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spagine della domenica n°56 - 14 dicembre 2014 - anno 2 n.0

Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri

Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri


spagine

Napolitano e la patologia dell’eversione

L’antidoto è peggio del male

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er dirla in due parole Napolitano, con la sua allocuzione di mercoledì, 10 dicembre, ha voluto denunciare l’antipolitica, condannandola come “patologia eversiva”, e ha messo in guardia gli italiani da quanti capipopolo, sostenuti da giornalisti embedded, si spacciano per i guaritori dal male procurato dalla politica. La stampa di destra (il Giornale) ha parlato di depistaggio; Grillo, che si è sentito chiamare in causa, ha minacciato querele. La stampa di sinistra o sedicente indipendente ha plaudito al Presidente della Repubblica, se non altro per apparire all’opinione pubblica come chi sta dalla parte giusta e buona. Io dico, senza riconoscermi in nessuna delle aree sopracitate, che Napolitano, ancora una volta, ha visto giusto, anche se, per dare maggiore forza alle sue argomentazioni, non ha ritenuto di soffermarsi – ma forse non ce n’era neppure bisogno – sui guasti della politica, che sono sotto gli occhi di tutti. La politica può essere una cattiva politica ma non ha alternative; l’antipolitica può essere una buona antipolitica, ma chi la rappresenta è sempre un improvvisato, un dilettante, un Fetonte, quando non anche un fetente, che ambisce di guidare il carro del sole, con le conseguenze che il mito ci ha tramandato. L’antipolitico non ha né le conoscenze né le competenze né le capacità, le famose tre «c» sulle quali a scuola bisognava puntare, per saper individuare i problemi del paese e risolverli. Come antipolitici buoni si sono proposti fin dagli anni Ottanta i vari Bossi e Berlusconi, i Grillo e i Salvini. Conseguenze? Non c’è bisogno di aggiungere nulla a quanto abbiamo visto e vediamo. Gli stessi si sono, poi, rivelati peggiori dei politici. Perfino i cosiddetti tecnici, una variante dell’antipolitica, hanno dimostrato, con Monti e compagni, di perdersi fuori dalle quattro operazioni aritmetiche. Peggio della politica, c’è dunque l’anti-

politica. Questo il messaggio di Napolitano. Certo, non è tutto qui il punto. La questione è assai più complessa. Ne discutono da anni ormai gli esperti, i cosiddetti politologi; i quali, per la verità, hanno dimostrato di non avere le idee chiare neppure loro fuori da quelle che una volta erano le consolidate coordinate della politica e che da qualche tempo sono andate a farsi benedire. Non è solo questione di politica cattiva e antipolitica pessima; e perciò la crisi non si risolve col codice penale, che pure giustamente s’invoca oggi più che mai contro ladri, furfanti, corrotti e corruttori. C’è una questione che travalica i confini dell’ordinario, quale l’abbiamo conosciuto negli anni della repubblica, sia pure in varietà di situazioni. Il politologo Francesco Tuccari ha diagnosticato (lo ha fatto in un saggio su “il Mulino”, 6/14) un “disturbo bipolare” alla democrazia italiana e più in generale ai sistemi rappresentativi. Per esemplificare, anche qui, i due aspetti che minacciano la democrazia sono, populismo e globalismo, per un verso il crescente credito di cui godono i masanielli nazionali, che sono visti dalla gente come gli unici in grado di far giustizia di tanti pluti e cerberi affamati, per un altro il crescente potere del mercato globale che di fatto vanifica ogni decisione autonoma e obbliga anche i più determinati ad uniformarsi alle sue esigenze. Una tesi, questa, che si scontra con la cosiddetta “democrazia del pubblico”, che si esercita attraverso i massmedia e che ha preso il posto della democrazia del popolo, che si esercita attraverso i partiti. Teoria, questa, sostenuta da Michele Salvati e che rimanda al politologo francese Bernard Manin. Non v’è dubbio che entrambe le teorie critiche hanno un fondamento. Più catastrofica quella di Tuccari, più integrata quella di Salvati. La prima ci dice che la democrazia si sta dissolvendo, la seconda che sta cambiando pelle. La seconda è più preoccupante della

di Gigi Montonato

prima, perché se il pubblico ha preso il posto del popolo vuol dire esattamente che la democrazia non c’è più, che tutto dipende, in maniera fluida da chi detiene il potere mediatico, ossia da chi crea il pubblico. La domanda, a questo punto, è: ma i massmedia chi rappresentano? Un popolo trasformato in pubblico, i partiti trasformati in emittenti e giornali, possono configurarsi come democrazia? Il politologo venezuelano Moisés Naím sostiene nel suo libro «La fine del potere» (2013) che chi oggi detiene il potere anche ai massimi livelli in realtà non è in grado di decidere nulla, dipendendo da una serie di micropoteri; e per un altro verso che il potere passa rapidamente di mano. La crisi che stiamo vivendo noi in Italia rientra con le sue variabili specifiche nella più vasta crisi mondiale delle istituzioni politiche, specialmente di quelle rappresentative. L’idea perciò che tutto possa risolversi con l’inasprimento delle pene, con un capillare controllo sulle azioni e sui comportamenti degli “addetti ai lavori” nei settori della politica e dell’economia, a tutti i livelli, come dice Renzi, l’ultimo Masaniello, è decisamente sbagliata. Non che non sia vera la mutazione in politica e in pubblica amministrazione della malavita organizzata, delle varie mafie, che meritano di essere combattute, ma la debolezza della terapia, basata su pene dure e vere, rivela la debolezza della diagnosi. E’ di tutta evidenza che non è il malaffare che ha messo in crisi la democrazia, ma è la democrazia in crisi che ha prodotto in Italia il malaffare. Punire i corrotti e puntare sulla rivalutazione della politica, sull’etica dei costumi, sulla vigilanza dei comportamenti, probabilmente non basta, ma è sicuramente ciò che oggi si può fare. Continuare a delegittimare la politica non ha senso e anzi è rovinoso.


Diario politico

Cose del Natale

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della domenica n°56 - 14 dicembre 2014 - anno 2 n.0

Il Presidente Giorgio Napolitano

di Rocco Boccadamo

anto più che, ormai da lunga pezza, si sta attraversando, una fase di seria se non durissima crisi economica, finanziaria e occupazionale, non mi piace per niente il rito della corsa agli acquisti nell’imminenza del Natale e di Capodanno, con folle che si accalcano nelle strade dei negozi o si stordiscono nell’aria forzata dei centri commerciali. Per come si sono messe le cose, altro che rito, sembra trattarsi di vera e propria mania, di dipendenza, schiavitù e di condizionamenti, che hanno preso corpo sotto l’azione di vuoti richiami all’indirizzo di consumi il più delle volte voluttuari e superflui. Addirittura, la situazione determinatasi si rivela talmente perniciosa da riuscire a intaccare la serietà e il rigore di taluni interventi delle istituzioni a tutela della salute pubblica: è il caso di amministratori comunali che, in questi giorni, dicono e ribadiscono di essere consapevoli di un livello d’inquinamento dell’atmosfera cittadina di gran lunga sopra la soglia tollerabile, ma di soprassedere scientemente ad intervenire con provvedimenti particolarmente restrittivi del traffico, al fine di non danneggiare le attività commerciali. Chi scrive, desidera semplicemente osservare che, eccettuati i panettoni propriamente legati al Natale e l’occorrente per un buon pranzo, tutti gli altri articoli (maglioni, scarpe, sciarpe, pigiama, camicette, profumi, collanine, cellulari e via dicendo) possono essere benissimo acquistati nel corso dell’anno, senza ingorghi ed eccessi straordinari di domanda che generano solo confusione e, inevitabilmente, aumenti dei prezzi. Senza trascurare che a breve arriveranno anche i “mitici” saldi, da cui pure è il caso di guardarsi, giacché costituiscono spesso un ulteriore furbo stimolo a concentrare gli acquisti in un determinato periodo. Il mio pensiero è che il Bambinello che si accinge a ripresentarsi nella semplicità e nella povertà della grotta sia triste, parecchio triste, per l’attuale andazzo. Perché non ritorniamo agli auguri basati su umili, semplici e però assai indicativi simboli, un’arancia, un ramoscello di vischio, un pensierino scritto a mano per esprimere affetto o amicizia? Perché non rivolgiamo la mente al “clima” e ai “regali” del Natale e di Capodanno di tanti che versano in condizioni di nera miseria? Chissà che, così operando, non otteniamo il risultato di sentirci più leggeri e di respirare, dentro e fuori, un’aria migliore, anche senza il blocco della circolazione automobilistica.


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Contemporanea

della domenica n°56 - 14 dicembre 2014 - anno 2 n.0

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l filosofo francese Pierre-André Taguieff, ne “Il razzismo", scrive: “Nel campo delle formulazioni ideologicopolitiche del razzismo, il vecchio si mescola al nuovo: il sostenitore d’un discorso razzisteggiante, che di solito insiste sull’incompatibilità delle culture, delle mentalità o delle civiltà (come, ad esempio, l’europeo-cristiana e l’arabo-musulmana), al fine di giustificare delle misure di espulsione degli immigrati ritenuti “inassimilabili”, in una particolare congiuntura può far ricorso a formulazioni meno eufemistiche e dichiarare pubblicamente che egli crede nella “diseguaglianza delle razze”. Nei loro discorsi anti-immigrati, molti leader degli attuali movimenti nazionalisti e xenofobi oscillano tra l’affermazione “classica” della diseguaglianza delle razze e le nuove varianti sulla differenza culturale, o sul fatale antagonismo fra le diverse civiltà”. In un tempo moderno, ipertecnologico, senza frontiere, avvilisce intimamente dover ancora fare i conti con chi per pregiudizio, per comportamento, per ideologia, per ignoranza, utilizza il seme avvelenato del razzismo. I caratteri biologici, che marcano fra l’altro differenze somatometriche, definiscono in parte i gruppi etnici. In senso lato la diversità biologica fra i vari gruppi umani è una garanzia di variabilità, evoluzione della specie e perpetrazione del vivente. L’adattamento biologico è però lento, lentissimo; sicché potremmo dire che i nostri genomi non siano poi così determinanti per esprimere differenze notevoli. Con buona pace degli inverosimili e anacronistici razzisti, cioè di chi ancora oggi crede vergognosamente e spudoratamente di ghettizzare la gente per il colore della pelle, per qualche altro aspetto somatico, possiamo ribadire (come sostiene il biologo delle popolazioni umane Cavalli Sforza) che le razze non esistano. Esistono i gruppi etnici, però nella consapevolezza che l’adattamento culturale sovrasta quello genetico. Con buona pace di qualche teorico dell’iperdeterminismo, noi uomini non siamo solo tratti di Dna in grado di codificare caratteri: noi siamo prioritariamente la nostra storia, la nostra cultura. Noi uomini siamo terra sanguigna e cielo. Siamo stelle e luna. Siamo anelito di felicità e dolore, che a volte divora. L’homo sapiens sapiens è, soprattutto, conoscenza, sensibilità, empatia. Il no-

B&N

di Marcello Buttazzo

stro mestiere di vivere è quello di coesistere adeguatamente in equilibrio con il nostro intimo e, al contempo, saper rispondere adeguatamente ai più diversificati stimoli ambientali. Il nostro mestiere di vivere è quello di lottare tenacemente contro le ingiustizie. Contrastare il razzismo vuol dire adoperarsi con strumenti culturali, razionali, di buon senso, affinché prevalgano finalmente i valori sostanziali della reciprocità, del rispetto dell’altro da sé. Nella diversità risiede la cifra fondante d’ogni unicità irripetibile, d’ogni bellezza. Viviamo in un villaggio globalizzato senza più confini, teatro delle più disparate convivenze, dove genti nuove s’incontrano, si parlano, si guardano negli occhi. Non ha alcun senso antropologico frustrare l’inevitabile fluire dei popoli, magari confezionando leggi popolazionistiche restrittive. In Europa, alcuni gruppi politici nazionalistici e xenofobi sperano di sbarrare la strada all’umanità migrante chiudendo magari le frontiere. In Italia, da sempre, il Carroccio dei Salvini, dei Borghezio, dei Maroni, dei Bossi è stato il principale responsabile di piattaforme e decisioni discutibilissime, controproducenti, a cominciare dall’introduzione, anni fa, del reato di clandestinità (oggi, finalmente smantellato). Certe chiusure non giovano.

Robert Mapplethorpe Foundation

La civiltà occidentale è multietnica, multiculturale, aperta ai movimenti. Viviamo in un’era difficile, controversa, di guerre cruente e persecuzioni feroci. È evidente che il flusso dei migranti possa essere solo blandamente controllato, disciplinato con leggi rispettose. Recentemente, Matteo Salvini s’è specializzato ancor più nella caccia grossa all’immigrato e al rom. Il segretario della Lega intende vellicare continuamente la pancia dell’elettorato, come se davvero gli stranieri fossero un costante pericolo e il male del mondo. Secondo il prode guerriero con felpa del Carroccio, nel nostro Paese, le classi popolari autoctone più disagiate sarebbero minacciate dagli indesiderati migranti. Ma è irragionevole voler ingaggiare una guerra fratricida fra i poveri, fra gli ultimi. I leghisti non si rassegnano a frammentare con un gioco linguistico sorpassato l’umanità in “regolare” e “irregolare”. Ma tutti siamo cittadini legittimi d’una società tormentata e conflittuale, d’una madre Terra. Tutti abbiamo le carte in regola per reclamare con forza diritti. Tutti abbiamo voce, fiato per gridare: le razze non esistono, esiste solo la razza umana. Esiste solo l’uomo con le ansietà, le aspettative, i progetti, le piccole gioie, i dispiaceri, il desiderio di mirare il cielo.


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contemporanea

della domenica n°56 - 14 dicembre 2014 - anno 2 n.0

Liberi di decidere

Tulip, 1985 - Robert Mapplethorpe Foundation

Io non so se lo farei, ma vorrei essere libera di decidere" è uno degli interventi al link: Liberi di decidere. Il tema è attuale, delicato, caldo. La vita di ognuno di noi a chi appartiene? Lo Stato può arrogarsi il diritto di negare ad ognuno la libertà e la facoltà di decidere non solo come vivere, ma anche come e quando morire? Il suo dovere non dovrebbe essere quello di accompagnare tutti i cittadini in una vita dignitosa, di offrire ad ognuno la possibilità di scelta? Il testamento biologico, bloccato da fraintendimenti sul senso stesso della Democrazia, in Italia non è un diritto, anzi. Lo Stato si arroga la decisione sul come e quando un cittadino deve morire, anche in presenza di un fine vita pieno di sofferenza, dolore, impossibilità conclamata di guarire da malattie crudeli. Il cittadino, in questo modo, rimane un ostaggio nelle mani di pochi oltranzisti della religione e costringe chi vuole finire con dignità a varcare i confini nazionali. Questo è un vulnus doppio: da una parte non considera la volontà del cittadino, dall'altra permette solo a chi ha la possibilità economica di sostenere le spese per un trasferimento in una clinica svizzera questo "lusso". Ricordo altri tempi oscuri per la democrazia, quando non c'era il diritto della donna all'aborto, alcune femministe presero contatti con cliniche inglesi, accompagnavano a Londra a prezzi stracciati le donne che

di Gianni Ferraris

avevano la necessità di interrompere la gravidanza. Anche ora forse dovrebbero nascere organizzazioni simili ma sarebbero fuori legge, semiclandestine. Vogliamo questo? Molto meglio sarebbe che i parlamentari decidessero di parlare alle centomila persone che hanno firmato la petizione. Penso che nessun parlamentare di nessun colore politico abbia il diritto di ignorare queste richieste. Questo diritto, come dice un intervento nel video, non farebbe aumentare le morti, ma farebbe sicuramente diminuire la sofferenza. Una legge sul fine vita non deve in nessun modo agevolare scelte definitive, lo Stato deve impegnarsi affinché chi lo chiede abbia tutta l'assistenza necessaria per decidere serenamente, perchè gli vengano prospettate tutte le possibilità diverse, ma alla fine nessuno può arrogarsi la facoltà di sostituirsi all'individuo in scelte etiche così importanti. Vogliamo questo diritto! I milioni di donne e uomini che votarono per mantenere la legge sull'aborto non lo fecero per avere un facile contraccettivo, ma per consentire alle donne tutte di impadronirsi della loro dignità , libertà, capacità di autogestirsi. Chi chiede caparbiamente una legge sul fine vita vuole banalmente concedere a tutti e ad ognuno la possibilità di scegliere con DIGNITA'.


Ilaria Caffio sta per laurearsi in filosofia con una tesi su Simone Weil. Colgo l’occasione per citare una massima che racchiude il pensiero sulla religione della Weil: “Una volta capito che si è nulla, il compito di tutti gli sforzi è diventare nulla”. Questo è un pensiero che aveva cominciato ad abitare stabilmente in Simone Weil, il quale aveva a che fare con una complessa elaborazione teologica. La Weil faceva molto riferimento a Giovanni della Croce e lo citava spesso. Cito ora un suo meraviglioso passo sul “divenire nulla”, sul “farsi nulla di Dio”, la “de-creazione” di Dio che si fa mondo, che si fa creatura. Ecco, il de-crearsi di Dio al quale in qualche modo deve corrispondere una de-creazione della creatura: «Dio non è nel tempo. La creazione, il peccato originale, non sono altro che due aspetti, differenti per noi, di un atto

cronache culturali

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unico di abdicazione di Dio. E anche l’incarnazione, la passione, sono aspetti di questo atto. Dio si è vuotato della sua divinità e ci ha riempiti di una falsa divinità. Vuotiamoci di essa; questo è il fine dell’atto che ci ha creati. In questo stesso atto, Dio con la sua volontà creatrice mi mantiene l’esistenza perché io vi rinunci. Dio attende con pazienza che io voglia infine acconsentire ad amarlo. Dio attende come un mendicante che se ne sta in piedi immobile e silenzioso davanti a qualcuno che forse gli darà un pezzo di pane. Il tempo è quest’attesa. Il tempo è l’attesa di Dio che mendica il nostro amore. Gli astri, le montagne, il mare, tutto quello che ci parla del tempo ci reca la supplica di Dio. L’umiltà nell’attesa ci rende simili a Dio. Dio è unicamente il Bene, per questo egli è là e attende in silenzio; i mendicanti che hanno pudore sono sue immagini. L’umiltà è un certo rapporto dell’anima col tempo, è un’accettazione dell’attesa, è per questo che socialmente ciò che contrassegna gli inferiori è il farsi attendere. Ma la cerimonia che rende uguali tutti gli uomini nella sua poesia è attesa per tutti: l’arte è attesa, l’ispirazione è attesa, porterà frutti nell’attesa, l’umiltà partecipa all’attesa di Dio. Dunque, Dio ha abdicato alla sua onnipotenza divina e si è vuotato; abdicando alla nostra piccola potenza umana diventiamo nel vuoto uguali a Dio». (La conoscenza soprannaturale)

della filosofia

S

i è concluso ieri - mercoledì 10 dicembre - nella Libreria Fahrenheit in via Don Bosco 26/b (zona stazione) di Lecce l’appuntamento settimanale sulla filosofia intitolato “Filosofia a distanza ravvicinata. Varchi in divenire: notazioni filosofiche fra Ottocento e Novecento.” Ha aperto le danze il 19 novembre scorso Maria Cristina Fornari, professoressa di Storia della Filosofia, parlando di Friedrich Nietzsche: “Crepuscolo degli idoli. Come si filosofa con il martello”; ha proseguito il 26 novembre Ubaldo Villani-Lubelli, assegnista di ricerca in Storia delle Istituzioni politiche e parlamentari, con “La Mediazione sull’Europa di Ortega y Gasset”; il 3 dicembre è stata la volta di Mimmo Pesare, professore di Psicopedagogia dei linguaggi comunicativi, con “Siamo dove non pensiamo. Lacan e l’emergenza del soggetto”; ha concluso il 10 dicembre Antonio Quarta, professore di Storia della Filosofia Contemporanea, con “Hannah Arendt e la ricostruzione della politica”. Il giorno prima martedì 9 dicembre - un fuori programma ha catturato la nostra attenzione: tributo al pensiero di Manlio Sgalambro, il giorno in cui avrebbe compiuto 90 anni. Titolo “Il cavaliere dell’intelletto: Manlio Sgalambro, filosofo e pensatore pop di frontiera e d’avanguardia, da Gorgia a Franco Battiato”. Ad animare l’incontro è intervenuta Elisabetta Pansini, amica di Sgalambro ed esperta del suo pensiero. Hanno preparato la serata Mario Carparelli e Ilaria Caffio che ha curato l’intero ciclo di incontri.

L’occasione

spagine

“Il nulla è l’ombra di Dio” (Nicolàs Gòmez Dàvila).

Ben venga, dunque, la tesi di Ilaria su questa grande pensatrice religiosa francese. La quale, allieva di R. Le Senne e di Alain, insegnò filosofia in vari licei francesi. Ella esprime intuizioni nate da una profonda vita spirituale, unite ad una etica fondamentale, che la posiziona sempre dalla parte degli oppressi. E non s’illude che l’uomo possa redimersi dalla miseria umana con la dialettica. Da qui il carattere intellettuale particolare della sua intuizione mistico-religiosa. Che è imperniata sul concetto di de-creazione… Delle sue opere ricordiamo La condizione operaia (1951), L’ombra e la grazia (1947), Attesa di Dio (1950), La conoscenza soprannaturale (1950), Lettera a un religioso (1951), La Grecia e le intuizioni precristiane (1951), Quaderni (1951-56), La fonte greca (1953), Oppressione e libertà (1955). Simone Weil, per gravi problemi di salute, ci lasciò a soli 34 anni.

di Antonio Zoretti


L’abecedario di Gianluca Costantini e

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Maira Marzioni

Escogitavo essenze di erbe Elargivo eleganti epitaffi effluvi d’edera esplosioni d’epiche eterne Farneticavo eppure fremeva febbrile il mio femore Fissavo le ferite e con esse fabbricavo fogli fragili di follia e fiato.


luoghi

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L’Art’è in via Matteotti dove il caffè non è solo caffè

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on ho voglia/ di tuffarmi in un gomitolo di strade… osservo la mia grappa e l’arancia e i chicchi di caffèe mi dico… lasciatemi così/ come una/ cosa/ posata/ in un/ angolo/ e dimenticata… Ma poi, io lo so, riprendo il viaggio e il gomitolo ungarettiano si srotola nel cervello e ora che sono qui, ha ragione Patrick Modiano, mi dico… Ho sempre pensato che certi luoghi sono come calamite, che ti attraggono se passi nei paraggi. In modo impercettibile, senza che tu te ne renda conto… alzo gli occhi e me lo ritrovo sulla testa il gomitolo, ma non uno, tanti gomitoli, colorati come la meraviglia. Certo, esiste ancora la poesia; ha proprio ragione Gabriele Carmelo Rosato che mi ricorda… Eppure abbiamo bisogno dei poeti… perché poesia/ è il mondo l’umanità/ la propria vita fioriti dalla parola/ la limpida meraviglia d’un delirante fermento… oggi, poesia è racchiusa in gomitoli sospesi nel cielo di via Matteotti a Lecce. Ora che mi ricordo, me l’aveva sottolineato Alessandra Peluso, un po’ di giorni fa, anche lei rintontita dai versi (che meraviglia)… musica, poesia/ un gioco di ciglia./ Stupore notturno… e io non so, ora, se Alessandra sarà contenta di vedere la sua meraviglia, quella col punto esclamativo, accanto alla meraviglia limpida d’ungarettiana memoria, ma è così la poesia, un gomitolo sorretto da angeli nel cielo e mi sono sentito felice…affranto e rinfrancato. Ho sentito le lacrime in bocca, sensazione incredibile per me che ho disimparato a piangere… e poi dicono che non c’è poesia… ed è pensiero di Roberto Saviano che lo scrive per “L’arte della fe-

di Giuliana Coppola

licità” di Alessandro Rak e mi accorgo che mi viene grumo allo stomaco, mentre si srotolano ancora i miei pensieri allegri, sereni, come… le quattro/ capriole/ di fumo/ del focolare…, come questo sussurro d’alberi... Ognuno di noi ha il suo parco mentale alberato e fiorito e passeggiando per quei sentieri arricchisce la sua vita e ora anche Eugenio Scalfari mi viene in aiuto con questo sussurro d’alberi mentali. Intanto mi prende per mano profumo di caffè e non è il profumo dei quarantacinque chicchi nell’arancia della mia grappa, è profumo d’ArTè e di dolcezza e d’un ferro a diritto e uno a rovescio perchè le copertine che lavoro a mano iniziano sempre da qui; hanno i colori di Sabon, Emporio Lecce ed Emporio Nenè, Teti, Biba, Sua Maestà il Pasticciotto; hanno la fantasia de Il Mercante d’arte e Marcella Donno e L’angolino di via Matteotti e la Casa della Sposa e Fcn ed ora è ancora ferro a diritto ed è Rubens, Oltre un sogno..., Belle arti Leonardo, Ilario gioielli, Casciaro eHair Stile Ely e Roby… Intanto, il profumo del caffè è così intenso che mi spinge fin qui e c’è sorriso d’Annamaria e Antonio e Stefano ed è ArTè, arte pura ed è così dolce… appisolarmi là/ solo/ in un caffè…, Caffè Matteotti, naturalmente. Penso che è ancora domenica, sette giorni dall’altra e sette o più di sette, chissà, sono i versi che tra un gomitolo e l’altro, sette o forse più anche i gomitoli, m’hanno portata a riprendere in mano filo d’Arianna che si srotola leggero nell’arte della felicità in via Matteotti, strada di Lecce, questa mia città.


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letture

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La scrittura di Maria Rita Bozzetti

“Il chi è senza potere” “o forse quel niente è la distanza/ che divide il tuo dal mio tempo …”

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Basilica di Santa Caterina d'Alessandria, Galatina. Particolare di un affresco

on credo nelle differenze fra un testo ed un altro per chi legge di emozioni, di silenzio, di poesia e si vogliono vedere unicamente gli intenti.

Il filo il proprio, di Maria Rita Bozzetti, conduce sempre nell’utile psichico di un verso e, se nel differente, il senso sarà per l’altro, chi legge, scrivere in un discorrere sereno di quel verso. È indispensabile sempre il ricordare o quel che si è già letto in un testo precedente. Ciò conferma il divenire dell’“utile” per comprenderne ancor più la scrittura che veste abiti per l’intransigente ed esplora i fondali di quel che l’abito nasconde. Nel sottotitolo ho voluto sottolineare quest’aspetto, ricondurre a quanto già scritto dalla poetessa nel 2007 per “i dintorni della tua memoria” in Pensieri ispirati da Nicola G.De Donno in vita e dopo la Sua morte. (Ed. Ibiskos Ulivieri) Quel pretesto l’ho preso da pag.39 e per un titolo da me ritenuto fondamentale per l’autrice. In quei due primi versi c’è Fede. Ecco dunque il verso ricondotto, quell’andare più teso, lo scoprire il così come descritto in prefazione da Dante Maffia per l’andar, per racconto. Ho letto con piacere tutti i testi che mi ha donato M.R. in occasione di un parlare di Arte fra laico e cristiano, fra l’astratto|informale e l’estremamente visibile di un figurativo. La sua Fede l’ho ritrovata allora nel mio astratto commentato.

Eli (è)

Nello specifico, oggi, voglio scrivere del suo ancora appena da me accennato secondo racconto, quello scritto di necessità al successivo, alla Monade arroccata. La Bozzetti l’ho intravista dapprima poco fluida, non predisposta a lasciarsi andare al femminile. Nel caratterizzare i primi due personaggi, infatti, mi è apparsa sì sensibile e accomodante ma solo nei confronti del personaggio femminile, di Eli, mentre di Carlo ha voluto più un farne una spalla di pura necessità, azzardo, quasi un castigo. La scelta dell’incominciare a scrivere del racconto cade su Eli ed (È) da subito il personaggio affrontato nell’immediato e, da fine scrittrice, deve dare a chi legge di lei il carattere forte della donna in carriera, dell’ugual “ghigno” di rivalsa che le deve far apparire, disegnare sul volto, un interessante ritratto psicologico. Poi m’accorgo, ho veduto come l’aver pensato e ripensato da parte di M.R. e, sebbene nel distacco altalenante dal suo reale, come descritto, lentamente si smorza, si disconnette, si rilassa. Cambia registro e Carlo diventa il suo razionale e lo colloca unicamente per un narrare e per un altro disporre. Questi i due personaggi entrambi disegnati al maschile, per forza e per carattere, ma uno scappa l’altro insegue, in sintesi, per scene e per scelte che diverranno e sono del Senza potere in Edizioni Lepisma. Nel racconto i termini come convinzione, vocazione, ipocrisia sono accompagnati da presupposto, abbandono, consuetudine. Il

di Francesco Pasca

comune ch’è l’uguale e che sta intorno con altri personaggi viene immediatamente identificato ed ha nomi, i nostri nomi che si dibattono in identità differenti che anelano nel ritrovarsi non nel separato bensì nel profondamente narrativo e quotidiano. Alberto è il nuovo (da pag.26) e diventa il gomitolo risolutore del racconto, da svolgere lentamente da fatto principale e per costruire quel disporre già accennato ch’è l’indispensabile importante, l’immedesimazione di una scrittura da far parlare e conoscere. L’aereo diventa metafora di abbandono, una carezza che l’Alberto avrebbe voluto fare sulla mano di Eli(pag.46) M’è sembrato di ravvedere un sottilissimo rimpianto da far covare con rassegnazione e da demandare ad altro ancora. Il senza potere diventa spettro di “un fuori tempo”. Come in tutti i senza potere nascono anche per l’alibi. Il significato di fede anche se pronunciato da Shakespeare: “non è mai tanto buio come prima dell’alba” (pag.72) apre i nuovi orizzonti. Il personaggio, Giovanna, sorella di Alberto, diventerà coscienza e anima, quello da scoprire con la lettura. Un racconto fortemente trattato nello psicologico, che mi ha preso e lasciato nel bene e che riprendo come incominciato. Rileggo i versi di: i dintorni della tua memoria. (pag.31) Dopo di te/le parole dal cuore/con taglio netto si dividono/ […] in spazio riconciliato/con libera speranza di sognarti.


spagine Nelle immagini l'incidente di Vermicino nel 1981, in cui perse la vita Alfredo Rampi detto Alfredino (nato a Roma l'11 aprile 1975), caduto in un pozzo artesiano in via Sant'Ireneo, in località Selvotta, una piccola frazione di campagna vicino a Frascati, situata lungo la via di Vermicino, che collega Roma sud a Frascati nord. Dopo quasi tre giorni di tentativi falliti di salvataggio, Alfredino morì dentro il pozzo, ad una profondità di 60 metri. La vicenda ebbe grande risalto sulla stampa e nell'opinione pubblica italiana, in special modo grazie alla copertura televisiva che la RAI garantì per le ultime 18 ore di evoluzione del caso.La RAI inaugurò la televisione del dolore.

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Niente è come sembra di Paolo Vincenti

apita che una mattina di novembre io sia in giro per Lecce fra lo studio del consulente, con il quale cerco una strategia di difesa da quel vampiro succhiasangue che è lo Stato, e la banca, alla quale chiedo, ottenendone un diniego, di rinegoziare un mutuo, le cui condizioni sono diventate insostenibili. Scene di ordinaria follia. Con la mia cartella piena di documenti sotto il braccio (prima o poi dovrò trasferire tutto su i-pad, che fa più anni duemila) attraverso cupo e incanaglito Piazza Mazzini. Noto un eccezionale assembramento di gente, giovanissimi soprattutto, e un amico del mio paesello, un ragazzotto di circa vent’anni con il cavallo dei pantaloni basso quasi fino alle ginocchia e il piercing sulla lingua, mi viene incontro e mi informa che si stanno svolgendo le selezioni per il Grande Fratello 13 (o 25 o 455? boh..). Maicol (scritto come si pronuncia) è il figlio del mio macellaio e io sono abituato a vederlo nello stazzonato camice bianco servirmi, con poca convinzione, macinato misto e costolette di maiale. Con aria preoccupata mi fa: “Ma lo sai compare che stanno facendo delle domande assurde ai provini? Chiedono i nomi dei politici… ma chi li conosce!”.“Va bè”, gli faccio io” chiederanno i nomi dei politici che rivestono cariche istituzionali, quelli importanti…”. “Ehhh”, esclama sconsolato, “io come presidenti mi ricordo solo Berlusconi ma se chiedono anche di altri che gli dico?”. Allora propongo: “Hai carta e penna? Dai, scrivi velocemente, ché devo andare”. “No, ma posso scrivere sul telefonino”.“E dai, scrivi: Presidente del Consiglio Renzi, Presidente della Repubblica Napolitano, - Giorgio, scrivi anche Giorgio, perché questo è più importante, - Presidente della Camera Boldrini e del Senato Grasso. Ok? È facile, mandali a memoria e così non ti sgameranno”. “Grazie compare Paolo!” (e pensare che Maicol mi appella in questo buffo modo, pur non essendo io stato suo padrino di battesimo o di comunione, solo perché così da sempre fa anche il padre. Mi verrebbe da dirgli che questo modo di fare, nei paesi, è dovuto forse al bisogno di sentirsi più uniti in un vincolo di umana miseria intellettuale, ma tengo per me la cinica osservazione

marciando verso il mortifero mattino). Prima di separarci però Maicol mi dice ancora: “Speriamo di far presto qua, perché a pomeriggio c’è la manifestazione ‘No Tap’ e devo partecipare”. “Caspita”, osservo, colpito da quell’inaspettato rigurgito di coscienza civile, “sei contrario al gasdotto allora?”. “Ehm no veramente, ho avuto un’imbeccata da un amico che mi ha detto che non dobbiamo ingrassare un certo Putin, e che a pomeriggio ci sono le telecamere dei tg a riprendere la manifestazione; e io veramente ci vado per questo”. “Ah ok!”, gli rispondo e scappo a gambe levate, pensando al padre macellaio che con le mani ancora sporche di sangue starà sacramentando in negozio, a causa della prolungata assenza del figlio. *** Chissà se George Orwell immaginasse che il personaggio del suo libro “1984” avrebbe dato il nome ad una trasmissione televisiva in cui un certo numero di “ggiovani” si rinchiudono volontariamente fra quattro mura dando sfogo ad ogni più invereconda pulsione interiore, compresi flatulenze e pensieri squinternati debordanti in libertà nel loro ginepraio mentale. E nonostante l’esplosione di individualità portata dai social network, rifletto sul potere di seduzione che la tv ancora oggi esercita su moltissima gente, agendo come uno stimolante per alcuni e un anestetizzante per altri. E sì che i tempi del duopolio Rai-Mediaset sono lontani, essendosi l’offerta televisiva moltiplicata all’inverosimile, e dunque forse sarebbe anacronistico parlare dell’appiattimento generale prodotto dalla sottocultura televisiva. Oggi, un saggio come quello celeberrimo di Umberto Eco sulla fenomenologia di Mike Bongiorno, non avrebbe più ragione di essere, Però la pubblicità, senza richiamare visoni mitologiche da grande Moloch, rappresenta ancora un business fiorente che accompagna, nel bene e nel male, la nostra quotidianità. Ed è davvero stratificata nell’immaginario collettivo, che risulterebbe vano tentare di estirparla. Per esempio succede di conoscere Tonino Guerra per la reclame dell’Unieuro (“Gianni, l’ottimismo è il profumo della vita!”) e non per le sue poesie o per un film di cui è stato sceneggiatore, come accadeva qualche anno fa di conoscere Franco Cerri per il famoso uomo in ammollo della pubblicità (“nooo non esiste lo sporco impossibile”) e non aver mai ascoltato la sua chitarra jazz o ancora,


l’osceno del villaggio

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“Prima però su Canale 9 ci sarà il terzo festival del dolore con la finale dei casi umani, meno meno umani che mai” A che ora è la fine del mondo – Ligabue

per restare nell’ambito musicale, Nicola Arigliano, per la reclame Cartesio e del suo dubbio iperbolico (dubito di tutto, dalle cose più dell’amaro Antonetto, senza sapere che è stato cantante ispirato e semplici fino a quelle più complesse), mi immagino che le varie Sarah Scazzi, Roberta Ragusa, Yara Gambirasio, Elena Ceste, di raffinato (J sing ammore, Amorevole). cui conosciamo solo la foto e qualche breve filmato video, siano state partorite dalla fantasia di un diabolico team di autori che scrive Oggi la televisione divide l’ “offerta formativa” per fasce di età. le varie puntate di queste saghe dell’orrore. Che esse non siano mai Propina reality o talent show ai giovanissimi, programmi di cronaca esistite nella realtà ma siano delle attrici chiamate a prestar loro il nera (con veri e vari scannamenti) al pubblico adulto, meglio se volto, come Laura Palmer che, da cadavere, era la protagonista femminile, casalingo e poco scolarizzato, talk show e dibattiti politici nella fortunata serie televisiva Anni Novanta “Twin Peaks”. (con finti scannamenti verbali) al pubblico più maturo,meglio se ma- Delitti costruiti dunque a beneficio di massaie e casalinghe trepidanti schile e di cultura medio alta. Nelle mie serate domestiche, mi ca- ad ogni nuova puntata della loro telenovela preferita. Ed anche le pita, transumando da una stanza all’altra come le greggi di villette dei delitti siano ricostruite nei teatri di posa, nonostante il fioD’annunzio e “zappando” da un canale all’altro, come un antico rap- rente turismo dell’orrore nelle varie Avetrana, Cogne, Gello, Bremsodo greco di piazza in piazza, di cogliere qualche frames dalla tivvì, bate, ecc.. Sostiene infatti Antonio Ricci, il re della televisione di plastica dove tutto, dagli applausi alle risate, è finto, che “la televi(“parole parole parole…”). sione non è una finestra sul mondo ma una diapositiva che hanno *** Ma davanti alle trasmissioni di nera mi fermo, a volte, basito nell’ as- scelto di farci vedere”. Seguendo questo ghiribizzo mentale poi, mi sistere alle amenità con cui i conduttori rimestano nel torbido di vite chiedo se attori e comprimari di queste torbide dark stories siano a perdere, nelle quali si è consumato qualche delitto sanguinario e consapevoli fino in fondo di prestare la propria parte ad una fiction truculento. Così accade che, una notte di qualche tempo fa, dopo o non ne siano invece inconsapevoli, come in “Tempo fuor di sesto”, aver appreso dalla televisione di una violenza domestica trasforma- un romanzo di Philip Dick in cui il protagonista Raggle Gum vive in tasi in tragedia non mi ricordo in quale paesino della Val Padana, io una cittadina americana nella quale tutti gli abitanti sono degli attori mi rivolga ai miei figli, visibilmente turbati dalla crudezza del fatto (la al servizio dell’Intelligence per difendere la Terra dalle potenze notizia viene trasmessa, senza possibilità di scampo, da un tg flash aliene. Ricordate il film “The Truman Show”? In quel film il protagonella pausa pubblicitaria di un film cui assistevamo insieme), e dica nista, interpretato da uno strepitoso Jim Carrey, è il personaggio loro, un po’ per celia un po’ per rassicurarli, che non è vero, non c’è principale, a sua insaputa, di uno show che racconta la sua vita. niente di vero in quanto narrato, ma quell’episodio è del tutto inven- Tutti gli altri, compresi i più stretti parenti, sono attori al soldo della tato dai telegiornali, un po’ come le liti nei dibattiti politici. I ragazzi produzione riscuote consensi mondiali a danno del povero Truman ridono e io vado a dormire con questa suggestione. Penso cioè che che vive una vita pre indirizzata e pianificata dal regista e grande non si possa davvero credere a quanto raccontano i vari “Quarto demiurgo. Che non ci sia niente di vero, allora, nessuna Emanuela Grado”, “Chi l’ha visto”, “Pomeriggio cinque”, “La vita in diretta”. “Do- Orlandi, né Chiara Poggi, né Meredith Kercher, ecc. menica cinque” e compagnia bella; che non possano esistere nella Fantasie partorite da una mente stanca di delitti e segreti e di pagirealtà le turpi esecuzioni che, gongolanti, ci ammanniscono i con- nate di giornali e di lunghe dirette tv ad essi dedicate. Ma poi mi sveglio e purtroppo le atrocità sono vere, la crisi pure e il mondo è duttori della tv del dolore. Tutta questa gente, cioè, crepa solo per finta e lo fa nella maniera nefando. più eclatante per intrattenerci meglio. Così, inseguito dal demone di Ma almeno i miei ragazzi dormono (ancora) beati.


Leandro spagine

arte - in agenda

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al MuSt

É

stata inaugurata venerdì 12 dicembre, al Must, museo storico della città di Lecce, la mostra-omaggio a Ezechiele Leandro, con 18 dipinti, 3 sculture e 12 fogli manoscritti, tutte opere provenienti da una collezione privata. In tale occasione sarà presentato il catalogo della mostra, con testi di Toti Carpentieri e Renzo Margonari e una bio-

grafia a firma di Antonio Benegiano e Ambra Biscuso. «Ezechiele Leandro. I denti del leone», questo il titolo della nuova mostra che vede insieme il Comune del capoluogo salentino e il Comune di San Cesario di Lecce, e che ci accompagnerà nel passaggio dal 2014 al 2015, in continuità con quanto proposto sino ad ora nell’ambito di «Mustinart - Generazioni a confronto», il format che identifica l’attività espositiva dell’Istituzione museale leccese sin dalle tre mostre iniziali, quelle che costituivano la proposta di «Lavori in corso. Corpo 1».


la musica di spagine

spagine

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Virtù(s) calabresi

iao Virtus, è uscito ‘My Sound’ il tuo primo disco ufficiale. Come è nato questo lavoro discografico? Ciao a voi di Spagine! Il mio precedente lavoro, Waiting fi di Album, risaliva alla fine del 2011 perciò era ormai forte l'esigenza di rilasciare un nuovo album che desse qualcosa di più rispetto ai vari singoli che avevano visto la luce in questi ultimissimi anni prodotti da varie etichette italiane ed internazionali. Questa mia necessità è venuta inoltre a coincidere anche con le tempistiche dell'etichetta di cui faccio parte, RedGoldGreen, per la quale era necessario pubblicare un nuovo disco dopo quello di 'Ntoni Montano, 'Nta Sta Ruga, uscito prima dell'estate. Così il dado è stato tratto! Come è nata la tua passione per la musica hip hop – reggae? Nel mio esplorare un po’ tutti i generi durante l'adolescenza, ero passato per un brevissimo periodo anche per l'hiphop (o meglio dire il rap) ma la vera specializzazione in un genere, se così si può dire, è avvenuta solamente con il reggae. Questa passione è nata in modo ufficiale durante un'estate trascorsa nel paese d'origine della mia famiglia in Calabria. Qui, grazie agli ascolti dei miei amici, mi sono avvicinato inizialmente alla musica dei SudSoundSystem e a quella dei conterranei Gioman & Killacat e SDC Posse cominciando anche a frequentare le prime dancehall. Una volta tornato a Roma ho continuato a coltivare questa passione allargando gli ascolti al reggae jamaicano ed iniziando a frequentare la scena capitolina. L’album è stato anticipato dall’uscita del singolo ‘My Sound’, accompagnato dal video, che ha dato il nome al disco. Perché la scelta proprio di questo brano? Inizialmente la scelta è stata fatta per questioni meramente musicali. Ritenevo che il singolo fosse di impatto e che fosse capace di mostrare la mia attitudine ragga (sia per lo stile vocale, sia per la tipologia di testo) ma al tempo stesso anche una venatura più “rap” in particolar modo per il tipo di strumentale che avevo composto per l'occasione. Divenendo anche la title track dell'intero album ha fatto sì che divenisse una sorta di manifesto, come un voler dire: “ecco, con questo disco voglio dare l'idea del mio sound, della mia musica in questo momento della mia vita”. Infine la scelta di questo brano mi ha dato l'opportunità di inserire nel videoclip, per via delle sue liriche “da combattimento”, l'immaginario orientale delle arti marziali, mia grandissima passione. Canti in italiano, dialetto calabrese e patwa giamaicano. La scelta di utilizzare più lingue dimostra da parte tua quanto sia universale

di Alessandra Margiotta

il linguaggio musicale? Esattamente. La mia voglia di universalità nasce dal fatto che metto prima di tutto la musica, il suono. Parto sempre da una melodia o un raggato: puro suono senza alcun senso logico-grammaticale. Successivamente compio una ricerca per trovare quelle parole capaci di comunicare ciò che voglio esprimere concettualmente ma che soprattutto non tradiscano la melodia ed il ritmo iniziale da dove tutto è nato. Il mio già citato precedente lavoro realizzato tutto in patwa giamaicano, mi ha permesso di arrivare ad esibirmi anche fuori dall'Italia ma ha fatto anche sì che mettessi da parte per molto tempo l'uso dell'italiano e del dialetto in quanto con questi non riuscivo ad ottenere un sound che mi convincesse. Con My Sound ho tentato così di vincere questo “falso limite” che mi ero imposto cercando invece di trasportare nell'italiano quello stesso impatto sonoro che avevo trovato ed ottenuto con la lingua giamaicana. Tormento, Wufer, Kg Man e Janahdan sono i nomi che hanno collaborato in ‘My Sound’. Come sono nate queste collaborazioni? Le collaborazioni con Janahdan e WsW Wufer sono state del tutto naturali in quanto anche loro fanno parte di RedGoldGreen. Essendo colleghi ma prima di tutto amici, cerchiamo il più possibile di essere presenti nei rispettivi lavori. Per il resto avevo molto piacere nell'ospitare del disco altri due nomi che potessero rappresentare sia la scena reggae/dancehall dalla quale provengo ma anche la musica hiphop di cui ho risentito l'influsso negli ultimi tempi. Per il primo caso l'attenzione è ricaduta su Kg Man, un italiano ormai noto alla musica reggae nostrana ma capace di farsi ben conoscere anche oltre i confini italiani, mentre nel secondo ho avuto l'onore di poter collaborare con Tormento, persona dal gran cuore e da sempre uno tra i più importanti rapper dell'hiphop italiano. Fai parte attiva della RedGoldGreen. Come è nata l’idea di fondare questo movimento? RedGoldGreen nasce inizialmente come un evento che si teneva ogni anno all'interno di Villa Ada, bellissimo parco nel centro di Roma, dove ci si ritrovava tutti sul prato per “dare e ricevere” musica. A partecipare c'era gran parte della scena romana, tra dj e cantanti, con la semplice voglia di passare una giornata di sole in buona compagnia insieme alle vibrazioni positive del reggae. Date queste premesse è stato abbastanza naturale che dagli organizzatori, anch'essi cantanti, dj e produttori, nascesse la voglia di mettere insieme le forze con lo stesso spirito che aveva dato origine all'evento nel parco.


spagine

Q

uando si nomina l’anoressia, vengono alla mente di chi sia – anche solo in parte – versato in materia tre possibili fattori di rischio: il contesto familiare, la centrifuga mediatica, il timore di crescere e affrontare il mondo per come esso si presenta ai nostri occhi. Negli anni Novanta, si è attribuita forse troppa importanza al fattore immagine e soprattutto i profani in materia hanno creduto che i disturbi dell’alimentazione fossero ascrivibili ai messaggi distorti provenienti dal mondo della moda e della danza: come dimenticare le fotomodelle anoressiche o, già intorno agli anni Duemila, le vibranti proteste di alcune ballerine della Scala che hanno denunciato la perpetua istigazione, da parte dei loro maestri (ma si potranno poi definire “maestri” questi personaggi che inneggiano alla prostrazione del corpo in una disciplina quale la danza che, invece, richiede armonia e slancio vitale?), a una pericolosa magrezza? Se è vero che l’anoressia colpiva – e colpisce – in larga parte fotomodelle e danzatrici, terapeuti accorti come H. Bruch e S. Minuchin avevano compreso, già in quegli anni, che i disturbi dell’alimentazione avrebbero progressivamente interessato una fetta sempre più ampia di popolazione giovanile e la genesi di queste patologie non era da ricercarsi esclusivamente nel

Mela

bombardamento mediatico, ma anche – e, forse, principalmente – nel contesto familiare e sociale. Si è sempre mantenuto un certo riserbo fra i benpensanti nel riconoscere che la famiglia potesse indurre, in un soggetto adolescente, una condotta anoressica o bulimica. Non si avevano difficoltà a descrivere le “madri frigorifero” dei bambini autistici, ma l’opinione pubblica non accettava, non poteva accettare, che la causa prima del rifiuto del cibo da parte di una ragazza o – perché no? – di un ragazzo in piena crescita fisica e intellettiva fosse il comportamento dei genitori: una madre rigida e anaffettiva; un padre assente e sottomesso; oppure una madre chioccia fino all’ossessione, un padre severo e distante emotivamente dalla sensibilità dei propri figli. Sembrava strano che i genitori – in particolare, la figura materna sulla quale non verranno pubblicati mai abbastanza studi e trattati – primi datori di vita e di cibo, diventassero poi gli aguzzini psicologici dei loro stessi figli. Una madre anaffettiva instilla nella figlia la paura di non essere accettata anche fuori dall’àmbito familiare; una madre chioccia protegge fino all’inverosimile, individuando pericoli anche dove non ve ne sono. In entrambi i casi, il risultato non cambia: si ha paura di crescere, perché il mondo è percepito come un luogo pericoloso, un roveto dal quale è meglio tenersi lontani. Mela amara, il romanzo di Ursula Orelli,

che ho il piacere e l’onore di presentare, tradisce fra le righe un rapporto aspro e complesso con le figure genitoriali di riferimento: Chiara Rey, la protagonista, non è più un’adolescente quando si ammala di anoressia, tuttavia sia qui concesso di dire che, idealmente, Chiara non è mai cresciuta: non si è svincolata, pur affermandosi professionalmente, dall’abbraccio morboso del padre Leonardo; non ha mai dimenticato la fredda distrazione della madre Rachele, tutta impegnata nell’apparenza rituale di feste e ricevimenti piuttosto che nella fatica di crescere una figlia. E Chiara accusa apertamente sua madre, quando lei le si avvicina per prenderle la pressione: le chiede di andarsene, di mandarle la tata che l’aveva cresciuta e con la quale, solo, si sarebbe sentita a proprio agio. La malattia procede inesorabile e Chiara disconosce la madre, l’accusa duramente di non esserle stata vicina. Troppo tardi per pentimenti e piagnistei. Troppo tardi per rimediare. A questo punto, però, viene da chiedersi – e rivolgo a Ursula la domanda – quanto serva accusare un genitore di esser stato cattivo genitore. In altre parole, riconoscere di esser nato nella famiglia sbagliata aiuta a guarire? È vero che ammettere questo con se stessi è utile a sgravarsi dell’incombente senso di colpa con cui si cresce all’ombra di due genitori che, inevitabilmente, sono “sbagliati”, ma rigurgitare – e qui il termine non


libri

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Anoressia: dai cattivi genitori ai buoni amici Note sul romanzo di Ursula Vaniglia Orelli

amara

è casuale – l’odio su una madre o su un padre, accusarli, offenderli, demolirli, aiuta a guarire? Probabilmente, il percorso è un altro: quello che Michela Marzano, autrice di Volevo essere una farfalla, e Ursula Orelli, autrice di Mela amara, hanno individuato: si tratta di un percorso accidentato e duro che raggiunge il traguardo dell’accettazione serena – mai passiva – del reale con le sue contraddizioni. Ci sono genitori obiettivamente cattivi e genitori che feriscono senza intenzione: questi ultimi possono soltanto essere perdonati, benché il perdono giunga dopo un lungo percorso psicoterapico o, in casi non rari, non giunga affatto. L’anoressia è una malattia psicogena, pertanto necessita di un trattamento terapeutico appropriato. Nel suo romanzo, Ursula pone a confronto due modalità differenti di esercitare la psichiatria: la prima è quella che si limita a staccare una ricetta da un blocco; la seconda è quella basagliana, fondata sull’ascolto del paziente e sulla comprensione delle sue angosce. Perché non si può curare un disturbo psichico senza tener conto della persona che ne è portatrice, con la sua dignità e le sue aspirazioni. Chiara sembra voler morire; chiede di nientificarsi, ma non è raro che i tentativi di suicidio, soprattutto quelli lenti come l’anoressia, rappresentino una potente richiesta d’aiuto; un atto di ribellione che inneggia alla vita nel

momento stesso in cui tenta di sopprimerla. Il cigno canta quando si rende conto di star morendo: siamo sicuri che questo canto non sia un’accorata richiesta d’aiuto? Chiara è aiutata da un medico che si potrebbe definire “senza fronzoli né orpelli”, uno psichiatra che le resta accanto anche – e soprattutto – quando lei lo provoca, quando pone a dura prova la sua pazienza. Sono, allora, feconde le parole di Jung, convinto assertore della funzione del terapeuta quale traghettatore della persona dall’abisso dell’inconscio alla luminosità del Sé, là dove l’inconscio non si annulla, ma viene integrato con la consapevolezza di poter realizzare se stessi di là dai propri fantasmi. Un’ultima parola intendo spenderla sull’amicizia: Mela amara ci offre lo spaccato di un rapporto amicale, quello della protagonista Chiara con Roberta e Giulio, fondato sul rispetto reciproco e sull’aiuto. Più volte, Roberta accompagna Chiara in ospedale, le resta vicina nonostante le sue intemperanze, la sostiene e la coccola con amore e pazienza. Spesso, chi si ammala di anoressia o di qualsiasi altro disturbo psicogeno resta solo: la malattia erige barriere invalicabili d’incomunicabilità e paura. Ci s’interroga su cosa sia meglio fare, su come sia più conveniente comportarsi e, intanto, la persona ammalata vede crescere il vuoto attorno a sé: non si capisce il problema – o non lo si vuol capire – e ci si trin-

di Eliana Forcignanò

cera dietro una presunta buona educazione che impedirebbe d’immischiarsi troppo nelle faccende degli altri. Ora, la domanda è: gli amici sono “gli altri”? Sono “l’altro da noi”, per dirla con le parole di Sartre, ma un altro vicino non solo nel tempo e nello spazio bensì anche nella mente e nel cuore. “Gli altri” sono una nozione generica, astratta; l’“altro da noi” è vivo, palpitante, reale con le sue bellezze e le sue criticità. Roberta e Giulio affrontano la malattia di Chiara, sebbene in due modi differenti: Giulio è più discreto, quasi silenzioso nel suo muoversi intorno a Chiara; Roberta ha tutta l’irruenza materna che è propria del femminile. È lei a rendersi conto che, sotto i maglioni ingombranti e voluminosi, Chiara ha soltanto le costole scarne e tremanti. Roberta cura Chiara. Con le parole, con i gesti. Il suo messaggio giunge con forza ai lettori di Mela amara e ricorda quei libri dell’Etica nicomachea in cui Aristotele scrive che l’amicizia è una forma diversa d’amore. Non mutano, in amicizia, né l’intensità, né l’afflato verso l’altro, là dove il termine “afflato” ha proprio il significato latino dell’offerta. L’amicizia è un’offerta all’altro: essa deve rimanere tale nei momenti felici, come in quelli in cui si manifestano le difficoltà. Se le parole non arrivano, rimangono i gesti: si possono dire molte cose in un abbraccio.


spagine

Mercoledì 10 dicembre 2014 al teatro Comunale di Nardò Mario Perrotta ha “raccontato” il suo Ligabue

La mancanza di un bacio Antonio Liganue in un autoritratto

L

di Gianni Ferraris

cretizzasse anche in affetto da parte di qualcuno, in modo particolare di una donna. Ma questo, come detto, non avvenne mai neanche dopo quel poco di fama che arrivò negli ultimi anni della sua vita. Semmai, tentarono di sfruttarlo, anche le donne, ma lui questo lo sapeva e a volte si vendicava in modo feroce, facendosi pagare a citazione di Lancan la rubo dall'amico Mimmo che dei quadri in anticipo e poi realizzando delle opere brutte (a suo su FB commentava l’ episodio a cui ha assistito: un stesso dire!). clochard costretto a consumare in una sala d'aspetto un piatto che non aveva, evidentemente, diritto di Le ultime parole delle righe che hai messo nel tuo sito, parmangiare al tavolo della mensa accanto che glielo lando dello spettacolo, sono: “Voglio stare anch’io a guardare aveva fornito. Forse non poteva sedere a tavola in gli altri. E sempre sul confine, chiedermi qual è il dentro e quanto clochard, senza casa, senza tetto. Senza dignità? quale il fuori”. Mi ricorda un amico, Adriano Sofri, che capitò E quelle parole mi sono balzate in mente ieri sera, memorabile 10 in una sventura giudiziaria e ci salutava dal carcere di Pisa didicembre 2014 in quel di Nardò. Il teatro Comunale non è grande, cendo: “Ciao da noi chiusi dentro a voi chiusi fuori. ed è stipato di spettatori, Mario Perrotta ci racconta Ligabue, “Un bes”. Sicuramente lo "stare al margine" è una condizione che mi affaL’attore (e autore) non recita il personaggio, lui è il personaggio. scina molto, sin dal progetto dedicato ai nostri emigranti degli anni Solo in scena in questo crescendo carico di tensione emotiva, Li- '50 e '60. E' una condizione limite, appunto, che trova rispondenza gabue che passa la vita dipingendo con rabbia la mancanza di “un ancora una volta in un'esperienza profondamente mia legata all'inbes”, un bacio, dell’affetto che nessuno ha mai saputo dargli. La fanzia. Da figlio di genitori separati nel sud di 40 anni fa, il rischio Svizzera non sopporta i matti nel suo lindo territorio, allora approfitta di essere messo al margine per questa condizione era forte e ho del cognome e della nazionalità del suo padre acquisito per cac- dovuto sempre lottare per restare invece "all'interno della cerchia", ciarlo in Italia, il paese si chiama Gualtieri, in agro di Reggio Emilia. tanto che spesso, finivo per ritrovarmi al centro della stessa, troppo E come ogni paese sopporta “el mat” “el tudesc”, il matto, il tedesco. al centro, esattamente come se stessi in scena a teatro (ecco che Quel bizzarro personaggio che girovaga per strade e boschi dipin- non mi è stato difficile il passaggio da un "palcoscenico" all'altro). gendo e scambiando quadri con un piatto di minestra, che parla un Nel mio caso poi, questa paura di veleggiare sul limite si è andata misto di emiliano e tedesco, che guarda le donne e cerca solo, ba- dissolvendo con il passare del tempo ed è diventata solo un ricordo nalmente affetto. Ma l’è mat, neppure le puttane lo vogliono “sono mentre, per quanto concerne la condizione di "malato di mente", è sporco, mi ha detto”. connaturata ad essa anzi, è il suo superamento perché il limite sono *** i cancelli e le mura del manicomio o i muri invisibili che le persone Avevo già incontrato Mario Perrotta quando presentava al pubblico ergono tra loro e te. E una volta che i muri sono saliti, tu malato di per le prime volte il suo “Un bes”, in una lunga intervista si diceva mente ti trovi oltre essi e quindi sei "fuori". Fuori dal consesso fra l’altro: umano che ti ha rigettato. Ma, al contempo, gli stessi uomini che si autodefiniscono "sani", guardando le mura di un manicomio si deNella presentazione dici che Ligabue artista sapeva di meri- finiscono "fuori", mentre i malati sono "dentro". E allora? Qual è il tarlo quel bacio, il pazzo invece doveva elemosinarlo. dentro e qual è il fuori? Esattamente come nella condizione carceCertamente. Ligabue aveva una perfetta coscienza di sé e del suo raria e in qualunque condizione di diversità sancita da un confine: valore artistico. Amava ripetere: "quando sarò morto i miei quadri esso stesso determina un dentro e un fuori differente secondo il varranno un sacco di soldi". Non era assolutamente lo scemo del lato su cui ci si trova. Mi viene in mente una parola leccese - 'ppoppaese, come amavano pensare i suoi compaesani, semmai lo fa- peti - che i cittadini di Lecce usano per indicare in modo irriverente ceva perché gli tornava comodo. Sapeva che, in quanto artista, "quelli di provincia". Il suo etimo è latino e cioè: post oppidum, oltre avrebbe meritato attenzione e sperava che quell'attenzione si con- le mura della città.Il guaio è che anche "quelli di provincia" usano "Étrange (straniero, diverso) è una parola scomponibile: être-ange (essere-angelo). Dall'essere angeli ci mette in guardia l'alternativa dell'essere stupidi" (J. Lacan, Seminario XX, p. 9)


cronache culturali - teatro

della domenica n°56 - 14 dicembre 2014 - anno 2 n.0

la stessa espressione per indicare con la stessa irriverenza "quelli della città" perché, dal loro lato del confine, noi cittadini siamo effettivamente 'ppoppeti, ossia oltre le mura. Ecco che, ancora una volta, un confine determina una discriminazione bilaterale e a furia di annotare situazioni del genere, mi viene da pensare che è il concetto stesso di confine ad essere sbagliato.

In un’altra intervista pubblicata recentemente sulla rivista della Fonzaione Terra d’Otranto “Il Delfino e la mezzaluna” alle pagg. 216/223, racconta dell’impellenza di parlare della diversità, di viverla:

Vorrei farti una domanda personale. Sei diventato padre, ne vuoi parlare? Il progetto Ligabue nasce per questo. sapevo che sarei diventato padre di un bimbo o una bimba che arrivava dal centro africa. Non sapevo da dove nè l’età, né il sesso, l’unica certezza era che sarebbe stato nero. Per qualcuno è un problema, per me una ricchezza. Gabriele è arrivato dall'Etiopia e un giorno vorrà riscoprire le sue tradizioni. So che qualcuno gli farà notare la sua differenza. Mi sono chiesto se saremo in grado di aiutarlo a superare questi scogli. Lo sapremo un tempo. Queste tensioni mi hanno fatto tirar fuori il progetto Ligabue. Un “diverso” era la figura che mi permetteva di parlare di me e delle mie tensioni. Come vedi non è una domanda personale, è artistica. i miei testi sono le mie urgenze. Privato e scena si intrecciano. *** Parole nella quali la parte “razionale” ha il sopravvento, è la logica dell’offrire una visione della diversità al pubblico, del dare un senso a quella che chiamiamo pazzia giusto per togliercela di torno e tor-

nare alla nostra “normalità” mentre “el mat” crea, vede il mondo con occhi diversi, rivendica un bes, un abbraccio, comprensione non per il suo stato ma per il suo essere “umano”. Il paese lo deride ma acqusita i suoi quadri, i “normali” si fanno dipingere il furgoncino che poi rottameranno senza rendersi conto di quel che fanno, pur se legati a filo doppio al valore venale del denaro, neppure sanno di aver rottamato un’opera d’arte, lo capiranno solo quando l’artista morirà e i suoi quadri avranno l’onore di essere “opere d’arte”. Non avevo mai avuto l’onore e il piacere di vedere lo spettacolo, ne avevo solo parlato con Mario. Arrivò in primavera a Lecce, è vero, ma per una sola sera e in un teatro piccolo per un artista così immenso, il Paisiello, non trovai il biglietto. Ora è tornato in un teatro altrettanto bello e altrettanto piccolo. Ancora una volta per una sola sera. L’ho visto ed ho capito di getto tutte le cose che Mario, in due interviste, non è stato capace di dirmi, non poteva farlo: l’impatto emotivo dello spettatore. Commuoversi di fronte ad una piece teatrale non è usuale per me, lasciarsi andare e passare dalla storia narrata a “oltre la storia” non è facile. Questa volta è successo, ed ho visto altre lacrime fra gli spettatori. Mi sono commosso e sono riuscito a trapassare la storia narrata, a veder nascere quadri (Mario in scena disegna anche bene con tratti di carboncino su fogli grandi). Ho visto la grandezza del diverso e l’immensità dell’artista. Ho visto, per dirla con Lacan, un Etrange, un angelo rabbiosamente fiero e senza l’affetto che lo renderebbe una persona altra, diversa. E tornando a Lecce, nella notte limpida e senza luna, pensavo a come sono grette le città di provincia, a volte, quando disdegnano i loro geni, li emarginano, li snobbano. Lecce austera potrebbe, dovrebbe riabbracciare con serena calma e pacatezza i suoi “mat”, i guitti, quelli che scommettono e creano. Dovrebbe riconoscere gli artisti quando ancora hanno molto da dare. Qui ed ora per favore!


Il Salento di Fiorillo spagine

In mostra fino al 26 dicembre nei luoghi della Fondazione Palmieri

Il segno che suona

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In mostra dal 19 dicembre al Fondo Verri le opere di Donatello Pisanello

enerdì 19 dicembre, dalle 19.00, al Fondo Verri, il vernissage della mostra "Il segno che suona", opere di Donatello Pisanello. Donatello Pisanello è pubblicista sua negli anni Novanta la rivista Menhir, musicista, arrangiatore di musica tradizionale salentina e compositore di

colonne sonore. Dai più è conosciuto come l’organettista dell’Officina Zoè, chi lo conosce bene sa che è molto di più... una lunga militanza la sua dettata da una profonda convinzione a servizio del suono, della cultura e della riflessione intellettuale. In mostra al Fondo Verri i suoi lavori grafici dove "piccoli segni", si aggregano in figure: è la musica a dettare la trac-

cia, l’ordine delle figure che tratto dopo tratto si materializzano. Cose della musica, strumenti, l’amato organetto, le linee della chitarra. E poi il colore, dosato come fosse elemento fondante della melodia… il mondo Sufi è la culla di questi lavori, lo sfondo essenziale, culturale. Quella meditazione, quel confronto con il creativo… Quella completezza.


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arte del paesaggio diventa quella del passaggio attraverso luoghi, atmosfere che fra il luminoso della luce locale e quella emessa dai materiali di una natura quasi dimenticata si scarnificano in una essenzialità pastosa come lo sono i colori utilizzati dall'artista Marco Tommaso Fiorillo. Viene, in questi casi, spontaneo chiedersi quanto valga un dipingere del genere, se in sostanza la capacità documentaria delle opere di Marco Tommaso Fiorillo sopravanzi quella di una fotografia. La risposta è probabilmente annidata fra le pieghe scaltre dei

colori dove è possibile trovare ancora il lascito sonoro del paesaggio ovvero quel sistema di suoni ma anche di colori che lasciano sospendere l'osservatore in una condizione di ascolto di un altro mondo, quello che un tempo condiva con “naturalezza” oggi perduta i passi di tutti coloro che ci hanno preceduto. E se questo è vero, se il paesaggio appare sospeso, l'atmosfera, come si diceva, genera un'attesa tutta speciale che è quella di recuperare quei paesaggi/passaggi. In alcuni dei dipinti il paesaggio diventa acquatico e l'attenzione si sposta sul mare, sulle onde, sugli stralci di roccia che decidono di affogarsi e affondarsi nel blu di cielo

e mare. Conta più il ritratto di un volto umano o quello di un paesaggio? Nessuna delle due ipotesi perché in entrambi i casi l'osservatore si trova difronte ai ritratti istantanei di una realtà in un gioco visivo curioso: in un volto ci si può perdere come in un paesaggio così come in un paesaggio si può ritrovare il percorso di un volto.

di Fabio A. Grasso

presso l'ex chiesa di San Sebastiano, Vico dei Sotterranei, 1, Lecce, dal 10 al 26 dicembre 2014, 10.00-13.00, 17 – 21. Ingresso gratuito.


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cco a Lecce dal 28 dicembre al 6 gennaio il KIDS Festival internazionale del teatro e delle arti per le nuove generazioni. Il festival è ideato dalle compagnie Factory compagnia transadriatica e Principio Attivo teatro in sinergia con le Istituzioni ed è un grande esempio di collaborazione in rete e di messa a frutto delle esperienze maturate nel settore Un festival interamente dedicato all’infanzia e alle famiglie capace di offrire nel periodo festivo del Natale, l’occasione per il pubblico salentino e per i turisti di assistere da pomeriggio a sera a spettacoli teatrali straordinari messi in scena da alcune delle migliori compagnie italiane e internazionali. Un Festival diffuso nei molti contenitori della città quali il Teatro Paisiello, le Officine Cantelmo, il Castello Carlo V, i Cantieri Koreja, le Manifatture Knos, la Casa Circonda-

riale Borgo San Nicola di Lecce, uniti per la prima volta in rete per questa nuova sfida dedicata al giovane pubblico. Un Festival dell’inclusione perché farà tappa anche nella Casa Circondariale “Borgo San Nicola” di Lecce per offrire ai detenuti e alle loro famiglie la possibilità di assistere assieme ad uno spettacolo della manifestazione. Un Festival che mette in rete oltre ai contenitori, soprattutto le esperienze e le specificità artistiche maturate dalle compagnie del territorio che si occupano d’infanzia dimostrando straordinari risultati nel territorio nazionale e internazionale. Un Festival del Salento facendo in modo che negli anni successivi singoli comuni possano associarsi decidendo di ospitare per una o più giornate una tappa del festival, di spettacolo ma anche di formazione. Un Festival internazionale, che sviluppi l’ospitalità di

compagnie internazionali e avvii dialoghi costruttivi con artisti e modalità straniere per la crescita dello stesso con il confronto e lo scambio di esperienze. La prima edizione consta di: 16 diversi titoli 30 recite in totale 8 giorni di programmazione diverse fasce d’età con spettacoli a partire da bambini di pochi mesi. 10 compagnie nazionali (di cui molte eccellenze regionali) 3 compagnie internazionali 6 contenitori della città

Non solo le grandi fiabe, ma una piccola finestra sul mondo del teatro-ragazzi con la pluralità dei linguaggi che esprime, delle tradizioni più antiche come il teatro di figura che rivive attraverso le sapienti mani di maestri come Gigio Brunello o i più giovani ma straordinari Burambò, ai linguaggi più performativi delle compagnie internazionali Cie non Nova di Nancy con l’incantevole “The afternoon of a fohen”

(29, 30 dicembre) premiato lo scorso anno al Festival di Edimburgo, o l’azione performativa della compagnia svizzera Trickster-p che ci propone un originale percorso per mono-spettatore nelle 9 stanze di Hansel e Gretel (28,29,30 dicembre) o del poetico e divertente Tetes a Tetes (3,4 gennaio) della compagnia belga XL production e lo spettacolo di bolle (L’omino della pioggia - 29 dicembre) di uno dei più talentuosi artisti italiani apprezzati all’estero Michele Cafaggi. Ed ancora di sera, le grandi fiabe classiche al Teatro Paisiello con Biancaneve, Cenerentola, Dottor Jeckill e Mr Hide riattraversate dai linguaggi della danza e del mimo. Un festival per tutti, per le famiglie, per chi è bambino e per chi ha deciso di non voler crescere.


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I concerti da tavola Una rassegna a cura di Titti Pece e Fabiola Carlino

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Fino al 30 dicembre tra Cursi e San Cesario in scena le culture musicali e quelle del gusto

a preso avvio giovedì 11 “Metamorfosi urbane”, rassegna di spettacoli musicali che, tra Cursi e San Cesario di Lecce mette insieme, fino al 30 dicembre le diverse formule espressive delle culture musicali e gastronomiche, si propone come momento di espressione e dialogo fragruppi immigrati e comunità salentine. La rassegna è promossa dal Comune di Cursi, in partnership conil Comune di San Cesario di Lecce, l’Istituto di Culture Mediterranee e l’Associazione Parco Salento, con la direzione artistico-organizzativa della storica d’arte Titti Pece e il coordinamento della musicologa Fabiola Carlino. ***

Otto ‘concerti da tavola’(secondo il format creato nel 2010 dall’Associazione Parco Salento, che dà origine all’idea stessa del progetto) e due concerti all’aperto costituiscono il programma della manifestazione, che è parte di un progetto di ricerca più vasto e ambizioso che punta a indagare, in chiave antropologica e interculturale, il processo in corso di ‘metamorfosi urbana’, cominciato molti anni fa con l’arrivo in terra salentinadi massicci flussi migratori. Tante le proposte musicali e i generi attraversati, dalle canzoni e le danze popolari alla lirica e alla sperimentazione di nuovi percorsi musicali, interpretatiin altrettantinarrazioni gastronomiche. Attraverso espe-

rienze plurisensoriali di voci e odori, suoni e sapori, il progetto si propone così di tracciare un viaggio nel nuovo Salento plurietnico, nei luoghi dell’ascolto e del gusto dove si incontrano e dialogano le identità di ciascuno, definendo e ridisegnando nuove ‘geografie’ culturali.

suoni e sapori tra le due sponde” che vede protagonisti Cesare Dell’Anna (tromba), EklandHasa (pianoforte e tastiera) e RedyHasa (violoncello).Il 20 dicembre a Cursi, alle 20.30 nella Parrocchia San Nicola Vescovo (Piazza Pio XII) per il Gran Concerto, è il momento della cantautrice italo-etiope Saba Anglana, in concerto con “La danza dell’origine”. Il viaggio continua con gli ultimi quattro appuntamenti in cartellone previsti il 26 dicembre a San Cesario, nel QuoquoMuseo del Gusto (ore 21), con il duo Redi Hasa (violoncello) e Maria Mazzotta (voce) ne “Tra il Salento e i Balcani, le voci e il respiro dei luoghi” e il 27 dicembre (sempre al Quoquo Museo alle 21) con il concerto lirico diNevilaMatya(mezzosoprano), Giorgio Schipa(baritono) e al pianoforte il maestro EklandHasa; sempre il 27 dicembre a Cursi, a Palazzo De Donno alle 20.30, i Mijikenda Culture Group (Kenya) si esibiranno in ritmi, danze e canti tradizionali dell’Africa orientale. La rassegna si chiude il 30 dicembre a Cursi, alle 20.30 a PalazzoDe Donno, con l’ultimo concerto in programma che vede protagonisti i salentini ALS PROJECT e il senegalese JosphBa in una jam session estemporanea.

Il calendario Il calendario dei concerti si articola fra luoghi e momenti diversi: si è partiti l’11 dicembre a San Cesario, nel QuoquoMuseo del Gusto (via Santo Elia, 53),con “Le sonorità del Mediterraneo” di Rachele Andrioli (voce) e Rocco Nigro (fisarmonica) e la partecipazione di EklandHasa ed Eraldo Martucci; altra data già svolta quella del 12 a Cursi, nelle sale di Palazzo De Donno (Piazza Pio XII), con un singolare quartetto composto dal violoncello di Redi Hasa (Albania), la fisarmonica di Rocco Nigro (Salento) e le voci di RameshMuthpitchchi (Sri Lanka) e Meli Hajderaj (Albania), oggi, domenica 14 sempre a Palazzo De Donno alle 20.30, l’appuntamento è con con Raffaella Aprile (Salento, voce), Admir Shkurtaj (Albania, fisarmonica), DarshanSingh (India, britanga). Si prosegue il 17 dicembre, alle 21, per il Gran Concerto, l’Ex-Distilleria De Giorgi di San Cesario (via Ferrovia) ospita il concerto Ingresso libero a tutti gli appuntamentifino dei Radiodervish e la presentazione del loro ad esaurimento posti. Per informazioni: ultimo lavoro “Human Tour”. Cursi: www.comune.cursi.le.it servizisocioculturale@comune.cursi.le.it - tel. 0836.1904408 Ancora il 18 dicembre, a San Cesario nel San Cesario: www.comunesancesariodilecce.it - biblioteca@coQuoquoMuseo del Gusto (ore 21), con una mune.sancesariodilecce.le.it QuoquoMuseo del Gusto: www.quoquo.it - info@quoquo.it nuova proposta “Tra Salento e Albania,

Ad illustrare un’opera di Giancarlo Moscara, un folletto segno-simbolo del Quoquo Museo del Gusto di San Cesario di Lecce e il logo di Metamorfosi Urbane


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L’associazione Il Serraglio e l’Istituto De Ruggieri adottano a Massafra l’attrice Erika Grillo e il videomaker Alessandro Colazzo

La festa dei viandanti unedì 22 dicembre a Massafra in Piazza Santi Medici, avrà luogo La Festa dei Viandanti - Parole / Visioni / Euforia. L’Associazione culturale Il Serraglio, che quest’anno festeggia il suo decimo anno di attività con progetti legati al tema de “Il viaggio”, e l'Istituto d'Istruzione Secondaria Superiore "D. De Ruggieri", dopo collaborazioni artistiche e ambientali negli anni passati si incontrano nuovamente attorno ad una storia del tutto nuova: l'adozione dell'attrice massafrese Erika Grillo e del videomaker Alessandro Colazzo negli spazi della scuola. Il Progetto Adozione nasce dalla necessità di incontrare artisticamente il mondo della scuola concependo la stessa come luogo aperto e permeabile all’arte e alla cultura. “Il percorso che voluto sperimentare con questo progetto - scrivono Grillo e Colazzo - è quello di farci adottare da una scuola e adottare a nostra volta, usando il teatro come strumento e terreno di confronto. Il cuore dell'idea è quello di vivere insieme ai ragazzi i momenti vivi della creazione artistica, con tutte le sue problematiche, condividendo proprio nella scuola i momenti di creazione scenica. Lo abbiamo fatto ribaltando i canoni di approccio al teatro; non portiamo a scuola uno spettacolo finito o un semplice laboratorio, ma condividiamo con la scuola il nostro processo creativo di messa in scena attraverso laboratori di scrittura, di scenografia e di educazione al teatro e ai linguaggi audiovisivi. Scopo di questi laboratori è inoltre quello di vivere gli spazi stessi della scuola come ‘atelier artistici’ perfettamente integrati con la vita sociale circostante”.

In programma: Lav(i)aggio - luoghi a 360°, proiezione cortometraggio a cura di Alessandro Colazzo, con gli allievi del laboratorio di linguaggi teatrali e audiovisivi a cura di Erika Grillo: Alessio Convertino, Federica Moscariello, Dania Fasano, Pietro Torelli, Giuseppe Martella. Lìberàti, mostra fotografica a cura di Giuseppe Martella. Abito - Territori di tessuto, installazione artistica a cura di Erika Grillo e Mino Notaristefano. Trifolk - Rock n' roll Taranto, concerto finale! Erika Grillo porta avanti da alcuni mesi un progetto teatrale sul modo di abitare i luoghi e gli spazi pubblici della

città di Taranto, al centro delle recenti questioni legate al tema della tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini, intitolato: ABITO – Territori di Tessuto. “Un mondo di individui al tempo stesso residenti e nomadi. Partire, restare, tornare. E tu, dove abiti? Abito. Stretto, lungo, fiorato, casual, da cocktail, da sposa. E intanto perdi l’appuntamento con l’amore.” Uno spettacolo che nasce da un desiderio: Abitare. Il nostro corpo, lo spazio pubblico, le relazioni con gli altri individui… i Luoghi. Partendo da principio, è necessario sottolineare il perché la battaglia per un luogo oggi significhi una battaglia globale. Le tante iniziative nate in questi anni nella città di Taranto come anche in altri borghi d’Italia - praticamente dappertutto - sono legate insieme, come se fossero nate tutte da una stessa mente. C’è chi si occupa di ripensare il ruolo dei centri storici, ci sono ‘guerrieri’ nelle strade che piantano alberi, altri che costruiscono luoghi di incontro sotto i cavalcavia, chi ricostruisce modelli socioeconomici aggrappandosi alla storia, chi semplicemente propone il ritorno alla terra o ad altre forme di autosostentamento. Il mondo ha sempre avuto il bisogno di fermarsi a respirare, di partire e poi di tornare. Come il medioevo è arrivato dopo la tumultuosa epoca greca e romana, dovevamo aspettarci una cosa del genere dopo la lunga ed estenuante corsa dal rinascimento, alla rivoluzione industriale, fino ad oggi. Solo che oggi, per la prima volta nella storia, siamo partecipi di quello che succede altrove, senza filtri, in tutto e per tutto, a volte anche contro la nostra volontà; siamo nell’era globale. E non ce la facciamo a rimanere indifferenti. Questo elemento da solo nell’utopistica visione della “civiltà dell’empatia” (J. Rifkin) spazzerà via tutte le logiche politiche mai costruite e tutte le forme di controllo che hanno posto alla società. Ecco perché è importante il luogo. Uno qualsiasi. Quello che ognuno di noi vive quotidianamente. Non è più il momento di “far la lotta contro” qualcuno o qualcosa, che sia il governo, la guerra, l’inquinamento. E’ il momento di abitare; di prendersi cura, piuttosto che curare. Se ti occupi di quel luogo, senza che tu lo dica, lo stai già facendo. E non importa se siamo sempre più propensi a partire, a fuggire, a cercare luoghi ‘altri’… perché essere in viaggio vuol dire sempre e comunque lasciare tracce, dunque edificare luoghi.


Della co-creazione

spazi creativi

Oggi, al Museo Ferroviario di Lecce, il primo appuntamento

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a.p.s. 34°Fuso, nell’ambito del progetto MuseoWebLab (Principi Attivi 2012), promuove la prima edizione di Tipi da Museo: nove creativi invitati a confrontarsi con le collezioni di tre musei locali, il Museo Ferroviario di Puglia a Lecce, il Museo della Memoria e dell’Accoglienza a Santa Maria al Bagno e il Museo Civico P. Cavoti a Galatina. Gli artisti sono: Alice Caracciolo, Alessandro Colazzo, Paolo Ferrante, Luciana Lettere, Margherita Macrì, Maira Marzioni, Massimo Pasca, Francesco Sambati, Chiara Spinelli.

Le opere prodotte resteranno esposte nei tre musei dall’13 dicembre al 4 gennaio 2015, per poi confluire tutte presso il Museo ferroviario di Lecce dove, il 5 gennaio, si terrà l’evento di chiusura della manifestazione. In tale occasione, i lavori degli artisti e creativi saranno presentati al pubblico dal Lorenzo Papadia, dal critico d’arte e giornalista Carmelo Cipriani e dall’operatore culturale e giornalista Mauro Marino. I “Tipi da Museo” e lo staff di MuseoWebLab saranno lieti d’incontrare i visitatori: domenica 14 dicembre dalle 9.30 alle

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12.30 al Museo Ferroviario di Puglia; ghi di tutela e conservazione, come fucine e domenica 21 dicembre dalle 18.00 alle laboratori di rigenerazione culturale e crea22.00 al Museo Cavoti; tività, in cui le collezioni possano essere madomenica 28 dicembre dalle 18.00 alle teria per la creazione di nuovo cultura e arte. 22.00 al Museo della Memoria. Tipi da Museo è un’azione di MuseoWeA raccontare sul sito dell’associazione e sui bLab, progetto dell’aps 34° Fuso vincitore di social media il dietro le quinte delle diverse Principi Attivi 2012, che si propone di sperifasi dell’iniziativa c’è la guest blogger Bar- mentare approcci e strategie innovative per bara Vaglio. la valorizzazione e promozione di piccole e L’hashtag da seguire o da utilizzare è #tipi- medie realtà museali, attraverso l’uso del damuseo. web 2.0 e l’adozione della sua filosofia par*** tecipativa. “Tipi da museo” ha preso avvio il 17 novem- La manifestazione è resa possibile dalla colbre. Per tre settimane ogni museo è stato laborazione di: Museo Ferroviario di Puglia, esplorato “dentro e fuori” da un gruppo com- Comune di Lecce e Aisaf Onlus; Museo Ciposto da un fotografo, un visual artist e una vico P. Cavoti, Comune di Galatina e Coop. scrittrice/blogger, chiamato a immaginare e Imago; Museo della Memoria e dell'Accoraccontare, tra creazioni e suggestioni ispi- glienza, Comune di Nardò e Associazione rate dalle collezioni e dal territorio del quale Tic Tac; Ricreeremo di Enrico Antonaci sono espressione. (aiuto allestimenti). Il ricorso a linguaggi afferenti alla fotografia, alla scrittura creativa e alla visual art, nasce dall’esigenza di raccontare i musei in nuove INFO E CONTATTI: forme e raggiungere dei pubblici spesso in34fuso@gmail.com | 328 0925657 consapevoli dell’esistenza di tali istituzioni e sito: www.34fuso.it delle storie in esse custodite. facebook: 34fuso, Museoweblab “Tipi da Museo” vuole sperimentare forme di Twitter: @34fuso partecipazione e co-creazione dell’offerta Instagram: @34Fuso culturale dei musei visti, oltre che come luo-


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