spagine della domenica n°54 - 30 novembre 2014 - anno 2 n.0
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri
spagine
diario politico
della domenica n°54 - 30 novembre 2014 - anno 2 n.0
Le comiche finali
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ottama oggi rottama domani, ora è la democrazia che va verso la rottamazione. Lo dicono i risultati elettorali regionali di domenica 23 novembre. Va giù come il “battello ebbro” di Rimbaud, tra i clamori assordanti delle piazze, i silenzi di chi non condivide ma non vota, la iattanza di chi pensa di aver vinto, le dionisiache orge della corte, che ha nelle baccanti moderne una straordinaria forza mediatica. Matteo Renzi, dopo i risultati alle Regionali dell’Emilia e della Calabria, ha esultato: sono andati a votare in pochi, ma noi abbiamo vinto, tutto il resto è marginale. Il coro dei suoi collaboratori e seguaci gli ha fatto… coro. Le sue ninfe ora ostentano con orgoglio la loro avvenenza come valore aggiunto. La Moretti lo enuncia quasi come la formula che ha la soluzione del problema politico nazionale. Aggiunto a che cosa? Ci sarebbe da chiederle. Forse ha ragione l’onesta Bindi. Forse ha ragione lo stizzoso D’Alema. Ma come si può gioire quando chi diventa governatore di una regione ha nella scarsella elettorale appena il 17 per cento degli aventi diritto al voto? Tanto ha preso il nuovo governatore emiliano Stefano Bonaccini. Sì, sì, certo la legge lo consente. Chi dice di no? Ma, proprio perché lo consente la legge, la situazione appare ancora più grave. Una legge che consente questo, che consente cioè ad una democrazia di essere il suo esatto contrario, è un morto che annuncia la propria morte. Si può scendere ancora? Potrebbe uno, che prende il dieci, il cinque per cento dei voti, diventare governatore di una regione, sindaco di una città? Qualcuno potrebbe dire che
abbiamo un Presidente del Consiglio che ha preso zero voti, che non si è mai candidato e che non è stato mai votato per la carica che occupa. Potrebbe dirlo, e non avrebbe torto. Matteo Renzi ha i tratti dell’impostore, una sorta di allegro Rasputin, invitato e riverito a corte dallo zar e dalla zarina. Le invincibili armate, centrodestra e centrosinistra, che in regime di bipolarismo solo qualche anno fa promettevano di contendersi in reciproca alternanza il governo del paese chissà per quanti anni, si stanno squagliando come neve al sole, si stanno inciuciando in maniera indecente. Lo vedono tutti che il vero erede di Berlusconi e dunque del centrodestra è Renzi, che il centrosinistra è rappresentato da un cucùlo di destra che si comporta come un pigliainculo di sinistra, e che mentre la sinistra vera è rappresentata dagli umiliati e offesi del rigore tardo marxista, la destra vera si avvicina alla Lega in un fronte nazionale che non è più il partito di Almirante e neppure quello di Bossi. Il grillismo si sta sgonfiando in un rigore degno di miglior causa. Grillo manda via i disobbedienti fino a quando la gabbia non resterà vuota. Chi si tiene i soldi del denaro pubblico in tasca è fuori. Il rapido successo del Movimento Cinque Stelle si sta dissolvendo. Il danno che ne deriverà sarà grande, perché comunque il Movimento, per la sua diversità, costituiva una sfida nuova, quale mai si era vista in Italia, un furore di puritanesimo politico di sconosciuta matrice moderna. Il suo fallimento è il fallimento di un’idea della politica, diametralmente opposta a quella della politica come opportunità di arricchimento. Ora c’è l’incognita del Presidente della Repubblica, che ha annunciato di voler
di Gigi Montonato
lasciare prima della fine dell’anno. Non è per “viltade che fa il gran rifiuto”. Napolitano è coraggioso e lo ha dimostrato, maggiormente nelle ultime scelte che ha fatto, discutibili ma coraggiose, non condivisibili ma rispettabilissime. Non c’è italiano che non gli voglia bene; ma un bene personale, un rispetto istituzionale. Sul piano politico non c’è italiano che non sia preoccupato. Che succederà dopo Napolitano? Chi gli succederà? Napolitano ha creato il “mostro”. Chi lo gestirà dopo la sua uscita di scena? E’ assai probabile che nel famigerato e misterioso patto del Nazareno, assunto tra due furboni di quattro cotte, ci sia anche l’elezione del Presidente della Repubblica. Basta questo per stare tranquilli? Al contrario, basta questo per inquietarsi. I due strateghi non fanno sapere niente perché niente deve essere condiviso con gli altri; e il loro niente può assumere le forme che decideranno loro minuto per minuto, secondo le convenienze del momento. L’ala scontenta e dissidente del Pd, quella che in questo momento sembra offrire più garanzie di serietà e di affidabilità, sostiene che la faccenda del Quirinale deve essere risolta in Parlamento. Ma dal dire al fare c’è peggio del mare, c’è la palude dove l’acqua è torbida e non si vede niente. Acque dove solo certi pesci possono muoversi con disinvoltura, senza neppure maschera e respiratore. L’anno horribilis della democrazia, l’anno renziano, l’anno del “non eletto”, volge al termine con nubi che si addensano minacciose, facendo scolorire l’autunno, annunciato caldo, ma ahimè finora livido, umido e sciroccoso.
P spagine
uò capitare nell’esistenza di ognuno che il vento soffi gelido sulla faccia, scavando voragini, percuotendo il tamburo di rumori sordi. Può capitare, in certuni momenti, che il male di vivere diventi il pensiero dominante. E noi, confusi, sballottati, incapaci di raggiungere accettabili oasi di serenità, immersi giocoforza in avvilenti inferni di fuoco. La società del benessere (ma non per tutti) acuisce malesseri e le cosiddette malattie dell’anima. Quando il travaglio diventa pressante, deve intervenire e prevalere però uno spirito di conservazione. Di riscatto. Di rinascita. Mi ritorna in mente un pensiero di Franca Ongaro Basaglia: “Pure ho visto anche cosa vuol dire e cosa produce per persone veramente sofferenti, essere parte d’un progetto, di una speranza comune di vita, coinvolti in una azione comune dove ti senti preso in un intreccio pratico, intellettuale, affettivo, in cui serietà e allegria si mescolano e i problemi tuoi si sciolgono o fanno parte anche dei problemi di altri con cui li condividi”. La contemporaneità iperveloce e ipergiudicante è quella che è, non è il massimo delle aspettative: essa non reca albe di fremente chiarore, ma smunti crepuscoli d’indifferenza. Ci sputa, sovente, addosso tramontane d’insensibilità, ci fa stazionare nei solchi impantanati d’una continua esclusione. Chi è stato provato dal male di vivere, dai dolori e dalle tribolazioni di varia provenienza, ha senz’altro un sistema di anticorpi idoneo per entrare empaticamente in contatto con l’altro da sé. Chi ha navigano nei mari della cupa disperazione ha una spiccata umanità, delle corde gentili che giorno e notte possono suonare lo zufolo di Dio. Il dolore davvero non è mai fine a se stesso. La desolazione, se si ha fortuna, può scuotere coscienze, tanto da far echeggiare alfine i virtuosismi dei centomila violini. Certo, il tempo attuale è una clessidra che ruba istanti ad una ordinarietà che esige però una ragione, una profondissima ragione d’essere. Si può viaggiare davvero allorquando in preda alle ansietà, alle melanconie, alle depressioni, ai disturbi psichici di varia natura, si ha la possibilità d’incontrare la gente valida. La gente che ti sa accogliere come una mamma sana, non uterina, mai morbosa, mai mortifera; la gente che ti sa dare le opportune dritte e direttive, come un padre saldamente ancorato a questa terra, al principio di realtà. Per chi soffre e si duole intimamente d’una vita lacerocontusa, è di prioritaria importanza essere parte d’un tutto, essere protagonista d’una comunità d’intenti, di uomini e di donne di buona volontà. Mettere in comune desideri, sogni, passioni, utopie rosee, piccole gioie quotidiane, essere correlati in una tela intricata, ricucita con filo d’amore. Siamo tutti concatenati da una rete, siamo gli anelli connessi d’una medesima catena. Il malandato teatro del vivere consuetudinario dovremmo puntellarlo, ristrutturarlo, e pensarlo come un immenso gruppo di mutuo auto aiuto.
Con l’altro Contemporanea
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di Marcello Buttazzo
Ad illustrare una fotografia di Robert Doisneau
Dovremmo saper essere cittadini e cittadine, che si sanno capire e sanno mettere in compartecipazione esperienze, pensieri e parole. In nome d’una ricca progettualità, d’una visione aperta e morbida della realtà, dovremmo respirare bellezza. Saperci servire, ad esempio, dello straordinario valore aggiunto e nutritivo della poesia. Essa rappresenta una grande risorsa terapeutica. Essa è balsamo sulle umane ferite. Dentro ognuno di noi scorre un fiume dirompente di sensazioni, immagini, ricordi, e ognuno di noi ha la possibilità di attingervi per creare poesia. O leggere poesia. O guardare semplicemente la realtà con occhi da poeta. Con le parole della poesia si può rendere visibile l’invisibile. Con la funzione creativa della poesia, la lingua si libera dai limiti razionali e crea nuovi spazi comunicativi. In un tempo forzatamente basato su presupposti logico- razionali, può giovare abbandonarsi al linguaggio simbolico, metaforico, fantasioso della poesia. E del sogno. Grandi benefattori i poeti. Nella raccolta “Le briglie d’oro”, Alda Merini scrive: “Amate i poeti: essi hanno vangato per voi la terra per tanti anni, non per costruire tombe o simulacri, ma altari. Pensate che potete camminare su di noi come dei grandi tappeti e volare con noi oltre la triste realtà quotidiana”. Quante volte la nostra anima offesa, mortificata, umiliata dai prevedibili abbandoni o dagli inaspettati rifiuti, andò alla ricerca
d’una madre consolatrice, d’una sana guida? Quante volte un cupo tormento ci ha squassato il cuore, lasciandoci i segni di ferite sanguinolente? Quante volte un grigiore ha imprigionato il nostro tempo in una raggelante trama di giorni terribili? Ebbene, innumerevoli inquietudini possono essere analizzate, studiate, scomposte, ricomposte, con la potenza salvifica della poesia. Che è colore, profumo di primavera. La scrittura può assurgere a pietra angolare, a strumento pacifico e non violento di crescita. La scrittura può riscattarci dalle nostre manchevolezze, dalle brutture. Sarebbe produttivo che, in tutte le nostre scuole e nelle Università del nostro Paese, nascessero in quest’era multiculturale scuole etno- narrative, che si prendessero cura, ad esempio, dei migranti tramite la parola. Chi viene da terre lontane, chi ha lasciato i luoghi della nostalgia, è giusto che venga sostenuto adeguatamente. Scuole fraterne come grandi gruppi di psicoterapia, in cui disporsi magicamente in cerchio, per volersi più bene, per aprirsi ai racconti di varia umanità, per gustare il sapore del giorno. Lussureggiare gli ibridi, contaminarsi gioiosamente, trepidare reciprocamente al lume d’una serafica comprensione. In fondo, siamo tutti orfani del tempo, tutti possiamo cantare tristi nenie di perdute memorie.
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primarie del centrosinistra
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La buona Puglia
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di Dario Stefàno he il Partito Democratico ormai sia un corpo politico malato, dopo le elezioni regionali in Calabria ed Emilia Romagna, è del tutto evidente. Il dato della preoccupante astensione al voto dell’Emilia però non va sottovalutato, ma studiato, compreso e non banalizzato come fa Renzi, il quale non ha lo studio della letteratura politica della sinistra sociale e meno ancora la conoscenza della vita del partito. L’orizzonte della crisi è grave perché nella lontananza si vede crescere una destra estrema ed anche molto pericolosa. Le Primarie in Puglia risentono e vivono di questa crisi. Il PD del vecchio Segretario Sergio Blasi ormai è nei ricordi: non c’è più. Il nuovo Segretario Emiliano infatti non è il rappresentante Segretario del PD ma del PDE: Partito Democratico Emiliano quindi Emiliano è un Segretario abusivo nel PD. Un abusivo speciale perché per essere Segretario, grazie al potere, si è per mutazione fatto Assessore nel Comune di San Severo. L’accordo con l’UDC del Senatore salentino Salvatore Ruggiero non è stato maturato nella coalizione di centrosinistra ma personalmente dal Sindaco sceriffo di Bari nelle stanze del potere con il consenso delle oligarchie dei potenti di quartiere e dei Comuni. Emiliano dice: è un accordo del Segretario
di Luigi Mangia*
Regionale PDE per le poltrone della futura Giunta Regionale a prezzo di avere il beneficio nelle primarie dei potenti amici beneficiari dell’accordo. Emiliano è maestro della politica a strascico: raccogliere tutto, conta il risultato non il modo con cui governare la Regione e dare risposte ai problemi: dal lavoro alla sanità dall’ambiente all’energia. Emiliano vuole riavvolgere il nastro del tempo politico della Puglia portando indietro di dieci anni la storia della nostra Regione, cancellando la politica della Puglia migliore di Nichi Vendola. Non possiamo votare Emiliano, non solo perché dobbiamo difendere la buona Puglia che non vogliamo perdere, ma dobbiamo votare Stefàno perché con l’istituzione delle Città Metropolitane, e Bari è Città Metropolitana, molto potere soprattutto molte risorse finanziarie rimangono concentrate dentro le mura delle città metropoli e quindi di Bari con gravi conseguenze sui territori quindi con ricadute negative nel Salento e nelle città piccole. Il modello delle città metropolitane del Sotto Segretario Graziano Delrio è infelice e negativo sia per i territori sia per le città piccole perché le priva di risorse. Votare il Senatore Stefàno vuol dire non solo difendere i territori il Salento e soprattutto anche la buona Puglia. * Responsabile Biblioteca braille Istituto A. Antonacci Lecce
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Ferdinando Boero:
“Dobbiamo riuscire a far capire che il modello Rimini è fallimentare, se si ha a disposizione la bellezza del Salento”
Sarà la natura a convincerci
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hiaccherata con Ferdinando Boero, docente di biologia marina all’Unisalento di Lecce, collabora con alcuni quotidiani (La Stampa, Il Secolo XIX, Nuovo Quotidiano di Lecce) e altre testate scientifiche e non. Personaggio eclettico, scienziato che è difficilissimo trovare a casa perché chiamato in ogni parte del mondo a parlare della sua specializzazione. Oltre che lo studio delle meduse, delle quali è uno dei massimi esperti a livello mondiale, e della biologia marina in genere, uno dei suoi amori più grandi è stato da sempre Frank Zappa, e una medusa da lui scoperta ne porta il nome. Genovese trapiantato in Salento, ogni tanto ci si incontra, si scambiano otto parole e quattro battute e battutacce sulla vita, il lavoro, la politica, il succo di melograno ed altre amenità. Siccome il prof. Boero ha un curriculum esageratamente impegnativo da riportare, rimando alla sua scheda nel sito unisalento .
di Gianni Ferraris
cosa si sono persi.
Qui in Salento c’è uno dei mari più belli, l’ecosistema marino è rispettato come dovrebbe o molto è lasciato al caso e all’incuria? Appena arrivato qui mi accorsi che tutti, ma proprio tutti, mangiavano le linguine con i datteri di mare. I fondali rocciosi erano devastati. E non importava a nessuno. Le coste sabbiose erano anch’esse devastate dall’abusivismo edilizio. Un disastro. Piano piano, con l’aiuto di molti amici e colleghi, lavorammo per aumentare la percezione dell’importanza del mare. Quando arrivò il decreto che istituiva l’Area Marina Protetta di Porto Cesareo mi volevano linciare, assieme a Cosimo Durante. Un “locale” che capì al volo e che mi restò vicino sempre. Oggi i sindaci mi chiamano per sapere come istituire Aree Marine Protette dove ancora non ce ne sono. Il Salento è un paradiso per chi ama il mare. Ma siamo ancora a un bivio. Per qualcuno il mare è migliaia di persone accalcate su una spiaggia a ballare danze tribali sotto l’influsso di alcolici e di musiche martellanti, per altri il Per iniziare in leggerezza, due parole su Frank Zappa mare è natura e paesaggio, fuori e dentro l’acqua. Dobbiamo riuscire a far Il primo concerto è stato The Beatles, nel 1965. Avevo 14 anni. L’anno dopo capire che il modello Rimini è fallimentare, se si ha a disposizione la belThe Rolling Stones. Stava cambiando il mondo, e ho avuto la fortuna di es- lezza del Salento. A Porto Cesareo, per promuovere il territorio, hanno fatto sere lì, di vederlo cambiare. All’inizio dei 70 un mio amico mi fa sentire un un monumento a Manuela Arcuri, e hanno un parco nazionale... disco di Zappa e resto fulminato. Cominciavo a capire l’inglese e quel tale parlava di cose “strane”, la sua musica era “strana” e in quella stranezza, Facciamo il punto della situazione, si parla moltissimo di TAP si e TAP diversa da tutti gli altri, mi trovavo a mio agio. Nessuno come lui. Così, nel no, molti ti additano come complice di TAP nonostante tu difenda l’am1983, durante un soggiorno di studio in California, gli scrissi che avevo sco- biente, non una contraddizione in termini la tua? perto nuove specie di meduse, e che avrei voluto dedicargliene una. Mi ri- Non mi piace l’ambientalismo a corrente alternata. Non mi piacciono i sinspose “non c’è niente al mondo che mi piacerebbe di più che avere una daci che contestano i piani paesaggistici, che frenano lo sviluppo, e che medusa col mio nome”. Lo andai a trovare a casa sua, a Los Angeles, e di- hanno contribuito a cementificare e asfaltare tutto, e che poi si svegliano alventammo amici. Un’amicizia che durò dieci anni, fino alla sua morte, nel l’improvviso con la fregola ambientalista a senso unico. Non mi piace che 1993. Un privilegio raro, conoscere gente di quel calibro. un territorio sia devastato da tutto questo, che si lasci avvelenare dai rifiuti sepolti sotto gli occhi di tutti, e che poi si individui in una sola cosa il male A Lecce sei arrivato nel 1987, l’intenzione era di stabilirti qui o doveva assoluto. Ho denunciato questo falso ambientalismo e, ovviamente, mi essere un passaggio? hanno detto di essere un venduto. Ho dato vita al primo spinoff universitario Non sapevo. Ci fu un concorso nazionale ad associato. Io ero ricercatore. dell’Università del Salento. Serve per fornire consulenze ambientali. Se TAP Partecipai. Non c’erano posti a Genova. Vinsero i pupilli dei membri della ci chiedesse di fare uno studio per valutare lo stato dell’ambiente prima e commissione ma avanzò qualche posto, e fui promosso anche io. I pupilli dopo il suo passaggio, ovviamente lo faremmo. E diremmo quel che risulterà restarono nell’Università di provenienza mentre io, che non avevo un posto dagli studi. Questi studi sono pagati, è ovvio, e vanno fatti. Ma il fatto che a casa, fui mandato nel posto dove non voleva andare nessuno: Lecce. Feci siano pagati significa che chi li commissiona ha comprato il parere di chi li armi e bagagli e quando arrivai qui non sapevo quanto ci sarei restato, ma ha fatti? Chi pensa così forse pensa che tutti si comportino come si comcominciai a lavorare come se avessi dovuto restarci per sempre. E in effetti, porterebbe lui. dopo 27 anni, sono ancora qui. Sono stato molto fortunato, e sono molto Mi sorprende anche che nessuno si sia mobilitato per un altro gasdotto che contento che Lecce fosse percepita come un posto “di scarto”. Ora sanno dovrebbe approdare a Otranto. Mi pare stranissimo che persone senza una
incontri
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Ferdinando Boero sott’acqua con una medusa e nell’immagine grande il disegno di una medusa da http://debestiarumnaturisn.wordpress.com
storia di militanza ambientalista, all’improvviso, su un solo argomento, diventino delle Giovanne D’Arco. TAP è un tubo di 90 cm di diametro e porta il gas in Italia. Se il governo lo ritiene strategico, come pare, è giusto valutarne l’impatto. Tutt’altro discorso le trivellazioni. Anche se il governo le ritiene strategiche per me il prezzo da pagare, a fronte dei vantaggi, è troppo alto. Lì sono in prima fila. Ma spero di non trovarmi circondato da ambientalisti a corrente alternata.
alla normalità la Natura compressa dalla follia umana. Come bisogna demolire gli scempi sulle dune del Salento, così bisogna demolire le case di Genova, quelle costruite dove non si deve. In una di quelle case sono nato, e ho passato un’infanzia e un’adolescenza che non cambierei con niente altro al mondo, lì ci sono le mie radici. Mi piangerà il cuore quando, se sarò ancora vivo, vedrò buttar giù casa mia. La casa dove mio padre è morto nel suo letto e dove ancora vive mia madre, che guarda il mare e la Lanterna, e il porto dal suo terrazzino. Ma non ci sono alternative. O le buttiamo giù noi, quelle case, o sarà la Natura a farlo. Genova negli anni 70 arrivò a un milione di abitanti. Ora sono seicentomila. Va bene così. Il centro storico di Genova è il più grande d’Europa, ed è bellissimo. I genovesi devono ritornare a vivere lì. La cura dimagrante delle città, che devono tornare a stringersi nei loro centri storici, è la sfida architettonica del futuro. Gli architetti devono realizzarla. Gli ecologi dovranno guidare la rinaturalizzazione di quello che le città hanno distrutto. E gli agronomi dovranno promuovere un’agricoltura meno inquinante e di migliore qualità. Abbiamo tutte le carte in regola per farlo, ma ci vuole una “visione” che ancora stenta a venire. Nel mio piccolissimo cerco di remare in questa direzione. Contro la visione dei più, in modo ostinato. In direzione ostinata e contraria, diceva De Andrè. E Zappa diceva: senza deviazione dalla norma il progresso non è possibile. Non mi illudo di avere successo, è una missione impossibile nell’arco della mia vita. Ma non mi importa. C’è sempre più gente che “capisce” e un giorno saranno la maggioranza. Sarà la Natura a convincerci, con le sue sventole mortali. E se invece non capiremo, ci spazzerà via.
Tu sei genovese ultimamente c’è stata l’ennesima gravissima alluvione, è saltato il Bisagno con un solo morto per fortuna. I conti non tornano però, da decenni Genova ha questo problema e da decenni nessuno ha fatto nulla. Non è che la politica sia latitante in attesa dei prossimi morti? Soprattutto, secondo te esiste una “cura” per Genova o i genovesi debbono rassegnarsi? Si dice da più parti che la prevenzione sia molto meno costosa della riparazione dei danni. Negli anni 50 e 60 Genova ha abbandonato il suo magnifico centro storico, una parte è stata addirittura demolita perché “fatiscente”, e si è costruito sulle colline attorno. Una immane colata di cemento, senza alberi, con case una sopra l’altra, arrampicate sulle colline. Sotto il fascismo Mussolini immaginò la Grande Genova, e promosse la copertura del Bisagno, il torrente che attraversa Genova, e fece costruire grandi palazzi, e viali e una grande piazza: Piazza della Vittoria. Certamente molto meglio del disastro del dopoguerra, ma comunque un disastro. Le alluvioni vengono da queste scelte. Allora non si sapeva che “tombare” i torrenti, coprendoli di cemento e incanalandoli in grandi tubi, avrebbe portato ai disastri che oggi ci martoriano. Ma l’Italia intera è stata devastata. Le “bonifiche” hanno eradicato le zone E dopo questa ventata di ottimismo (tranquilli, non riusciremo a rovinare la paludose e hanno causato il dissesto idrogeologico che flagella l’intero Natura, soccomberemo prima di averlo fatto in modo irreparabile) torniamo paese. Tutte le periferie sono orrende. Tutte. Io sono radicale in questo. Per alle cose di tutti i giorni. me bisogna dare impulso all’edilizia con un piano di demolizioni che riporti
L’abecedario di Gianluca Costantini e
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Maira Marzioni Coltivo cartoni coriandoli di carta condensati corpi cavi sono convinto che di certo canteranno che chiederanno curiosi Cosa c’è nel tuo cuore? Conterò allora le cavità Celebrerò le cellule caverò crucci dal cappello creerò cavalieri e carezze Per Dire che ai Dadi è dedito il dilemma che ho dentro
B spagine
occoni sulla neve. E non è Francesco il santo, nessuna empatia col cosmo. Solo terribili dottrine umane, niente di divino, di sacro. Interessi, soldi, vittime e carnefici. Se questo è un uomo. Avanza di qualche centimetro sgomitando nella neve come fosse animale, spera di non essere impallinato. Apre la neve a guisa di bruco. Striscia. Notte di luna piena sull'altopiano di Asiago. La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai, dice un contadino a Ermanno Olmi. Ecco, appunto. Dov'è finita la saggezza popolare? Svenduta anch'essa all'asta del mercato globale, finita nell'indifferenziata, nei cassetti di capi dismessi o dati alla Caritas per qualche “cristiano” meno marcio? Brutte bestie che non smettono di assediare la storia e farla vergognosa, inaccettabile. Si aggirano indisturbate ovunque. Non una. Volano volano, vanno, vengono, si diffondono. Non come le nuvole di De Andrè. Le brutte bestie sterminano, non incantano nessuno, non fanno disegni nel cielo per farsi indovinare dai bambini. Danno alla morte chi è destinato alla vita. Fanno di giardini cimiteri, dell'umanità concime. Per una capacità tutta nostra, capriccio, vezzo, arbitrio. Uccidere. Comandamento stracciato, imperativo categorico da sempre ignorato. Non uccidere. Per i dispositivi del comando di decisione. Li portava un essere umano se sopravviveva alla neve e al piombo. Ora i dispositivi del comando di decisione li porta il vento, li fa viaggiare senza passaporto né documento d'identità. Li portano mostri informi senza volto né nome, e li agevola la nostra rassegnazione, concedendo tutti i nulla osta che vogliono. I mostri hanno deciso di fare dell'umano un burattino, irretito nei gangli ora di un meccanismo torvo e assurdo, ora di un altro altrettanto alienante e disumano. Nulla osta. Torneranno i prati. Nel film è il '15-'18, quanta pietas ancora in quegli anni. Fratellanza. Ora questa parola fa ridere, quasi ci si vergogna a pronunciarla. Solidarietà, fratellanza. Parole comiche ormai, dal bunker del sisalvichipuò dentro cui ci siamo ficcati. Da umani a talpe. Fatti non foste a viver come bruchi, mi viene da dire. Striscianti, asserviti, schiavi ora di questo ora di quel padrone. Soprattutto schiavi di mammona e dei suoi comandamenti. I vicari, i delegati, si sono presi la vita, il sangue, i sogni. Glieli abbiamo ceduti. Abbiamo abiurato alla vita. Come si può cantare?, domanda il napoletano nella notte dei compagni morti. Ma in quell'avamposto ancora un uomo asciuga il sangue di un altro uomo. Qui non c'è più tempo per questo. Lotta feroce per sopravvivenze in ogni caso mediocri. Tanti sforzi per cosa? Siamo tutti nella sala d'aspetto di un obitorio, perché il nostro percorso, come
cinema
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Nella fotogragia il regista Ermanno Olmi
Torneranno i prati
nei giochini della settimana enigmistica, da quel punto più o meno imprecisato ci ha portati a questo, all'anticamera dell'inferno (conserviamo un minimo di ottimismo). Per amor di soldi, per amor di macchina grande, per amor di casa grande, per amor di posizione, per amor d'Europa, per amor di globalizzazione. Sempre per quell'occhio lungo, longa manus del capitalismo. Mostro a miliardi di teste che ci ha fottuti superbamente. Ma torniamo, vi prego, alla gentilezza. Per favore, anche solo per finta, anche solo per gioco. Ermanno dai lunghi silenzi, Ermanno della natura, Ermanno poeta, Ermanno e il suo larice d'oro, Ermanno voce esile e potente. Ermanno dei boschi e dei fiumi. Ermanno degli ultimi.
“Il regno della creazione è sparso su tutta la terra, e gli uomini non lo vedono”. Milioni di esseri, miliardi, non guardano la luna ma il dito. Un dito che indica l'infelicità. Inesorabilmente. E anche l'altro mostro, la distrazione, la dimenticanza. Dimentichiamo le tragedie. Si dimentica tutto. Milioni e milioni di morti per mano di una qualche ideologia, una qualche CONVENIENZA. Maledetti seguaci del tornaconto, anche i più miseri e anonimi sottraggono colore a questa terra e la infognano. Perché la legge dell'avere, dell'accumulare, dell'abbrutirsi umanamente per ottenere qualcosa tocca tutti, dalla ragazza che deve fare bella mostra di sé con capi firmati, alla portinaia che deve fare più soldi per mandare i figli all'università, alla fa-
di Ilaria Seclì
miglia agiata che deve garantire sport strumento musicale lingue straniere e conoscenze informatiche alla creaturina. Sì, torneranno i prati sul terreno irrorato dal sangue umano. Ma può ancora dirsi umano chi non ricorda, non fa tesoro, non onora riscattandola con rinnovate pratiche cristiane la morte di soldati e civili di tutti i tempi? Ora si piange una guerra e dopo un attimo se ne riaccende un'altra. Pratichiamo la non-violenza, mi viene da dire. Senza per forza dover essere grandi anime. Pratichiamo il dissenso e la non-violenza, Ritorniamo creature, ritorniamo fibre del Creato. Se proprio dobbiamo avere qualcuno che ce le spieghi e ce le dica le cose, ecco sì, era scritto. “Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un'ora sola alla durata della sua vita? E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro”. Doveva essere: “Si rivelerà la magnificenza della Creazione e ogni uomo la vedrà”. Se siamo ancora in tempo, apriamo gli occhi. Vediamola. Basterebbe questo.
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Incontrarsi
“Siamo tutti soli, siamo quelli abbandonati, siamo stati accantonati, forse usati poi lasciati. Siamo tutti soli coi ventricoli spezzati. Noi ci siamo organizzati, consultati, confortati...” “Cuori solitari”- Enrico Ruggeri
di Paolo Vincenti
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eetic. E-date, Parship.it, E-darling, Be2, Dammisesso.it: la rete è piena di siti di incontri. Incontri di tutti i tipi, per tutti i caratteri e per tutte le tasche. Incontri per i belli e per i brutti. C’è Ashley Madison per gli incontri extra coniugali. Alcuni siti sono gratuiti (e forse per questo poco attendibili), altri a pagamento. In alcuni casi, è libero solo un primo livello e poi è necessario sottoscrivere un abbonamento per procedere oltre, come per i siti pornografici (di cui pure la rete trabocca dacché per la tv il porno è divenuto off limits). Insomma, se ci si vuole incontrare, ci si incontra in maniera veloce e discreta, se si è alla ricerca dell’anima gemella si può esser certi che nello spazio di un byte, Internet ce la farà trovare. Bisogna abbonarsi ad una di queste reti, creare un proprio profilo, inserire il maggior numero di informazioni possibili e magari una bella foto e “ i contatti inizieranno a fioccare!” assicura il web. Succede però che anche su facebook e sugli altri social network, diciamo tradizionali (cioè non dedicati), si offra saltuariamente la possibilità di fare degli incontri. In questo caso, dipende dalla discrezionalità dell’utente che si è imbattuto nel profilo camuffato di qualche maitresse, cogliere l’opportunità (quasi sempre a pagamento) oppure no. Una volta, non era così. Prima dell’avvento di internet, intendo. All’inizio c’era “M’ama non mama”. Correvano i ridenti anni Ottanta. Io ero un adolescente vivace ed entusiasta e quando, dopo svariati richiami di mia madre, rientravo a casa dalle scorribande pomeridiane insieme ai compagni di brigata, trovavo già il resto della famiglia (mamma, sorella e nonna) sintonizzato su Rete 4, e alle 19.30 iniziava lo storico programma televisivo. Dopo la prima stagione, accanto a Marco Predolin, Sabina Ciuffini venne sostituita con la salentina Ramona Dell’Abate. Due concorrenti cacciatori si contendevano quattro prede rispondendo vero o falso ad una serie di domande intorno ad una enorme margherita elettronica che costituiva il centro scenografico della trasmissione. Nel 1987 la trasmissione venne ripresa da una televisione locale, Odeon tv, e condotta da Sebastiano Somma e Simona Tagli. A sfogliare i petali della margherita elettronica, anche concorrenti che poi sarebbero diventati personaggi famosi come Francesca Dellera, Corrado Tedeschi, Giorgio Mastrota e addirittura Rocco Siffredi. Ricordo che quell’anno dell’exploit di “M’ama non m’ama”, - doveva essere l’85 o l’86, d’estate al mare con la mia famiglia a Marina Serra, ospiti di alcuni parenti di Tricase, incontrammo proprio Ramona Dell’Abat,e reduce dal grande successo in tv. Allora mia madre si fece ardita e le chiese se gli incontri nella trasmissione da lei condotta fossero veri oppure, come noi sospettavamo, costruiti, preorganizzati. Ricordo che ella rivolse alla mia sfacciata genitrice uno sguardo sdegnoso e si tuffò nelle azzurre acque del mare adriatico. Erano gli opulenti anni Ottanta, gli anni di plastica, come sono stati definiti. Gli anni dell’imperante edonismo reaganiano, del trionfo del made in italy nel mondo, dei grandi concerti musicali e delle televisioni commerciali. Dopo “M’ama non m’ama”, fu la volta de “Il gioco delle coppie”, a partire dal 1985, condotto per alcune stagioni dallo stesso Marco Predolin. Una trasmissione di grandissimo successo, poi condotta da Corrado Tedeschi, che annoverò fra le vallette anche
l’osceno del villaggio
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Linda Lorenzi e Federica Panicucci. Della Lorenzi, in particolare, che nei primi anni Ottanta era stata anche valletta di Corrado nel quiz per famiglie “Il pranzo è servito”, ricordo la sua partecipazione, in vesti molto più discinte, al sexi game “Colpo grosso”, condotto da uno spumeggiante Umberto Smaila. Mi colpiva il fatto che la Lorenzi, presente sulle televisioni Fininvest in versione acqua e sapone, ragazza della porta accanto, di giorno, potesse trasformarsi poi di notte in femme fatale e mi chiedevo, nella mia ingenuità adolescenziale, quale delle due versioni, se quella di educanda oppure di panterona, corrispondesse alla sua vera natura. A maggior ragione quando scoprì che la Lorenzi (il cui vero nome è Anna Chetta, originaria di Squinzano) aveva posato nuda su diverse riviste per adulti ed era stata la prima prestigiatrice donna, e sexi, d’italia. “Il gioco delle coppie” da Italia 1 venne trasferito poi su Canale 5, dato il grande successo di pubblico, e insieme al conduttore Corrado Tedeschi era presente, come valletta, Elena Guarnieri, oggi compunta giornalista Mediaset. Molto semplice ma anche accattivante il meccanismo del gioco. Un cacciatore uomo doveva scegliere fra le tre prede donne, separate da un muro che gli impediva di guardarle in viso e poi, successivamente, a parti inverse, era una cacciatrice donna che doveva scegliere fra tre bellimbusti dietro il separé. Tra le altre vallette del gioco, Karim Nimatallah, Elvira Zenga (allora moglie del portiere dell’Inter Walter), Ketty Mrazova. Nel 1993 la conduzione del gioco passò a Giorgio Mastrota e Natalia Estrada, all’epoca marito e moglie, ed ebbe tanto successo che venne riproposto anche in versione estiva, “Il gioco delle coppie estate”, sempre con gli stessi conduttori e, l’anno successivo, “Il gioco delle coppie beach”, con lo scassato gruppo comico napoletano Trettrè e la giunonica Wendy Windham. Dopo fu la volta di “Agenzia matrimoniale”, condotta da Marta Flavi all’epoca consorte di Maurizio Costanzo, che poi sarebbe diventato il “signor Maria De Filippi”. Questo programma perdeva l’elemento ludico e divertente del quiz per essere più una trasmissione di servizio e, soprattutto, ospitava non solo giovani in cerca dell’anima gemella ma anche gente matura e attempata. In diretta continuità con “Agenzia matrimoniale” oggi è la trasmissione “Uomini e donne”, condotta da Maria De Filippi, specchio, attraverso la cafoneria cialtrona dei suoi ospiti, della deriva culturale che ha intrapreso la nostra “Italietta”. Comunque ormai, fuori dalla finzione della tv, l’anima gemella si incontra in rete, come conferma l’agenzia Eliana Monti, la più grande organizzazione Italiana che si occupa di Single, ma occorre prendere le dovute precauzioni. E a consigliare prudenza è lo stesso web, ché la filmografia thriller sugli appuntamenti al buio che si trasformano in trappole mortali certo è molto nutrita. Io personalmente, vuoi per mancanza di esperienza diretta, vuoi per una congenita diffidenza, sarei molto inquieto se dovessi affidarmi alla rete: avrei una concreta paura di ritrovarmi rapinato o peggio picchiato e accoltellato. E mi vedo, come in un incubo, steso in un letto d’ospedale, a lottare tra la vita e la morte, con la faccia buona ma anche severa e di rimprovero della fatina Marta Flavi o del sensale Marco Predolin a darmi conforto. Ma certo questi sono scherzi della mia troppo fervida fantasia, poiché milioni di persone, colpite dal Cupido elettronico, hanno trovato la persona giusta tramite il dating on line. Ché , se “la vita è l’arte dell’incontro” come titolava un vecchio album di Vinicius De Moraes, incontrare la vita è l’arte di questi nostri solitari tempi moderni.
Ad illustrare un’opera di Roy Lichtenstein, Kiss 2 - 1962
arte
spagine
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Le fil rouge
Le donne, il femminicidio e le opere di Luigi Cannone
ori di denuncia inabissati nel vuoto del silenzio se guardiamo ai dati e ai delitti che continuano a segnare il ritmo terribile dell’ignoranza. Femminicidio: delitto di “genere” a indicare che le vittime sono tali in quanto donne. Donne la cui colpa è di essersi sottratte al ruolo imposto dalla tradizione, al controllo del proprio compagno, del proprio padre e dell’egemonia patriarcale in genere. La loro scelta di autodeterminazione le ha punite con l’ingiuria, con l’abbandono e con la morte morale e fisica. Solo perché “Donne e non Madonne”! A novembre se ne parla sempre, a parlarne dovremmo farne impegno quotidiano, condividere l’obbiettivo, dei tanti progetti, quello di farsi veicolo della “cultura dell’emergenza”, un coro che stando al bollettino delle vittime è ancora dolorosamente inascoltato. Questo sino a quando non saranno gli uomini a scendere in campo, motivo per il quale credo sia utile parlare dell'artista salentino Luigi Cannone che ha dedicato anni, anima, cuore e la sua ricerca pittorica al rispetto verso la donna e
alla denuncia del delitto di genere. Il suo percorso in merito parte con “Io:singolare femminile” le cui opere sono intrise di domande la cui risposta è ovvia: “Uccise perché donne, in quanto donne”. Destinate al macello, in primis da se stesse, abbandonate al loro destino da chi, accanto, nega persino l’ascolto accusandole il più delle volte di aver seguito il proprio cuore più che il consiglio amico. E di azzurro intriso di rosso, il pittore scava all’interno di se stesso come un cronista, per comprendere prima, per dar vita poi, con voce e colore al dolore dell’altro incontrato sui sentieri dell’etica. La luce in queste opere ha una duplice funzione: costruttiva e simbolica. Toni caldi di una luce spesso radente, emergono da un buio che non indaga lo spazio circostante ma permea i corpi conferendoli sacralità mentre tutto attorno resta indagato e inconoscibile, dipinge così l’artista Cannone, la ferocia a cui non si può dar nome, senso e ragione. Perché la violenza è sguardo infame che bracca e perseguita innanzi al quale ogni ragione soccombe. Immagini forti mai disgiunte da una tenerezza assoluta, forte nel rimarcare l’abbraccio dell’uomo e arti-
di Rosanna Gesualdo
sta quasi fosse una preghiera la cui invocazione è riassunta in un: “Mai più”. In seguito per Luigi Cannone viene il tempo di “Carne in scatola” ricerca cruda dal titolo esplicativo, a voler esprimere e sottolineare il degrado dal quale nasce la violenza. La donna appunto intesa come “carne” della quale far scempio. Ed è con dolore che l’artista attraverso le sue opere visita i luoghi del crimine e lo spazio dell’abbandono. Con perizia e dovizia di particolari dipinge le vittime: fiori smarriti, dispersi, imbrattatati da un odio che non ha senso né ragione. In queste opere i colori tagliano e feriscono, appuntati alla memoria delle ultime grida, di quell’ultimo assalto in cui la vita viene meno e l’ultimo respiro è quello di chi muore innocente. La storia lo insegna, l’innocenza non resta mai inascoltata, il suo silenzio preme alle porte della coscienza collettiva. Ed è nell’ascolto di chi non ha più voce che con struggente tenerezza e assoluta tenacia l’artista Luigi Cannone continua a stare dalla parte delle donne confidando in un ultimo atto di giustizia affinché il male non abbia a pronunciare l’ultima parola.
spagine
letture
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Il nonno di Bodini Ermanno Inguscio
Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d'Otranto
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hi ha letto le "Memorie di un cane giallo" dell'americano O. Henry non dimenticherà l'istrionesca figura di Judson Tate, viaggiatore di commercio e frivolo banditore dalla eletta faringe, che semina al suo passaggio storie arabescate di umanissima povertà, di amori, di improbabili fantasie e di più manifeste assurdità, al solo scopo di vendere una scatoletta di pastiglie medicamentose per il mal di gola. Al prezzo neppure tanto simbolico di mezzo dollaro. Tanto per dire quanto lontano sia Ermanno Inguscio da simile espediente che, con caparbietà, ci consegna, in “Pietro Marti, cultura e giornalismo in Terra D'Otranto”, una sorta di prontuario della post-unità, frantumato in "certezze", senza pretesti narrativi. Vasta e vertiginosa è, infatti, l'area di scavo, un enorme buco nero, dove il salentino Pietro Marti si muove disposto a parlare e ad ascoltare, perchè forte di una cultura immensa e spregiudicata, per nulla prigioniero di inferiorità meridionale. Sa calarsi, infatti, fra tutti, che siano angeli custodi o eccelsi inquisitori, contrabbandieri o bracconieri per fame, viandanti, assassini o callidi adulatori, i personaggi che incontra e tratta agiscono a ridosso di una normalità in perenne affanno, problematica e lunare, portata alla ribalta, nello spazio scenico e nel verbo teatrale, quasi da un Carmelo Bene del pensiero "dispensato". Ed Ermanno s'è saputo calare tra tante corse e diversità con una inusitata sagacia che sorprende. Si ritrova a meraviglia dietro “quell'uomo che nella cultura costruì il suo riscatto economicosociale con strumenti come istruzione, attività editoriale e giornalistica, puntando alla riscoperta della civiltà della Puglia e del Salento”. Le vicende della vita di Pietro Marti appaiono così appendici di un romanzo unico ed incompleto; capitoli, pur frammentari, di una vicenda che segue la prima, appena abbozzata, stesura della storia post-unitaria. I personaggi s'incarnano in una narrazione a puntale, che si meteorizza nel "feuilleton" di un quotidiano sociale che mai si presta alla
Fondazione Terra d’Otranto
di Oronzo Russo
convenzionale oleografia delle rivisitazioni. Pietro Marti, giornalista, editore e scrittore, studioso di Terra d'Otranto non è, comunque, solo una cerniera fra più persone, o più situazioni: rappresenta anche, e soprattutto, il punto di ritrovo concettuale di idee, di aspirazioni, di fallimenti e di successi individuali. Se la confessione è la "psicanalisi dei poveri", il Marti si evidenzia nel ruolo dell'amico, confidente e complice, presenza discreta, alla ribalta di un illuminismo culturale proiettato, ormai, nel secolo delle certezze. Il novecento si materializza già nelle ultime pagine della storia precedente, da rileggere con il rimorso di chi non è stato protagonista e, forse, neppure comparsa. Gli interventi di Marti risentono di questa frattura, al di là delle singole aderenze culturali e politiche. Sono interventi esistenzialisti, qualcuno anche romantico, e persino byroniano. Che sono poi la denuncia di una crisi personale che sfocia nel campo pubblico, coniugandosi con le poche verità assicurate dall'Italia ottocentesca. Da qui la scoperta di Inguscio che capisce che ogni argomento che Marti tratta nasconde, dietro di sé, un "male" oscuro e imprecisato che emerge, di volta in volta, da una tensione, non solo espressiva, che recita, nel teatro sotterraneo dell'inconscio, un conflitto sociale e gli interrogativi della novità. Sono interventi che denunciano una profonda solitudine alla quale non cede, con l'"escamotage" di una prova d'appello sempre rinviata ed, alla fine, inevitabile. E non è un caso che il terminale dell'intero carteggio sia l'uomo di un Meridione disaggregato e frenato socialmente, nonostante i suoi numerosi apporti culturali. In questo senso, ogni azione del Marti accetta la precarietà dell'immediatezza e della contiguità fisica, o geografica, per divenire romanzo e racconto: un passo ancora, ed è già storia. Dicevamo di meriti, veramente tanti. Ma diciamo dell’abilita’ di Inguscio di incastonare le conoscenze dei luoghi e delle tradizioni, delle credenze popolari e delle sensazioni emotive che solo chi
conosce questa terra può descrivere quasi fosse una storia “contenitore”, inventata sul filo di narrazioni fantastiche e leggende popolari per avvicinare tanto lavoro al gradimento. Un notevole sforzo. Non era facile coniugare la cartapesta con Liborio Romano, i ruderi con la fine arte di Bodini. Ed invece è venuto tutto così naturale che il libro si legge tutto d’un fiato, a riprova che Inguscio ha saputo presentare Pietro Marti come il campione meridionale capace di evidenziare la metafora esatta del tempo macinato e disintegrato, altrimenti perso, ma anche dell’amicizia, della complicità e del tradimento, della colpa e del rimorso, della fuga e del ritorno, sintesi di una riappacificazione che passa attraverso il filtro della parola e di un’onestà ruvida e incondizionata. Per codici e patti cavallereschi, sempre leale. Il tempo era sempre quello dell'immediato passato e permetteva di osservare ancora moduli ottocenteschi, pur se in fase evanescente. “Pietro Marti, cultura e giornalismo in terra d'Otranto”, infatti, non è una provocazione, ma un atto d’amore, una malia, un incantamento. E un giuramento di lealtà. Incantamento per il giornalismo, innanzitutto, del quale sia Marti e, conseguentemente, Inguscio sono innamorati perduti. Non altrimenti saprei definire questa passione per la parola. Fare il giornalista, a tutti i costi, è la dichiarazione di intenti, di un apprendistato erratico e avventuroso che incalzerà Marti per tutta la vita. In ordine sparso, ogni volta un nuovo approdo, rimettendosi in gioco, in una categoria disastrata da quanti, giornalisti, si credono anche scrittori. Il resto , in questo libro, è funzionale a questo amore per la scrittura, a questo tacito patto di lealtà con se stesso. E la chiave di lettura del libro segue questo intreccio, si sdoppia, perché è sì la storia di un giornalista, ma è anche la storia speculare di un uomo, Ermanno Inguscio, dalla caparbia ansia di apprendere, di leggere per apprendere, con l'umiltà di chi ha voglia di cultura., senza ricorrere alle pastiglie medicamentose per il mal di gola da propagandare tra la povera gente.
spagine
“Forse la morte non porta via tutto, o forse volevo solo dirti di un luogo di luna, di un castello imbiancato dai respiri di Idrusa”.
Q
Antonio
Dialogo con Maurizio Nocera dell'intrusa/idrusa
Antonio L. Verri
uando si parla della poesia di Antonio Verri occorre genuflettersi - Maurizio mi sconsiglia il termine perché lo considera eccessivo e a Verri avrebbe dato fastidio, io credo di no e lo uso, ma potrei parlare anche di rispetto come mi suggerisce: ecco sì rispetto profondo, ossequioso assumendo pertanto un atteggiamento di umiltà, che secondo lo stesso poeta appartiene alla “salentinità” spesso tradita. Chi è Antonio Verri oltre alle prime e immediate notizie biobibliografiche che si possono facilmente reperire? In questi ultimi anni è stato scritto molto - ma ancora non abbastanza - attorno alla sua professione di poeta e di operatore culturale, recentemente sono stati pubblicati ad esempio i testi “Antonio L. Verri. Il mondo dentro un libro”, di Simone Giorgino, Lupo Editore 2013; “Con gli occhi al cielo aspetto la neve”, di Rossano Astremo, Manni 2013; “Le pietre sopra le ali. Vent’anni senza Antonio Verri”, a cura di Salvatore Francesco Lattarulo, Progedit2013. Qui, passo la parola e concentro l'attenzione su una personalità autorevole, un amico, un amante della scrittura di Verri e poeta egli stesso Maurizio Nocera per parlare della Poesia dell'“uomo dei curli”.
Antonio Verri adotta la metafora come se fosse “pane” del quale quotidianamente si nutre e conosce, geniale e inusuale l'uso: lo gira, lo rigira con sudore, lo impasta, e lo fa lievitare fino a creare con pazienza, la forma perfetta. Ecco il “Pane sotto la neve” nel quale scrive di gente che soffre, subisce, chiedendo ai “meridionali” il loro senso di responsabilità storica precisa: non “tradire” e operare. Quanto secondo te - Maurizio - Antonio Verri è stato ascoltato dal popolo del Sud come uomo e come poeta e quanto tradito? Ho letto dei suoi scoramenti nei riguardi della Puglia, del Salento e di Lecce; spesso nelle sue opere la definisce “provinciale e addormentata”. Oltre che macchiata di ipocrisia! Si passa il giorno con falsità, ipocrisia e sole che scotta.
Antonio Verri
A Verri importa affermare il suo operare piuttosto che essere ascoltato, intendeva fare poesia come bene universale. Non cerca gratificazione per sé, ma vuole fare bene agli altri. Ad esempio: Girolamo Comi è considerato una monade, che vive per sé; Vittorio Bodini è un poeta universale, europeo ma si preoccupa di ciò che fa lui; Vittorio Pagano è universale e operatore culturale: organizza incontri a Lecce dove convergono i grandi della letteratura italiana come Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti. Si tratta di riunioni però destinate a pochi intimi. Verri invece attua una vera e propria rivoluzione. Inizia col fare inchieste coinvolgendo tutti. Diventa un vero e proprio scopritore di talenti come ad esempio Claudia Ruggeri e Antonio Errico.
Cosa intende Verri a tuo dire, conoscendolo bene e avendolo seguito e curato le sue opere, oltre ad aver discusso spesso con lui - basta guardare le foto in “Lettere e inediti” - in “Pane sotto la neve”, proteggere l'umiltà del meridionale? E quindi il simbolo del pane e la metafora della neve?
Ci sono coloro che si definiscono elitari/accademici e mettono in disparte Verri, considerandolo un individuo senza controllo, senza limiti e per questo procurava un certo timore da parte di chi aveva l’obbligo e si sentiva persino in diritto di controllare le menti. Inoltre, viene tradito spesso alle spalle dalla cosiddetta contrada provinciale. Il PANE SOTTO LA NEVE è il pane dentro una busta di plastica che la madre adorata preparava per darla a lui e a me quando uscivamo insieme per lunghi percorsi a cercare di crear reti e diffondere poesia. È una metafora “il pane” che riprende l'autenticità del mondo contadino, Otranto, ma anche la semplicità e l'amicizia pura. Non a caso la sua prima poesia è dedicata a Carmelo Bene.
Trovo stupenda la “Betissa” (1987), sebbene ogni aggettivo è inqualificabile, capace di rendere onore e significato alla poesia verriana che ne ha di immenso e spesso troppo aulico.“Betissa” corrisponde a stupida, infantile. Il senso rassegnato che prevale alla “stupidità della terra” che gli appare difficile forse impossibile vincere. Chi sono in realtà la Betissa e l'uomo di curli, e che ruolo conserva per la donna oltre a quello di amore incondizionato
verso la dea-madre? La Betissa appare a mio avviso - come un'opera teatrale molto simile a Carmelo Bene come “Sono apparso alla Madonna” e “A bocca aperta”, dedicato a S. Giuseppe da Copertino. Dominante è inoltre una forma di rassegnazione, di negatività nei confronti del Sud e del Nord, di un'Italia che lo ha deluso. Perché? E perché predomina il dolore?
Antonio è innamorato dei vocabolari. Questo è dimostrato dal fatto che imparava puntualmente a memoria i termini; ogni giorno leggeva e memorizzava una pagina di vocabolario. Per Antonio la donna era tutto. Attua una sorta di rimozione dei sensi perché come accade anche a Leopardi sa di non piacere, di non poter essere amato da una donna, ma lui la ama perdutamente, rispettosamente, giunge persino a idealizzarla. LaBETISSA è appunto la donna chiamata “mulacchiona” cioè la femmina che non capisce, bella procace ma stupida, senza cervello e della quale potrebbe usare senza sentimento, visto che non si può innamorare di lui in quanto - come detto poc’anzi - si considerava brutto. (Pensieri mai fatti da quanto afferma l'amico Maurizio. Antonio rispetta e ama la donna). Ma la BETISSA è anche un gioco come quello degli squali che mangiano i pesci piccoli, cioè i poveri. Oppure può essere un quadro astratto come quello di Picasso, ad esempio, che implica innovazione.
e il suo pane sull’opera del poeta Verri
Anche lo zio Leonardo è la BETISSA che Antonio ama e prende a sé come fardello il suo dolore. E rappresenta il dolore di tutto il popolo contadino del Sud. Soffre per le discriminazioni anche per le prevaricazioni del Nord facendo capire che “noi siamo uomini onesti, poveri ma dignitosi che andiamo in giro a testa alta”, simbolo di dignità e integrità è il padre di Antonio. (Leonardo è il secondo nome di Antonio, come si chiamava lo zio). Pertanto, sceglie consapevolmente di non assumere mai ruoli elevati, resta sempre nel basso pur potendo permettersi di aspirare e guadagnare. Antonio infatti non lavorava, viveva solo di poesia, di conoscenza, di diffusione del sapere come se per lui fosse una missione, certo togliendo l'aurea mistica. Nel suo Diario c'è l'uomo che cerca gratificazione che però non trova come il POETA DEL SUD umiliato, non gratificato, non riconosciuto. Verri è chiaramente un uomo che poeticamente soffre, in parte incompreso, se pur attorniato e cercato insistentemente da tanti amici, (come lui stesso scrive). È un poeta che scava, vuole scoprire, andare oltre tutto, adottare una sorta di “martello pneumatico” anche per se stesso. E cosa trova? Addirittura proprio per la sua condotta di vita e lo stile poetico è stato annoverato tra i “poeti maledetti”. Perché? E se ha senso questa definizione, e non è invece una burla.
Trova tesori. Scava come un tombarolo e scoprendo il coperchio trova numerosi tesori. Scava nel Salento, sonda nel terreno e trova talenti nel territorio come Antonio Errico (vivente), Oronzo Coluccia (vivente ma rinchiuso nei manicomi), Lucio Conversano, Fernando Bevilacqua, Angelo Fabiano. Trova cultura e intelligenza del territorio misconosciuta ed emarginata dalla “solita” accademia da chi pensa di aver capito tutto. ***
Per quanto riguarda la sua preparazione scolastica, il poeta, non amava frequentare la scuola. Era un ribelle, un autentico rivoluzionario, non accettava né scendeva mai a compromessi. Questo probabilmente gli è costato la vita. Quando Antonio si reca a sostenere il primo esame all’università per la Facoltà di Lettere
autori
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con il professore Bonea, viene rimandato, ma sarà successivamente un grande amico e suo stimatore nel momento in cuisi rivela l’opportunità di leggere “Il pensionante dei Saraceni”. Antonio Verri ama la sua terra e la descrive in modo eccelso, geniale, unico, con termini umili che appartengono al Mediterraneo, in preda alle volte al “delirio”. L’uomo dei curli chi è? Il pazzo, lo Zarathustra incompreso, l’uomo che ha trovato la verità e vuole proclamarla, ma nessuno gli crede, come accade alla sfortunata Cassandra, portavoce solo di bugie. È una triste verità appunto quella di affermare se stesso tra gli altri, dire ciò che si pensa con convinzione e non essere preso in considerazione. Accade, è la vita. I motivi non siamo capaci di conoscerli, ammetterli, o forse non vogliamo e non facciamo nulla per un cambiamento. Quel cambiamento che voleva ad ogni costo Antonio Verri, la poesia doveva far parte della vita: entusiasmo, forza, coraggio, questo ha trasmesso con la sua poesia. Oltre alla grandezza e originalità delle opere nell’uso ricercato di metafore. Basti leggere: “I trofei della città di Guisnes” (1988), “Bucherer l’orologiaio”, “Il pane sotto la neve” (1983) che come titolo può dirsi nato quando la nipote d Antonio - mentre dialoga con lui - raccoglie la neve e mette sotto il pane dello zio, quasi a raffigurare una nuvola, qualcosa di magico, etereo. E magici sono i testi: “La cultura dei tao” (1986) o “Il naviglio innocente” (1990). Antonio Verri - “l’uomo dei curli” - può essere il pazzo, il folle, lo Zarathustra, o Cassandra, potrebbe rivestire ogni ruolo o forse nessuno ed essere semplicemente se stesso. Aldo Bello affianca in “La Betissa” la metafora come una sorta di profezia per Antonio Verri. Perché il poeta sache il dolore può essere l’arma più adatta a impedire la perdita dell’uomo quale si trova a vivere oggi sulla terra: il dolore dell’uomo, che è anche il dolore per l’uomo. Sa il poeta che si possono inventare macchine per vincere la forza di gravità, ma non per vincere la forza della “stupidità della terra”. Disarmante il commento di Bello come la conclusione nella quale vede nella “Betissa” l’elegia per la madre-dea viatico premonitore allo schianto abbagliante dell’uomo dei curli.Questa la tragica conclusione, forse.
Come vi sarete accorti il caro Maurizio mi ha “lasciato” per altri suoi impegni, dicendomi ciò
di Alessandra Peluso
che ripeteva spesso anche all’amico Antonio: “C’è tempo! C’è tempo per fare tutto”. Ma quel tempo non sembrò bastare ad Antonio che andò via prima, ingannando tutti con l’originalità che lo ha distinto da sempre. Così - quel c’è tempo - ha portato a termine il mio progetto iniziale, i “caffè della poesia” tanto amati dal nostro caro Antonio Verri; tuttavia, non ha scalfito per nulla l’amore per la poesia né l’entusiasmo che nutro per essa e per lo stesso Verri. Un poeta che ha cercato il senso della vita, di se stesso. Un uomo che ha tentato di cercare l’armonia e forse l’ha trovata - come scrive Antonio Errico - ne “Il fabbricante di armonia. Antonio Galateo”.Un uomo che ha vissuto la vita generosamente per gli altri, non curante di sé, considerato un fannullone dagli abitanti del suo paese, Caprarica di Lecce, e guardato a vista, non tenuto in alcuna considerazione. Tuttavia egli amava, non odiava, comprendendo saggiamente che con l’amore si costruisce, mentre con l’odio si distrugge. E, infatti, nei suoi numerosi scritti compare malinconia, nostalgia, dolore, mestizia per una terra che non l’ha compreso e che è rimasta appisolata per l’intera sua epoca, e che forse - duole dirlo - dorme ancora.
Ciao Antonio, ovunque tu sia, ovunque tu voglia essere! Grazie per il tuo rispetto, impegno e amore per la poesia che hai insegnato non solo a coloro che hanno avuto il privilegio di conoscerti personalmente; ma anche a chi - come me - ti ha conosciuto attraverso le tue opere e ti ama.
spagine
la musica di spagine
Il suono meticcio
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M
di Alessandra Margiotta
etissound è un progetto musicale multiculturale nato dall’idea di Francesco Iaquinta ‘Jakinta’, artista calabrese che vive da diversi anni a Bologna. ‘Trafficanti di musiche d’amor’ è il primo album accompagnato dai video di ‘Vita di contrabbando’ e ‘Briganti’. In questa intervista Jakinta racconta del progetto Metissound.
Come è nato il gruppo e cosa significa Metissound? Il significato di Metissound è suono meticcio. Nel 2007, quando già mi trovavo a Bologna, volevo fondare un gruppo musicale formato da tanti componenti, con lo sguardo rivolto verso le altre culture, infatti nella band c’è l’utilizzo di diversi strumenti musicali etnici e la partecipazione di percussionisti africani e non solo. Ecco il progetto Metissound.
Il tuo stile è il raggamuffin ma con questo disco caratterizzato dalle contaminazioni ti sei allontanato dalle tue origini… La mia base stilistica è sempre il raggamuffin ma con questo lavoro sono anzi ritornato alle radici. Canto anche in dialetto calabrese, ho inserito diversi strumenti etnici come kora e tamà, e infine la preziosa collaborazione di artisti africani. Metissound è un progetto ambizioso, ma portare in tour un gruppo di dieci persone non è semplice. Si tratta di un progetto aperto che viene ‘modificato’ in base alle occasioni che si presentano. Attualmente mi sto muovendo in formazione ridotta con Bruno Crucitti ‘il professore’ alla batteria e Luigi Guerra ‘Luis War’ alla tastiera. Nelle occasioni in cui si richiederà la formazione completa allora parteciperanno anche gli altri componenti. Insomma un vero e proprio progetto aperto e multiculturale.
Trafficanti di musiche d’amor è il primo album dei Metissound, come mai questo titolo? Sì, è il primo disco e ho decido questo titolo perché noi siamo dei briganti, cioè trafficanti di cose positive come l’amore, trasmesse mediante il linguaggio universale che è la musica.
Sono già usciti due video: il primo Vita di contrabbando e l’altro Briganti, legati dalle stesse tematiche. È una scelta voluta? Sì è una scelta voluta, è una forma di protesta verso tutte le cose che non vanno bene.
L’album è interamente autoprodotto? L’album Trafficanti di musiche d’amor l’ho prodotto io ma le edizioni sono della Fonoprint. Come etichetta invece Soundlab di Bologna.
Quali i contatti per chi vuole conoscere il progetto Certo, c’è il nostro sito http://www.metissound.com e abbiamo anche la pagina facebook a questo indirizzo https://www.facebook.com/metissound dove sarà possibile seguirci e conoscere anche le nostre date. Anzi vi aspettiamo numerosi.
Finalmente a Lecce qualcosa di normale
progetto grafico Francesco Maggiore ĹŚ LOOXVWUD]LRQH Efrem Barrotta
Dal 6 all’8 dicembre alle Manifatture Knos di Lecce i film che raccontano storie di straordinaria normalitĂ
Salento LGBT Film Fest INFO: OHD OJEWT#OLEHUR LW ĹŚ ĹŚ www.associazionelea.org Un progetto di
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Simeone! spagine
C
hi mi ha parlato recentemente di un ispanista, di Oreste Macrí? No, non importa saperlo, desisto dal ricordarlo o chiederlo. In un parlare frettoloso non si comprendono i particolari di quella citazione, anzi si dimenticano ed è meglio. Ho, è rimasto comunque un vuoto, la necessità di scorrere lungo quel filo lasciato nel mio remoto pensiero e ne scrivo. Un vuoto di un perché. Nei giorni passati l’opportuno è stato prendere, leggere di Simeone. Preciso meglio il tempo. Al Fondo Verri, Lecce via s. Maria del Paradiso, si tenne un incontro con Massimo Sani, uno dei registi documentaristi del cinema storico italiano. Mauro Marino fu con Maurizio Nocera l’organizzatore di quell’istruttivo incontro conclusosi nell’altrettanto utile e con lo storico documentario che, per detta di Massimo Sani, in una “strana” e voluta disputa fra l’Italia e il “resto del mondo” per diritti di copyright, la Germania nel XX ’69 se n’era infine accollato l’onere di pubblicare e trasmettere in etere. Di quello “strano” contendere ne ho, naturalmente, compreso le ragioni. Tutte italiane. Al termine della visione ebbi a lanciare una provocazione. Ma non si rivelò fruttuosa. Non fu colta per la mia non del tutto ortodossa introduzione al problema. Oggi, nel tentativo di riacciuffare il maltolto o meglio il maldetto mi cimento per la seconda volta. Dapprima parliamo quindi di Storia e di chi fa Storia e anche di come si fa Storia ed ancora come ci si arriva alla Storia. La nota “dei come” e “dei chi” si farebbe lunga, lascio ad ognuno di noi la facoltà di sopperire con una qualsiasi di altre specificazioni. Per quel che dirò, sicuramente, la nobile Signora Storia si mostrerà con i suoi anni e con tutti i meravigliosi difetti, con quel che prima era stato nascosto dal fondotinta della scrittura per le scelte e del poi suo raccontarsi, con il mostrarsi a noi nuda o vestita con il solito abito dell’Imperatore. Rileggere quella Storia non è solo studiare per ricordare. Non ho mai amato prendere appunti, ho fatto sempre conto di quel che ho poi ricordato. La certezza è stata in un quel che si riannoda e ch’è utile d’attenzione. “Il resto è noia, noia, noia.” In quella serata al Fondo Verri, il documentario intervista con l’altra Signora, la Letteratura, s’è a me presentato nel bianco e nel nero, con quel che solo un non colore può dare. Certamente non per sola colpa di chi docu-
menta in fatti ed immagini. Il Sani ha dovuto certamente avvalersi di documenti, di ciò che all’epoca erano stati o erano i “visibili”. Chi ne documentava o poteva con gli altrettanti? La verità storica sembrerebbe salva? In die unaussprechliche wirklichkeit (trad: nell’ineffabile realtà) del 1969, della realtà era a me evidente il bimbo buttato con l’acqua “sporca”. Non occorreva parlarne? Visitare una “Città” non è andare esclusivamente al Centro ma in periferia dov’è il ritenuto e il voluto “degrado” e non occorre alcuna giustificazione per non sentirsene colpa. Mah! In una Storia in Bianco e Nero vuol dire trovare anche Luci ed Ombre per dispute letterarie e premi da far sorreggere impalcature rigorose e schematiche e nell’essere e nel convincerci di un solo modo di esistere, essere Letteratura, Cinematografia, Documentario. Gli Autori dal post|guerra con i neorealisti e le neoavanguardie sono a me giunti in visione per essere sempre al presente mai al passato. Non è, ripeto, un appunto “totale” all’autore so bene ch’è un nostro modo di fare, soprattutto se l’attingere è dal passato. Se vogliamo differenza però vi è da dire. Gli autori siano essi stati poeti o narratori, invece nella differenza lo sono, questa volta nell’ahimè, nelle presenze ingombranti come le monografie, anche per chi le ri|legge. Nel Vecchio di chi guarda per il Nuovo sono sempre anche le immagini perché esse continuano a presentarsi al presente e dicono di essere la Storia. Mi sta bene se sono quella Storia. A volte guardare e sentire non è molto diverso dal possedere uno dei Tanti Tomi sulla Letteratura Italiana, sia essa per essere stata divisa o frazionata in cicli, per guerre, per generi o per volute plurime divisioni. Leggere un testo, visionare la Storia è sembrato sempre percorrere l’utile di una strada altrui, mai sentirsi come parte dei tanti che sono Fiumana di un Pelizza da Volpedo. Per la Storia raccontata in visione non si è né giovani né vecchi, tantomeno ci si sente adolescenti o neonati, magari si è solo per essere divisi per sesso o convinzioni religiose o sessuali. Per quella Storia non valgono le Costituzioni ma i premi letterari, le conventicole dei gruppi storici, le agenzie letterarie delle Case Editrici. Discussioni del tipo, qual è la sorte del personaggio nel racconto trovano e hanno trovato poca strada da percorrere. Essere l’eretici dal monosillabo all’endecasillabo o ancor più precisare il risiedere per fasce territoriali e di co-
di Francesco Pasca
stume non diventa l’indispensabile per una letteratura. D’altronde tutto “parrebbe” iniziare con Dante la cui colpa è stata di essere Toscano e di aver lasciato ad altri il lavare i panni in Arno, oppure d’essere lingua nata comunque nella prima metà del XIII secolo per scuola siciliana, meglio se ricondotta alla nobile origine di un Federico II o ancora, per me, essere lo splendido esempio di quel nascere, l’essere gemma in un Cantico delle creature di un fraticello a nome Francesco dimorante in quel d’Assisi e con il pensiero all’Oriente. Per dirla oggi all’unisono. Quell’Unità di Italia politica tanto reclamata non ha versato per argini di letteratura. Non viene fuori dagli argini, per la nostra Signora Storia. Però vi è stata e magistralmente non esondata in una buona triangolazione tra Centro-Nord-Sud i cui generi letterari fecero, fanno tutto il resto per la produzione poetica sia essa stata da considerare in origini da un volgare romanzo, il siciliano, così definito da Dante nel “De vulgari Eloquentia” o per scriver o essere di romanzo, cinema neo realista, ermetico di prima seconda o terza generazione, rigorosamente nordico. L’esser scrittore è sembrato il legame del comunque essere unito con l’editore. Ricordiamo che fu lo scriver d'amore e sembrò essere la maniera come immergersi nel nuovo “volgare” nonché saper periodare con il latino di Ovidio, Virgilio, etc. Abbiamo saputo da bravi lettori attendere la Nobil|Signora, La Donna Bella|Bella dalla Lingua Buona, la Nuova nell’indispensabile, quel che si era attesa sin dal quando si sperava nell’ “emancipazione”, completamente. Detto questo parrebbe la Vera Storia, dell’altra Signora, della Signora che sceglie il chi scrive. Si sono per l’uopo fatti nomi e date. Si sono, di fatto, scelti i nomi. Ma quando i nomi diventato tanti e troppi scegliere diventa difficile, ricondurre ai principali ancor più arduo. Il personaggio del racconto non ne avrebbe avuto bisogno se per esistere ha dovuto spegnere il suo ultimo desiderio in un fondo pagina o abbia rischiato di sparire. Il dunque è che c’è stata, ma è da sempre, una sottile polemica nel Salento. S’ebbe a ripetersi per un nome, nel tempo soprattutto corrente, per un sentire “nostro” e non di “tutti”, il Simeone con il suo amico Vittorio. Lo è stato anche per un rinascimento tutto meridionale, per il Galateo. Nel cerchio ristretto degli studiosi, studiare a Lecce non è stato studiare in una delle tante Città Universitarie.
...del filo narrativo tra Mito, Realtà e Storia
scritture
della domenica n°54 - 30 novembre 2014 - anno 2 n.0
Oreste Macri a Otranto settembre 1976 fotografato da Laura Dolfi
Antonio De Ferrariis e i tanti “Simeone” hanno avuto certamente il meritato riconoscimento ma, si sa, riconoscere nel mondo della globalizzazione vuol dire anche avere visibilità. Per carità di Dio non quella dell’etere dove si alternano scrittori e premi letterari ch’è meglio non citare in nomi e cognomi. Nel fare cultura trasversale e non piramidale è avere la visibilità che non passa attraverso la cultura dell’oggi globale circoscritta all’Università di appartenenza, quindi, occorre essere nei testi di studio, non solo specializzati e vuol dire anche aver ri|conoscenza letteraria da Unità d’Italia e se volete anche di Unità Europea, ma non solo per l’esser menzionati o tanto per citare dei nomi. La questione meridionale, voluta anche in letteratura, non è mai esistita, è tuttora un alibi, meglio è, chiamarla “questione locale” che non riesce a proiettarsi dal suo recinto. Ma, scusate, avevo iniziato a parlare di Simeone e mi son perso. Meglio riprendere. L’episodio principe della predisposizione è mettersi sul percorso di quel che mi è stata, sembrata la mia identità territoriale, da spalmare su tutto il territorio nazionale. Vorrei, personalmente, ritrovarmi sempre e comunque nel filo narrativo tra Mito, Realtà e Storia. Non è un particolare insignificante, né lo è stato nella mia vita di studente a Firenze, in quel sentire odore di Caffè “giubbe rosse” e non per esser di Quarto per Marsala, ma per passaggi improvvisi e non meditati, solo perché campeggiava anche il nome di Simeone. Sembra alla fine di aver parlato veramente poco dell’Oreste Macrì.
Fra le righe credo di aver messo il poco e non il tanto nonché aver “non dettato” il motivo di questa mia divagazione. Per concludere e rifarmi in scrittura proporrò l’attenta lettura di un testo emblematico di Simeone, ch’è, e la dice e tanta, anche del saper essere e stato fine scrittore dall’umorismo|filosofico|graffiante. Chissà se a leggerlo ci si pensa. Dal racconto Esploratori di Oreste Macrì. “… -Per cortesia avete un po’ di fumo? (Per chi conosce l’originale battuto a macchina, la correzione è stata fatta su: “Per cortesia, ha un cerino?”) Eh sì, un “po’ di fumo?” è meglio. Parrebbe sentirlo nell’animo il Simeone, si sarà scosso per il suo modo d’essere intellettuale creativo e per quel p.c.c. (per copia conforme) Quanto fumo si era speso e chiesto in quegli anni e, il chiederlo al “giovane regime”, quell’interrogativo poteva essere il tanto poco in arrosto di quel fumo. Ma non basta per farci sorprendere in scrittura. Continuando: “… Si pervenne a venti minuti senz’esito, mentre io masticavo tra i denti la sigaretta e mia moglie m’accorsi che si faceva irrequieta, finché mi si rivolse: -Oreste, ma non potevi chiedere fuoco a uno qualunque?” È sufficiente, fra un venti, un qualunque e un essere (Italia) irrequieta, trovarsi in una non citazione, nel documentario ch’è Signora e Storia? Se cercate altre immagini leggete la lavanda dei piedi. Un incanto per leggerezza emotiva nella discrezione. Il giusto e il tanto per cono-
scere qual è e con quali piedi si muove il mondo. So bene del neorealismo e che occorre attendere il post guerra, almeno dal 1940 o giù di lì, ma almeno un accenno per chi ha scritto di Montale, di Quasimodo, di Pratolini, etc. Per quella serata avrei desiderato almeno un’immagine, una citazione e poter passeggiare con Lui come con altri in boschi letterari, nella dimensione fra memoria e simbolo, fra l’essere ironico e beffardo; avrei voluto essere scomodo, fastidioso, ostile nella certezza di avere accanto il personaggio, con colui che avrebbero voluto o discusso di far morire con il romanzo per assurde proprietà transitive e ricordare, su quel sentiero percorso, che, la diatriba sul dialetto è stata risolta egregiamente da Galileo Galiei un po’ di anni fa. Con un’immagine si sarebbe verificato il più che doveroso, anche per un fine documentarista come Massimo Sani. Forse troppo giovane nel XX ’69 perché preso dall’impegno di immagini già predisposte. Per “l’ineffabile realtà” non fu l’accorgersi nell’allora. Forse troppo anziano nell’oggi per essere revisionisti storici. Volevo solo ringraziare per mia mal posta riflessione. Il Fondo Verri si frequenta e dà occasione anche per questo e in grazie di chi lo conduce nell’egregio col filo narrativo tra Mito, Realtà e Storia. Grazie!
Per approfondire in rete: La biblioteca di Oreste Macrì a cura di Helenia Piersigilli e del GRBM Gruppo ricercatori della Biblioteca Macrí sotto la direzione di Anna Dolfi e Laura Desideri
http://electronica.unifi.it/online/macri/
spagine
persone
della domenica n°54 - 30 novembre 2014 - anno 2 n.0
Memoria di Tina Lambrini e dei fiori di Casa Comi a Lucugnano
S
di Giuliana Coppola
e non ora, quando? Quando ci si accorgerà che non può essere profanata la memoria? Che non può essere profanata memoria di stelline su uno stemma? Chè se ci fosse lei, la Tina, la trivella non trapanerebbe di sicuro i miei ricordi e i rimorsi e il mio cervello e i miei pensieri.Ci sono trivelle e trivelle, questa m’appartiene. Donato Valli riporta la notizia, lui che lo conosce bene il suo maestro ,il suo poeta, il suo amico. Girolamo Comi, il 3 luglio 1965, si unì in matrimonio, in seconde nozze, con Tina Lambrini, il suo angelo custode che dal 1948 era diventata la governante della sua dimora, palazzo Comi a Lucugnano. Il poeta scrive di lei nel suo “Diario di casa”: “…sono diventato migliore attraverso e grazie alla assistenza costante, del tutto eccezionale e disinteressata di Tina. Tanto che per nessuna ragione avrei potuto o voluto, data la riconoscenza dovutole, prendere in considerazione una qualsiasi proposta di matrimonio superlativamente vantaggiosa sia d’ordine economico (che…nobiliare); questo deve, dovrebbe bastare a fare comprendere in che misura e in che senso io sia stato commosso e soggiogato dalla virtù, dal disinteresse, dalla sensibilità della personalità di quella che è diventata mia moglie. Non credo e non mi interessa la nobiltà d’ordine araldico; credo nella bontà, nel disinteresse, nello spirito di carità dei cristiani che sono e non possono essere altro che cristiani integrali”. Ora, se ci fosse lei, la Tina, certo che trivella non trapanerebbe il mio cervello e i miei pensieri carichi di rimorsi. E ci sarebbero le rose e le arance ad illuminare questo scorcio di novembre, in attesa di un avvento che, se fosse davvero Avvento e valesse per tutti, oltre che Gesù, farebbe rinascere zagare e boccioli e non avrebbe forza diserbante. Ma lei non c’è; riposa tranquilla alle spalle del suo poeta-barone, angelo custode suo e della sua casa, come sempre; vive in eterno in pagine di prosa e poesia. Stelline tristi, oggi, quelle dello stemma, condannate ad un gemellaggio che proprio loro non appartiene e di loro non è degno. Ma chissà, chissà… Tina Lambrini che come suo racconto vuole, fu salvata dalle acque del fiume Lambro in un cesto, una ne fa e cento ne pensa, pur di lassù; è più vicina, oggi, anche alle stelle; l’Avvento s’avvicina; è sempre tempo di miracoli; generati da un ricordo e da una speranza.
spagine
A
mleto Sozzo mi ha fatto leggere, su mia richiesta, 101 fogli di poesie. Premessa doverosa: non sono critico letterario, sono solo una persona a cui piace leggere poesie, quindi non farò una lettura ermeneutica dei suoi testi ma ne farò un florilegio, una scelta personalissima di versi e immagini. Appena ho letto quelle pagine ho pensato che lì era l’uomo Amleto. Lo conosco da circa un anno, l’ho incontrato in una situazione anomala, cioè quella di un café-philo. Non so se ha studiato filosofia a scuola, ma ho visto che ha sicuramente una sensibilità filosofica, perché filosofia non è conoscenza di sistemi e di cattedrali del pensiero, ma è ricerca di senso. Tra l’altro, potremmo avere in quei versi anche alcune indicazioni di fonti filosofiche: «figli di parmenide e zenone/ cantati da euripide e sofocle/ quanta bellezza avete creato/ con le vostre vanghe». Filosofia e lavoro, filosofia e scrittura e lavoro materiale, lavoro sulla natura. Ma, per non farsi scambiare per filosofo, Sozzo ci avverte subito che «l’ironia è la parte nobile della filosofia». Lo stesso autore, quindi, spiega le proprie motivazioni: «canto per chi è triste/ e canto anche per me/ canto per chi ha paura/ e questo vale anche per me». Come si vede, questa poesia non nasce con presunzioni sacerdotali ma nasce con funzioni laiche e, perché no?, liberatorie per lo stesso soggetto che la declina. Anche il dialetto è usato, ma con estrema discrezione e misura, quasi come una cadenza che serve a ricondurci in contesti esistenziali antichi e, talvolta, si coniuga in composizioni che in gran parte sono nell’idioma italiano. Nei suoi versi ho ritrovato la sua casa, che è il
in agenda
della domenica n°53 - 23 novembre 2014 - anno 2 n.0
Sabato 6 dicembre, dalle 18.30, al Fondo Verri Giovanni Invitto presenta la poesia di Amleto Sozzo Nel corso della serata letture ad alta voce tratte da “Bussa continuamente porta dopo porta” del 2013 e “Poesie” del 2014 suo mondo, il suo amore per i viaggi, non come divertissement, ma come occasione per conoscere le altre terre,le altre culture, gli altri uomini, anzi: l’uomo. Quelle pagine sono un’autonarrazione. Anche per questo mi hanno sorpreso e le ho apprezzate perché sono convinto che l’esistenza di ognuno di noi sia un’autonarrazione. Non manca, in queste composizioni, la presenza della sua compagna a cui talvolta si allude in maniera diretta: «Dirò a tutti quanto sei bella/ dirò a tutti quando vedrò una stella/ del nostro mandorlo in fiore». Una formula che Amleto usa spesso è la ripetizione o di singoli termini in sequenza o di assonanze. Ecco solo due dei molteplici esempi che si potrebbero fare: «terra piena» che introduce tutti i nove versi di Terra della mia infanzia e beddha che apre i quattro versi della poesia che ha lo stesso aggettivo per titolo, come Quando che è titolo e primo termine dei sei versi. Ma qual è il ruolo della scrittura? Chi scrive? Perché si scrive? Leggiamo: «poesia e fiocchi di neve sul davanzale/ scrivere è una professione/ il poeta non sa scrivere/ chi percepisce ha tanti modi per comunicare/ verso il finire della giornata». Qui il racconto, l’autoracconto è un consuntivo della singola giornata come dell’intera esistenza. In questa logica è anche Nessuno mi detta, dove leggiamo, tra l’altro: «verso tanto per dire/ parole ne ho già sentite tante/ quasi sempre ero assente/ assenteista di professione». Ma assente da che, da cosa? Non certo da una vita piena di poche amicizie ma vitali, di colori, di presenze di animali e di piante, di pochi affetti ma profondi e decisivi. C’è sicuramente l’esigenza di una confessione o autoconfessione laica che non può non ri-
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chiamare, in chi legge filosofia, l’impegno della spagnola Maria Zambrano che dedicò buona parte del proprio impegno alla «Confessione come genere letterario». E qui, in queste poesie, il tessuto e la trama sono un modo per «capire chi siamo in un solo momento/ distrarsi per chiacchierare con un amico/ vicino o lontano o se arriva con qualcuno/ tanto per non stare a digiuno/ seguire i consigli di chi è nato per parlare». Troviamo spicchi di saggezza umile, termine che non vuol catalogare la qualità dello scritto ma che uso perché non ci sarebbero quei versi se non parlassero della terra, cioè dell’humus che la costituisce e ci costituisce: «ho visto terre umili piene di poesia/ curate dai nostri padri/ ho percorso sentieri e rovi fioriti/ che hanno rallegrato i miei pensieri» Il rapporto con gli altri, mediato dalla propria coscienza, è fondamentale e riconosciuto: «bussa continuamente/ porta dopo porta/ speranza dopo speranza// bussa continuamente/ coscienza dopo coscienza/ strada dopo strada». Come idea finale io ne metterei una che dice tutto dell’uomo Amleto Sozzo: «ma come faccio a dire a mia madre/ che invece di poesie produco melagrane?/ lei amava tanto vedermi sistemato come un poeta». Naturalmente il «sistemato» sta ad indicare la condizione economica. Ma anche Quasimodo, premio Nobel per la letteratura, aveva scritto una poesia/lettera a sua madre e aveva parlato della povertà dei poeti: «So che non stai bene, che vivi/ come tutte le madri dei poeti, povera/ e giusta nella misura d'amore/ per i figli lontani». La povertà dei poeti può essere povertà materiale, ma è soprattutto quella humilitas di cui la poesia di Amleto ci ha fatto parlare prima.
Giovanni Invitto
C’era un volta spagine
adesso ancora c’è
di Rocco Boccadamo
in cammino
della domenica n°54 - 30 novembre 2014 - anno 2 n.0
Fino alla metà del secolo scorso, nei piccoli centri del Salento, il bar, o il caffè, non si conosceva per niente, solo nelle località più grandi era dato di scorgerne qualche insegna
N
on c’è che dire, a cavallo di più generazioni, è sempre esistita una certa dose d’imprevedibilità nel corso delle cose e, in particolare, nell’evoluzione delle abitudini e dei costumi. E però, giammai, il fenomeno ha evidenziato sviluppi, implicazioni, rischi, conseguenze, del livello di accentuazione presente e lampante oggigiorno.
Fino alla metà del secolo scorso, nei piccoli centri del Salento, il bar, o caffè, non si conosceva per niente, solo nelle località più grandi era dato di scorgerne qualche insegna. Tuttavia, nel solco e secondo i canoni della sana civiltà contadina, all’epoca predominante, la gente, pressoché indistintamente, soleva collocare in seno all’alimentazione, spartana e nello stesso tempo equilibrata e efficace, anche il consumo del vino: fa buon sangue, tonifica i muscoli di braccia, gambe e spalla, difende dal raffreddore e dalla tosse, si credeva e sosteneva. Se non aveva a disposizione propri “cippuni” per produrre direttamente la quantità di bevanda necessaria da un’annata all’altra, ogni famiglia acquistava tini di uva dal Brindisino o dalla zona dei Paduli, verso il Capo di Leuca, vinificando poi i grappoli, attraverso la “stumpatura” con i piedi, nel palmento pubblico del paese. In ultima analisi, si riforniva, presso proprietari di vasti vigneti o da pseudo grossisti enologici, di alcuni ettolitri del prodotto. Quel paio di bicchieri, fra i sorsi assunti a canna dalla bottiglia portata appresso per la giornata di lavoro nei campi e il calice a tavola, la sera, rappresentava un rito, una sacralità per anziani, adulti e giovani. Alle anzidette bevute quotidiane campagnole e domestiche, per i compaesani capo famiglia, si aggiungeva, la domenica pomeriggio e in occasione delle feste, l’accesso e la sosta, fra amici, all’interno dell’esercizio di mescita, o “puteca”; dal bancone del-
l’oste, o “puticaru”, scivolavano di tanto in tanto sui tavolini di legno quadrati, di norma per quattro avventori, contenitori in vetro da un litro o due, insieme con la guantiera di bicchieri: preferibilmente, rosso e, talvolta, bianco.
Fra scambi di notizie inerenti al comparto agricolo, intorno al clima, circa il ménage delle famiglie, si riempivano e svuotavano calici con la sana e genuina bevanda. L’unica “esagerazione” consisteva in saltuari giri di “patrunu”, con la designazione, di volta in volta, di un dominus, giustappunto un padrone, il quale teneva davanti a sé il servizio del “puticaru” e assegnava il consumo agli occupanti del tavolo, a sua assoluta e esclusiva discrezione. In tal modo, poteva succedere che, a rotazione, qualcuno finisse col bere in eccesso, avveniva qualche sbronza, intera o mezza, ubriacatura di compagnia, con la conseguenza, per il preferito, del rientro a casa a passi lenti, se non proprio traballanti, in ogni caso accolto sulla soglia, con naturale e amorevole premura e comprensione, dalla moglie. La ciucca, maturava e passava con discrezione fra le mura domestiche, con l’ausilio di un pesante sonno, fino all’indomani, allorquando il protagonista, beneficiato particolarmente durante la sera precedente alla “puteca”, doveva aver ripreso in pieno le forze e affrontare le fatiche nei campi. Queste le umane vicende, nell’almanacco 1950, diffuse intorno al prodotto vino. Nessun’altra bevanda alcolica, una bottiglia di “spirito” allo stato puro si acquistava nelle ricorrenze (matrimoni, battesimi), allo scopo di preparare, in casa, artigianali liquori con l’aggiunta di acqua, zucchero e piccole dosi di essenze aromatiche, in flaconcini reperiti nel negozio d’alimentari. Anche oggi il vino è presente, svolgendovi una parte di rilievo, in seno alla collettività, nell’ambito dell’alimentazione e dei consumi in genere. Ma, è un altro volto, una dimensione
agli antipodi, l’assunzione cadenzata, la moderazione, l’eccesso saltuario e comunque ragionato, hanno ceduto il posto alla moda dell’impulso, ad una sorta di bramosia e avidità concettuale e mentale, a una sfrenata corsa verso la generalità delle bevande alcoliche, non del vino soltanto.
Realtà maggiormente visibile e stravolgente, appare completamente invertita la platea degli attori, il ruolo di protagonisti più vivi e vivaci nel consumo è compiuto dai giovanissimi e anche dai ragazzi e ragazzini. A qualunque ora del giorno. Secondo le statistiche, le nuove leve iniziano a bere ad appena 11 anni, tre adolescenti su quattro, d’età compresa fra i 14 e i 16, arrivano tranquillamente ad ubriacarsi. Infatti, si leggono e si sentono, frequentemente, casi d’incoscienti, di entrambi i sessi, i quali finiscono conciati male, costretti a ricorrere a cure d’emergenza per evitare drammi devastanti. Essere testimoni o spettatori è, senza dubbio, un esercizio più semplice rispetto a un altro impegno che dovrebbe mirare ad appurare le ragioni, i perché degli scivolamenti, delle tendenze modaiole, prevalenti e pericolose. Sarà forse stato l’allentamento delle briglie in funzione di guida, la rarefazione della vicinanza e delle prediche da parte dell’elemento adulti? Ovvero, la smisurata crescita d’importanza della fraintesa scuola di vita fra pianticelle in crescita e, perciò, ancora fragili? Dalla fase dell’idolatria all’indirizzo dei capi d’abbigliamento griffati (si ha memoria dei cosiddetti paninari?), al culto irrinunciabile dell’universo di cellulari e dintorni, al consumo all’impazzata di vino e di altri pericolosi miscugli alcolici: tutt’altro che un progressivo sentiero di sana formazione e maturazione, di crescita equilibrata, per la maggior parte di figli e nipoti dell’oggi, per tanti che saranno, domani, al nostro posto.
spagine
arte
della domenica n°54 - 30 novembre 2014 - anno 2 n.0
copertina
Si inaugura il 14 dicembre 2014, alle 18.00 la mostra d’arte contemporanea Desiderata a cura di Lorenzo Madaro per le opere di Eva Caridi, Fernando De Filippi, Claudia Giannuli, Nicole Gravier, Christos Pallantzas e Bogumil Ksiazek a Galatina negli spazi di “A100 Gallery”
C
on Desiderata, apre i battenti A100 Gallery, una nuova galleria d’arte che si propone come una piattaforma di idee e progetti dedicati al contemporaneo. Dopo una prima prova outdoor, la scorsa estate al castello di Acaya, in Salento, con Approdi, la doppia personale di Eva Caridi e Bogumil Ksiazek, A100 inaugura ufficialmente la propria attività con una mostra collettiva dedicata ad artisti italiani e stranieri, proponendo operespesso inedite, concepite appositamente per lo spazio espositivo di piazza Alighieri 100, un accogliente primo piano ubicato in un palazzo dei primi del Novecento. Lo spazio, recentemente restaurato e dotato di adeguati impianti illuminotecnici, accoglierà anche uno spazio laboratoriale dedicato a seminari e workshop con artisti e studiosi delle fenomenologie delle arti visive, che saranno promossi anche in collaborazione con gallerie e istituzioni pubbliche.
“Aprire una galleria in un momento così complesso è un’operazione sicuramente azzardata, ne sono cosciente – avverte Nunzia Perrone, ideatrice e proprietaria di A100 Gallery –, soprattutto in un territorio come la Puglia, tradizionalmente difficile per quel che riguarda il mercato dell’arte. Ma la passione per l’arte contemporanea, il rispetto per la ricerca degli artisti e le finalità culturali del nostro percorso, ci dicono che un simile impegno è necessario”. Mostre, pubblicazioni, workshop, seminari, progetti site-specific in luoghi storici e contesti urbani: i progetti di A100 Gallery sono difatti diversi e riguardano, con un doppio sguardo, il territorio italiano e quello straniero, includendo naturalmente alcune significative voci – giovani o ormai consolidate – del panorama pugliese, la regione in cui è nato il progetto. La mostra inaugurale, Desiderata, indaga sogni e desideri, palesi e repressi, che appartengono alla realtà e al mito, all’arte e alla vita, attraverso opere (dipinti, installazioni, sculture, fotografie
e video) di artisti molto diversi tra loro, per età anagrafica e provenienza geografica e antropologica. Nelle scelte curatoriali di questa prima mostra si evidenzia un’attenzione per opere di grande formato e per un allestimento decisamente essenziale e rigoroso, che valorizza le opere e accompagna lo spettatore in un percorso di scoperta tra idee, progetti, visioni e illusioni.La mostra è accompagnata da un catalogo con un testo introduttivo di Nunzia Perrone, un contributo critico di Lorenzo Madaro e una testimonianza dello psicologo Andrea Zizzari. All’interno, oltre naturalmente alle fotografie delle opere in mostra e dell’allestimento, anche gli apparati biografici, bibliografici e espositivi degli artisti invitati. La mostra si concluderà il 20 febbraio 2015. “A100 Gallery” in Piazza Alighieri 100, a Galatina. Info: + 39 335.72.24.233