spagine della domenica n°57- 21 dicembre 2014 - anno 2 n.0
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri
spagine
Il mediatore di Dio L di Gigi Montonato
a notizia che Stati Uniti e Cuba si sarebbero riappacificati dopo più di mezzo secolo di minacce, di provocazioni, di embarghi e di rischi di guerra, grazie alla mediazione di Papa Francesco, è una di quelle che contribuiscono alla deificazione del personaggio, già avviato su questo percorso fin dal primo giorno del suo papato. Dall’umile “buona sera” in incipit alle successive quotidiane scorribande contro tutti i ricchi, i potenti e i prepotenti della terra, Papa Bergoglio ha riproposto modelli evangelici di società ognora validi ma in qualche parte del globo di più e in altri di meno, a seconda dell’orologio della storia, che batte diverso in luoghi diversi. In verità, quando dice certe cose, qui in Italia sembra più un leader di un partito di sinistra o un segretario generale aggiunto di qualche sindacato che un papa. Poi se ne compiace: dicono che io sia comunista, ma io sono solo cristiano, facendo capziosamente passare l’equazione comunismo-cristianesimo. Ma i soldi, nel bene e nel male, non sono tutto nella vita. Ci sono molti altri problemi. I cittadini e i credenti, quelli evidentemente che non si disperdono nella massa, vorrebbero sentire indicazioni di vita, di comportamenti, validi non solo per gli odiati/invidiati ricchi e gli straodiati/strainvidiati potenti, ma anche per gli umili, per i poveri. Lo spirito non si misura a danari o a carati. E se uno si comporta contro i principi della tradizione cristiana, che sia ricco o povero non cambia nulla. Non c’è un solo comandamento di Dio che faccia distinzione, che prometta attenuanti generiche per i poveri o che minacci aggravanti per i ricchi. Chi non sta in questi ben delineati confini non si cura delle anime, come un papa dovrebbe, ma fa politica. Politica di parte, di cui si avvantaggia sempre qualcuno, che il Santo Padre lo voglia o meno. Ma l’uzzolo quotidiano di questo Papa pare
che sia di stupire, un po’ come diceva il Marino, poeta del ‘600. E’ del Papa il fin la meraviglia, chi non sa far stupir vada alla striglia. Dove è andato a finire Papa Ratzinger, che di stupire non ne voleva proprio sapere. Per il Papa tedesco due più due fa quattro: né merito né demerito suo; perciò è finito … emerito. Si dice che fu grazie alle parole di Papa Francesco contro l’intervento armato in Siria da parte degli Stati Uniti che Obama, già determinato ad attaccare, fece marcia indietro. Ora è giunto il botto che gli prenota il titolo di personaggio dell’anno con tanto di copertina di “Time” e più in là forse il Nobel della Pace. Si è messo in mezzo ed è riuscito a far crollare il muro tra Stati Uniti e Cuba, l’ultimo rimasto della guerra fredda. Siamo tutti contenti. Se non che non c’era alcun bisogno di far crollare quest’ultimo muro. Era già sotto le macerie del comunismo. Cuba non rappresenta più da anni alcun pericolo e ha tutto l’interesse di cambiar vita e amicizie. Non siamo ai tempi del trio Kennedy-Kruscev-Papa Giovanni e della suggestione del Che e della rivoluzione continua: hasta la victoria siempre! Allora sì che il mondo corse un bel rischio. Scongiurato, si dice ancora, dal fascino che il pontefice romano del tempo esercitava su Kruscev. Oggi l’interesse a riavvicinarsi agli Stati Uniti è tutto di Cuba. Gli esuli cubani negli Stati Uniti, perseguitati da Castro, specialmente i più anziani, urlano proteste: Obama si è calato i pantaloni! C’è da chiedersi perché. Per far piacere a Papa Francesco? E’ probabile. Ma è ancor più probabile che due paesi, che non sono più né in guerra né in pace, come Stati Uniti e Cuba, decidano di chiarirsi ma né l’uno né l’altro vuol compiere il primo passo. Ecco allora che si fa avanti il mediatore che, dalle posizioni del più debole, Raul di Cuba, si muove verso il più forte, Obama l’americano, che sa
di non essere poi tanto forte sul piano personale e che avrebbe bisogno pure lui di recuperare un po’ di credito perduto. Obama è stato uno dei presidenti degli Stati Uniti più incolori, colore suo a parte, degli ultimi cinquant’anni. Il suo fallimento in politica estera è assai più appariscente dei suoi successi in politica interna, dove pure ha conseguito successi importanti come la riforma sanitaria e il superamento della crisi economica. Non v’è dubbio che il riavvicinamento tra i due paesi americani conviene ad entrambi, conviene soprattutto ai cubani, voglio dire ai cittadini cubani. Dopo una dittatura di oltre cinquant’anni essi finalmente possono assaporare la libertà, la democrazia e soprattutto il benessere, la crescita, la realizzazione delle proprie personali e nazionali aspettative. Essi, però, devono stare attenti a non smarrire il senso dell’ordine e della disciplina, dei buoni principi individuali e sociali, smarrimento tipico e pressoché inevitabile delle democrazie occidentali. Conviene agli americani e ad Obama. Agli americani conviene perché hanno un paese amico nelle immediate vicinanze, cui destinare investimenti e affari commerciali. A Obama per segnare un punto in favore di un periodo di presidenza decisamente grigia. Quanto a Papa Francesco, ormai è chiaro a tutti che la sua scelta è di stare tra i grandi, tra quelli che decidono le sorti del mondo; di fare a tempo pieno il diplomatico per conto di Dio o di quelli che secondo lui sulla terra sono gli amici di Dio. Per questo ha bisogno di avere una piattaforma umana osannante, costituita da gente che mentre lo applaude per le cose che dice opera come meglio le aggrada, tanto ha il lasciapassare assicurato. La prossima meta, che Papa Francesco pensa di perseguire, è il riconoscimento internazionale della Palestina. Ma qui se la dovrà vedere con gli ebrei. Non so se mi spiego!
Diario politico
della domenica n°57- 21 dicembre 2014 - anno 2 n.0
I
Note di un disincantato cercatore di muschio
n talune circostanze o inseguendo determinati, particolari temi, si ha la sensazione che la mano esiti nell’impugnare la penna e, più in dettaglio, che il coacervo dei polpastrelli manchi della forza necessaria per tenerne ferma l’asta. E, però, prodigiosamente e fortunatamente, viene puntualmente a scattare la spinta dell’inchiostro espressivo, coagulatosi, per conto suo, nella mente e non solo lì, sino allo scioglimento sotto forma di parole, concetti, righe e pagine. Fuori di preambolo, ci siamo. In seno all’agenda 2014 ormai prossima all’indice e in correlazione al foglietto del 25 per antonomasia, affiora una sequenza di domande: “ Come si presenterà quest’anno, il Natale? Quale sarà l’espressione del volto del Bambinello?”. Purtroppo, non si tratta d’interrogativi accentuati che traggono origine da mera stravaganza o da incertezza senza fondamento. Succede, infatti, che l’atmosfera e le scene aleggianti nei dintorni, lungi dalle immagini d’antica tradizione che porgevano, alle menti e ai ricordi, rudimentali presepi, nude grotte e poveri pastori, appaiano costellate da nugoli, quando non veri e propri schieramenti, di pupazzi e pupi, che poco o niente hanno d’innocenza, semplicità e disinteresse, recitando, più che altro, nel ruolo di paladini alla rovescia. Non palline colorate, non arance ai rami dei verdi abeti, nessuna stella cometa a illuminare e guidare. All’orizzonte di detti astanti, invece, l’aspirazione a posizioni privilegiate nelle liste, il miraggio di scranni, il sogno di potere e viepiù potere. In un bailamme eccezionalmente variegato, dove s’improvvisa, si avanza e s’indietreg-
gia, si avverte ansia spasmodica per le tornate elettorali di vario genere a venire. Al che, come non augurarsi e sperare che il Bambinello ce la mandi buona? *** Alleggerendosi d’abito, l’osservatore di strada tiene a far notare che, in fondo e volendolo, contrariamente a ogni apparenza e impressione, può essere sempre tempo buono per la venuta del Bambinello e per il contatto o l’incontro con Lui. Io, l’ho trovato, seduto giusto accanto a me, qualche giorno addietro, intervenendo a un consesso multietnico per l’ascolto di canti natalizi e di sprazzi di letture varie intonate alla ricorrenza: protagonisti, di lingua inglese, albanesi, egiziani, arabi e musulmani. Un substrato di credo comune pur sotto l’insegna di religioni differenti, fra strofe di nenie in idioma arbereshe, versi del Corano, recite di brevi poesie da parte di bambini e giovanissimi, accenni di sermone dalla voce di un pastore protestante, col cappello conclusivo di canti caratteristici eseguiti da una coppia di artisti di strada provenienti dalla Grecìa Salentina. E mi si è presentato un’altra volta, in una recentissima buia sera, punteggiata a mala pena dalla caduta di nevischio, in un capoluogo della Padania: in macchina, non riuscivo a procedere, ho arrestato il mezzo sulla destra e mi sono diretto a chiedere lumi all’automobilista che mi seguiva immediatamente. Ha stentato ad abbassarsi il finestrino, dopodiché si è delineato alla vista il volto di una giovane donna dalla pelle nerissima, la quale, ad ogni modo, con eccezionale gentilezza e dolcezza, mi ha opportunamente indirizzato. Così raggiunta la meta, ne ho nuovamente
di Rocco Boccadamo
scorto le sembianze dalla finestra di una camera al sesto piano, affacciata a pieno schermo sulla bellissima parte alta di quella località: davvero, un gigantesco presepe, eccezionale, unico. Ne ho, ancora, percepito la presenza e la vicinanza, presenziando alla celebrazione delle nozze di una coppia di giovani familiari, nel cui ambito, fra le invocazioni o intenzioni dei fedeli, ho ascoltato la seguente: “Che gli sposi P. e G., insieme con il loro piccolo (che attendono) eccetera”. *** Nel saloncino della mia abitazione, fa bella mostra un minuscolo presepe in cartapesta, gesso, legno e terracotta, realizzato e donato da un amico artigiano – artista. Pur diverso nella foggia e preziosità, simboleggia per me la continuità dell’analogo manufatto alla buona che, intorno al 1950, a Marittima, era costruito in casa, con cartone d’imballaggio e qualche cassetta di legno, per opera di mia madre. Neppure una lampadina elettrica ad illuminarlo, ma appena qualche sparuto lumicino di cero o candela, tuttavia vantava una ricchezza o dotazione speciale, conferita proprio da noi ragazzi: tappetini di muschio e frammenti di lichene, cercati e raccolti con pazienza nelle incontaminate campagne di quell’epoca. *** Mancano ormai pochi giorni al Natale e, in tale frattempo, il mio personale proposito, se non di estraniarmi completamente, è di non farmi prendere dai riti dei primi menzionati pupi e pupazzi della cosiddetta “casta”, predisponendomi, da credente, ad accogliere con leggerezza di spirito la Creatura che nascerà nella fredda grotta. Buon Natale
Sinistra spagine
A
vere una cultura di sinistra significa, per l’innanzi, aderire ad una realtà paradigmatica, che dà enorme rilevanza a precipui principi e valori. In questi mesi, abbiamo sommariamente seguito le gesta (per nulla eroiche) del Pd di Renzi. Il partito dell’ex “rottamatore”(almeno l’ala dominante) non può senz’altro collocarsi in un alveo di sinistra. Con sbigottimento abbiamo assistito agli attacchi reiterati del giovanilistico leader in camicia bianca al sindacato. Il premier, sempre pronto a declamare, a sfilare, ad apparire nei talk show di prima e seconda serata e in ogni trasmissione televisiva, avvezzo a organizzare Leopolde e cene eleganti con grandi finanzieri e manager, suscita sconcerto. Il Pd non è mai stato un partito di sinistra. Ed oggi ancor meno: è un agglomerato ibrido in cui prevalgono lotte intestine, arrivismi e rampantismo. Ma in quest’era di attriti e colossali sperequazioni, s’avverte il bisogno di compattarsi a sinistra del Pd, per tentare di costruire una casa comune operativa, alacre più che mai. È necessario strutturare e gettare le fondamenta d’un grande partito della sinistra liberale, incentrato su un prospero terreno di coltura. La gente reclama ad alta voce giustizia e libertà consapevole. I diritti sociali e quelli civili, in una scala di priorità, definiscono i mattoni di base, sostanziali, che servono a connotare un bel volto identitario. L’Italia delle destre illiberali e conservative ha ormai segnato il passo, ha il fiato corto: la contemporaneità impone sensate aperture d’ampio respiro. È attesa, peraltro, una alternativa al centrismo postdemocristiano di Renzi e sodali; c’è bisogno d’un vasto movimento politico e culturale, non un semplice contenitore, ma un laboratorio e fucina di idee, in grado di catalizzare la più rigogliose forze vitali, desiderose di rivoltare questo Paese come un calzino. Gianni Vattimo, da sempre, giustamente sostiene che la società è molto più evoluta della classe politica che la rappresenta. La sinistra dovrebbe ascoltare a fondo i bisogni intimi, primari dei cittadini italiani. L’economia capitalistica è in stato di metastasi conclamata: solo un mercato etico può salvarci dallo sprofondo, dall’abisso, dalla catastrofe. Le potenti idee socialiste possono venire in
Contemporanea
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soccorso del liberismo, per mutuare magari una terza via più umana, più civile, più a misura di essere vivente. Avremmo bisogno d’una sinistra che sappia valorizzare e finanziare doverosamente la ricerca scientifica, che sappia investire pragmaticamente sulla scuola. In specie nel Mezzogiorno, i ragazzi vivono in aule degradate, al limite della vivibilità. In questa povera Italia della provvisorietà, dell’approssimazione per difetto, sarebbero benvenute opere di comunitarismo sociale. Forse, non servirebbe alcuna riforma particolare della scuola e della università: basterebbe che i nostri zelanti governanti assicurassero lo svolgimento regolare delle lezioni in edifici adeguati e non scalcinati, garantendo sempre l’autonomia del libero pensiero, cercando magari di valorizzare i precari maltrattati e disconosciuti. Una ventata d’aria fresca a sinistra del Pd deve incoraggiare la cittadinanza partecipata d’uno schieramento di uomini e di donne in sinergia, in una progressiva coesione d’intenti. La cittadinanza partecipata dei lavoratori con una esistenza meno avvilita, di giovani con
di Marcello Buttazzo
Robert Mapplethorpe, Lisa Lyon - 1982
un futuro da desiderare e da aspettare, di anziani con una sicurezza pensionistica. Vorremmo davvero un Paese di più equa giustizia sociale, delle istanze economiche da coniugare alle risorse umane, delle libertà elementari da rispettare rigorosamente. E vorremmo una sinistra basata su una lungimirante cultura ecologista. Certo, le questioni ambientali non possono essere confinate in un ristretto perimetro ideologico: il discorso intorno alla “casa naturale” è di pertinenza di tutti gli uomini di buona volontà. Ciononostante, i movimenti ecologisti non possono disconoscere il loro Dna laico e libertario. Non giova erigere rigorose isole settarie, imbrigliate in strette maglie di autodefinizione; parimenti, però, si deve edificare un progetto che sia forte d’una sua identità. La nuova sfida, in certo modo, non può non tenere conto dell’avanzante sviluppo economico: solo in un’ottica disciplinata di saggia economia delle risorse, si può pensare di incrementare il progresso, creare posti di lavoro, decongestionare l’ambiente insultato perennemente dalla nostra decrepita mano antropica.
L’abecedario di Gianluca Costantini e
della domenica n°57- 21 dicembre 2014 - anno 2 n.0
Maira Marzioni
Fissavo fuliggine, un fiume. Filavano i fremiti come foglie. Infine feto come goccia giacevo.
spagine
Malvenuti
a Lecce A
llora, cari amici leccesi, ditelo chiaro e tondo, magari su dei pannelli da installare ai vari ingressi della vostra città, come usa fare altrove “Città dell’arte”, “Città denuclearizzata”, “Città della Cultura”, “Città del Vanini”. Voi scrivete pure, semplicemente, “Malvenuti a Lecce”. Dite, senza tante storie, che non volete che altri vengano a limitarvi gli spazi già limitati che avete. No, dire “non benvenuti” è poco; occorre dire “malvenuti”. Chi viene a Lecce, infatti, non se ne va senza un bel ravanello, un bel costoso e fastidioso ravanello. E non indico il colorito luogo di destinazione, di piaceri o di dispiaceri, a seconda dei punti di vista, per non passare per omofobo o razzista. Avete disseminato il territorio urbano di fotored, autentiche trappole per automobilisti, più che imprudenti verso i semafori o i limiti di velocità, incauti nell’avventurarsi sulle vostre vie. Queste, infatti, non solo sono strette ma intasate di auto da una parte e dall’altra che il passar di mezzo è un’avventura per specchi e specchietti retrovisori. Quei pochi parcheggi che avete ve li pagate a dracme d’oro e lasciate sempre i poveri automobilisti con l’ansia di non fare in tempo ad aggiornare il grattino per evitare la multa, che, per pagarla, non basta una giornata di lavoro, se e quando si lavora! Avete chiuso il parcheggio dell’ex Carlo Pranzo, senza preoccuparvi di trovare alternative. In questi ultimi due anni avete eliminato centinaia, forse migliaia, di parcheggi. Come se un’automobile possa essere inzainata (parcheggiata nello zaino). Volete che gli automobilisti rispettino la corsia dei mezzi pubblici. Ma su quale cazzo di corsia si devono mettere se le corsie in tutto sono due e una è quasi sempre disturbata da auto malparcheggiate? E, poi, volete spiegare perché – autoambulanze e forze di polizia a parte – chi prende il bus pubblico deve avere la corsia preferenziale? Preferenziale, perché? Per il rispetto orario delle fermate? E i cittadini che si muovono con auto propria non hanno scadenze di orario, non devono arrivare in qualche ufficio entro una certa ora? Ma l’aspetto che più sorprende – si fa per dire – è che il problema i pubblici amministratori e responsabili tutti ai più vari livelli, non se lo pongono proprio. Stanno chiusi nei loro uffici, nei loro studi e di quanto accade fuori non si preoccupano minimamente. Forse il guaio
di oggi è che gli amministratori comunali non sono più come una volta, frequentatori assidui degli spazi urbani e dunque conoscitori dei problemi dei cittadini, ma soggetti nascosti come monaci nei loro monasteri. Se l’amministratore pubblico non sente il problema che sente il cittadino vuol dire che non può svolgere quel ruolo in modo conveniente e puntuale. Deve accorgersi della spazzatura per strada, delle buche sulle vie, dei lampioni fulminati, dei manifesti indecenti e affissi fuori degli spazi consentiti, delle scritte oscene sui muri, dei rischi che corre il passante, delle esigenze dei pubblici esercenti, degli automobilisti, delle bandiere lacere esposte ai pubblici edifici. Il pubblico amministratore deve pensare alla città come pensa alla sua casa. Per questo deve passare non dico più tempo fuori di casa, ma quanto meno lo stesso che passa in casa, pranzi, cene e sonno compresi. Se non è disposto a questo, non dovrebbe neppure permettersi di candidarsi alle elezioni. Oggigiorno – si sa – i problemi del traffico sono tanti e diffusi dappertutto, a Lecce come a Milano, a Bologna come a Genova. Ma ça va sans dire che a Torino non è esattamente come a Napoli, con rispetto parlando. Neppure Lecce è Napoli, ma resta una città poco accogliente. Lasciare che un visitatore o uno che capiti in città per altri motivi senza un comodo posto per parcheggiare l’auto o una strada per muoversi senza pericoli di incidenti con terzi o con limiti e divieti pubblici, è come lasciare un ospite che viene a trovarti a casa in piedi o farlo sedere su una vecchia panca sgangherata col rischio di cadere o fargli salire e scendere scale coi gradini rotti o consumati. I nostri politici nazionali ripetono come un mantra che le nostre coste, il nostro territorio è già Europa; ma non sanno o fanno finta di non sapere che c’è più differenza tra il Mezzogiorno d’Italia e la Scandinavia che tra il Mezzogiorno d’Italia è l’Africa subsahariana. Bisognerebbe incominciare a tentar di recuperare qualche spazio di civiltà e di costume. Senza un diploma di qualifica, conseguito stando almeno per un anno a Vienna o a Oslo, per esempio, non si dovrebbe permettere a nessuno di candidarsi a pubblico amministratore. di Gigi Montonato
La città dell’incuria
accade in città
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A
lmeno due sono i problemi più appariscenti della città contemporanea che fanno storcere il naso a chiunque, uno è quello dei parcheggi delle auto private, l'altro quello della spazzatura. A ben vedere si tratta sempre di un parcheggio anche in quest'ultimo caso, puzzolente quanto il primo, brutto a vedersi e a sentirsi ancora quanto il primo. Per semplificare questo concetto basta in sostanza soffermarsi sui luoghi di deposito per eccellenza della spazzatura: i mitici, famigerati cassonetti, veri capolavori dell'assurdo a volte, capoluoghi del nauseabondo, concentrazioni di non senso estetico fino al parossismo. A questo proposito Lecce sembra battere un primato assoluto: quello della discutibilissima scelta dei luoghi dove collocare cassonetti e contenitori per la spazzatura che oltre ad essere brutti sono anche storicamente invasivi, deturpanti il patrimonio per eccellenza del capoluogo salentino ovvero le strade del suo centro storico. Facciamo un passo indietro e giusto per essere aiutati a capire meglio la città e i suoi spazi in cui si muovono i nostri occhi e quelli, soprattutto dei turisti. Poco conta che gli angoli dei palazzi cinquecenteschi (ma ciò vale anche per epoche successive) sono architettonicamente caratterizzati da colonne e semicolonne dove
molto spesso le famiglie proprietarie dei palazzi stessi mettevano i loro stemmi. Angoli e colonne erano luoghi per eccellenza prima delle famiglie e poi della città. Poco conta che un raffinato studioso della storia dell'arte italiana (e non solo) come Cesare Brandi elogiava l’internità degli spazi pubblici leccesi. Poco conta tutto questo oggi, perché per una ragione che ben non conosciamo gli angoli dei palazzi storici sono diventati punti di accumulazione del peggio della città di Lecce: cassonetti, bidoni, spazzatura allo stato brado. Come mai i bidoni si concentrano sugli angoli e perché proprio a ridosso delle colonne storiche della città? Non sono osservazioni tipiche da studioso o amante della città storica queste. La questione è diversa e molto più semplice perché si pone nei termini del vivere civile, del naturale rispetto per lo spazio pubblico. Una cosa sembra altrettanto chiara: la colpa, se una sola ve ne è, non è solo di natura politica ma anche, a giudicare dalla spazzatura diffusa, dei singoli cittadini. La candidatura di lecce a capitale europea per il 2019 è servita a davvero poco evidentemente.
di Fabio A. Grasso
L’Afrikan Shop spagine
luoghi
della domenica n°57- 21 dicembre 2014 - anno 2 n.0
di Antonio Zoretti
M
aria libera la creatività! Un raffinato e grazioso presepe appare dalla vetrina del suo negozio, sito in via Palmieri di Lecce al civico 23, Afrikan Shop è inciso sull’insegna di legno, all’interno numerosi oggetti di pregevole fattura artigianale, il cui valore in alto sale favorendo l’apprezzamento di tutti, soprattutto in questo periodo fecondo.
Maria sigilla con amore e pazienza amanuense le confezioni, una volta acquistate dai clienti. Appare bellezza e decoro nel suo ambiente. I prodotti africani vanno dall’oggettistica alla bigiotteria, passando da dame, scacchiere, palline, che colorano l’ambiente. Batik, pitture su stoffa e ad olio ornano le stanze. Sciarpe, fazzoletti, foulard e borse appese abbelliscono il luogo. Collane, orecchini, bracciali son la gioia delle donne. Sculture grandi, medie, piccole, rappresentano la cultura africana con scene di vita quotidiana, attraverso simboli, maschere, animali, ritratti, mezzibusti e corpi interi di lavoranti. In un angolo cuscini, piattini e porta-ricordi addolciscono l’aria. Tutto appare lieto e ordinato. Vasi e portafiori non mancano nella seconda stanza, assieme a tanti altri oggetti belli. I prezzi diventano accessibili a tutti. E’ un punto d’incontro il negozio di Maria, la quale ti riceve con grazia e simpatia. Ella invita ad entrare, a frequentare le sue stanze; occasione, questa, da non perdere. Entrate da Maria, vi ospiterà volente e vi riempirà di stelle. Man mano che si guarda il suo interno un impeto vitale ci assale e il tempo trascorre piacevolmente. Non mancano virate d’entusiasmo, emozioni del momento. E’ la magia di respi-
rare l’aria del Sud del mondo, vestito di niente, semplicemente. Sembra quasi bandire elaborazioni sofistiche, false o ipocrite; concentrandosi invece sul lavoro puro e paziente di mani sapienti. Un’ Africa laboriosa appare, che ambisce a conservare e mantenere un artigianato altro, fuori dagli standard comuni e opprimenti del mercato globale imperante. Manifesta, dunque, sapori d’altri tempi e d’altri mondi, risaltando la tradizione che s’affaccia al presente. Fermatevi a guardare la vetrina di Maria. Il suo presepe è fatto con foglie di banano essiccate. E’ piccolo ma travolgente: un dolce dono per chi percorre la via. Delicato e leggero appare. Appare… Posto in alto, sempre in vetrina, ve n’è un altro, tutto africano, bello anch’esso, completamente diverso, nelle forme, nei colori, che comunque mantiene sempre la magica atmosfera natalizia. Ben venga il ‘diverso’ dunque. Entrate nel negozio di Maria, è così bello. Il Natale, si sa, rappresenta un momento importante nella nostra tradizione; come nelle nostre abitudini rientra l’acquisto dei regali. Ma forse son tutti orientati verso i soliti consumi e prodotti; dovrebbero invece veicolare di più i loro occhi, allargare le loro menti, osservare i diversi mondi. Ricevere le altri genti, coi loro usi, costumi e civiltà; e non aizzarle l’une contro le altre, come se fossimo sempre in guerra. Tempo e luogo ci darà ragione: nati non siamo per odiarci, ma per perseguire unione e benevolenza. Modestia e umiltà alla fine trionferanno. Il negozio di Maria s’inserisce in questo contesto. I doni possono essere pure diversi, ma restano comunque offerte rispettose d’un mondo d’altri che in cuor nostro unisce e ci appartiene. Buon Natale e buone feste.
Le opere di Mario Pellegrico alla Galleria A.r.c.a. di Lecce
di Giuliana Coppola
D
i che colore, di che colore erano gli occhi di Maria, la Vergine, della donna che, se non ci fosse stata lei, non ci sarebbe Natale e non ci sarebbe questo suono dolce di ciaramella che ascolto andando da piazza Sant’Oronzo a porta Rudiae, a Lecce? É la melodia ad avanzare; volteggia lieve e si fa silenzio; tacciono, quasi per un accordo strano, tutte le voci degli strumenti di tutti i musicisti di strada; silenzio, c’è zampogna e zampognaro e forse, chissà, lo troverò il colore degli occhi di Maria, mi apparirà d’un tratto ed io dirò è il suo, l’ho trovato perché ho bisogno di immergermi nel colore dei suoi occhi per dirle che mi dispiace, mi dispiace tanto che lei stia soffrendo ancora, che stia morendo, che stia piangendo, che stia in carcere e c’è ancora violenza e che non succeda più, come si fa, come si fa ad asciugare lacrime di Maria, la Vergine, che se non ci fosse stata lei, non ci sarebbe Natale? Il suono della ciaramella, il passo dello zampognaro, il silenzio… e, d’un tratto, lo sguardo; ha il colore del mare, della terra e del cielo, sguardo stupito su di me che non ho voglia di speranza; rimprovero allegro di sguardi che m’abbracciano, mi circondano, fanno intorno a me girotondo. Sguardi in volti giovani di ieri e di oggi, di sempre, di Maria, di Cisaria, di te, di noi, di voi, di donne forti che nel momento del pericolo sfidano il mondo e reggono nido di colombe, loro, donne pure e leggere nella loro eleganza senza
tempo. Ecco “…ad un tratto chiuse gli occhi e, quando li riaprì, erano quelli con cui si chiede a Dio dove conduce il suo disegno; la dolcezza della sera si era fatta sentimento e fra mezzo al tramonto sgusciava in lei il desiderio di essere una cosa più felice e nel piccolo spazio di questo desiderio era la sua gioventù” (buon Natale anche a te, Maria Corti). Nel piccolo spazio d’un desiderio è l’attimo di felicità che mi godo qui, in via Palmieri, numero 28, a Lecce, nel nido dell’ A.R.C.A., galleria che accoglie il bello e il poetico della vita; sono qui e gli sguardi delle icone di Mario Pellegrino, artista e poeta, ammiccano sorridenti verso di me, fanno intorno a me girotondo e il girotondo inizia da code di sirena, enorme, rassicurante, enigmatica come mito e silenzio. L’arte, solo l’arte, sa parlare dell’arte; è lei a raccontare se stessa; è lei a ricordare “Sì, ero viva, che strano…. Tutto quello che si fa… quando si è vivi. Che tremende speranze, ogni tanto” (ciao, Maria Corti). Maria la Vergine, Cesaria, Barbara, Irene, sguardi di donne di ieri, di oggi, di sempre; vivono nell’arte e intanto sono tra noi, grazie alle icone che rappresentano i loro volti, i loro sguardi; basta un suono di ciaramella, il colore e la forza dell’arte di Mario Pellegrino, un rigo di leggenda ed è Maria Corti… che tremende speranze, ogni tanto,a reggere il cammino della storia; ed è ancora vigilia di Natale.
arte
della domenica n°57- 21 dicembre 2014 - anno 2 n.0
Icone
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Augh!
spagine
“Quando verrà Natale, tutto il mondo cambierà” Antonello Venditti
F
ra pochi giorni, tutto il mondo festeggerà il Natale. E del resto, come sfuggire ad un evento così importante e sentito? Se si pensa che il Natale si è innestato su una festa pagana come quella del Natalis Solis Invicti o che la nascita di Cristo ha soppiantato quella del dio persiano Mitra, qualche dubbio viene, ma lasciamo ai dotti e ai razionalisti queste rilevazioni e per noi sia vivo il Natale con annessi presepe e albero. Tuttavia, perché il dì di festa sia davvero speciale, bisognerebbe adottare delle precauzioni e osservare alcune semplici ma importanti prescrizioni tese a evitare che giorno sì gaudioso tosto si trasformi in giorno funesto. Prendetelo come un personale prontuario di autodifesa, un vademecum, una posologia, una ricerca del giorno perfetto, una strategia di evitamento degli effetti collaterali del Natale. E dunque la prima regola da osservare sarebbe quella di tenere ben spenta la tv. E se si pensa che, in mancanza di argomenti di discussione, un silenzio tombale calerebbe sulla tavola, e non si può fare a meno dell’elettrodomestico amico, evitare almeno telegiornali e trasmissioni di cronaca nera. Sapere di guerre che ancora funestano tante parti del mondo o di omicidi-suicidi o sgozzamenti di casa nostra, certo non stuzzica l’appetito (come le pizzette catarì delle quali ringhiava, in un vecchio spot,un famelico Giorgio Bracardi). Sapere di gente scannata e buttata in qualche fosso non va molto d’accordo con quel piacevole languorino pre abbuffata natalizia. La seconda regola di questa personale precettistica è quella di evitare la Messa del Papa il quale, più che alzare la voce ( vox in deserto clamantis) di fronte alle guerre e ai crimini contro l’umanità, non può fare. Una volta era diverso. Nel Medioevo lo sceriffo del mondo non erano certo gli Stati Uniti, ma era lui, il successore di Pietro, il vicario di Dio in terra, il Pontefice Massimo. Quando
di Paolo Vincenti
un popolo minacciava la pace e la tranquillità di un altro, ancor peggio poi se attentava al Patrimonium Sancti Petri, il Papa mandava il suo santo esercito a sterminare i manigoldi e farne pasto per gli uccelli. Vecchia storia quella della divisione dei poteri temporale e spirituale e dei due soli in cielo: a che cosa portano due immensi termosifoni che ardono contemporaneamente se non all’effetto global warming ,con la conseguenza che ormai festeggiamo il Natale in t shirt e maniche di camicia? Dove è finito il bel freddo di una volta, quando a Natale si indossavano cappelli e cappotti e, se si era molto fortunati, al risveglio la mattina si poteva trovare anche la neve? Sembra il Pleistocene, ma si parla di venti, trenta anni fa. Altra cosa da evitare, nel giorno in cui nasce il divin bambino, sono gli sms di auguri sul telefonino, quelli stupidissimi e preconfezionati senza il nome del destinatario, trionfo di una banalità che, al confronto, i baci perugina sembrano “ La fenomenologia dello spirito” di Hegel. L’anno scorso ho mandato a quel paese coloro che me li avevano inviati. Quest’anno, per non cadere in tentazione, terrò accuratamente spento il telefonino. Se c’è ancora qualcosa da cui sottrarsi, è di andare a Messa la mattina del Natale. Chi è un fervente devoto può sempre farlo nel pomeriggio. Non solo, come tutti potrebbero immaginare, per non affogare nel vaniloquio della trita omelia del parroco, perché a quel polpettone indigesto si può resistere opponendogli altri più ludici pensieri o pregustando le leccornie che si mangeranno a pranzo. Ma soprattutto per scansare lo scambio di auguri all’uscita della messa e più in generale in tutti i luoghi di ritrovo sociale, quando adoranti parenti e amici mi verrebbero incontro per salutarvi e baciarvi. A che varrebbe ritrarvi e allungare la mano? Quelli, con forza raddoppiata dall’impeto buonista, vi stringerebbero a sé e via a slinguazzarvi le guance, mentre formulano logore espressioni propiziatorie. Ad eludere dunque tali bavose dimostrazioni di affetto, ed anche che qualcuno, vedendovi scappare a gambe levate, creda siate affetti dalla sindrome di Michael
l’osceno del villaggio
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Jackson, ossessionato dai microbi, evitate di uscire di casa, e per una mattina fingetevi agorafobici. Anche perché, a frequentare pubblici consessi, si corre un altro rischio, ovverosia quello che, di fronte a mendici ed extracomunitari imploranti carità, avendo consumato tutti gli spiccioli fra l’offertorio in chiesa e l’acquisto di stelle di natale, bonsai, oleandri e baobab contro ogni tipo di malattia, si passi per spilorci, non potendo più elargire alcuna elemosina. Qualcuno potrebbe credervi intolleranti e xenofobi e un bel giorno potreste vedervi recapitare a casa qualche simpatico omaggio, tipo una felpa della Lega Sud con la scritta: “più terroni meno negroni”. Ma continuando con questa posologia, se c’è una cosa da veramente tenere alla larga quel giorno sono i parenti serpenti. Degli amici mi hanno riferito di pranzi di Natale che si sono trasformati in liti furibonde per questioni di interesse, con il tavolo diventato un ring di pugilato. Perché è chiaro, succede soprattutto con i parenti con i quali non ci si frequenta molto, magari emigrati in Svizzera e tornati per le feste , che quella del pranzo di Natale o del cenone della vigilia diventi l’occasione per risolvere, o cercare di risolvere, vecchi problemi, per saldare conti rimasti in sospeso. Emergono così invidie, celati malumori, sopite gelosie, sottaciute delusioni, striscianti rammarichi per questioni di eredità, che, ad un nonnulla, possono deflagrare in violenti alterchi. E magari, un’offesa tira l’altra, saltano fuori i coltelli o le pistole e il Natale finisce in una carneficina, con il faccione esanime dello zio o del cognato spiaccicato sulla lasagna al forno. Largamente preferibile dunque festeggiare il giorno sacro fra parenti stretti, rimanendo nell’alveo, forse monotono ma rassicurante, della propria famiglia. E se proprio si potesse chieder tanto alla Provvidenza, ma questo decalogo si tramuta così in un libro dei sogni, allora sarebbe da scansare anche la moglie perché, è risaputo, nessuno più di una coniuge testarda, attaccabrighe e petulante, è capace di rovinare le feste e rendere nefasto un
giorno fasto. E lo diceva già Seneca “perché all’uomo saggio non convenga prender moglie”, confermando quanto espresso da Epicuro, e lo ribadiva, da scapolo impenitente, Alberto Sordi (“ e che, me metto n’estranea in casa?”). Se poi tutte queste pre condizioni dovessero realizzarsi e il giorno di Natale rivelarsi radioso, e la sera, confortati da tanta pace, si volesse uscire a far due passi, consiglio vivamente di rifuggire sagre paesane e presepi viventi. Basta col maniscalco, col ciabattino col berretto Nike, col ferraciucci che per noia gioca col telefonino, con la filatrice con le Hogan ai piedi (alla faccia della ricostruzione storica) e con le pittule che non sono mai gratis come ti dicono all’entrata (“ un’offertina, prego”)! Vieppiù,sconsiglio di frequentare i cinema. Cioè perché nel migliore dei casi ci si imbatte nel duecentocinquantesimo cine-panettone di quei guru della vecchia destra pecoreccia, ovvero ostricara e shampagnara , che sono i Vanzina, col loro portato di flatulenze, rutti, sbroccamenti e volgarità varie. Nel caso migliore, dicevo. Nel peggiore, invece, in qualche cinema d’essai, ci si può imbattere nel film straniero con sottotitoli, di quelli pluripremiati cinesi o coreani, che fanno tanto radical chic e piacciono a certi intellettuali di sinistra che ne riferiscono entusiasti ai colleghi d’Università (“ sai, ho visto “Lanterne scese” di Fan kul ‘ho, a Natale, non ho capito un cazzo ma è stato bellissimo!”). Insomma, fra tricche e ballacche, il mio manuale di sopravvivenza si avvia al termine. Con impegno e convinzione, parte di questi desiderata possono diventare cosa concreta, e si può riuscire a schivare ogni iattura. Nell’ambito poi dei desideri iperbolici, megagalattici, si potrebbe chiedere di essere teletrasportati per quel giorno in un’altra dimensione, in un platonico iperuranio, evitando noie e affanni, e saltando a piè pari direttamente al giorno dopo. Il risveglio sarebbe traumatico e duro l’atterraggio. Ma quello astrale, sarebbe certo il Natale più bello.
L’arte di Capoccia spagine
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Una retrospettiva al Castello Carlo V dedicata al maestro della cartapesta
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rosegue con successo al Castello di Carlo V di Lecce Retrospettiva, la mostra personale di Angelo Capoccia, a cura del nipote Angelo Capoccia Jr. La mostra propone un importante gruppo di circa 37 opere in cartapesta, in marmo, in terracotta, anche di grande formato, che ancora nei giorni nostri, testimoniano un guizzo di orgoglioso valore e originalità che Angelo Capoccia ha saputo dare all’arte della cartapesta. “La sua ‘Bottega’ - scrive don Franco Lupo, concludendo il suo testo nel catalogo della mostra - è stata un tempio della cartapesta leccese. Capoccia è un artista di una “leccesità” che esce dalle secche di un freddo campanilismo per attraversare luoghi e continenti. Con l’idea-forza che la cartapesta leccese è - e resta - un capitolo di sto-
ria che non muore. La Lecce di ieri, di oggi e di domani”. Vasta è la produzione di Angelo Capoccia, tanti premi e riconoscimenti in ogni parte del mondo. Le sue opere, oltre che in Italia, si trovano sparse in Giappone, Brasile, Australia, a Malta, a Tripoli, Francoforte e New York. Per quanto attiene la cartapesta, gli sono state assegnate 32 medaglie d’oro, 45 medaglie d’argento, 270 diplomi di partecipazione in varie mostre, 29 premi gli sono stati assegnati in varie città, a Roma, Firenze, Berlino, Parigi, Tripoli, Padova e Udine. La mostra personale di Angelo Capoccia si chiuderà il 6 gennaio 2015.
Lecce il teatro Paesiello, ieri sabato 20 dicembre, ha ospitato la presentazione di “La scuola di Sofia” musica di Raffaele Casarano parole e voce NanduPopu redattore del progetto il professore Gigi Mangia. La scuola di Sofia è quella delle aule nuove digitali del sapere dove gli studenti hanno più spazio, interagiscono e producono cultura. Le aule sono spaziose, luminose e i banchi comodi e disposti in cerchio per facilitare la partecipazione alla lezione. Zero manuali delle discipline: negli zaini personali lo smartphone per studiare e-book, musica, video,tweet. La scuola di Sofia è uno spazio digitale con tanti computer sui tavoli e postazioni per ipad, sulle pareti verniciate di allegri colori. Nella scuoladi Sofia a cambiare è il rapporto tra il libro e chi lo studia in quel processo dove l’informazione diventa sempre più immateriale. E ancora sale con stampanti 3d, simbolo di quella conoscenza definita del saper fare. La scuola di Sofia è accessibile e digitale: nuova anche nella “campanella” che diventa canzone, melodia alla felicità per lo studio. Raffaele Casarano e NanduPopu hanno saputo ascoltare e poi ri-
spondere a Sofia che al posto della campanella vuole una canzone: il primo artista con la musica il secondo con la voce e la poesia che non rinuncia al racconto della propria terra. La loro è una canzone molto ricca, il ritmo fluido per la gioia, le note chiare e intense nel suono molto adatte al tempo felice dei fanciulli quando la vita è sogno accompagnato dagli studi. La campanella di Raffaele Casarano e NanduPopu sembra ispirata alla poesia di Federico Garcia Lorca: “Canzone primaverile”
presentata ieri al teatro Paisiello
di Fabio A.Grasso
Una canzone per la scuola di Sofia da Raffaele Casarano e Nandu Popu
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Escono allegri i bambini dalla scuola, lanciando nell’aria tiepida d’aprile, tenere canzoni. Quanta allegria nel profondo silenzio della stradina! Un silenzio fatto a pezzi da risa d’argento nuovo. di Gigi Mangia
Trepuzzi Gospel Christmas spagine
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è uno tra gli stili più significativi tra quelli che hanno determinato lo sviluppo del jazz e della musica bandistica americana che dal jazz ha preso le mosse. A Trepuzzi, il festival Bande a Sud, conosciuto e apprezzato a livello nazionale e punto di riferimento per la conoscenza della cultura bandistica nel Salento,ha raccontato in questi anni quella particolare formazione musicale – la banda - che proprio nel nostro territorio ha conosciuto, in passato, un notevole sviluppo legato alle sue specifiche caratteristiche musicali, culturali e sociali. Trepuzzi Gospel Christmas è un’occasione per ascoltare una tradizione di canto sacro di origine diversa dalla nostra, ma strettamente legata allo sviluppo del jazz e alle sue successive declinazioni stilistiche e strumentali, sempre più presenti nelle sperimentazioni bandische di ultima generazione. Tre saranno i cori coinvolti nella rassegna: si tratta di alcune tra le più rappresentative esperienze del panorama pugliese dedicate a questo repertorio. I cori sono guidati da riconosciuti professionisti del jazz, che con amore, passione e spirito filologico hanno dato il Una tradizione come quella del Gospel di origine afro-americana, loro contributo alla conoscenza delle tecniche interpretative e dei da un lato aderisce perfettamente allo spirito del Natale, dall’altro repertori Gospel. i è aperto ieri, nella Chiesa Madre di Trepuzzi, ieri sabato 20 dicembre - con il Wanted Chorus guidato da Vincenzo Schettini - il “Trepuzzi Gospel Christmas” rassegna di cori Gospel tra i più rappresentativi del panorama pugliese, promossa dal Comune di Trepuzzi con la direzione artistica di Gioacchino Palma, i prossimi appuntamenti il 27 dicembre Chiesa Santa Famiglia, con il coro A.M. Family di Elisabetta Guido e il 30 dicembre negli spazi dell’Oratorio Santa Famiglia, con il Salento Sax Ensemble, diretto da Alessandro Trianni (un suggestivo esperimento di Ensemble di soli saxofoni che proporrà un omaggio ad Adolphe Sax, l’inventore di questo strumento - tra i più rappresentativi della modernità - in occasione del Bicentenario della sua nascita.) e il 5 gennaio 2015, Chiesa San Michele Arcangelo, con il Gospel Ensemble & Black on White Gospel Choir di Tyna Maria Casalini. Tutti i concerti si terranno alle 20.00, si consiglia puntualità!
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Fineterra
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Al Castello di Acaya e a San Francesco della Scarpa
oko Ono, Marina Abramovic, Hidetoshi Nagasawa, Costas Varotsos, Luigi Presicce, Antonio De Luca e dieci artisti del Museo dell’Altro e dell’Altrove Metropoliz di Roma sono i protagonisti della sezione arte contemporanea di Fineterra, rassegna promossa dalla Provincia di Lecce, attraverso l’Istituto di Culture Mediterranee, in collaborazione con Women for Expo e con la direzione artistica della giornalista Monica Maggioni. Fino a martedì 23 dicembre (l’apertura lo scorso mercoledì 17 dicembre) la rassegna ospita concerti, incontri, spettacoli teatrali sul tema Donne che nutrono il mondo. Il femminile nell’arte e nella cultura del Mediterraneo e l'inaugurazione di due mostre ospitate nelle sale del Castello di Acaya e del complesso di San Francesco della Scarpa a Lecce che saranno allestite sino al 30 gennaio. La mostra “Disastri della guerra e della pace" si è aperta ufficialmente venerdì 19 dicembre nel Castello di Acaya con un'inedita performance di Luigi Presicce "I Re del mondo sotto il cielo di terra", una prima assoluta che si ispira all'opera di Francisco Goya "El Gigante". Sabato 20 dicembre il Castello ha accolto “Custodire l'ombra”, performance per corpo luce ombra e ferro di Antonio De Luca. La mostra, curata da Pablo Rico e Anna Cirignola, include opere di Yoko Ono, Marina Abramovic, Hidetoshi Nagasawa, Costas Varotsos e sarà ospitata nelle sale dell'antico maniero (orari di apertura: 10,30/12,30 - 15,30/17,30 lunedi chiuso).
«Il cammino verso la pace è un piccolo sentiero che non apre orizzonti. I disastri della guerra sono, invece, evidenti sotto gli occhi di tutti: sofferenza, odio, violenza, penetrano nella pelle di ognuno di noi, anche se ne siamo lontani», sottolinea la curatrice Anna Cirignola. «Non c'è soluzione per la pace e si giustifica la guerra. Perché la pace è uno "stato dell'Essere", una condizione umana che si raggiunge attraverso una comune volontà, liberandosi da vecchie convenzioni. Yoko Ono affermava "Ciò che sogni da solo è solo un sogno, ma ciò che sogni insieme è realtà". È questo che esprime la sua opera "L'albero dei desideri", dove l'armonia della pietra leccese e la gentilezza di un albero di ulivo dialogano di un mondo dove la pace si conquista nell'essere pace. Anche "Barca-
Mandorla" 2014 opera del maestro Nagasawa con la sua bellezza e purezza», prosegue la curatrice, «lascia riflettere ciò che all'uomo sfugge, la sua parte più profonda, quel sentimento di pace e tranquillità che è in ognuno di noi. Artista senza veli sui Disastri della Guerra e della Pace è Marina Abramovic che nel video "Stromboli" è immobile, bagnata dalle onde del mare come in una perenne preghiera», conclude Anna Cirignola.
Nel complesso di San Francesco della Scarpa a Lecce da ieri, sabato 20 dicembre è allestita la mostra District 913 a cura di Giorgio De Finis con opere di Giovanni Albanese, Paolo Assenza, Danilo Bucchi, Paolo Buggiani, Pablo Echaurren, Carlo Gianferro, Veronica Montanino, Cristiano Petrucci, Maurizio Savini, Michele Welke e dello stesso De Finis. Realizzata in collaborazione con il Museo dell’Altro e dell’Altrove Metropoliz di Roma, la mostra è un percorso alla ricerca di quelle esperienze artistiche che hanno trattato o vissuto lo sradicamento dell'emigrazione trasformandolo nell'oggetto della loro creatività. (Orari d’apertura: 10/13 – 16/20, ingresso gratuito) Il Museo dell’Altro e dell’Altrove è il terzo museo di arte contemporanea di Roma. Nato nel 2012, al termine del cantiere etnografico, cinematografico e d’arte Space Metropoliz, il MAAM è un progetto di Giorgio de Finis, in collaborazione con i Blocchi Precari Metropolitani e gli abitanti di Metropoliz. Contro-dipositivo e opera situazionista e relazionale, il MAAM si pone in concorrenza con le grandi istituzioni museali italiane e della capitale (il MAXXI e il MACRO), facendo della sua perifericità, della sua totale assenza di fondi, della sua non asetticità (il MAAM è un museo abitato, “reale”) il suo punto di forza. Avviando un nuovo virtuoso rapporto tra arte e città e tra arte e vita, il Metropoliz si sta dotando, grazie al MAAM, di una pelle preziosa e di una collezione, che l’aiuteranno a proteggersi dalla minaccia sempre incombente dello sgombero coatto. Il MAAM si prefigge di trasformare l’intera fabbrica occupata in un super-oggetto e in un soggetto d’arte collettiva. Gli artisti sono invitati a dare il loro contributo gratuitamente, interagendo con lo spazio, con gli abitanti, e tra di loro. www.fineterra.it
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LecceFilmFest D Giovanni Lindo Ferretti in una fotografia di Angelo Trani
a venerdì 26 a lunedì 29 dicembre la 9° edizione del Lecce Film Fest animerà il Teatro Paisiello e le Officine Culturali Ergot di Lecce con quattro giornate di cinema, musica e incontri, dalle 10 del mattino sino a mezzanotte. In programma un concorso tra i migliori film europei indipendenti, incontri, dibattiti e, per gli appassionati di musica, un focus sul rock italiano indipendente. L’iniziativa è organizzata dal Cineclub Fiori di Fuoco e dall’Unione Italiana Circoli del Cinema con il patrocinio e il contributo del Mibact – Direzione Generale Cinema. Un concorso tra film europei animerà il Teatro Paisiello e le Officine Culturali Ergot di Lecce da venerdì 26 a lunedì 29 dicembre. Alla sua 9° edizione, e dopo otto anni ininterrotti di cinema italiano, il Festival del Cinema Invisibile apre le porte all’Europa e prende il nome di Lecce Film Fest per porre l’accento sulla sua nuova veste internazionale e per ribadire, al contempo, il forte legame con la sua città d’origine. Filmmakers provenienti da diciotto nazioni diverse, ciascuno con un proprio stile e una storia da raccontare, si confronteranno, senza banalità e censure, in oltre dieci ore di programmazione quotidiana. Le cinquanta opere, di diverso genere, tema e durata offriranno, nel loro insieme, un quadro quanto mai reale dei sentimenti, degli umori e delle istanze dell’intero continente. Ad arricchire il programma diversi incontri, dibattiti e proiezioni speciali.
Venerdi 26 il professore Cosimo Loré, noto criminologo e docente dell’Università di Siena e del Salento, terrà una singolare conferenza sul rapporto tra crimine e media. Da sabato 27 avrà inizio per gli appassionati di musica un focus sul rock emiliano indipendente con l’omaggio a Roberto Freak Antoni, il leader degli Skiantos recentemente scomparso, e la proiezione del documentario Freakbeat di Luca Pastore. Il giorno successivo si ripercorrerà la storia dei C.C.C.P./C.S.I. di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, svelando curiosità e retroscena di un gruppo ancora punto di riferimento per le nuove generazioni, con la proiezione di Fedele alla linea di Germano Maccioni. A fare da guida in questo percorso sonoro sarà Max Collini, testimone diretto del movimento musicale alternativo emiliano, da lui vissuto dapprima come fan delle band storiche e oggi da protagonista con gli Offlaga Disco Pax, dei quali è voce e autore dei testi. Altro ospite del Festival è il regista Francesco G. Raganato, recente vincitore del premio del pubblico al Festival di Roma con il documentario Looking for Kadija, che, nel pomeriggio di lunedì 29, terrà una lezione sul documentario e la fotografia d’autore. Tra i film fuori concorso, per la prima volta a Lecce, Class Enemy di Rok Bicek sul mondo della scuola, e Not Anymore: a Story of a Revolution, documento sul conflitto civile siriano realizzato dal regista, scrittore e soldato statunitense Matthew VanDyke.
Tutte le informazioni sono disponibili sul sito www.leccefilmfest.it
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Al Fondo Verri dal 27 dicembre 2014 al 6 gennaio 2015, l’inizio delle serate alle 19.30 una rassegna di parole e di suoni, “intorno” al pianoforte giunta alla XIV edizione e Mani e l’Ascolto ritorna, una consuetudine - dell'Associazione Culturale Fondo Verri Presidio del Libro di Lecce per le festività del Natale e del Capodanno. Chiudere ed aprire l’anno con una rassegna di parole e di suoni, “intorno” al pianoforte giunta alla quattordicesima edizione, una maratona di ascolti che avrà luogo e pubblico nello spazio di via Santa Maria del Paradiso a Lecce, dal 27 dicembre al 6 gennaio, l'inizio delle serate è previsto per le 19.30. A far da cornice Il segno che suona mostra delle opere grafiche del musicista Donatello Pisanello. 27 dicembre con Stefania Diedolo Max Vigneri e Giuseppe Josh Chiriatti In apertura di serata Stefania Diedolo che presenta “Bocca di Lupa”, pubblicato da Edizioni Brancato nella collana Inkwell. Una saga familiare lunga e dolorosa dove i misteri ed i segreti di tutta una vita verranno svelati grazie alla forza dell'amore ed alla consapevolezza che la realtà, guardata fissamente, è insopportabile. La musica della serata sarà quella del cantautore Max Vigneri accompagnato da Giuseppe Josh Chiriatti. 28 dicembre con Elio Coriano Stella Grande e Vito Aluisi Protagoniste della serata le vite, l’umiltà e l’orgoglio di un Salento ormai remoto ma non dimenticato. Elio Coriano presenta accompagnato dalla voce di Stella Grande e dal pianoforte di Vito Aluisi, “A nuda voce”. Canto per le tabacchine”, raccolta di versi che inaugura la collana di poesia di musicaos:ed..
29 dicembre con Maria Antonietta Ingrosso Raffaele Vasquez e Mauro Tre L’autrice ospite della serata è Maria Antonietta Ingrosso con “Quale poesia” raccolta di versi edita da Sensibili alle foglie. “Livida è la notte nell’inferno del mondo” recita il sottotitolo dell’opera che accoglie una poesia nata dall’indi-
gnazione che immediatamente spinge all’agire, alla lotta. La musica della serata è quella delle canzoni di Raffaele Vasquez reduce dal concorso “Mia Martini” dove si è aggiudicato il riconoscimento per l’originalità e l’eclettico pianismo di Mauro Tre. 30 dicembre, dalle 19.30: Luigi Saccomanno con Ilaria Pellegrino, Roberto Esposito Ad aprire la serata Ilaria Pellegrino che presenta Luigi Saccomanno autore di “Scrittori brutta razza” per Lupo editore. Un romanzo che affronta con una lingua originale il tema della scrittura dando anche uno sguardo irriverente alla triste realtà del mondo editoriale in cui come spesso accade molti scrittori sviliscono la loro opera e scendono a compromessi con il marketing per rincorrere il successo. A seguire il pianista Roberto Esposito presenta “The Decades” disco prodotto dall’etichetta Workin’ Label curata da Irene Scardia.
2 gennaio con Raffaele Costantini e Francesco Pasca Poetèmodì Il libro della serata è "Otto minuti" di Raffaele Costantini da Lupo editore che sarà presentato da Francesco Pasca. Un piccolo borgo, al confine tra il reale e l’immaginario. Le storie del quotidiano si nutrono di congetture sulla ‘Fine’ che, presentita come l’arrivo degli alieni o la seconda venuta di Cristo, non tarderà a divenire per tutti una certezza. Per la musica in scena “Le Poetèmodì” un mix di dolcezza e violenza, di linee melodiche fluttuanti e distorte, poesia e musica. I componenti sono Salvatore De Stradis, Vincenzo Diviggiano, Salvatore Carrasca, Antonio Cristiano Nigro e Marilina De Stradis.
3 gennaio Clara Romita e Emanuele Coluccia La diciannovenne cantautrice leccese Clara Romita con il suo Ep di esordio, pubblicato dall’etichetta pugliese Workin’ Label e distribuito da Ird, apre la serata. Cinque canzoni originali scritte da Clara di getto nel 2013. A seguire Emanuele Coluccia presenta “Volo” cd in piano solo edito da Workin’ Label. I brani che compongono l’opera sono frutto di una sessione compositiva estemporanea avvenuta nel 2006.
Dal Fondo Verri l’edizione con Spagine de La cultura dei Tao
4 gennaio, Pierpaolo Lala in “Non sono un cantautore” IV edizione Dopo il grande insuccesso delle prime tre edizioni torna anche quest'anno "Non sono un cantautore" inutile concerto che vedrà sul palco del Fondo Verri di Lecce un cantante e chitarrista fallito esibirsi con alcuni musicisti bravi (non tutti ovviamente). Pierpaolo Lala, giornalista con la sordina, sarà affiancato da alcuni ospiti prestigiosi come Marcello Zappatore, Giuseppe Pezzulla, Luigi Bruno, Mauro Tre, Alessandra Caiulo. A grande richiesta tornerà sul palco Daniele De Luca con il suo spazio dedicato alla poesia della musica italiana. Tra gli ospiti anche Andrea Baccassino.
5 gennaio Antonello Giurgola, Ebani del Salento Il libro che apre la serata è Negroamaro di Antonello Giurgola per le Edizioni Città Futura. L’amicizia, l’adolescenza, il senso di colpa, la fuga nell’oblio dell’alcol. La storia di due ragazzi complici di un omicidio, sentito come giusta vendetta nei confronti di un depravato e rivolta contro la società che non solo accetta, ma premia i corrotti… La musica è quella degli “Ebani del Salento, un quartetto di clarinetti Rocco Causo composto da Rocco Causo, Prabul Giacomo Pascali, Luigi Caputo, Davide Notaro.
6 gennaio Rocco Boccadamo, Gabriele Leopizzi Giorgia Santoro in DéJà VU In apertura di serata letture da “L’asilo di donna Emma. Lettere ai giornali e appunti di viaggi” di Rocco Boccadamo. A seguire poesie di Gabriele Leopizzi tratte da “Fari e Meridiani” edito da Morea. La musica quella di Giorgia Santoro in DéJà VU è un viaggio in una dimensione in cui sogno e realtà, ricordo e immaginazione si incontrano sino a con-fondersi. Gli strumenti ne ripercorrono il linguaggio psico-emotivo: durante l’improvvisazione, filo conduttore di tutto il progetto, riaffiorano antichi canti dal fascino ipnotico che si con-fondono con suoni contemporanei. E’ come se la Musica raccontasse l’incontro inconsapevole di epoche lontane accomunate dal linguaggio dei suoni.
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Nel nome del doppio
i è inaugurata venerdì 19 dicembre presso ART and ARS Gallery di Galatina, DOUBLE (Part II ). Compositi ed eterogenei sono i modi di intendere la duplicità. Da Pontormo a Magritte, da Delvaux a Paolini, da Arcimboldi a Escher, fino a Warhol (per restare nelle arti figurative): molti sono gli artisti sedotti dal fascino del molteplice, dall’ambivalenza visiva o concettuale. Baluardo o chimera, protezione o inganno, specularità o contrapposizione, simmetria o complementarietà, il concetto del doppio racchiude in sé tematiche antipodali, trovando nella sua innata ambiguità l’origine di ogni sua fortuna iconografica. In un allestimento condiviso, otto artisti provano a raccontarlo, offrendone interpretazioni eteroclite, spesso inedite. L’incipit della mostra è stato segnato da Massimiliano Manieri che, nella serata d’inaugurazione, ha presentato la “Panic room”, perspicace attualizzazione della nota performance di Josef Beuys “I like America and America likes me” del 1974. Il performer salentino inscena un’aspra critica agli odierni sistemi informativi, volti ad innescare il panico, il più delle volte immotivatamente. L’artista si offre al pubblico chiuso in un ambiente asettico, in compagnia di un gatto; polemizza con la società odierna costantemente in preda a psicosi generate ad hoc. Nella performance di Manieri il doppio risiede nella ricerca di molteplici opposizioni concettuali, dagli atavici confronti bene-male e uomo-natura, alla contrapposizione contemporanea tra soggetto e informazione, raziocinio individuale e persuasione mediatica. Alla pura visività afferisce, invece, l’originale interpretazione di Jolanda Spagno, che da tempo ha eletto il doppio a tema cardine della sua ricerca. Legata ad una figurazione esplicita, l’artista mantiene la sua ricerca in un equilibrio perfetto tra bel-
arte
della domenica n°57- 21 dicembre 2014 - anno 2 n.0
lezza formale e approccio criptico della realtà. Dal silenzio del supporto emerge l’immagine, sempre ambigua, più ritrovata che creata. Caduta ogni elucubrazione mentale il doppio si materializza nell’improvvisato duo Paolo Loschi - Fabrizio Fontana. Due artisti differenti per formazione e provenienza ma complementari nelle ricerche, entrambi animati da un fare sardonico e demistificatorio. Risultati di un incondizionato rapporto dialogico, le opere sacrificano l’autorialità individuale in favore di una creazione condivisa e partecipata. Nelle iconografie e nei procedimenti espressivi appare evidente la finalità ludica. Giocando a raccontare eventi emotivi e visivi attraverso un uso libero del colore e della composizione, il duo riallaccia i fili con la vocazione narrativa dell’arte, sospendendola però in una dimensione ironicamente rivisitata della realtà. Il dualismo corpo- mente è, invece, alla base dei lavori di Nofeiss, pseudonimo artistico di per sé significativo, volto all’annullamento dell’identità ma non della soggettività. Nel suo lavoro l’operare artistico coincide con il segno, che si fa componente predominante di un linguaggio istintivo e gestuale. L’artista si libera da ogni implicazione per dedicarsi all’espressione pura, alle ricerche sugli accostamenti e sulle variazioni cromatiche. Nel suo lavoro il gesto vigoroso è impresso su un supporto vergine, facendosi testimone di una sensibilità incorrotta e di un autentico slancio vitale. Il doppio si fa multiplo nelle fotografie di Massimo Pastore. Impegnato nello scandaglio individuale, l’artista si concentra sull’uomo e sulle sue molteplici espressioni e movenze. La figura umana, vestita o denudata, riprodotta eppur isolata nel rapporto tra postura fisica e alterazione psicologica, è esplorata in ogni sua attitudine sociale, dalla solitudine al ricercato dialogo. Ne emerge un’indagine a largo spettro sul proprio io,
inteso però in senso collettivo, funzionale al dialogo tra luoghi distanti ed eterogenei. Al mezzo fotografico si rivolge anche Sara De Carlo che, affiancando sfocature e parti definite, trasferisce il concetto del doppio sul piano della percezione pura. L’artista tenta di catturare la continua mutevolezza della realtà, bloccando istanti di vita in impreviste combinazioni di luce e colore. Non le interessano le ricerche estetiche o le trovate pubblicitarie: per sua stessa ammissione, ciò che la colpisce è sempre degno di essere ritratto. Nessun indugio chiaroscurale turba la limpidezza delle sue immagini, che appaiono imbevute di luce, esaltate nelle componenti cromatiche e studiate dal punto di vista compositivo. Riflettendo sui concetti di alterità e sacrificio, Antonio Strafella propone una propria visione del doppio, trovato nel confronto tra sacro e profano, santità e fantascienza, antiche iconografie e prototipi contemporanei. Ciascuna opera è corredata di un QR code, chiave d’accesso a una dimensione sinestetica, in cui all’immagine fotografica si affiancano un video del supereroe e un riferimento audio all’icona religiosa. Santi e supereroi sono assimilati e confusi, fino ad apparire facce della stessa medaglia: i primi esseri reali assunti alla finzione collettiva, i secondi finzione divenuta realtà. *** Attingendo ad un cross-over di esperienze, la mostra offre una visione sincretica del doppio, indagato ben oltre il luogo comune e l’identità statutaria. Una rassegna polimorfica nelle tecniche e nei risultati, capace di sondare, fuor da stereotipi e facili interpretazioni, un tema affascinante e complesso, certamente non nuovo in sede espositiva ma quasi sempre ricondotto alla mera duplicazione di figure e oggetti. Quello che si propone a Galatina è dunque un modo nuovo, di fatto unico, di pensare al doppio.