti – quello stare ‘comodi’ nella modalità teatro che molto assomiglia a quell’essere ‘come in una favola’ che il protagonista (interpretato da un attore-detenuto) afferma ad un certo punto; d’altra parte il testo continuamente ricorda l’identità di imputato (potenzialmente detenuto) di colui che agisce la rappresentazione (l’attore-detenuto) e che inevitabilmente ridesta da quella illusione momentanea – il microfono da tribunale, la tattica processuale, ‘Ma io non ho commesso nessun reato!’, ‘Un reato lo si trova sempre…’). L’illusoria sensazione di sicurezza, quel ‘sentirsi al sicuro’ di fronte alla giustizia (incarnato dagli affabili ex giudici che mettono in scena i loro antichi mestieri), viene riprodotta in scena e coinvolge l’osservatore su questo duplice registro emotivo. Una dinamica che molto bene conosce l’imputato-detenuto qui (anche) attore. Chissà che prima o poi non arrivi una tournée e, magari, anche un teatro nuovo all’interno del carcere dove poter provare ogni giorno, capace di diventare ambiente permanente della formazione oltre che occasione di lavoro concreta per chi ‘dentro’ abita. «Un teatro ‘aperto’ alla città».

L’ultima cena di Alfredo Traps… tratto dal racconto La panne di Friedrich Dürrenmatt con: Gjeli Luftar, Alessio Pallara, Giuseppe Ballabene, Gertian Zaho, Gaetano Spera, Maurizo Mazzei, Marco Errini, Francesco Chiarillo,Pierluigi Bolognese, e la straordinaria partecipazione di Luca Pastore progetto e produzione: Factory Compagnia Transadriatica, Io ci Provo ideazione e regia: Paola Leone drammaturgia: Mariano Dammacco assistente alla regia e non solo: Antonio Miccoli costumi: Lapi Lou scenenografia: Luigi Conte e Paola Leone costruzione scenografie: i falegnami-detenuti sezione AS e il loro mastro luci: Davide Arsenio progetto grafico: Simone Miri e Francesco Maggiore riprese video e foto: Mattia Epifani

http://www.klpteatro.it/lultimo-sogno-di-traps-per-una-sera-fuori-dal-carcere


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