spagine della domenica n°58 - 4 gennaio 2015 - anno 3 n.0
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri
I spagine
l messaggio di fine anno, l’ultimo, del Presidente Napolitano è stato un vero testamento. Il mio successore deve muoversi nella continuità. Lo ha detto esplicitamente, quando si è rivolto al destinatario del messaggio: a tutti i cittadini e al mio successore. E che lui voglia avere una parte nella scelta del nuovo presidente lo ha detto altrettanto esplicitamente: mi dimetto ma non mi disinteresso. Napolitano è di quegli uomini che vogliono le due opportunità estreme della vita: non piegarsi e non spezzarsi. Nel suo caso piegarsi vuol dire ammettere di essersi comportato oltre il seminato costituzionale, per quanto mai formalmente violato. Spezzarsi, non si è spezzato. Ha seminato, vuole raccogliere. Napolitano ha detto che è importante che il Paese abbia un governo. Non c’è chi non lo sottoscriva. Ed è quanto lui ha assicurato con la scelta di Renzi e la sistematica sua conseguente difesa: non c’era altro da fare. Tanto sistematica e ripetuta che a Renzi non fa fare una bella figura. Che si senta il padre di quanto il governo Renzi ha fatto lo prova l’altra sua affermazione: è innegabile che è stata avviata la riforma istituzionale, come io avevo auspicato. Vanità di uomo, quella di Napolitano, di mettere la firma ad una sua propria opera perché a nessuno venga in mente di metterne in discussione la paternità? Pensiamo quello che vogliamo di quest’ultimo mohicano, certi risultati sono indiscutibili come quelli di certe proprietà aritmetiche. Certo, un governo al Paese è importante, specialmente oggi che facciamo parte di un più vasto consesso, a cui dobbiamo dare conto. Ma Napolitano non ha assicurato un governo qualunque, bensì un governo della sua parte politica, sia di quella di oggi, del Pd, e sia di quella di ieri, essendo stato ai “bei” tempi del Pci un migliorista; dopo aver tentato con Monti un governo del Presidente “peggiorista”. Per realizzare questo, ha impedito che il popolo italiano andasse a votare già alla fine del 2011, chiamando Mario Monti e la sua squadra. Mai governo nella storia della Repubblica si è dimostrato più improvvisato, pasticcione e velleitario. Si può essere d’accordo o meno con Napolitano, ma tanto è accaduto. Su questo non si finirà mai di discutere e di fare buon sangue o cattivo sangue. E’ certo, comunque, che Napolitano si è rivelato uomo di polso nel momento di maggiore crisi del Paese. Da osservatori si plaude. Il resto del suo lungo messaggio è stato di riempimento. Qualcosa che ha detto poteva non dirla, qualcosa che non ha detto poteva
Il testamento di Napolitano
dirla. Non è un gioco di parole. Detto e non detto rispondono ad un preciso messaggio. Sul detto è stato abbastanza vago. Forse qualche distinzione tra corrotti e oppositori del suo operato sarebbe stata opportuna, perché gli oppositori potranno essere duri, ingiusti e strumentalizzanti, ma è il compito che una democrazia garantisce loro. Almeno tre cose le poteva dire, tutte molto importanti. E’ stato, senza dubbio, omissivo sulla questione dei due Marò prigionieri degli indiani, vicenda mortificante e avvilente; sulla questione dell’Expo, che caratterizzerà il 2015 e su cui l’Italia si gioca il suo prestigio internazionale; sul centenario della Grande Guerra, la prima grande prova dell’Italia unita. Ma il capolavoro in negativo delle omissioni lo ha fatto tacendo sul centenario della Grande Guerra. Essa costò all’Italia più di 600.000 morti, 600.000 prigionieri e dispersi, circa un milione di feriti, molti dei quali mutilati e invalidi permanenti. Una guerra voluta dal popolo italiano, se ha un senso parlare di rappresentanze politiche, economiche, culturali. Dire che il popolo italiano non voleva la guerra, facendo unico riferimento a tutte le persone che vi parteciparono e ai loro famigliari e non anche e soprattutto a chi le rappresentava a tutti i livelli di rappresentanza, è uno sproposito, che nemmeno l’antibellicismo più assoluto può giustificare. Nessuno degli altri paesi belligeranti aveva sottoposto
di Gigi Montonato
il quesito referendario, guerra sì o guerra no, al suo popolo. Le maggioranze aritmetiche non hanno senso in determinate circostanze politiche. Mettiamola così: la Grande Guerra fu opera di quel Dio della Storia che fa da pendant al Dio della Bibbia; e le opere di Dio non si discutono, si onorano, si rispettano, si spiegano; non si condannano mai. E’ su queste grandi tragedie collettive che si costruisce l’identità nazionale, l’orgoglio dell’appartenenza, la solidarietà di popolo. Cose di cui sono privi gli italiani, ragione per la quale ce ne lamentiamo sempre senza avere il coraggio di spiegarcelo fino in fondo. Napolitano si prodigò tanto nel 2011 per onorare i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia; tanto che, nell’indifferenza diffusa di tanti altri soggetti, sembrò quasi l’impegno suo particolarmente esagerato. Ma bisogna rendergli merito, perché le occasioni non si presentano mai due volte. E bene ha fatto a ricordarlo anche nel messaggio suo ultimo. Per il centenario della Grande Guerra ha forse temuto di essere accusato di passare per un interventista ex post, per un fautore dell’«inutile strage», su cui tanto ignominiosamente si insiste, un indiretto fautore di quanto accadde nel dopoguerra. Nessuno – diceva Machiavelli – si è mai pentito di aver taciuto. Ma nessuno può essere più offeso di chi vede, col silenzio degli altri, misconoscere e vanificare l’estremo suo sacrificio.
Diario politico
della domenica n°58 - 4 gennaio 2015 - anno 3 n.0
N
Gallipoli, 31 dicembre 2014
on si vede bene che col cuore dice il piccolo principe. Ma a volte è necessario vedere con gli occhi. Sono scampati alla guerra. Scampati alla morte in mare, certa. Sono arrivati. Mare nostrum et finesterrae. Lo sbarco dei quasi mille. Fuga dalla guerra. Scuola elementare di Gallipoli. Carabinieri e polizia, protezione civile e interpreti si dividono i compiti. Pochissime parole. Sulle gradinate cataste di vestiti e coperte ammucchiati in poche ore. Questo è (anche) l’uomo. Solidarietà tempestiva, l’ultimo giorno dell’anno. Come quella degli uomini che hanno preso il comando della nave, salvando così quasi mille uomini. Ancora arrivano, portano vestiti, scarpe per bambini, plaid, coperte, cibo. Mentre i pullman aspettano di riempirsi per portarli ad altra destinazione, Otranto Bari Milano Venezia. Hanno occhi grandi, i due bimbi sotto il porticato coi loro genitori, hanno occhi di cielo grigio e mare aperto d’inverno, pupille enormi come il dolore che hanno attraversato e attraversano. Immagino che i nonni non ce l’hanno fatta a partire e sono rimasti lì, soli, figli e nipoti scappati. La madre è triste, accenna uno stanco sorriso, i figli hanno i suoi occhi. Avranno lasciato in Siria il resto della famiglia. Immaginiamo cosa sia una bomba. Immaginiamo cosa sia una guerra. Cosa sia separarsi forse per sempre da qualche membro della famiglia, sapere qualcuno dei propri cari in pericolo. Eppure dover sopravvivere per amore di vite in germoglio. Sono vestiti leggeri e sono i giorni più freddi degli ultimi decenni. Si infilano nel pullman. I bimbi, oltre il vetro, accennano un nascondino di fortuna, complice la tendina del bus. Ebbà! Mandano baci al volo, alcuni adulti giungono le mani in segno di ringraziamento e preghiera, altri guardano fissi
“d illustrare Ballata Naufraga, opera di Carlo Michele Schirinzi
negli occhi, il palmo sul cuore. Salutano, altri alzano il pollice quasi a tranquillizzare e ancora ringraziare chi è fuori dal pullman e tra qualche minuto andrà a festeggiare l’ultimo dell’anno. Un poliziotto dice che un uomo non sa dove sia sua moglie, l’hanno ricoverata e rischia di partire senza di lei. Cerco di cancellare immediatamente queste parole, ma chi è con me conferma la loro verità. Voglio convincermi che non sia vero. Eppure io non sono in quel dolore. Sono più in là, molto più in là del suo centro. Parte il primo pullman, dentro ci sono i bambini occhi di cielo grigio e mare aperto d’inverno. Ci salutiamo fino a che non scompaiono. A 10 metri da qui, i carri allegorici per l’ultimo giorno dell’anno, mani e estro gallipolini, musica altissima. Li faranno scoppiare a mezzanotte. Mentre alcuni ragazzi salgono sul secondo pullman, uno di loro accenna passi di danza, strappa un sorriso ai compagni. Mia nonna diceva sempre che una veglia funebre può strappare risate come un matrimonio risse. La forza della disperazione e della vita che vuole continuare e continua. 31 dicembre 2014. Sul terzo pullman c’è una scritta: La vita è un viaggio, partire è vivere due volte. Sì, e poi “Arbeit Macht Frei”. I viaggi, come la legge, non sono uguali per tutti. Buon anno, bimbi e mamme siriani. Buon anno padri e ragazzi. Che i venti, ovunque andiate, vi siano favorevoli. E buon anno a chi ha permesso lo sbarco dei quasi mille, a chi ha distribuito cibo, ha sfamato, dissetato. A chi ha passato un ultimo dell’anno senza tacchi scollature pellicce, in una scuola elementare aperta l’ultimo dell’anno. Una scuola elementare dove si è celebrata la lezione della vita, dell’essere UMANI.
di Ilaria Seclì
spagine
L’orrore su un panno di onde
D
omenica 28 dicembre, al fine d’adempiere al precetto festivo, mi sono, al solito, recato a Castro. A distanza d’un giorno, in questo momento, mi viene in mente che, nell'occasione, stranamente, non mi sono fermato all’altezza del belvedere che si schiude dirimpetto al castello aragonese, in modo da rivolgere lo sguardo da quella postazione privilegiata, come immancabilmente faccio, verso la distesa del Canale d'Otranto, nitidamente delimitato adoriente,specie quando l’aria è tersa, dai rilievi del Paese delle Aquile. Così è successo, forse, giacché pioveva, era grigio, insomma le condizioni atmosferiche non m’ispiravano molto all’approccio visivo ed emotivo con lo spettacolo dell’amata e familiare superficie d'acqua, tante volte, sia pure sottocosta, solcata alle manovre della mia barchetta a vela e, in più, ad ogni occasione, cantata, descritta, vagheggiata. Chi, mai, quand’anche estimatore innamorato del panno d’onde in questione, avrebbe potuto immaginare la tragedia e le difficoltà che,nelle medesime ore, si stavano materializzando proprio lì, a poche decine di miglia di distanza, con un traghetto in fiamme traballante su un mare molto mossoe, soprattutto, recante a bordo centinaia di persone, come sequestrate al freddo e sotto l’insidia d’immani fiamme che divampavano nel ventre della nave, incontenibili sino al punto di rendere incandescenti i pavimenti dei vari ponti, oltre che d’emanare cascate a salire di fumi maleodoranti. Certo, disgraziee/o incidenti del genere si possono verificare, andare per mare comportadi per sé, potenzialmente, un rischio, la forza e l'imprevedibilità degli elementi naturali non sono un'invenzione del cronista,bensì realtà esistentida sempre. Ad ogni modo, nella specifica circostanza,a colpire lasciando trasudare terrore e sgomento, non è il fatto a sé stante, sebbene abbia pur implicato il consumo di alcune vite umane. Ciò che si configura alla stregua d’un pugno nell'occhio, un calvario, un dramma nel dramma, è stato invece registrato sul fronte degli interventi - tra precarietà, contrordini, esitazioni, contraddizioni-imme-
di Rocco Boccadamo
diatamente dopo l’ordine del comandare di evacuare la nave. E, non ci si trovava in mezzo a un oceano sperduto senza confini, ma in un ridotto specchio di mare, addirittura in un punto da cui è dato di scorgere i profili della terraferma, su unasponda e sull’altra del Canale. Malgrado tale e tanta prossimità e, quindi, i tempi oggettivamente non estesinecessari perché i soccorritori si portasserosul luogo,l’odissea di quei passeggeri,più, ovviamente, i membri dell'equipaggio, intrappolati sul ponte alla sommità della nave, con lo scafo ondeggiante tra i miasmi del fumo, sotto il freddo(si è alla fine di dicembre, i Monti Balcani non lontani dal sito del naufragio), le ore sono andate passando a iosa, i primi fortunati giunti ad essere sbarcati hanno fatto cenno al “rischio di fare la fine del topo in trappola”, all’assenza assoluta di soccorsi per lungo tempo, ad un equipaggio che non capiva nulla, ad un clima di disorganizzazione generale. E’ proprio vero che, come è giusto e ordinario che avvenga in un paese moderno, l’Italia dispone di mezzi all'avanguardia e sufficienti per ogni evenienza, guardacoste, aerei, elicotteri, navi militari, sistemi di soccorso, apparati idonei a far fronte alle emergenze, assoluta sintonia fra le forze chiamate a intervenire? E’ vero o, al contrario, ci s’illude che così sia, mentre, in realtà, la musica è ben diversa e, però, bisogna pur sempre e comunque cercare di conferire attendibilità al nostro proclamato ruolo e standing di paese civile e ricco? Tutt’altro che domande, dubbi, interrogativi di spessore peregrino in tal senso e sull'argomento, atteso che, fra la stesura delle presenti note, le quali sgorgano dall'animo del comune osservatore di strada,e il primo insorgere dell’incendio sul traghetto, sono trascorse oltre trenta ore e, ciononostante, a quanto s’apprende in tempo reale, sulla nave c’è ancora un cospicuo numero di persone, anche se costituenti l’equipaggio, in attesa del salvataggio e del loro trasporto a terra. Si è parlato di mare mosso, vento forte, condizioni oggettivamente proibitive e, non di meno, occorre rimarcare che c'era un pericolo in consumazione a cielo aperto, a un palmo di mano dalla terra sicura e dalle risorse disponibili.
Contemporanea
della domenica n°58 - 4 gennaio 2015 - anno 3 n.0
A quest'ultimo riguardo, mi viene di ricordare, mutuando tale particolare da una recentee purtroppo assai più grave tragedia sul mare, che, ad esempio, la “Costa Concordia” aveva in dotazione ventisei scialuppe di salvataggio, ciascuna capace di imbarcaree portare a salvamento centocinquanta persone. Ora, come non domandarsi se, domenica 28 dicembre, nessun‘altra “Costa Concordia” o giù di lì si trovasse nell’ambito del Canale d'Otranto, del vicino Ionio o dei restanti tratti dell'Adriatico, per un intervento maggiormente incisivo e un più veloce prelievo degli innocenti, rannicchiati sulla terrazza del traghetto, a soffrire così a lungo il freddo e la paura? E’ comprensibile e giustificabile che ci si sia limitati a togliere dall’ambascia, dal patimento e dal pericolo i malcapitati passeggeri con prelievi di una persona per volta, a mezzo dell’elicottero fermo in verticale sul traghetto? Non abbiamo, forse, assistito, in un’interminabile serie e per lunghi anni, ad operazioni di soccorso e di salvataggio, nel più vasto Canale di Sicilia anche in condizioni meteo marine avverse? Come mai, in questo caso, l’insieme ha dato l'impressione di un limite, una precarietà nella situazione, con cambiamenti di programma sui posti sicuri dove far dirigere il mezzo incidentato? A chi scrive, ha fatto male anche un piccolo particolare, ossia a dire la comunicazione del numero, ad una certa ora di ieri sera, dei passeggeri ancora in attesa sul traghetto: una prima fonte parlava di centocinquanta persone, una seconda, di trecento otto: e dire che si trattava di esponenti ed organismi facenti parte della medesima amministrazione statale impegnata nell'intervento a beneficio dell'incidente. A confessare un'altra verità, non è minimamente piaciuto il consueto cinguettio del nostro Capo del governo “L’Italia è orgogliosa della vostra tenacia. Sarà una lunga notte: intanto, grazie!“. Da lui, col suo forsennato dinamismo, decisionismo, desiderio di essere sempre e in ogni dove protagonista, di apparire, ci si sarebbe aspettato, sarebbe stato logico e naturale, non un componimento verbale sul web, ma un salto immediato, un volo materiale e concreto da Roma o dalla natia Toscana verso il Canale d'Otranto, dove portarsi
fisicamente,dentro un elicottero, a contatto con i malcapitati: “Coraggio, ci sono io qui, sarete condotti presto e tutti sulla terraferma, in salvo e presto scorderete la vostra disavventura”. Così succede il più delle volte in Italia, siamo bravissimi, si parla, si parla, mentre i fatti concreti latitano e/o sembrano affidati e rimessi amera disordinata improvvisazione.
*** Domenica 28 dicembre, ricorreva la festa liturgica dei SS. Innocenti, martiri per opera d'un lontanissimo tiranno. Guarda la coincidenza e la concomitanza, come drammatico episodio di cronaca d’attualità, si è inserita la grave vicenda, per fortuna non devastante strage, di centinaia d’innocenti pedoni del mare. Domenica 28 dicembre, si celebrava anche la festa della Sacra Famiglia, famiglia intesa non soltanto come composizione di persone all'interno di singole mura domestiche, ma nel senso allargato di paese, di società in genere, in ogni caso un consesso che sia fondato soprattutto sul principio della mutualità e della solidarietà, a prioritario vantaggio deideboli, di chi soffre o versain condizioni di pericolo. In conclusione di queste righe, desidero estrinsecare una mia personale riflessione, suscitata, da un lato, dalla partecipazione, in veste di credente, al precetto richiamato all’inizio e, dall’altro, dall’episodiodel traghetto in pericolo, ancora sino a questo momento, nel canale d'Otranto: con l'auspicio, ovviamente, che la disgrazia rientri rapidamente e definitivamentee, soprattutto, senza ulteriore aggravio in termini di perdita di vite umane Penso, anzi sono convinto, che, solamente se sapremo riconoscere che, dall’incendio e dal naufragio del “Norman Atlantic”, usciamo idealmente sconfitti un po’ tutti,a partire da domani riusciremo a invertire o almeno a modificare la rotta dei nostri comportamenti, aprendola al godimento di stagionid’autentica crescita, nel modo d’essere uomini e di relazionarci fra noi.
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spagine
econdo il parere di alcuni bioeticisti cattolici, “la secolarizzazione si sta sgretolando, anzi si è ormai già sgretolata sotto i nostri occhi”. Le società contemporanee sono in crisi, sono attraversate da movimenti complessi, ma perché non sperare di preservare gli innegabili aspetti positivi? Siamo tutti interessati da scombussolamenti di varia natura e, probabilmente, non giova definire domini di netta non comunicazione ed esclusione. Cattolici e laici possono dialogare proficuamente anche in una società secolarizzata, superando le incomprensioni, oltrepassando gli improduttivi inasprimenti delle ideologie. È senz’altro un errore voler confinare la religione solo nell’intimo dei sentimenti personali o nel chiuso delle sacrestie, come se fosse un pericolo vederla circolare fra la gente. Le religioni devono avere anche una certa valenza pubblica, a condizione però che esse non siano discriminanti nelle scelte politiche dello Stato laico. Alcuni studiosi cattolici ritengono che la secolarizzazione stia portando “allo sfaldamento dell’individualismo libertario, del naturalismo darwiniano”. Forse, non è propriamente così. La cultura libertaria con la sua morale morbida e comprensiva segue dinamiche aperte e sostenibili, cerca di coinvolgere i cittadini con la sua flessibile visione del mondo. Non è un caso che sulle questioni eticamente sensibili la negoziabilità dei principi sia più convincente della rigidità dei valori “non negoziabili”. Darwin, fino ad oggi, ci ha trasmesso risultanze più efficaci rispetto all’inverosimile teoria creazionista. Non è uno scandalo asserire che siamo figli d’una scimmia antropomorfa, e non discendenti dell’angelo decaduto. L’evoluzionismo, come spiegazione dei processi iscritti nel grande libro della Natura, è supportato tra l’altro da evidenze e prove biochimiche, genetiche, paleontologiche. Ciò detto, anche chi non crede può gettare uno sguardo sul composito universo religioso con occhi di meraviglia e rispetto. Che i cristiani annuncino Cristo come Figlio dell’uomo, non può che scuotere tutti e scaldare il cuore degli uomini di buona volontà. Epperò, più che allo sgretolamento della secolarizzazione, da anni ormai assistiamo allo sfasciamento della politica attiva, che dimentica la sua vocazione e il suo agire laico e liberale, per aderire opportunisticamente a preconfezionati modelli confessionali. Ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi, esponenti del Pdl, dell’Udc e del Pd, s’incontravano in convegni dal titolo evocativo “Pri-
Meno Stato più Società
Contemporanea
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di Marcello Buttazzo
mum vivere”, al fine di avviare un “confronto moderato” sulle tematiche eticamente sensibili. Tanto moderati che si decideva, ovviamente, di seguire unicamente e pedissequamente gli insegnamenti dell’etica tradizionale. Ma ci chiediamo: in uno Stato laico e liberale, è lecito basarsi esclusivamente sui presupposti d’un unico modello morale, assottigliando e mortificando di fatto le prerogative dell’etica pubblica, come se l’adesione alle diverse morali fosse un limite, e non invece un arricchimento? Il sociologo Luigi Manconi ha sempre attaccato, in passato, le pretese e le esagerazioni bioetiche di certi berlusconiani e dell’inossidabile e trasversale “partito della vita”. Il presente, ahimè, non è roseo, con Matteo Renzi che non sa prendere alcuna decisione biopolitica degna d’un vero statista. Paghiamo recenti retaggi. Usciamo da obnubilanti anni di oscurantismo. I partiti, anni fa, in modo consociativo obbedivano ai dettami dell’etica confessionale. Ma può essere veramente “riformista” un proponimento incentrato unicamente sul rispetto dei valori cosiddetti “non negoziabili”, da difendere strenuamente e da perpetrare addirittura in specifiche normative? Ancora oggi, l’ex socialista Sacconi ritiene addirittura che si debba diventare i paladini d’una cosiddetta “antropologia positiva”. Ma che antropologia è quella che vorrebbe obbligare i cittadini a soggiacere a certe norme sul “fine vita”, senza avere la possibilità di poter decidere liberamente sull’invasività o meno delle terapie mediche? Che registro è quello che sacralizza l’em-
brione umano fino a stabilire sostanzialmente che sia preferibile buttarlo nei lavandini o nei water dei laboratori, piuttosto che utilizzarlo per la ricerca scientifica? Che sistema è quello che, invece di costruire ponti fra gli uomini, innalza barrire ghettizzanti, incapace perfino di riconoscere giuridicamente le coppie di fatto omosessuali? Si può continuare a rincorrere fantasmi, sostenendo che l’aborto farmacologico sia un rischio capitale per la donna? Per anni le Roccella e i Gasparri hanno sfoderato una sgangherata cultura bioetica. Che pensare di quelli uomini delle istituzioni che continuano a proteggere lo Statuto ontologico dell’embrione umano, con il risultato di mettere in contrapposizione la cosiddetta “dignità giuridica del concepito” con i sacrosanti diritti della donna. Quante volte i fieri alfieri “prolife” hanno criticato l’autodeterminazione e l’autonomia morale femminili, organizzando campagne serrate e anacronistiche contro la contraccezione o contro l’attuale ottima legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza? Il mondo politico non dovrebbe mai chiudersi a riccio. Questa quotidianità ha sete di possibilità, di reciprocità, di gradi di libertà. Un uomo delle istituzioni dovrebbe sempre tutelare la negoziabilità dei principi, dovrebbe saper assicurare il pluralismo dei modelli morali. E occorre dire che s’avverte la necessità davvero d’avere, in certi momenti, meno Stato e più società. Sulla vita e sulla morte, sulla Ru486 e sull’aborto, sulle altre grammatiche del vivente, lo Stato deve saper disciplinare blandamente, ma poi dovrebbe decidere per l’innanzi la persona.
Salvare la scuola
spagine
G
lettera aperta al Premier Matteo Renzi e al Ministro Giannini e ai referenti dell’Istruzione in Italia
ent.mo Presidente Renzi, mi chiamo Daniele Manni, sono un docente di Lecce, innamorato e appassionato del proprio ruolo (non riesco a chiamarlo lavoro) e, pare, sono fra i 50 finalisti al mondo candidati al titolo internazionale di Premio Nobel per l’Insegnamento, il “Global Teacher Prize” della Varkey Gems Foundation. In Europa siamo solo in nove e due in Italia (quasi il 30%), anche se so perfettamente di essere solo stato fortunato perché c’è stato qualcuno che si è preso la briga di segnalare il mio operato alla Fondazione, quindi, dietro questa punta di iceberg, sono certo si nascondono centinaia di colleghi altrettanto meritevoli di questo “titolo”, i quali lavorano, sperimentano e innovano ogni giorno, nel silenzio delle loro aule, fianco a fianco con i loro fortunati studenti. Ho deciso di scriverle perché oggi sono “qualcuno” e questo mio quarto d’ora di notorietà durerà appena un mese, fino a quando non diverrò un banale “ex” finalista e le mie parole avranno certo un peso diverso.
Cosa le chiedo? Niente di più di quanto lei non stia ripetendo negli ultimi giorni, ossia più considerazione in Italia per la professione docente, più “ritmo” nella scuola. Solo che, oltre ad ascoltare e ad apprezzare i suoi nobili intenti, mi piacerebbe che in questo nuovo anno vedessimo azioni concrete, un po’ come facciamo noi “bravi” insegnanti “da Nobel” con i nostri alunni, agendo e creando risultati e non solo annunciando cambiamento e innovazione. E di azioni concrete per riqualificare il nostro ruolo nella società italiana me ne vengono in mente due.
La prima, a rischio di sembrare banale, è quella di rendere semplicemente “dignitoso” lo stipendio che ci viene riconosciuto, perché oggi, dignitoso, non lo è affatto. Se, pur essendo i peggio pagati e ricevendo poca o nulla stima dalla società civile, riceviamo lode e attenzione internazionale e la nostra opera quotidiana rende la scuola italiana una delle “istituzioni” più apprez-
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zate dalla cittadinanza (al terzo posto, dopo Papa Francesco e le Forze dell’Ordine*), chiedo a Lei e al governo che rappresenta, cosa potrebbe essere la Scuola italiana se il corpo docente ricevesse più credito e dignità? Come pensa che la società possa apprezzare una figura così importante per la vita ed il presente (non solo il futuro) dei nostri figli se lo Stato è il primo a ridicolizzarne il lavoro con un riconoscimento inadeguato? Comprendo benissimo che questo è un momento certo non facile per mettere sul tavolo un piano di aumenti per la categoria, ma qualche primo, piccolo segnale non sarebbe affatto una mossa errata. Se si sta chiedendo se questo mio è un tentativo per ottenere ciò che in tanti non sono riusciti negli ultimi vent’anni, la risposta è …sì.
La seconda possibile azione è quella di ideare e realizzare iniziative concrete atte a valorizzare la professione, approfittando anche di ogni possibile occasione per enfatizzare, rendere pubbliche e diffondere le opere meritorie e le persone meritevoli nella scuola, ogni qualvolta se ne presenta l’opportunità. Vuole qualche esempio? La Varkey Gems Foundation ha come mission quella di alzare il livello di considerazione dell’insegnamento e si è inventato un premio da 1 milione di dollari per accendere i riflettori di tutto il mondo su questa straordinaria professione (sempre che il governo ed il ministero italiano abbiano, anch’essi, questa mission). E’ vero, loro sono ricchi e hanno i soldi, ma quanta ricchezza abbiamo noi italiani in termini di creatività ed inventiva? E non sta certo a me suggerire modi e metodi efficaci. Concludo augurando a noi docenti che lei possa prendere minimamente in considerazione quanto le ho scritto e a Lei, ai suoi cari e a tutto il suo staff un 2015 proficuo, sereno e ricco di sorrisi. Con grande rispetto e fiducia
Daniele Manni
*Rapporto 2014 della Demos di pochi giorni fa: www.demos.it/a01077.php
spagine
della domenica n°58 - 4 gennaio 2015 - anno 3 n.0
arte
Il segno istintuale di Donatello Pisanello S
inestesia, hai pensato subito; correspondances; arte, che altro non è l’arte, hai pensato, se non questo ritrovare in un luogo che è già sinestetico di per se stesso, l’aretè e l’ariston, il senso della virtù, l’aretè appunto, e il senso delle cose migliori, l’ariston, appunto, perché arista nella loro perfezione, sono le cose belle del mondo. “Ar” è radice sacra di arte, aretè, ariston, semi che germogliano oggi qui, dove il tuo occhio si posa, tra sguardo di libri e sguardo di immagini su pareti di Fondo Verri ed è sinestesia che assorbe tutti i sensi e tu ti senti felice, come quel giorno in cui hai conosciuto Donatello Pisanello in via Nizza, a Taviano e da allora ti porti dentro la melodia di una felicità che è un lasciarsi andare, a volte, ed è un miracolo quando succede , di lasciarsi andare al profumo d’un prato in fiore che un pesce elegante, sinuoso, sorridente anche lui, abbraccia tranquillo; non corre rischi sulla terra il pesce, tu pensi, tra note leggere di musica e di colori. Perché c’è musica, c’è colore, le note del pentagramma e le note dell’arcobaleno, sottofondo di organetti, liuti, mandole, un tamburello ma più lontano ed è brusio di vento e armonia di fruscii di petali e di corolle. Ti ritornano in mente le Corrispondances di Charles Baudelaire “E’ un tempio la Natura ove viventi/ pilastri a volte confuse parole/ mandano fuori; la attraversa l’uomo/ tra foreste di simboli dagli occhi/ familiari. I profumi e i colori/ e i suoni si rispondono come echi/ lunghi….” Ti ritornano in mente mentre ti fai guidare dagli sguardi delle creature filiformi delle immagini su pareti di Fondo Verri. Donatello ti racconta che, per l’arte sua, si serve solo del pennarelli,
di Giuliana Coppola
i semplicissimi pennarelli dei bambini di tutte le età. Sono loro a regalargli i segni dell’arte pittorica che gli appartiene; semi di colore che generano, in chi li osserva, amandoli subito, senso e significato; ed è musica, la musica; ed è poesia, la poesia; ed è colore, quel colore; ed è libertà, quella libertà di esprimersi al di là di canoni, regole, scuole. “Autodidatta in tutto e nessun maestro” ti ripete Donatello; “ un rapporto istintuale” col colore, tu pensi come con lo strumento musicale, il suo organetto diatonico, una carezza ai tasti e via, bisogna solo nutrirsi di silenzio e farsi trascinare; nutrirsi di silenzio, oggi e immergersi nell’arte; ma poi ricordi che lì a Taviano, in via Nizza 39, su una parete a sinistra entrando nel suo studio-laboratorio-casa delle idee-regno della fantasia e della libertà-su una parete tu hai letto “Noi siamo le arpe e tu ci tocchi col plettro/ il dolce lamento non proviene da noi/ sei tu che lo operi./ Noi siamo il flauto/ e il suono che è in noi è da te./ Siamo montagne impervie e l’eco è quello della tua voce”. Oggi, tra correspondances e sinestesie che danno felicità, tu pensi che Gialalad-Din…Rumi ha parlato ancora a Donatello; guida la sua musica e il suo colore, le mani e l’anima di Donatello, qualunque cosa egli pensi e mediti, e d’un tratto “Ar” radice sacra ti riappare; “ar” anche in Ares, il dio alato dell’arte; gli dei a qualunque cielo appartengano, tu pensi, regalano il loro sorriso; sulle ali del sogno, del mito, della poesia e della musica lasciano i loro segni su pareti a sinistra per chi entra in via Nizza, a Taviano; su pareti a sinistra per chi entra a Fondo Verri, in via del Paradiso, a Lecce.
L’abecedario di Gianluca Costantini e
della domenica n°54 - 30 novembre 2014 - anno 2 n.0
Maira Marzioni
Galeotta fu la gelatina Capriole tra Gianni e Giovanna
Era giovedì, una gelatina al gusto gianduia, Mi giaceva con gesti gentili Tra i grigi non piú giovani... Giovanna mi guardò Gettó via ogni indugio Giacemmo gaudenti Giorni e giorni Tra i guanciali di un hotel.
spagine
Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po' e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò. Da quando sei partito c'è una grossa novità, l'anno vecchio è finito ormai ma qualcosa ancora qui non va.
Chi ben comincia
“
Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” . Confesso che per un momento mi ha sfiorato il dubbio amletico di Nanni Moretti in “Ecce Bombo”, quando ho declinato gli inviti di amici e parenti a festeggiare la notte di San Silvestro in grande stile, fra cenoni in case private o in locali à la page. Ma per quest’anno ho preferito restare a casa, dando a ciascuno di essi delle motivazioni differenti e il più possibile credibili. Agli amici che so essere votati ai valori della famiglia e della tradizione e amanti del calore del focolare domestico, ho detto: “no, non vengo, preferisco godermi le gioie degli affetti famigliari quest’anno”. A quelli che hanno i genitori molto anziani oppure li hanno perduti da poco, ho fatto sapere che preferivo restare a far compagnia ai miei anziani genitori ( i quali invece sono andati a divertirsi insieme ai loro amici ad un cenone organizzato). Agli amici scapoli impenitenti, che mi invitavano a festeggiare in un locale da ballo, ho risposto con aria finto sconsolata: “ehh.. sapeste che invidia mi fate! Purtroppo a me, con moglie e figli piccoli, certi divertimenti sono preclusi “(e mentre lo dicevo, i miei ragazzi si scatenavano con lo stereo acceso al ritmo di vari balli latini). Con gli amici colti, intellettuali di sinistra, ho sentenziato: “ma lo sapete che disdegno queste feste caciarone e volgari, io resto a casa a guardare un bel film di Nanni Moretti, come ‘Aprile’ ( lo rivedi ed è sempre nuovo), oppure di Gillo Pontecorvo, come il bellissimo ‘Kapò’”. Agli amici intellettuali di destra, ho notificato: “me ne frego delle feste e dei veglioni, resto a casa a guardare un film di Pasquale Squitieri, anzi meglio, di Renzo Martinelli, e penso che sceglierò ‘Barbarossa’. Sì, proprio così”. Agli amici simpatizzanti del Movimento Cinque Stelle ho fatto sapere: “rimarrò fra le mura domestiche a guardare un vecchio film di Beppe Grillo, “Cercasi Gesù”, uno dei migliori della cinematografia italiana, un film profetico!”(coi Cinque Stelle bisogna sempre calcare un po’ la mano). Infine, convincere mia moglie è stato facilissimo, puntando sul costo eccessivo delle quote di partecipazione alle cene organizzate ( “e che, di questi tempi, mica si possono buttare i soldi, eh..!”). Così, raggiunto lo scopo prefissato, il 31 dicembre mi predispongo ad una tranquilla serata casalinga e alle 20.30 ascolto il discorso di fine anno del Presidente della Repubblica, trasmesso a reti unificate, in cui Napolitano annuncia le sue dimissioni per avanzati limiti di età. L’ultimo dell’anno è sempre tempo di bilanci, consuntivi, e troppo spesso questi sono in rosso, dunque meglio evitare il colpo apoplettico del default rinnovando, per una sera, la bolla euforica speculativa e mantenendo nei confronti del futuro una dotta ignoranza poiché di esso, come di Dio, non si può dire nulla. (Maghi astrologi e santoni esibiscano regolare dispensa prima di vaticinare). E dopo il messaggio presidenziale, via alla musica e ai sorrisi e canzoni con la trasmissione di Rai 1 “L’anno che verrà”, condotta da Courmayeur da Flavio Insinna ( uno che, per varietà di linguaggio, pare un Accademico della Crusca in confronto a Carlo Conti, il negro di Viale Mazzini). Per il deficit di bilancio di cui sopra, meglio evitare la trasmissione di Rete 4 “Terra”, che propone un resoconto dell’anno 2014 (da dimenticare). Su Rai 2, un film di fantascienza, che però i ragazzi non sembrano apprezzare (riescono a pronosticare se un film piacerà oppure no già dal primo frame, incredibile..). Purtroppo, non avendo nessuno dei
“L’anno che verrà” - Lucio Dalla
di Paolo Vincenti
dvd dei film di cui ho parlato agli amici e nemmeno l’abbonamento a Sky Cinema, c’è davvero poco da scialare, televisivamente parlando. Su Canale 5, una trasmissione omologa di quella di Rai 1: la festa organizzata da Gigi D’Alessio e Anna Tatangelo, nella centrale Piazza Plebiscito di Napoli. Su Rai 3, il solito circo di Montecarlo, di una tristezza infinita. E mentre sui canali generalisti, cantanti intrattengono, comici cantano, soubrette conducono e conduttori soubretteggiano, mi rimane Sky tg 24 a manetta, pressappoco come tutte le altre sere. E dunque via ai commenti più disparati al discorso presidenziale appena pronunciato, alle immagini della tragedia a bordo del traghetto Norman Atlantic nel canale d’Otranto e alla notizia dell’ennesimo bambino, Simone, scannato dalla madre a San Severino Marche. A questo punto, la depressione comincia a lambirmi. Mia moglie mi guarda fra il contrito e l’indispettito, per il fatto che pure la notte di capodanno le è toccato spadellare e lavare piatti; i miei figli mi guardano torvi perché avrebbero preferito stare a divertirsi con gli amichetti in qualche serata danzante e sfogano la loro vivacità repressa dando fondo a tutte le scorte di rauti e mortaretti di cui dispongono: in un impeto di euforia sansilvestrina fanno anche tremare i vetri ed esplodere due vasi di gerani della casa dirimpetto alla nostra, tanto che devo subire al telefono l’ira funesta degli anziani vicini bruscamente destati dal placido sonno. Inoltre, dei parenti che telefonano dopo la mezzanotte per dare gli auguri, suocera, sorelle, fratelli, cognati, nipoti, nessuno chiede di me, tutti evidentemente offesi dal mio rifiuto di unirmi a loro per i festeggiamenti. A questo punto, non so da quale andito della memoria,mi vengono in mente i versi del Dies irae di Tommaso da Celano (XIII Secolo): “Dies Irae, dies illa/solvet saeclum in favilla:/ teste David cum Sybilla. “Il giorno dell'ira, quel giorno che / dissolverà il mondo terreno in cenere / come annunciato da Davide e dalla Sibilla. / Quanto terrore verrà / quando il giudice giungerà/ a giudicare severamente ogni cosa”.
Quando si avvicina la fine dell’ anno, o di un evo, è facile che l’umanità venga condizionata da paure, timori ancestrali, e risulti più sensibile ad oscure profezie (le più gettonate, nel giro di boa del 2000, sono state quelle di Nostradamus). Per i cristiani in passato, c’era (ma c’è ancora) l’Apocalisse di Giovanni: “ed ecco si fece un gran terremoto, e il sole si fece nero, e la luna si fece tutta sangue, e le stelle caddero dal cielo sopra la terra […] e ogni monte e le isole si mossero dai loro luoghi. E i re della terra e i principi e i tribuni e i ricchi e i forti e ogni servo e libero si nascosero nelle spelonche e nelle pietre dei monti. E dicono ai morti e alle pietre: Cadete sopra noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sopra il trono e dall’ira dell’Agnello, poiché è venuto il grande giorno dell’ira”. Per i pagani, vi erano le profezie della Sibilla Cumana, a cui si richiama appunto Tommaso da Celano: “Teste David cum Sibylla”. Ogni passaggio importante, ogni svolta epocale della storia, porta con sé psicosi difficili da vincere. San Cipriano, nel 250 d.C. , voleva offrire la prova scientifica che le profezie, sia cristiane che pagane, erano prossime ad avverarsi, “il giorno del giudizio si avvicina”. Cipriano affermava che la secolare lotta fra Dio e il Diavolo era giunta all’ esplosione finale e che bisognava aspettarsi le trombe del Giudizio. L’umanità , nel Medioevo, si fece condizionare dalla suggestione che il dies irae fosse vicino e ad ogni nuova invasione barbarica, ad ogni epide-
E l'anno che è venuto è solo un anno che è venuto e l'anno che è venuto è solo un anno che è passato e l'anno che è passato è solo un anno che ho vissuto e l'anno che è passato è solo un anno che se n'è andato via.
l’osceno del villaggio
della domenica n°58 - 4 gennaio 2015 - anno 3 n.0
“L’anno che è venuto” – Roberto Vecchioni
mia, guerra o sconvolgimento politico, si faceva concreta la psicosi dell’Anticristo. In realtà, nell’anno Mille non risuonarono le bibliche trombe del giudizio universale, come non sono risuonate qualche anno fa, nel Duemila, e il mondo non è ancora precipitato nelle fiamme dell’Apocalisse. “La tromba diffondendo un suono mirabile/ tra i sepolcri del mondo / spingerà tutti davanti al trono. / La Morte e la Natura si stupiranno / quando risorgerà ogni creatura / per rispondere al giudice.” Per il capodanno del 2000, torme di futurologi e cialtroni mediatici si scatenavano a prevedere apocalissi tecnologiche ( ricordate il millennium bag?).
Quest’anno invece, a movimentare l’attesa della vigilia, solo le profezie sull’imminente fine del mondo di Ali Agcà, l’attentatore di Papa Woityla, lui sì una macchietta, che fa ridere più dei comici insipienti di Rai 1 e Canale 5. E mentre in tv cantano Fedez e Albano, Francesco Renga e Raf, e fra ricchi premi e cotillons scatta il countdown per la mezzanotte, ritorno ancora ai versi di Tommaso da Celano: “ Sarà presentato il libro scritto / nel quale è contenuto tutto, / dal quale si giudicherà il mondo. / E dunque quando il giudice si siederà, / ogni cosa nascosta sarà svelata, / niente rimarrà invendicato.”. I telegiornali trasmettono le immagini della nave Blue Sky che arriva a Gallipoli con 800 migranti clandestini, uno degli sbarchi più imponenti degli ultimi decenni, e intanto informano che va stringendosi il cerchio intorno alla madre assas-
Rutger Hauer In Nostradamus (1994)
sina del piccolo Loris Stival, inchiodata alle proprie responsabilità. Così vado a dormire, fortemente scosso, mentre gli spari che risuonano nelle strade, nel mio blob onirico, si frammischiano ai rumori dei bombardamenti di qualche guerra nel medio oriente, e dei morti e feriti vittime ogni anno dei botti di San Silvestro. E fra “male erbe e sterile zizzania che ricoprono i campi”, come scriveva nell’XI Secolo il monaco Rodolfo il Glabro, in una orripilante descrizione della carestia che aveva colpito in quel tempo la Borgogna, “e viandanti che vengono assaliti e poi tagliati a pezzi, cotti col fuoco e divorati, persone che vagano per sfuggire alla carestia, trovano ospitalità lungo la strada e poi vengono sgozzate durante la notte e servono da nutrimento a coloro che le hanno accolte”, chiese che sono spogliate dei loro ornamenti, abitazioni depredate, invasione di cavallette, piaghe e pestiferi bubboni, singhiozzi, afflizione, gemiti disperati, il mio sonno è più agitato che mai. Basta, l’anno prossimo, al cenone organizzato, mi prenoto fin da novembre. Qualsiasi cosa, meglio degli incubi apocalittici, anche le stelle filanti, le marcette, i trenini e “ ay ay caramba” e “il mio amico Charlie Brown”! Molto meglio le trombette sfiatate pepperepè, che le trombe di Giosafatte!
spagine
letture
della domenica n°58 - 4 gennaio 2015 - anno 3 n.0
La cultura dei tao di Antonio Verri
L’audio libro fotografato di Santa Scioscio
L
'inverno, una stagione, che appartiene al mondo contadino del Salento, del quale poco si conosce, raccontati da Antonio Verri. Il poeta, giornalista, pubblicista, scrittore, editore, nato a Caprarica di Lecce nel 1949 è morto in un incidente stradale, il 9 maggio del 1993.
Con la ri-edizione de "La cultura dei tao" Mauro Marino e Piero Rapanà, fondatori e responsabili del Fondo Verri di Lecce, hanno voluto porre all'attenzione di studiosi, intellettuali, lettori, un testo fondante della personalità e della poetica verriana, un lavoro che mostra il continuo dialogo tra il mondo contadino e la terra, l'essenzialità di una realtà a volte amara, altre magica. Un raccolto genuino di vita. Si ode il vento, il profumo dei fiori selvatici, le rose, le mimose, le margherite, si apprezzano arti e mestieri dei contadini. C'è il grande amore di Verri per la sua terra, ma anche lo sconforto per non essere riuscito a vederla come immaginava: viva, per nulla provinciale, solidale, aperta alla cultura, alla poesia, la sua unica ragione di vita. Emerge poi la donna per eccellenza, la madre del poeta, la "mar" che ama più di tutto, figura sacra e degna di rispetto. Escogita Antonio Verri la bizzarra idea dei "tao": "questa specie di folletti predoni, di elfi colorati, che vivono a mezz'aria, che così maleficamente sono entrati nella sua vita… ci sono sempre in un paese, galoppano ossessi sul vapore, sui tetti color pigna, sulle madri di Robinia, sulle madri dell'oro di coppella… ". (p. 27). È un racconto ammaliante, il lettore è come un bambino, resta lì incantato ad ascoltare. Eh sì, perché "La cultura dei tao" non solo si legge, ma si ascolta, i brani sono registrati su un cd, recitati dalle voci “fiabanti” di Angela De Gaetano, Simone Franco, Simone Giorgino, Piero Rapanà per le musiche originali di Valerio Daniele con la voce di Alessia Tondo. Non resta che addentrarsi in questa piccola fetta di mondo, lasciarsi coin-
di Alessandra Peluso
volgere da una realtà favoleggiante, così volutamente resa dall'abile maestria di Antonio Verri, la sua ricercatezza nei termini, la genialità delle storie che convergono per la volontà di rammentare una terra, la sua, un inverno, di tutti, che fa conoscere un Salento diverso, colori differenti, che racchiudevano la "grandissima dignità" dei contadini, sebbene vivessero una "grande fame". Si legge: "Cambia, cambierà di molto il volto della campagna, degli aggregati umani, di interi paesi. È cambiato dal dopoguerra ad oggi, cambierà ancora tra due, tre generazioni. E cambieranno naturalmente anche abitudini, modi di lavoro, rapporti…, ecco quello che non cambierà mai sarà l'idea del dialogo con la terra che l'uomo ha stabilito dai tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi, con accanto sentinelle silenziose gli alberi d'argento".
La Cultura dei Tao” - il testo che Spagine – Edizioni Fondo Verri ripropone come audio-libro - è stato pubblicato la prima volta nel maggio del 1986, ad introduzione del catalogo della mostra fotografica itinerante “La cultura contadina”. L’iniziativa fu promossa dalla Scuola Media II° nucleo del Distretto Scolastico n°42 di Maglie (presidente il professor Giuseppe Chiri) e dalla Regione Puglia - Assessorato alla Pubblica Istruzione. In una nota del catalogo i curatori si ringraziano il signor Giuseppe Bernardi che mise a disposizione, per le fotografie, il materiale del Museo della Civiltà Contadina di Tuglie. Coordinatore del progetto fu Pino Refolo, le foto furono realizzate da Yellow Serigrafia di Maglie, la stampa fu a cura della Litografia Graphosette s.r.l. di Taviano. Oggi viene riproposto corredato da un’introduzione dell’antropologo Eugenio Imbriani, graficamente curato da Valentina Sansò.
L’augurio è che sia d'auspicio per un dialogo senza fine tra passato, presente e futuro.
musica
spagine
U
della domenica n°58 - 4 gennaio 2015 - anno 3 n.0
Carolina Bubbico per Sanremo 2015
n prestigioso incarico per la giovane pianista, cantante, compositrice e arrangiatrice salentina Carolina Bubbico che la vedrà impegnata nella prossima edizione del Festival di Sanremo in veste di arrangiatrice e direttrice d’orchestra. La Bubbico riceve l’ingaggio per ben due artisti: Il Volo, eccezionale trio vocale composto da Piero Barone, Gianluca Ginoble e Ignazio Boschetto partecipanti al festival nella sezione dei Big e la cantautrice Serena Brancale che sarà presente tra le giovani proposte con la canzone “Galleggiare”. Carolina Bubbico, laureatasi nel 2013 con il massimo dei voti e plauso accademico in Pianoforte Jazz presso il Conservatorio Nino Rota di Monopoli, malgrado la giovane età, ha raccolto nel corso degli anni diverse esperienze di scrittura e direzione; giovanissima ha infatti avuto modo di dirigere la Swing big band, orchestra jazz del Conservatorio Tito Schipa di Lecce e di scrivere arrangiamenti orchestrali in più occasioni, dal concepimento del suo primo disco da solista “Controvento” (© Workin’ Label 2013), agli archi composti per il brano “Giulio” contenuto nel cd “Acustronica” del batterista Mimmo Campanale, alla collaborazione con l’Ensemble 05 con ospite la cantante Cristina Zavalloni fino alla recente collaborazione in una produzione dell’Orchestra della Provincia di Bari per la quale ha arrangiato il brano “La mia anima” di Serena Brancale che sarà contenuto nel suo disco d’esordio di prossima pubblicazione. Carolina, che ha partecipato per la prima volta alle selezioni del Festival lo scorso anno, entrando nella rosa delle 60 proposte per la finale nel 2014 ma senza raggiungere un esito definitivo, riscatta ora il suo talento conquistando il prestigioso podio assegnato finora solo in una occasione ad una donna e mai assegnato ad una direttrice di così giovane età. Carolina Bubbico ha iniziato il suo percorso nel 2010 con un originale progetto in solo “One girl band” che la vede impegnata nell’uso di più strumenti musicali, una loop machine, le percussioni, il basso
elettrico, oltre alla voce e al pianoforte, con i quali costruisce e interpreta la musica mettendo a frutto il suo intuito e la sua creatività trasformando suoni, parole e musica. La sua voce evocativa, frutto di qualità naturali, ma anche di studi serissimi rende la sua musica pulsante e capace di emozionare l’ascoltatore, in una sola parola, carismatica. Nell’agosto 2011 il Premio "Best instrumentalist" nella sezione New Generation del Jazz Up Festival di Viterbo. Dopo una prima fase di lavoro in solo, Carolina allarga l’organico al trio chiamando al suo fianco due apprezzati musicisti pugliesi, Luca Alemanno al contrabbasso e Dario Congedo alla batteria e con loro progetta e realizza il suo primo disco “Controvento”. La canzone “A me piacerebbe ridere”, singolo dall’album “Controvento”, vince nel 2011 il premio della sezione Videoclip del progetto “Officine della Musica” e con la regia di Gianni De Blasi, Carolina realizza il suo primo video. A dicembre 2012 Carolina approda al grande schermo firmando la sua prima colonna sonora e partecipando al cast del film ”L’amore è imperfetto” di Francesca Muci (R&C produzioni e R.A.I. Cinema).La pellicola contiene i brani “Cambierà”, “At sunset” e “Controvento”. Il suo disco è trasmesso da numerose emittenti italiane e da alcune radio internazionali; è stata ospite a Radio 2 nei programmi "Radio 2 Social Club" e "Moby dick", su Rai Gulp e su Radio 24 nel programma Soundcheck curato da Gegè Telesforo. Il tour di presentazione, partito in giugno, l’ha vista ospite nel 2013 con il suo Ensemble nei cartelloni d’importanti festival nazionali come Locomotive Jazz Festival, Hydro Music Fest, Suoni a sud. Nel 2014 spiccano le partecipazioni a Piossasco Jazz Festival, Locus Festival in apertura a Laura Mvula,, Riverberi Jazz Festival e Ravello Festival con Il Sesto Armonico diretto dal M° Peppe Vessicchio e Fabrizio Bosso. www.carolinabubbico.it
spagine
Le installazioni natalizie dell’Associazione Variarti negli spazi del Parco Urbano della Distilleria De Giorgi a San Cesario di Lecce
Distillare cultura
S
orprende che fabbriche dismesse offrano possibilità d’essere utilizzate in altro modo e per altri scopi. Questo accade anche a San Cesario di Lecce nell’ex distilleria De Giorgi, dove l’associazione Variarti ha eseguito una serie di installazioni artistiche con i materiali trovati in loco. L’esposizione ha coperto il periodo delle festività natalizie fino alla befana, con un anteprima del 13 dicembre (giorno di Santa Lucia). Sculture in pietra leccese poste nell’atrio hanno favorito l’entrata. A lato del viale grossi vasi di vetro poggiati su botti di ferro testimoniano l’attività passata. Numerose bottiglie luminose s’innalzano per formare un grande albero di Natale, nello spazio centrale. A fianco non mancano ricordi, con le officine, i bottai, la pesa, i distillatori, i depositi e camion e macchine ormai fermi. Enormi sili allineati e arrugginiti son depositari e testimoni d’un tempo; solo alcuni in rame posti all’interno mantengono la sostanza di cui son fatti. Dal lato opposto un ordinato giardino è ben lieto di ospitare i passeggianti, porgendo loro quiete e riposo; ai bambini offre svago e divertimento. Quella che più in alto sale è la muta ciminiera che una volta esalava odori nostrani, dal vento allontanati. Quando dalle nuvole e dalle stelle del cielo serale scendiamo nel vico nell’ombra del fanale, l’evento si compie: una dolce e lieta novella sale. La forma della Nascita, nell’involucro di vetro ora ci appare! E’ manifesta in una stanza industriale, inusuale. Riporta con essa quello che noi speriamo: cuore e amore. Bambin Gesù appare; mantiene in tutto e in parte l’aspetto che fu suo. Appare! Chi lo mandò là lo richiede anche qui, tra le ordinate bottiglie poste intorno ad esso, accomodate in un vecchio ma decoroso calesse di ferro. La sua luce è improvvisa, travolgente, egli ci accoglie appena varcata la soglia, incantevole dono in un luogo un po’ strano. Di-
di Antonio Zoretti
mostra che egli è ovunque, in ogni luogo, indice della sua onnipresenza. Accanto ad esso due tappatrici manuali sigillano l’avvento, e numerose grosse bottiglie di vetro sostituiscono personaggi e luoghi tipici del presepe. Spruzzi di lampade colorano l’ambiente. Tutto è diverso, ma presente a se stesso. Questo si evince dall’estro della stella cometa posta in alto sulla porta d’entrata: una semplice scala di legno inclinata funge da scia alla stella composta da tubi di ferro tenuti insieme da grossi bulloni. Variarti ha voluto così liberare idee e propositi, sviluppati e realizzati in quel particolare contesto, affrancandosi da codici estetici o vincoli formali; esprimendo la loro creatività con gli oggetti che la ex distilleria conservava. Ciò rimanda ai primi passi del vissuto degli artisti dell’espressionismo tedesco di inizio secolo scorso, i quali ricercavano il soggettivo nella realtà che li circondava. Per cui la città, la strada, la fabbrica ecc. stimolava le loro riflessioni; dedicandosi all’emozione, alla sensualità, al raggiungimento di una espressione efficace, capace di stimolare, impressionare, coinvolgere lo spettatore. L’accademismo veniva così abbandonato a favore di un’arte volitiva: come volontà di cambiamento. Dall’interno all’esterno: dall’anima dell’artista direttamente nella realtà che lo circonda. Nella fattispecie della distilleria De Giorgi Variarti ha saputo realizzare originali installazioni con i materiali industriali, rilasciando la sua espressione, appunto. Il luogo, ampio e disponibile, ha favorito questo percorso, e ne potrebbe partorire tanti altri, frutto d’esperienze artistiche e culturali. Un sito adatto a contenere manifestazioni d’ogni tipo, aperte alla conoscenza. E per fare questo non c’è bisogno di grosse somme in danaro, è sufficiente l’entusiasmo e la volontà operosa di ognuno. Auguri di buon proseguo, quindi.
poesia
della domenica n°58 - 4 gennaio 2015 - anno 3 n.0
Marcello Buttazzo “E ancora vieni dal mare” Manni
G
li inni di Marcello Buttazzo giungono dal mare. Come la ragazza posta in copertina del libro: Marina, dall’etimo: donna che viene dal mare. I versi solcano le onde; Marina è pronta a riceverli, a braccia aperte. Nell'immagine tutto è manifesto. Amore e bellezza si danno appuntamento. Come gli inni greci religiosi antichi invocavano divinità locali, Marcello evoca donne lontane, amori ancestrali, silenziose carezze e baci voraci. Egli avverte l’eco di qualcosa, l’eco che precede la voce. I suoi versi chiamano nella nostalgia dell’eco dell’assenza: un ricordo del prenatale. Qualcosa che è stato mancato. Nostalgia, ascolto, risonanza: evoca l’originario e l’arcaico. Ricco di suggerimenti preziosi e di intuizioni ammirevoli, Marcello s’inoltra con ritmo e voce ad esprimere una primordiale pulsione musicale, che è il corpo stesso di ogni parola. Egli combatte contro la cultura “negativa” e nichilista del mondo trionfante e trionfato,
S’infratta in stanze dolenti la bella speranza, l’ansia d’amare. Verrà il giorno che finalmente usciremo all’aperto a salutare il mondo!
che quindi respinge. La poesia di Marcello è un sigillo di bontà, nonostante tutte le cattiverie di cui l’uomo è capace. Questa è una speranza radicata nel mondo: il bene non arriverà domani, ci accompagna fin dalla prima alba. Come la bellissima immagine di copertina. Il tempo è quest’attesa. Marcello desidera l’incontro, rinuncia alle illusioni, esprime un componimento poetico indirizzato alla vita, accompagnato da un canto di “voci d’altrove”. Vertice di un evento che apparenta i sensi, come solo la poesia sa fare: sensibilità incentrata sul ritmo, vibrazione, restituzione e cangiamento. Versi che sono l’essenza stessa del fare poesia. Qualcosa di antico che ritorna più nuovo di ogni futuro. Lode quindi a Marcello Buttazzo: poeta di tutti i tempi. Vanto a chi pazienta con mani esperte a cercare le venule più chiare, e un cielo di giornate serene. di Antonio Zoretti
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Con lo sguardo
a Marittima M
i sono diplomato, con una sfilza di otto e di nove, nel luglio del lontano 1960. Ricordo che, giusto allora, era appena passato a miglior vita un vecchio marittimese, maestro Vitale Bianchi, già falegname di mestiere e, soprattutto, per molti decenni, sacrestano della locale parrocchia, in tale funzione sempre presente ad ogni evento, lieto e non, che si verificava in seno alla comunità paesana. Una figura, insomma, ben conosciuta e quasi familiare. Poco tempo dopo, grazie al “pezzo di carta” della scuola e con la mente colma di tanta e convinta voglia di nuovo, ho detto ciao a Marittima e alla mia Ariacorte per incamminarmi verso il mondo del lavoro. Non sono rimaste disattese, per fortuna, le aspettative postemi in tema di traguardi e di carriera, anche se nessuno mi ha fatto regali e ho, anzi, dovuto impegnarmi, come si suole dire, anima e corpo. Mi è invero capitato di calarmi in un impiego, a diretto contatto e a confronto con la gente, che mi ha preso e coinvolto sin dall’esordio. In più riprese ho cambiato sede di lavoro, in giro per l’Italia, dalla Puglia alla Toscana, dalla Campania alla Sicilia e alla Liguria, dalla Lombardia al Lazio; e questo peregrinare –
pur con le connesse scomodità logistiche, d’insediamento, adattamento e ambientamento – si è tradotto in un significativo supporto di arricchimento delle mie conoscenze ed esperienze, non solo a livello professionale, ma anche e soprattutto dal punto di vista culturale e umano. Devo riconoscere che ho avuto la buona ventura di essere assecondato – particolare non trascurabile – dalla famiglia, prima di tutto da mia moglie, quindi pure dai nostri tre ragazzi. A loro, perciò, un grosso “Grazie”. Trascorsi circa quaranta anni di servizio attivo da girovago, ho dovuto domandarmi e scegliere dove andare a vivere da pensionato. Il passaggio rivestiva molta importanza ed ha, pertanto, richiesto una lunga riflessione. Alla fine, ha prevalso, devo dire nettamente, l’opzione del ritorno alle origini, per cui mi sono ritrovato di nuovo abitante di Marittima, per l’esattezza lì abitante in part-time durante il periodo invernale, allorquando mi divido fra il paesello natio, appunto, e la vicina Lecce. All’inizio, sinceramente, ho talvolta avvertito un senso di disorientamento, mi sono posto degli interrogativi. Ma, adesso, sono, con convinzione, lieto e soddisfatto di essere ritornato. Certo, l’arco di tempo della mia assenza, sebbene non lunghissimo, ha coinciso con un’epoca in cui sono maturati e si sono svi-
di Rocco Boccadamo
luppati tumultuosi e radicali cambiamenti, sicché ora molti scenari risultano profondamente mutati. Anche a Marittima, di conseguenza, appaiono diffuse le tracce del nuovo: sui muri, nelle vie, sui volti e negli abiti della gente, nella stessa aria che si respira. Da sottolineare che i primi diciannove anni trascorsi nella minuscola località dei miei natali erano stati caratterizzati e impregnati da un’elevata dose di “partecipazione” e di coinvolgimento, tanto che dopo, pur vivendo lontano e nonostante lo snodarsi del tempo, mi sono costantemente sentito “pieno” di quel periodo. Adesso, oramai ragazzo di ieri, mi rendo meglio conto che in quella fase, intorno a me, non esistevano steccati o fossati rispetto agli altri, più giovani, più grandi o più vecchi che fossero. Ai miei occhi, la comunità marittimese era un tutt’uno e basta. Di riflesso, nella realtà, mi succede ancora di sperimentare la profonda conoscenza delle persone acquisita allora, una vera e propria somatizzazione, sin dai caratteri e dalle sagome del loro fisico. Ad esempio, sono in grado di riconoscere agevolmente un compaesano, basta che lo osservi di spalle, senza alcun bisogno di scrutare i dettagli del volto. Eppure, di tempo ne è passato! Lo accennavo prima, anche qui, purtroppo,
racconti salentini
della domenica n°54 - 30 novembre 2014 - anno 2 n.0 si scorgono, inevitabilmente, immagini comuni ad altri posti, si ha l’impressione di vedere in giro più autovetture e scooter che abitanti, sono ben presenti le mode in voga, i discorsi che si ascoltano risultano spesso imbevuti del tipico, moderno consumismo, delle usanze e delle tendenze che prevalgono. Ma, ciononostante, per me, al massimo livello della scala dei valori, rimangono pur sempre le persone, non importa se ricche o povere, colte o poco istruite, eleganti o modeste e approssimative nell’abbigliamento. Non essendo un critico di professione, bensì soltanto uno spettatore e non ritenendomi, comunque, all’altezza per poterlo fare, mi astengo volutamente dall’esprimere giudizi o dall’additare negatività circa i cambiamenti intervenuti in maniera specifica nello spaccato della nostra piccola comunità. Tanto, la situazione attuale è perfettamente alla portata e nella consapevolezza di tutti. Mi piace, invece, tentare di offrire un “contributo” di tacito e sereno confronto costruttivo, attraverso qualche riflessione, testimonianza o ricordo. Come in uno speciale lungometraggio cinematografico di cui non ci si stanca mai di rivedere le sequenze, nella mia mente, e non solo lì, si succedono con incredibile freschezza molte scene della vita marittimese di circa sei decenni addietro. Qui, provo a metterne a fuoco talune, che maggiormente si sono incarnate nella memoria. Regnava una totale e assoluta familiarità, si conosceva tutto di tutti, i vecchi avevano presenti i nomi finanche dei neonati e, analogamente, anche i bambini conoscevano quelli degli anziani. Indimenticabili i semplici giochi delle serate estive nelle viuzze dei vari rioni, sotto una casuale lampadina dell’illuminazione pubblica, se e quando esistente, altrimenti al buio rischiarato appena dal luccichio delle stelle e dalla luna: si partecipava in numerosi, serenamente e gioiosamente, a prescindere dall’età. Quotidianamente, anche col tempo inclemente, i giovani, gli adulti e gli anziani, di sera, erano soliti “uscire in piazza”, con lo scopo prevalente, se non esclusivo, d’incontrarsi, far crocicchi, parlarsi e, così, tener sempre aggiornate le reciproche conoscenze. Magari, ci stava anche qualche passata dalla bottega di mescita del vino, ma, ripeto, essenzialmente si discorreva, del più e del meno, come nell’agorà delle civiltà antiche. Le ricorrenze delle feste, almeno delle principali, rinfocolavano vie più gli stimoli ai contatti, alla socializzazione, alle passeggiate, in coppie o in gruppi. In quelle circostanze, si registrava anche il fenomeno dei numerosi compaesani – residenti altrove – che mai mancavano all’appuntamento di un rientro, seppure di breve durata; si materializzavano, in tal modo, più ampi e festosi spunti per in-
contrarsi. Quando qualcuno versava in cattive condizioni di salute, non passava giorno senza che i compaesani, a frotte, di solito al rientro dalle fatiche nei campi, passassero a rendergli visita, per informarsi sul decorso della malattia, per condividerne le sofferenze mediante due parole o un sorriso. In occasione, poi, della dipartita di un paesano, si registrava un unanime senso d’autentico dolore, la partecipazione e la vicinanza alla famiglia coinvolgevano la totalità della popolazione; la chiesa, sovente, non bastava a contenere i partecipanti all’ultimo saluto allo scomparso, il corteo che si snodava verso il camposanto era quasi sempre interminabile, eppure – malgrado tanta folla – aleggiava un clima di assoluto raccoglimento, non volava una mosca. Con spontanea partecipazione e dignità, si tributava, così, un corale abbraccio finale a chi se ne era andato. Nei ragazzi e negli adolescenti, era radicata l’abitudine, alla domenica, di assistere alla “prima” messa al Convento; si saltava giù dal letto verso le cinque e mezzo, in certe stagioni ancora notte, si compiva il tragitto a piedi sotto l’incanto di cieli tersi e stellati. La funzione, per le otto, era già terminata e, così, si aveva a disposizione l’intera mattinata, per giochi e divertimenti nel boschetto sulla via dell’Arenosa. D’estate, i giovani, se non c’era altro da fare, si attardavano in piazza o nelle strade principali del paese per tutta la notte, sino alle prime ore del mattino, discorrendo e scherzando, ma senza schiamazzi, per non arrecare disturbo agli altri, in un clima di autentica amicizia e di schietto cameratismo. Succedeva, non di rado, che la loro permanenza così prolungata si incrociasse con le prime sortite da casa degli adulti, i quali, ancora scuro, si avviavano verso i campi. Ed era molto bello scambiarsi, insieme, quel buongiorno avente un sapore assolutamente speciale. Saltuariamente, di solito nella tarda serata del sabato, si spostavano in gruppi verso le marine per pescare i granchi, qualche scorfano o, magari, i polpi, sorprendendoli sugli scogli bassi e nelle buche a ridosso del bagnasciuga erboso sotto il fascio di luce di rudimentali lampade ad acetilene. In qualche punto, i gruppi s’incrociavano e facevano il confronto dei rispettivi bottini che, intanto, strusciavano scivolando lungo le pareti interne delle caratteristiche anfore di rame o zinco (capase). Gli usci delle case restavano in genere aperti, il rispetto della proprietà altrui era sacro, le notizie di qualche furtarello costituivano un evento davvero eccezionale. All’intensità dei rapporti civili interpersonali, si abbinava una diffusa partecipazione alla vita religiosa della comunità; la chiesa, le Messe e le funzioni erano assai frequentate, senza differenze fra le diverse fasce anagrafiche. Ogni marittimese sentiva un tantino suo, con
umiltà ma con attaccamento, quanto doveva svolgersi in seno alla parrocchia: liturgie, cerimonie, manifestazioni eccetera. Siffatto coinvolgimento materiale, diretto e continuo, era avvertito, pesato e considerato da parte del Parroco, il quale lo rispettava e ne faceva tesoro. Queste, le immagini che con più frequenza si proiettano a distanza dentro di me, con riferimento al mio paese e alla sua gente. Ma le origini, e nella fattispecie il ritorno alle origini, non possono, ovviamente, prescindere dall’ambiente naturale – in primis il cielo e il mare – circostante. Attualmente, specie trovandosi a dimorare nelle grandi città, s’avverte molto forte il rimpianto dei cieli azzurri d’una volta, degli astri luccicanti e vicini, della luna che “sembrava ti parlasse”, del mare che, nelle giornate burrascose, pareva volerti rimproverare con il fragore sordo e cupo delle onde, mentre, negli altri momenti, con il suo sciacquio leggero, ti raggiungeva dolcemente alla stregua d’una tenera carezza. Sotto questo aspetto, qui, al contrario, non è cambiato pressoché nulla, e ciò con grande appagamento per il mio animo che, di sicuro, non nutre rimpianti per l’atmosfera poco naturale delle varie località di precedente residenza. Concludendo questi appunti, confesso che mi rallegro dal profondo del cuore osservando le generazioni giovanissime, che si presentano come l’essenza più bella e autentica di questa società del ventunesimo secolo; soffermandomi a guardare fugacemente i loro volti freschi, dagli occhi vivi e intelligenti tipici delle creature che vanno sbocciando, mi viene spontaneo d’augurar loro buona fortuna, soprattutto per il divenire che le attende. Egualmente mi rallegro, nell’osservare, o meglio ammirare, le persone anziane o vecchie, spesso di ottanta, novanta e ancora più anni, in buona salute, autonome, in certi casi addirittura più vitali e serene di come mi apparivano, all’epoca sotto il peso delle fatiche e delle preoccupazioni, quando ero ragazzo. E trovo, che tali ultime immagini stabiliscano un magnifico collegamento, un bel segno di continuità fra le realtà di ieri, il presente e il tempo a venire. Si potrebbe con facilità obiettare che, in fondo, si tratta di discorsi, rappresentazioni e storie di un tempo passato, che i ricordi sono ricollegabili più che altro all’avanzare dell’età anziana. Da parte mia, vorrei però osservare che quando si fa riferimento alle proprie origini e alle proprie radici, il che vuol dire alla propria anima, è bene non cancellare tutto, ma, al contrario, custodire gelosamente i punti fermi e importanti, giustappunto, del passato, con l’accortezza, beninteso, di adattarli ai mutamenti che man mano intervengono. Riconoscersi nei valori veri delle proprie origini è già e comunque un passo avanti.
corrispondenze
spagine
della domenica n°58 - 4 gennaio 2015 - anno 3 n.0
A Montréal mangi italiano
“
Mamma, che voglia di lasagne che ho!”... Con queste parole l’ultima domenica dell’anno passato, mi sveglia la mia dolce bambina a seimila chilometri dal nostro paese, dove per fare questo piatto, hai già in mente dove andare a procurarti gli ingredienti: a pochi metri da casa. Così, non mi perdo d’animo per realizzare uno dei piatti tipici nostrani che accompagnano i giorni di festa. Dopo una bella colazione (canadese!) con pancake e succo d’acero, un caffè per me, che qui ormai chiamo tisana alla caffeina, pensiamo bene di recarci nella nostra amata “Petit Italie”, alla ricerca di lasagne, parmigiano (che non è il parmesan!), salsa di pomodoro e tutti gli ingredienti necessari “made in Italy”. Arrivate a boulevard Saint-Laurent, la strada che congiunge tutte le maggiori comunità del mondo che si suddividono in quartieri, abbiamo preso il bus 55 che ci lascia proprio d’avanti al nostro amato supermarket “Milano”, nel cuore del quartiere italiano. Un luogo dove la tipica esposizione gastronomica all’italiana, bella, ricca e generosa di prodotti, ti sazia a prima vista! Come una bedda matri che ti accoglie a braccia aperte in una casa che profuma di buono, e dove le papille gustative prendono parola per escla-
mare in coro un “mmmmh!”
Che meraviglia attraversare i corridoi traboccanti di prelibatezze caserecce: paste di tutti i formati, pomodori in tutte le salse e immagini di forzute massaie con le mani sui fianchi, come a dirti: “adesso si mangia sul serio!”. Per un attimo, perdo di vista Giorgia che ritrovo a bocca aperta davanti al tempio dei formaggi, con le manine sul vetro del banco frigo dove c’erano loro, i regnanti indiscussi del sapore: gigantesche forme di Parmigiano Reggiano. Se dovessi rifarmi alla teoria darwiniana, direi che nel DNA di noi italiani è insito questo piacere del gusto e di fronte a monumenti della nostra cucina, non possiamo che restare in uno stato di contemplazione, che il Parmigiano ce lo mettono già nelle pappe dello svezzamento! Proseguiamo il nostro viaggio incantato tra fusilli e rigatoni, salamini e tortellini, torroni e panettoni, vedendo negli occhi della mia piccola compagna d’avventure, vera beatitudine. Ah, come ci si sente a casa quando dai banconi dei salumi vedi spuntare i sorrisi aperti di chi sa di possedere tesori nel regno dell’abbondanza. Quando appena girato l’an-
di Milena Galeoto
golo del reparto pasta, ti spunta qualcuno nel suo bel camice candido e retina accuratamente posta sulla testa, per offrirti una porzione di penne all’arrabbiaTTa (come dicono qui). Oh yes, darling, tu puoi vivere da cinquant’anni in un altro paese, parlare a stento la lingua della tua infanzia, ma restare very italian quando si tratta di cibo, quello della tua tradizione, che come nelle parole di una preghiera, quelle restano nei secoli dei secoli (amen!). Dopo aver riempito il carrello con gli ingredienti per il primo, il secondo, contorno e dessert (d’accordo, per i primi, i secondi e i desserts… per almeno un’italian week!), pagato in dollari canadesi, una sosta obbligatoria è al Caffè Italia, poco dopo Milano perché le mie papille riapprendano il gusto avvolgente di un vero espresso, pronte in un’ola di gioia. Caso ha voluto che perfino la neve si sciogliesse questa domenica a Montréal (un evento eccezionale a fine dicembre, qui) per l’occasione, per donarci un clima familiare. E ogni volta che penso se mi manchi il mio paese, posso ammettere che quando lo porti nel cuore, riesci a ritagliarti una “Petit Italie” ovunque tu vada.
spagine terza di copertina
cinema
della domenica n°58 - 4 gennaio 2015 - anno 3 n.0
L’audace direttore Carlo Michele Schirinzi e la locandina del suo film
L
a giuria composta da Sylvain George (presidente), Anna Franceschini, Erik Negro, Fausto Vernazzani ha così motivato l’indirizzo nell’assegnazione dei premi: "Sono rari e preziosi i luoghi che si concentrano sulla presentazione (ascolto e visione), ma anche sulla trasmissione e sperimentazione tra generazioni e tra individui di diversa provenienza. Luoghi che privilegiano gesti poetici, gesti politici, gesti sperimentali, gesti cinematografici spesso minoritari. Gesti che non si possono circoscrivere dentro linee di demarcazione prestabilite, refrattari alla frammentazione convenzionale del sensibile, all'assegnazione di persone e cose a luoghi predeterminati, e che ridisegnano, nella loro ricerca, nel loro stesso movimento, nuove forme di vita. Questo è il momento in cui le posizioni maggioritarie riducono il mondo a uno solo, è il momento delle uniformazioni politiche ed estetiche, per cui talvolta ci sembra inevitabile che abbia la meglio un movimento massificatore in cui i fenomeni e le cose finiscono per essere assimilati. Allora forse è importante sottolineare l'esistenza di questi luoghi-crogiolo, intimi, dove si possono creare spazi e tempi di immagini singolari, che aiutano a vedere, prefigurare, quella che potrebbe essere un'avventura "umana" diversa. Luoghi-crogiolo, immagini dialettiche che, inchiodando le finzioni utilitaristiche, permettono di vedere la condizione disumana, consentono quindi di individuare in un gesto ciò che riposa - esseri o cose - nella sua bellezza e magnificenza. Sono rari, senza dubbio, i luoghi dove si comprende che forse è nella disperazione che nasce la vera conoscenza dell'altro, dove si disegna un divenire-straniero del mondo. Preziosi sono senza dubbio questi luoghi inquieti, questi luoghi che ignorano tutte le certezze e tutti i comfort, che fanno del dubbio una forza vertiginosa in grado di aggiornare la potenza dell’essere e dell’agire. E di dare fuoco all’infinito. Sono rari i luoghi aperti a "colui il quale non teme le vertigin” (Lev Shestov).
“I Resti di Bisanzio” di Carlo Michele Schirinzi vince il 3° Salerno Doc Festival
I film che abbiamo visto qui, di tematiche diverse, di poetiche diverse, hanno abbracciato il nostro desiderio di buttarci nel sensibile, e hanno messo in discussione il nostro posto e il nostro rapporto con il mondo, in rapporto agli altri e a noi stessi. Quindi ringraziamo per le loro proposte tutti gli autori.
Abbiamo scelto di premiare due proposte cinematografiche delle sei che ci sono state fatte, e quindi assegneremo, come ci è stato chiesto, il miglior documentario e una menzione della giuria. Tuttavia, (...) per quanto possa sembrare ingiusto ad alcuni registi non ricevere alcun premio per il loro lavoro, questa scelta rappresenta solo la giuria, non è dogmatica o assoluta, e, naturalmente, ognuno è libero valutare sulla pertinenza o meno delle nostre scelte. L'intento principale è la necessità da parte di un individuo di decidere di utilizzare una telecamera per catturare e modellare il reale.
1. Abbiamo deciso di assegnare la menzione speciale della giuria al film "Inseguire il vento", di Filippo Ticozzi, per la scelta del soggetto del film, per il modo in cui affronta e gioca con il problema della morte, in grado di fargli identificare nuovi aspetti della realtà, per presentare le nuove immagini del mondo e la bellezza della vita. 2. Il miglior documentario è stato assegnato a "I Resti di Bizanzio" di Carlo Michele Schirinzi. Vogliamo salutare con questo premio l'audacia formale mostrata dal direttore, la ricerca di una nuova forma di narrazione per esprimere una rivolta contro l'ordine delle cose, contro le immagini autorizzate di tutto il mondo, e la necessità di tracciare nuove strade, singolari e minoritarie." Il premio del pubblico è stato assegnato a "Brasimone" di Riccardo Palladino. A Gennaio (data ancora da definire) si terrà una giornata di premiazione dei film con i registi e la riproposizione dei film vincitori.
spagine quarta di copertina
cinema
della domenica n°58 - 4 gennaio 2015 - anno 3 n.0
Kama è lieta di presentare in anteprima venerdì 9 gennaio 2015 alle ore 20.30 al Nuovo Cinema Elio, in via Montinari 32 a Calimera (ingresso libero) il primo lungometraggio di Carlo Michele Schirinzi
I resti di Bisanzio
alla presenza del regista dei produttori Gabriele Russo e Gianluca Arcopinto del critico cinematografico Massimo Causo e di tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione del film
“Sembra Fata Morgana quarant’anni o si è dentro o si è fuori i suoi preziosi cato. Un film che pare elitario, ma è pudopo!” - Giovanni Spagnoletti (Pesaro Resti di Bisanzio” - Pietro Masciullo rissimo punk che sogna di sovvertire la Film Festival) (Sentieri Selvaggi) prospettiva rinascimentale e l’inganno dell’antropocentrismo ” - Aldo Spiniello “Magnifico film!” - Silvana Silvestri (il “I resti di Bisanzio somiglia alla linea fra- (Sentieri Selvaggi) Manifesto) stagliata di un litorale, alterata dal moto ondoso: instabile. E' la sua forza” - Ri- “E’ un naufragio anarchico al largo di un “E’ un bellissimo film” - Anton Giulio naldo Censi sud, di un mondo, incrostato nel bisoMancino (La Gazzetta del Mezzogiorno) gno impossibile di un altrove da sognare “Bellissimo. Film liminare sul tema del li- in fiamme. Anarchico perché rinuncia a “E’ un film che va difeso…io ci sarò!” - mine, del perdersi, diluirsi negli spazi, ogni costruzione del potere, a ogni vaGianni Canova con deliquio, desolante, desolato e poe- lutazione del bene e del male. Resta tico” - Luigi Abiusi (Uzak) negli occhi come una delle opere più co“Mi sono molto commosso durante la viraggiose del cinema italiano contemposione” - Augusto M. Seabra (Doclisboa) “Rompe con il fronte consensuale, parla raneo, un film carico di una forza senza un linguaggio lontano, remoto, aspro, scampo, vanificata” - Massimo Causo “Mi è piaciuto molto” - Roberto Turi- spaventa i fautori del grande cinema” - (Filmcritica) gliatto Giona Antonio Nazzaro “Per vedere il mondo di Schirinzi biso“Niente sarà più lo stesso” - Pedro Ar- “Un cinema felicemente minoritario che gna inabissarsi e trattenere il respiro per mocida (Pesaro Film Festival) chiede attenzione e pazienza, ma, in sprofondare e arrivare in questa densità cambio, dona un impagabile senso di li- di mondo che è nera e assordante, e “E’ un film-molotov” - Sergio Sozzo bertà” - Guglielmo Siniscalchi (Il Cor- annegare, finalmente, e galleggiare (Sentieri Selvaggi) riere della Sera) senza peso (il peso del mondo) e senza corpo sotto il raschio di un suono metal“E’ un fuorifuoco della coscienza” - Ro- “L’audacia formale, la ricerca di una lico per guardare, con la testa nell’acberto Lacarbonara nuova forma di narrazione per espri- qua, giù” - Vanna Carlucci (Uzak) mere una rivolta contro l’ordine delle “Io non ho capito nulla, è fuori da ogni cose contro le immagini autorizzate di “È difficile pensare, al di fuori dell’ambito norma” - Adriano Aprà (Pesaro Film Fe- tutto il mondo, e la necessità di tracciare produttivo corrente, a un cinema meno stival) nuove strade, singolari, e minoritarie” - ‘sperimentale’ di quello di Schirinzi, voSylvain George, Anna Franceschini, tato all’integralismo iconoclasta della “E’ un rogo che divampa vastamente e Erik Negro, Fausto Vernazzani (Salerno non mediazione” - Adelina Preziosi (Sebrucia le carni” - Narda Liotine (Desi- Doc Festival – motivazione del premio) gnocinema) stfilm) “Un film del sottosuolo, meraviglioso, in- “E’ uno scollamento dall’ordinario, una “E’ un realismo visionario che visibile, che si svincola dall’economia visione laterale del reale, un cinema pre(te)nde dalla storia quello che serve culturale e che proprio per questo dove la sottrazione apre gli occhi, a distruggerla” - Gemma Bianca Adesso manda all’aria quella dimensione pro- scava, mostrando il baratro che il Tempo (Uzak) prietaria della rappresentazione facendo ancora conserva” - Mauro Marino (Spaa pezzi i clichè degli sguardi turistici, gine) www.sucrette.it “Un cinema che non ammette repliche, dell’etnografie e antropologie di mer-