spagine della domenica n°59 - 11 gennaio 2015 - anno 3 n.0
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri
Islam spagine
inversione di marcia o è la fine
Q
ualche tempo fa intervenni su “La Gazzetta del Mezzogiorno” (13 novembre 2014) per dirmi favorevole alla fondazione dell’Università islamica a Lecce, ritenendola un’importante opportunità per il Salento. Ovvio che tutte le prese di posizione nascono da una situazione di fatto; la presenza massiccia dell’Islam in Italia e in Europa lo è. Basti pensare che la più grande moschea d’Europa è a Roma, centro universale della cristianità, e che ormai le moschee in Italia sono migliaia, a volte anche improvvisate in locali adattati. Ormai sono milioni e milioni gli islamici nei vari paesi europei. Nessuna bacchetta magica potrebbe d’un colpo far sparire questa situazione per riportarci ad un assurdo quo ante. Gli islamici ci sono e vanno tenuti nel debito conto, sia che li si voglia tenere in Italia naturalizzandoli, sia che li si voglia far defluire o solo contenere e vigilare. D’accordo col professor Giovanni Sartori, non credo nelle società multietniche, perché queste violentano i processi storici che si sono sviluppati nei secoli, lenti e non senza traumi in ossequio rigoroso di natura e ragione. Se il paragone non fosse banale direi – ma lo dico per preterizione! – che mettere insieme in un medesimo ordinamento soggetti che appartengono per cultura, religione e costumi a realtà contrastive è come mettere insieme in natura acqua e fuoco e pretendere che possano convivere, continuando l’acqua a far l’acqua e il fuoco a fare il fuoco. L’Università islamica a Lecce dovrebbe essere una presenza “altra” nel rispetto totale delle leggi italiane; un luogo d’incontro, di conoscenza, di approfondimento, di studio. Nient’altro che questo! Nel momento in cui ciò non fosse, come aperta così si chiuderebbe. Tanto per introdurre il terribile caso del momento: l’eccidio a Parigi nella sede della rivista satirica “Charlie Hebdo” con dodici morti e diversi feriti col corollario del supermercato ebraico con altri morti e feriti. Pur terribile, l’evento non dovrebbe farci perdere la tramontana. Certo, si è
di Gigi Montonato
tutti preoccupati e sgomenti. Campanelli d’allarme ce n’erano stati qua e là in Europa e nel mondo nel corso di questi ultimi due anni; questa volta ha suonato la campana grande. “Il Foglio” di Giuliano Ferrara di qualche settimana fa, in riferimento agli attentati islamici in Francia (Digione, Nantes), in Australia, in Canada, in Belgio, tutti compiuti al grido di “Allah u akbar”, tutti con morti e feriti e ritenuti fatti «isolati», attentatini, insomma, così concludeva un suo corsivo: «Se poi attentatone sarà il prossimo, pazienza, sarà isolatone» (24 dicembre 2014). L’attentatone è arrivato solo quindici giorni dopo. Il problema islamico nel mondo occidentale, ormai pieno zeppo di islamici, è terribilmente complesso e complicato. Non credo che ci sia qualcuno pronto con una ricetta, almeno non nell’immediato. Dire «violenza vs violenza», come suggerisce Giuliano Ferrara – «una sola è la risposta alla forza intimidatrice dell’islam califfale e politico: una violenza politica, militare, tecnologica e civile incomparabilmente superiore» (8 gennaio) – è isterismo puro. Ma fin dall’immediato è necessario fare inversione di marcia con l’immigrazione islamica. Ormai l’islamizzazione dell’Europa è più di una fobia, come viene chiamata con l’ennesimo neologismo per metterla sul patologico e delegittimare chi non la pensa allo stesso modo. Se il Presidente Hollande dice che quanto è accaduto non ha niente a che fare con l’islamismo usa a fini politici una platonica “nobile menzogna”, salvo che non consideri simili eccidi l’inevitabile prezzo da pagare per giungere all’auspicata o ritenuta inevitabile società multietnica. E’ di tutta evidenza che non tutti gli islamici sono violenti assassini, terroristi, sostenitori di califfati più o meno realizzabili. Ma è altrettanto vero che la violenza islamica è una componente fondamentale dell’islamismo, che può anche riproporsi nell’animo di un giovane islamico a distanza di anni, di generazioni. L’islamismo, quando non è violenza in atto, lo è in potenza. Gli autori dell’eccidio di Parigi erano giovani immigrati di terza generazione, i quali avevano avuto tutte le oppor-
tunità per integrarsi e sembravano integrati, fino a quando non hanno ceduto al fascino della sirena delle loro radici, rigemmate e rispuntate da sottoterra come quelle di certa gramigna. Il regista olandese Teo van Gogh fu ucciso, sgozzato per strada, alcuni anni fa da un giovane islamico, ritenuto fino a quel momento un bravo ragazzo. Il fatto stesso che ad un’offesa – se tale può essere il non pensarla allo stesso modo – si risponde con l’assassinio, la dice lunga sulla reale integrazione di questi soggetti in un mondo che ha fatto della libertà di pensiero e di parola la sua bandiera, prima ancora e più ancora dell’eguaglianza e della fraternità. Con gli islamici, ormai lo si è capito benissimo – non possiamo dormire tranquilli. Il da farsi è problema improbo, che spetta risolvere alle classi politiche e alle classi dirigenti in senso più ampio, prima che passi al popolo come sta accadendo in Germania. Anche perché non si tratta soltanto di terrorismo. Proprio in concomitanza col terribile eccidio parigino è uscito in Francia un libro dello scrittore Houellebecq, “La sottomissione”. Che dice questo libro in soldoni? Che alle presidenziali del 2022 un islamico conquisterà l’Eliseo, perché in quella circostanza, per impedire a Marina Le Pen di vincere le elezioni, si coalizzeranno tutti per il candidato islamico. Si dirà, è una ipotesi remota se non assurda. E invece no. Basti pensare che la Le Pen già fin da ora è stata isolata e non partecipa alla marcia di domenica 11 gennaio. Come dire, pur di non far vincere le elezioni ad una forza politica visceralmente invisa ci s’inventa un pericolo inesistente e si incentiva il vero pericolo che incombe. La parola d’ordine infatti in Francia come in Italia è di non confondere il terrorismo con l’islamismo. Siamo d’accordo, ma solo strumentalmente. Nel contempo si dovrebbe anche dare una risposta chiara e responsabile alla domanda: l’islamismo è o non è, oggi e in prospettiva, un pericolo per l’Europa? Houellebecq ha fatto una profezia. Riflettiamo.
Diario politico
della domenica n°59 - 11 gennaio 2015 - anno 3 n.0 "Io musulmano non sono Charlie, sono il poliziotto Ahmed ucciso per difendere la libertà"
Siamo illuministi
non cederemo alla paura
L’
di Gigi Mangia
attacco terroristico al settimanale satirico “Charlie Hebdo” ha tolto la vita e quindi causato la morte delle matite, così con la violenza estrema i terroristi hanno voluto colpire la libertà di stampa e di pensiero. Parigi, la città dei lumi, del modello sociale dell’integrazione, dell’esperienza delle differenze etniche, la capitale della Nazione con sei milioni di musulmani, è stata ferita: l’Europa come l’America ha il suo undici settembre. I terroristi hanno colpito l’islamismo moderato e la città della tolleranza. Parigi ancora è il cuore della civiltà dei lumi della tolleranza delle relazioni delle differenze sociali della separazione della scienza dalla religione della distinzione del potere politico da quello religioso. L’attacco terroristico alla libertà di satira al settimanale “Charlie Hebdo” è grave ed è di pesanti conseguenze politiche nella fragile Europa perché allontana le sponde del Mediterraneo e complica rendendola difficile la via delle culture orientali e occidentali. In questi giorni nel laboratorio teatrale del poeta Mauro Marino a Galatina, nel costruire una riflessione sui cent’anni della Prima guerra mondiale abbiamo scoperto che: “nel mondo siamo vivi solo se c’è pace” e che tutte le parole sono valide per conoscere la storia: sbagliato è solo l’uso che si fa di esse. Così a una tragedia di dodici morti e undici feriti e contro la violenza alla libertà di stampa e di pensiero le parole più lucide e sensibili al pericolo della civiltà sono quelle nei versi dei ragazzi disabili dell’Aquilone di Galatina: “la guerra ha distrutto il mondo paura no, non posso dir nulla che dire, che devo dire, non chiedete a me”. La pace ama la vita, la guerra la odia: questo dicono le parole dei disabili del teatro di Mauro Marino. Per non cedere alla paura e per difendere i valori dell’illuminismo ti chiedo di voler pubblicare nel giornale di domenica le vignette che hanno armato l’odio dei terroristi contro i valori della cultura occidentale. Dobbiamo resistere alla paura per questo dobbiamo armare le matite.
spagine
Q
ualche anno fa, sulle pagine culturali d’un giornale nazionale, Marta Morazzoni s’interrogava su d’una questione pressante, reale: “la povertà del linguaggio dei ragazzi”. Forse, le ipersollecitazioni della piazza virtuale, dell’armamentario tecnologico, permettono di restare sempre connessi e in contatto con il mondo, dando l’illusione di governare e di disciplinare tutti gli scenari. Epperò, questa mania di iperattivismo e questa smania di superfunzionalità vanno a detrimento di altre fondamentali attività creative. L’uso smodato del computer, di Internet, se da un lato consente d’accumulare nozioni e interazioni, dall’alto impoverisce la manualità e la fantasia. I giovani, probabilmente, dovrebbero scrivere di più con la carta e la matita e la penna, soprattutto per ragioni pragmatiche. La scrittura manuale su foglio è come una vela, è come esplorare un campo aperto, con la possibilità d’arricchirlo di sfumature, di sillabe e vocali d’amore. Sul foglio si possono fare cancellature, calcolare le spaziature, si può riavvolgere il nastro e navigare pianamente con il pensiero. Con la carta e con le matite e con la penna si possono traversare i mari, si possono oltrepassare gli ultimi orizzonti e colorare di pastello il cielo. Personalmente, ho potuto constatare una invalidante manchevolezza. I ragazzi praticamente non leggono quotidiani di cronaca e d’opinione. Da parte loro c’è la pretesa che la Rete possa informare compiutamente su ogni cosa. È limitativo e controproducente che i più giovani non entrino in edicola a fare acquisti. Il cartaceo è ancora insostituibile, con il suo fascino d’inchiostro, con la poesia e il profumo di parole stampate. E anche le librerie, purtroppo, non vengono doverosamente frequentate. I ragazzi vengono, sovente, distratti da dispersive sollecitazioni. La Morazzoni scriveva che “non si può e non si deve prescindere dalla pagina letta e vissuta”; e ancora “il libro è diventato un cadavere che non ispira più alcuna emozione”. Quanta ricchezza vitale e semantica, invece, nei versi dei poeti, nei racconti dei romanzieri. Leggere attentamente gli scrittori vuol dire scoprire nuovi mondi, inedite ragioni di vita, trame semplici e complesse di storie di varia umanità. Vuol dire rapportare il proprio universo affettivo, le proprie gioie, le proprie tristezze, ad altri pae-
La bellezza della pagina Contemporanea
della domenica n°59 - 11 gennaio 2015 - anno 3 n.0
di Marcello Buttazzo
saggi sentimentali. Leggere la pagina scritta significa, per l’innanzi, imbrigliare, fermare e rallegrare il tempo in una ragnatela di parole e viaggiare felici sui vascelli del sogno. I nostri governanti discutono di riforma della scuola. Eppure, sarebbero sufficienti poche e semplici linee guida, snelli accorgimenti, per rendere le attività più proficue e più produttive. Nelle varie classi dovrebbero confrontarsi con passione i vari quotidiani, i famosi “quotidiani di classe”, un’esperienza prevista ma mai decollata veramente. Marta Morazzoni, che è scrittrice e insegnante a tempo pieno, rivolgeva un’esortazione ai suoi colleghi: studiate Montale, “non rifugiatevi nella poesia di De André”. Certo, i Campana, i Montale, i Bertolucci, i Pasolini, i Caproni, i Penna, i Luzi, Alda Merini, nelle scuole secondarie superiori vengono totalmente trascurati. Però considerato che la professoressa Morazzoni incentrava la questione su un nervo scoperto (certi ragazzi “sanno pochissime parole”), perché privarsi della musica, della poesia, del mondo di Fabrizio De André? Ascoltando lentamente i testi del
Tina Modotti, Macchina da scrivere, Messico 1928
cantautore genovese si entra in una terra ricchissima, fatta di metafore, di eleganza stilistica, di uomini e donne, i perdenti che solitamente fanno la storia. “Angiolina alle sei di mattina intreccia i capelli con fogli d’ortica, ha una collana di ossi di pesca”, “Andrea raccoglieva violette ai bordi del pozzo. Andrea gettava riccioli neri nel cerchio del pozzo”, “Mia madre mi disse: non devi giocare con gli zingari nel bosco. Ma il bosco era scuro, l’erba già verde, lì venne Sally con un tamburello”. “A volte i pesci cantano sul fondo del Sand Creek”, “Rosa gialla, rosa di mare, mai ballato così a lungo, lungo il filo della notte, sulle pietre del giorno”, “Mille anni al mondo, mille ancora, che bell’inganno sei, anima mia, e che grande questo tempo, che solitudine, che bella compagnia”. “Ho visto Nina volare fra le corde dell’altalena, un giorno la prenderò come fa il vento alla schiena”, “Recitando un rosario di ambizioni meschine, di millenarie paure, di inesauribili astuzie, coltivando tranquilla l’orribile varietà delle proprie superbie, la maggioranza sta”.
La poesia spagine
scrittura
della domenica n°59 - 11 gennaio 2015 - anno 3 n.0
di Marcello Buttazzo
“
L’emozione è un attimo, un lampo, è slancio vitale… Osservare e traversare l’esistenza con occhi da poeta…” ; “e allora mi sono fatto coraggio e ho iniziato, mi dice, o forse ho continuato a traversare l’esistenza con occhi da poeta”. Così mi racconta, ora che, fuggite via festività, ritorna il silenzio dei rosari dei giorni, di quelli che si ripetono così sempre uguali, se non dai loro un motivo d’esistere. “Ecco, mi dice, oggi ho riletto ancora una volta il pensiero di Marcello Buttazzo, sul mestiere di vivere e sull’emozione. Lo regalo anche a te, mi dice, mentre ci sperdiamo nel labirinto di strade alle spalle del duomo, a Lecce e ci abbraccia e mimetizza l’ombra della sera. Vedi, sto calda stasera, mi dice, pur se soffia gelida tramontana, sto calda perché m’abbraccia cappotto di mia madre. Curioso, no? Ascolti un pensiero e ti dà coraggio; sei tu a scegliere; e poi, in questa ragnatela di strade che si aggrappa a te come tela di ragno, se tu non lo dici, nessuno saprà che ho indosso cappotto di mia madre. Aveva voluto che la figlia, una delle figlie, andasse subito subito a comprarglielo. C’era il funerale del suo uomo quel giorno, del suo compagno di vita; insieme per 50 anni e passa; nozze d’oro e ancora insieme; lei, per il suo uomo, voleva essere anche quel giorno la più elegante; un goccio di profumo, sempre quello da un’esistenza, e cappotto nero orlato di pelliccia, perché il suo uomo era vivo anche da ombra accanto a lei, sorridente alla faccia di campane a morto e visi mesti d’occasione. Lei era bella e andava; gli altri al seguito come per corteo nuziale; il nero al posto del bianco, ma che importa? Si andava, oggi si va; oggi ho indosso il cappotto di mia madre e insieme si va; che questo è il coraggio che ti dà un pensiero. La porto con me; ma non voglio che osservi monumenti; voglio che senta, con me, le voci; il flauto di Giorgia Santoro, ad esempio; accompagna i nostri passi; colonna sonora
di Giuliana Coppola
d’un film che sto vivendo; Sant’Anna e il suo albero; ecco, ora mi fermo qui; ci fermiamo qui; ascoltiamo voci di radici di albero enorme che protegge sant’Anna e la sua storia; anzi voce d’una creatura che ha deciso, secolo dopo secolo, di essere anche lei di una eleganza essenziale, eterna, sconfinata; l’eleganza di radici, fibre, rami che s’avvolgono su se stessi che si fanno linfa e corteccia, che vivono, pur loro, di poesia, intessendo ritmo di foglie; Dio mio, l’eleganza di mia madre che l’ha compiuto il secolo, quest’anno, ed ora riposa accanto al suo uomo -e dove, se no?- e gli starà raccontando di questa follia d’una figlia che se la sta portando in giro, ombra celata in un cappotto nero orlato di pelliccia. Labirinto di strade e di pensieri; emozione d’un pensiero; chè poi non te l’ho neanche finito di raccontartelo tutto, il pensiero. Te lo racconto ora, chè così non si perde nel corso della storia e dei passi; ora ci fermiamo davvero un attimo, prendiamo respiro e te lo racconto il pensiero alla luce di questa luna che imbianca sant’Anna. Ecco, Marcello Buttazzo ha scritto “L’emozione è un attimo, un lampo, è slancio vitale. Il nostro mestiere di vivere è quello di custodire giorno e notte l’incommensurabile giacimento dei beni immateriali, non consumistici, come il dono, la solidarietà, l’amicizia, l’amore. Il nostro mestiere di vivere, al di là delle pressanti contingenze economiche, è quello di osservare e traversare l’esistenza con occhi da poeta. Si possono scrivere versi, leggere poesie. Ma più semplicemente si può contemplare la vita con occhi da poeta... Con sguardo bambino e stupito si può ammirare la natura e le sue meraviglie, si può empaticamente entrare in contatto con l’altro da sé… l’arte è una scheggia d’amore”. Ora il pensiero è anche tuo e suo e loro e di tutti coloro che si perdono come noi in labirinti bianchi di luna; il peso dell’amore è troppo peso se non lo si condivide”.
pop
Di tutto un spagine
“
La viaggiatrice che attraversò le Halles alla fine dell’estate / camminava in punta di piedi / la disperazione innalzava al cielo i suoi gigari così belli”. Leggo Breton, fondatore del movimento surrealista francese e di fronte alla mia finestra c’è un cantiere, uno dei pochi ancora in piedi, in questo periodo di crisi edilizia ed economica. Vedo delle impalcature, ormai le 16.30, i muratori hanno staccato e regna la calma asso-
luta. “La scrittura è tutta una porcheria” dice Antonin Artaud, uno degli esponenti di punta del surrealismo. La poesia fa parte della raccolta “I campi magnetici” (1920), di Breton e Soupault, e penso all’ècriture automatique, nella quale questi poeti si cimentarono. Oggi sarebbe difficile ripetere certi esperimenti letterari, senza sembrare ridicoli. Non solo per le mutate condizioni storiche e per la mancanza di geni visionari come Picabia, Eluard, Renè Crevel, Max Ernst, ma proprio perché ormai la mort difficile nell’arte si è consumata. Tutto è già stato scritto. “E nella borsetta c’era il mio sogno, quel flacone di Sali / respirati solo dalla madrina di Dio / i torpori si diffondevano come la nebbia / al “can che fuma” / dove erano entrati il pro e il contro/”. Fa scuro e le impalcature davanti a me anneriscono con tutto il resto. Vedo decine di tubi modulari a formare i ponteggi. Così apro Internet e su Google scrivo “tubi”, per vedere cosa viene fuori. Azzardo commistioni (l’ho sempre fatto nelle porcherie che scrivo), come quella “della macchina da cucire e l’ombrello su una tavola anatomica”, su cui Battiato (con Sgalambro) ha costruito un album molti anni fa. Ma non posso tentare di imitare la tecnica degli accostamenti analogici casuali propugnata da Breton.
La prima voce che consulto è: “Il tubo di Pitot”. Esso “è uno strumento utilizzato per misurare la velocità macroscopica di un fluido (tipicamente un gas). Fu inventato nel 1732 dallo scienziato francese Henri Pitot” (Wikipedia). Pitot in francese si legge “pitò” e solo a pronunciarlo un po’ più lentamente (“pitooo…”) mi vengono in mente i cartoni animati per adulti “Southpark “(quelli che fanno vedere i sorci verdi al Moige) e il tipico intercalare di uno dei loro scorretti e volgarissimi personaggi: lo psicologo della scuola Mackey. Poi c’è il tubo multistrato: utilizzato dagli idraulici per l’installazione
di Paolo Vincenti
dell’impianto idrico o degli impianti di riscaldamento e idrosanitari o anche per la distribuzione del gas metano. Essi sono di quasi esclusiva competenza degli installatori autorizzati e devono rispondere a determinate normative europee. Non così invece il semplice tubo monostrato, di plastica o di gomma, utilizzato per l’irrigazione e nel nostro dialetto comunemente (e orrendamente) chiamato “suga” (dal latino sucare, “succhiare” perché serviva per aspirare il liquido, generalmente il vino, dal recipiente). Come molti della mia generazione, sono nativo dialettale, e ricordo le difficoltà e l’imbarazzo, da piccolo, di tradurre in italiano questo sconcio sostantivo. Però penso che un tubo, una “suga”, potrebbe essere oggetto di un quadro di Duchamp come ready made, cioè quegli oggetti banali del quotidiano elevati ad opera d’arte e potrebbe avere la stessa dignità del famoso “Orinatoio”. Se passiamo alla biologia, il tubo neurale è presente sia negli embrioni animali che negli embrioni umani. In questi ultimi, “durante il corso dello sviluppo, l'estremità cefalica del tubo neurale perde la forma cilindrica e si allarga in vescicole encefaliche, abbozzi delle diverse parti dell'encefalo; la restante parte del tubo neurale, discostandosi in misura minore dalla forma originaria, dà origine al midollo spinale”( da: Wikipedia). Poi c’è il tubo di Venturi o venturimetro che “è uno strumento che serve a misurare la portata di una condotta. Questo strumento sfrutta l'effetto Venturi e prende il nome proprio dal fisico Giovanni Battista Venturi”. Venturi però a me fa pensare a due cose diverse ed entrambe variamente collegate all’estetica: ad un manuale sui pittori italiani e alle tette. Sì, il manuale “Pittori italiani d’oggi” (1958), giace riposto e mai aperto nella mia libreria, lascito chissà di quale circostanza della vita, e sul frontespizio c’è scritto “a cura di Lionello Venturi”. Le tette invece sono quelle di Alessia Venturi (in realtà Ventura), modella e showgirl che ogni tanto rivedo sgambettante in qualche trasmissione televisiva. “Il tubo di Crookes è un particolare tubo a vuoto di vetro, a forma di cono, che presenta 3 elettrodi : 1 anodo e 2 catodi. Deve il suo nome al suo inventore, il fisico William Crookes, e rappresenta l'evoluzione del tubo di Geissler e il precursore del tubo catodico”. Crookes mi riporta per assonanza ai cookie del pc, quelli che indicano
l’osceno del villaggio
della domenica n°59 - 11 gennaio 2015 - anno 3 n.0
tutte le preferenze di navigazione che abbiamo e che si usa disattivare per mantenere una certa privacy; ma anche al Cuki, cioè il contenitore di fogli di alluminio per alimenti, ma anche agli adesivi per dentiere di una vecchia pubblicità (Kukident). Di fronte al tubo catodico, ovviamente, si apre un mondo, solo a pensare a quanta e quale fantasmagorica varietà abbia accompagnato negli ultimi cinquant’anni la vita degli italiani, elettrizzati, annoiati, stimolati, infreddoliti, depressi, felici, addormentati o catatonici, davanti all’elettrodomestico amico (“la televisione, che felicità, nuova dimensione della civiltà” - Edoardo Bennato). E mi vengono in mente, come in un Blob schizoide montato dai più diabolici Ghezzi e Giusti: Fantastico 8, Mondiali di Argentina dell’86, Che tempo fa, Almanacco del giorno dopo, Sanremo ‘87, Aboccaperta, Mi manda Lubrano, Il postino, Avanzi, Maurizio Costanzo show. Ma quando uno dice tubi, quelli a cui immediatamente pensa sono i cosiddetti “tubi Innocenti” (dal nome della famosa ditta meccanica milanese, poi anche produttrice automobilistica con la prima Mini Minor): i tubi cioè comunemente utilizzati in edilizia nella costruzione di ponteggi. E quando guardo il cantiere edile di fronte a me il mio cervello va a quel famoso scatto in bianco e nero in cui si vedono degli operai in un grattacielo di New York sospesi su una trave d’acciaio ad una altezza vertiginosa. La foto è del 1932 e gli operai, in pausa pranzo, erano quelli che lavoravano alla costruzione del Rockfeller Center. I tubi possono avere mille usi. E a questi si è ispirato il gruppo musicale italiano “Marta sui tubi”. Poi abbiamo i tubi led, cioè le lampade tubolari al neon che, sebbene poco attraenti esteticamente, hanno il vantaggio di illuminare a giorno qualsiasi ambiente, di un bianco che più bianco non si può.
Un tubo è quello che porta, o meglio dovrebbe portare, il gas dall’est europeo in Italia, via Grecia e Albania, attraverso il Canale d’Otranto: e questo mi fa pensare alla TAP e alla guerra ideologica che si è scatenata qui nel Salento fra sostenitori del gasdotto, cioè la join venture delle multinazionali che lo realizzeranno e chi lo avversa, cioè quasi tutto il territorio con in testa il comune di Melendugno. Il dibattito è aperto e le telecamere dei tg pronte a immortalare scontri verbali e fisici fra i manifestanti. Torno a Breton: “I piccioni viaggiatori i baci di soccorso / si univano ai seni della bella sconosciuta / dardeggiati sotto il crespo dei significati perfetti / una fattoria fioriva dentro Parigi / e le sue finestre si affacciavano sulla via lattea/” “Tube”, cioè “tubo”, comunemente chiamano nel Regno Unito la metropolitana, underground: un termine quest’ultimo (coniato da Duchamp negli anni Sessanta) che mi fa immediatamente pensare alla cultura “underground”, cioè a quel vasto movimento giovanile di controtendenza che fra gli anni Sessanta e i Settanta dagli States al Regno Unito, ma anche all’Italia, ha fatto sfaceli, fra fiori e cannoni, sesso e mariuana, radio libere ma libere veramente e stampa alternativa. E cogitando così, mi viene in mente il gruppo dei Velvet Underground e la copertina del loro primo album con quella famosa banana disegnata da Warhol. Con la testa che penzola fra tubi e tubi, mi sovviene lo Youtube su cui posso rivedere le puntate perse delle trasmissioni televisive, soprattutto i litigi e le risse, i video musicali, convegni e presentazioni di libri, interviste e filmati amatoriali di svalvolati in cerca del loro quarto d’ora di celebrità. Elucubrando, attraverso una serie infinita di tubi, esco infine dal tunnel della mia neurolabile serata e mi ritrovo, non so come, a mangiare una pizza e bere una birra al pub “Al tubo” di Catania.
spagine
accade in città
della domenica n°59 - 11 gennaio 2015 - anno 3 n.0
Una lettera di Beppe D’Ercole dell’Associazione Vivere Lecce
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Lecce, l’inverno dello spirito
Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro l'inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire" così Marguerite Yourcenar scrive ne “Le Memorie di Adriano”, l’esergo di una lettera a firma di Beppe D’Ercole presidente dell’Associazione Vivere Lecce, ecco di seguito l’intero testo… “Lecce Città d’arte se ne f…… di chi viene e di chi parte e anche di chi ci vive. Lecce Capitale (mancata) Europea della Cultura 2019, Lecce Capitale della Cultura (Italiana?) 2015. Lecce, città titolatissima per la cultura (basta mettersi d’accordo su quale tipo di cultura) è priva di una biblioteca! Lecce non possiede una Biblioteca Comunale! Per i pochi “conoscitori”, vanta un Archivio Storico gestito volenterosamente da tre soli dipendenti. La struttura, tuttavia, peraltro localizzata in periferia, è assolutamente svincolata da ciò che fu la Biblioteca Provinciale, una volta vanto e lustro del territorio.
La "ex " Biblioteca Provinciale (nella nuova e ipertecnologica versione) attualmente è priva di riscaldamento e di connessione internet e di fatto, quindi, inagibile con le attuali temperature: provate a stare fermi a studiare al gelo e privi di collegamento al web! Questo anche a seguito dell’incredibile disastro provocato dalla falsa cancellazione delle Province, diventate “territorio” della politica che si auto elegge, come ampiamente previsto, in tempi non sospetti, dalla Nostra Associazione. Lecce, smart city nei proclami dell’Amministrazione è in queste condizioni: basti ricordare i proclami sulle connessioni internet, rimasti, nei fatti, …proclami! Lecce, città d’arte…………! Lecce, città del “Faremo"! "... contro l'inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire" diceva Adriano, lustro di Lupiae! Con l'augurio che si possano destinare le poche risorse necessarie!
spagine
corrispondenze
della domenica n°59 - 11 gennaio 2015 - anno 3 n.0
Meno chiese,
piĂš case
Milena Galeoto da MontrĂŠal
In Canada sono 285 le chiese convertite in biblioteche, scuole, condomini, centri culturali, sportivi ...
Il Santuario del Santo Rosario e di St. Jude fu costruito nel 1905 sul progetto dell’architetto Alphonse Piché. In un primo momento portava il nome di Sant’Agnese... Mezzo secolo più tardi i Domenicani decisero di vendere l’edificio, acquistato prontamente da Tony Attanasio e altri due soci per creare un centro benessere.
spagine
La basilica del benessere
di Milena Galeoto
S
uccede a Montréal, di trovarsi di fronte a una chiesa e scoprire che in realtà si tratta di un centro benessere. Certo, qualcuno penserà, il benessere spirituale… Sì, anche, in fondo “mens sana in corpore sano”, ma quella di cui parlo è proprio la storia di una chiesa convertita in Spa. Camminavo su Rue St. Denis, una strada commerciale di Montréal, quando tra le decorazioni natalizie, il via vai della gente di corsa per acquistare gli ultimi regali, mi appare un edificio illuminato a festa, dall’evidente sagoma di una chiesa neo-gotica. Pensavo si svolgesse una funzione religiosa, per l’intensità delle luci riflesse dalle vetrate. Mi avvicino per curiosità e con grande stupore intravedo dall’enorme finestra del piano superiore, una donna con l’asciugamano intorno al collo, impegnata a marciare sul suo tapis roulant. Disorientata da quella visione, ho rivolto subito lo sguardo all’ingresso dell’edificio per capirne di più, e l’immagine di una signorina che usciva beata da una piscina, indicava proprio la scritta di un “Club d’entraînement privé et spa”. Eppure sull’enorme portone d’ingresso appariva ancora chiara l’intestazione del luogo sacro: Santuario del Santo Rosario e di St. Jude. Sapevo che un certo Jude avesse tradito Jesus Christ ma, ancora, non riuscivo a spiegarmi cosa centrasse quell’insegna e la madame lì sopra a smaltire i peccati di gola
Scuola circense presso la chiesa Saint-Esprit, cittàdel Québec
prefestivi in un edificio religioso. La mia indole di donna del sud Italia non riusciva a farmi restare indifferente, e spalle dritte, pancia in dentro e petto in fuori, sono entrata in questo santuario del benessere, chiedendo informazioni come di chi è interessato a prendersi cura di sé. Pensavo di non essere poi messa così tanto male ma considerato il pacchetto proposto dall’addetta, tra percorsi depurativi, circuiti riabilitativi, non mi restava che pregare, cosa non improbabile in quel luogo perché tra spalliere, cyclette, e saune… beh, c’era ancora l’altare! Era per caso questa una nuova formula di marketing studiata appositamente per i casi disperati? Ancora mille domande accendevano la mia insaziabile curiosità ma con molta discrezione, apprendendo nozioni di linfodrenaggio, ho chiesto alla gentile guida con un sorriso angelico a cui non puoi negare una risposta, come mai si fosse deciso di aprire una Spa proprio dentro una chiesa. Sapevo di vivere in un paese laico dal 1965 e che numerose chiese (ben 285) sono state convertite in biblioteche, scuole, condomini, centri culturali, sportivi etc., ma trovarmi un club d’entraînement privé dentro una basilica, mi ha fatto pensare al grado di libertà che esiste in questa realtà canadese, dove davvero ognuno professa il proprio credo senza pregiudizi, si trattasse anche di un credo edonistico. Ma ancora questa storia della chiesa-spa per una come me, cresciuta in una famiglia molto cattolica, dove la
corrispondenze
della domenica n°59 - 11 gennaio 2015 - anno 3 n.0
Chiesa di Jeanne-Mance trasformata in una cooperativa d'abitazione a Montréal
Il Santuario St. Jude trasformato in centro benessere a Montréal
Monastère des Sœurs adoratrices du Précieux-Sang oggi un condominio, Montréal
Chiesa di Saint-Jean, oggi un condominio - Petite Italie, a Montréal
nonna ci faceva fare la Via Crucis per tutte le stanze della casa e che al contrario di questa circostanza, trasformava ogni luogo in chiesa, m’attraeva parecchio. Insomma, l’attenta e preparata accompagnatrice mi spiegava che questa era proprio una singolare conversione di una chiesa non solo nel Québec ma in Canada, indicandomi il pannello descrittivo delle sue origini.
La Chiesa fu costruita nel 1905 sul progetto dell’architetto Alphonse Piché. In un primo momento portava il nome di Sant’Agnese, e successivamente, nel 1954, quando fu acquisita dai padri Domenicani, quello di Santuario del Santo Rosario e St. Jude. Mezzo secolo più tardi cercarono di demolirla per istallare nuovi condomini ma dopo la protesta dell’intero quartiere di Mont-Royal, i Domenicani decisero di vendere l’edificio, acquistato prontamente da Tony Attanasio e altri due soci per creare questo centro benessere. Hanno atteso ben due anni perché la Città di Montréal accettasse questa conversione e nel 2010 è stato inaugurato il St. Jude Space Tonus, dove i lettini per massaggi sono stati fissati là laddove un tempo si esibiva il vecchio coro e nel resto della navata, sono stati creati spogliatoi, saune, bagno turco e zona relax. Soppalcata vicino alla volta, invece, c’è un’enorme palestra. E gli ambienti che ospitavano i frati, adesso contengono
Biblioteca del Mile-end, Chiesa dell'Ascension Construction, Montréal
stanze private, vasche idromassaggio, per chi ha voglia di rilassarsi lontano da occhi indiscreti. Per giungere, infine, in un’area, ex oratorio, convertita in un ristorante. Gli ambienti sono stati progettati dall'architetto e professore presso l'Università di Montréal, Tom Balaban, che ha giocato sulla dicotomia tra il vecchio e il nuovo: la vecchia chiesa con le pareti in pietra e le enormi vetrate a mosaico, accanto alla nuova struttura di cemento e acciaio, dipinta di fresco. Questa storia mi ha fatto riflettere molto su come la Chiesa possa praticamente contribuire al benessere sociale e culturale (e fisico?) di una comunità, trasformandosi perfino in un tempio del benessere con numerosi adepti praticanti. Ma, oltre a questa singolare trasformazione, credo che non fosse poi tanto un’utopia quel pensiero che spesso incrociavo sui muri dei cavalcavia, palazzi e piazze del mio paese: CHIESE + CASE. Perché da qui posso testimoniare come questi luoghi siano davvero diventati centri importanti per l’intera città, convertiti in meravigliosi edifici scolastici, biblioteche, abitazioni, ospedali, perfino scuole circensi, centri dove padrona di casa è la democrazia perché tutti, nessuno escluso, possa avere accesso all’istruzione, alla partecipazione sociale e culturale del paese e, perché no, al diritto di prendersi cura si sé, fosse anche per smaltire i chili di troppo accumulati durante le feste.
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corrispondenze
della domenica n°59 - 11 gennaio 2015 - anno 3 n.0
Un interno del centro benessere nel Santuario St. Jude a MontrĂŠal
spagine
della domenica n°59 - 11 gennaio 2015 - anno 3 n.0
L’abecedario di Gianluca Costantini e
Maira Marzioni
Ad Haiti il nostro habitat solo io e te in un harem senza hertz. Haiku di lune e haineken. Istallavo iridi di insciallĂ Per il nostro happyend.
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riviste
della domenica n°59 - 11 gennaio 2015 - anno 3 n.0
I Quaderni del Bardo
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voltano… piu’ di qualche pagina
Il Bardo” nasce nel 1991 dalla necessità di far conoscere la storia e la cultura salentina. Il primo numero esce nel settembre di quello stesso anno, contiene pochi articoli e qualche poesia. Inizia la collaborazione con grandi firme della cultura salentina: Giancarlo Vallone, Cosimo Franco, Giovanni Cosi, Fernando Verdesca, Mario Cazzato, Alvaro Ancora, Arturo Alessandri, Vittorio Zacchino, Antonio De Meo, Alessandro Laporta, Gino Pisanò, Giovanni Greco, Ennio Bonea, Donato Valli, Luigi Manni, Mario Marti, Elio Paiano, Antonio Faita, Paolo Vincenti, Maurizio Nocera e tanti altri, che a titolo gratuito, hanno dato la loro collaborazione per la realizzazione di questi “fogli di culture”. Nel novembre 1995, nasce “Allestimento – Prove di scrittura” fortemente voluto dal direttore editoriale Maurizio Leo, il quale annovera tra i suoi collaboratori i nomi più conosciuti del panorama poetico salentino, come Carlo Alberto Augieri, Walter Vergallo, Pierpaolo De Giorgi, Arrigo Colombo, Giuseppe Conte, Antonio Errico, Nicola De Donno, Anna Maria De Benedittis Presicce, Pierlugi Mele, Antonio Iaccarino, Salvatore Caliolo, Vito Antonio Conte, Carlo Stasi, Eugenio Giustizieri, Rossano Astremo, Massimo Manieri, Rosanna Gesualdo, Elio Coriano, nonché lo stesso Maurizio Leo e altri ancora. Sempre nel Novembre ’95, Caterina Gerardi inizia la sua collaborazione grafica fornendo le foto per la prima pagina de “Il Bardo“ e per “Al-
Stefano Donno e nella foto più piccola Maurizio Leo
lestimento “ . Da qualche mese l'esperienza de Il Bardo e di Allestimento è sbarcata on line all’indirizzo http://ilbardofoglidiculture.blogspot.it/ I Quaderni del Bardo, il marchio che pubblica i supplementi editoriali della rivista Il Bardo, a partire da questo mese si presenta con una nuova struttura: la direzione editoriale affidata a Maurizio Leo e Stefano Donno, il lavoro di redazione affidato ad Anastasia Leo, e la sezione social media communications affidata a Ludovica Leo. La linea editoriale continuerà sempre rispettando sia gli obiettivi di ricerca poetici, narrativi e saggistici che da oltre vent’anni vengono portati avanti dalla proprietà con serietà e professionalità, sia gli aspetti formali mantenendo intatta la realizzazione di volumi eleganti e di pregevole fattura. La novità verterà sulla creazione progressiva di connessioni tra tradizione e innovazione editoriale, e l’apertura a nuove collaborazioni anche con studiosi provenienti da altre latitudini culturali INFO IL BARDO / I Quaderni del Bardo Via Regina Isabella, 2/D 73043 Copertino (LE)
https://www.facebook.com/Ilbardofoglidiculture?ref=hl foglidiculture@libero.it http://ilbardofoglidiculture.blogspot.it/
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e-book
L’Ulivo e la Mezzaluna spagine
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Su www.simbiosisbook.simbiosiscompany.com il libro di Mimmo Ciccarese
ltre le fortezze che racchiudono il suo cuore barocco, Lecce ha un’altra storia da riferire che scorre attraverso i millenni fino all’epoca del ferro, dal tempo in cui i Messapi la chiamavano Rudiae. Si vien fuori da qualche porta della cittadella fastosa e attraverso quel che rimane di un tratto di carreggiata romana, si giunge nel borgo fortificato di Acaya per ripassare le tracce del medioevo.
Nel Salento, terra di confine, trovi sempre una folla di viandanti che non trova sentieri, un groviglio di percorsi senza viandanti, qualche infiltrato saraceno, un’armata di prodi cavalieri o il cuore nobile di una principessa...
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musica
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"ARTHUR AND I" SOFIA BRUNETTA Il videoclip, firmato da Pierfrancesco Marinelli nuovo singolo per la cantautrice salentina
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con il montaggio di Francesca Mele, è disponibile su youtube
rthur and I è il titolo del singolo della cantautrice salentina Sofia Brunetta che anticipa di qualche mese l'album d'esordio, arrangiato e prodotto con la collaborazione di Giovanni Ottini (dj Sonda). Il videoclip, firmato da Pierfrancesco Marinelli con il montaggio di Francesca Mele, è disponibile in anteprima su Repubblica Tv e sul canale youtube dell'artista. Il brano strizza l’occhio alle sonorità nudisco e funky su una melodia dall’appeal molto pop e parla della necessità di vivere la vita nel presente, senza farsi condizionare dal passato e dall’ansia di un futuro incerto. La soluzione talvolta è semplice e alla portata di tutti, andando a fare una passeggiata al mare e godendo di una bellissima giornata di sole. L’istinto musicale di Sofia Brunetta sa muoversi agilmente in territori apparentemente distanti, ma i cui confini si annullano grazie alla curiosità di uno spirito eclettico e sempre in continua ricerca. Che imbracci una chitarra elettrica o che metta le mani su un vecchio organo giocattolo, le sue canzoni restituiscono dignità al concetto di musica pop, melodie accattivanti su atmosfere che mischiano al trasporto del soul la sfrontatezza del rock, al battito del funk un’attitudine indie. Filo conduttore è una voce che sa essere diretta e spigolosa, ma anche intima e sognante.
oltre 300 esibizioni live. Dal 2009 a oggi hanno aperto i concerti di artisti quali: Jon Spencer Blues Explosion, Fleshtones, Teatro degli orrori, Caparezza, One Dimensional Man, Offlaga Disco Pax, Skiantos, Zen Circus. Oltre all’intensa attività live tra gli anni 2008 e 2012, che le ha viste esibirsi a Londra al 12 Bar club di Denmark street (la strada che ha visto leggende del rock tra cui Sex Pistols, Clash e Oasis tenere i loro primi concerti), le “Lola” hanno all’attivo un disco autoprodotto di dodici tracce dal titolo Pissed Off, dal luglio 2011 nei negozi di dischi con distribuzione Venus. L’album, recensito con esito positivo su numerose testate tra cui il Mucchio Selvaggio, vede la partecipazione di Roberto Dellera (Afterhours) e Gianluca de Rubertis (Il Genio). Un brano è inoltre finito su una compilation allegata a XL di REPUBBLICA nel novembre 2011 e un loro videoclip (“Lola is pissed off”) in rotazione su MTV New Generation. Nel 2012 Sofia intraprende un percorso da solista e si trasferisce per un anno a Montréal (Canada), città riconosciuta come cuore pulsante dell’indie rock internazionale, dove stringe rapporti e collaborazioni con artisti del luogo, partecipa ad importanti manifestazioni del panorama musicale indipendente nord-americano tra cui il festival Indie Week 2012, a Toronto (http://canada.indieweek.com/) e One Man Band Festival di Montréal (www.onemanbandfest.com). Apre i concerti di Amor Fou, Hugo Race, Cristiano Godano, Riccardo Sinigallia. È l'artista di apertura dell'unica data nel sud Italia di Cat Power. È tra i 6 finalisti del contest nazionale Controradio 2014 su oltre 600 artisti candidati. Attualmente è al lavoro alla produzione del suo primo disco solista (uscita preCantautrice e chitarrista del gruppo Lola and vista in primavera), arrangiato e prodotto con the Lovers, con cui si è esibita nei più impor- la collaborazione del dj-producer Giovanni Ottanti locali live d’Italia e in varie manifestazioni tini aka Sonda. di musica dal vivo, raggiungendo un totale di
Il videoclip, firmato da Pierfrancesco Marinelli con il montaggio di Francesca Mele, è disponibile su youtube
Un workshop dedicato al libro d’artista con Roberto Bergamo
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os’è un Libro d’Artista? Un manufatto unico in cui anche i materiali con i quali è costruito hanno il loro valore e il loro significato. Un’opera ideata, progettata e realizzata interamente da noi, con le nostre mani, da leggere e da sfogliare ma anche da guardare e da toccare, il libro d’artista coinvolge tutti i sensi di chi lo legge. Una pratica artistica che abbraccia anche altre discipline come l'arte postale, la poesia visiva, la copy art, ecc... tutte pratiche abbastanza borderline che bene si prestano alla sperimentazione poetica e ad una ricerca tecnico/progettuale. Il libro d'artista è contenitore e contenuto. E' un oggetto polimaterico con infinite varianti formali che sfugge alle regole. Non arte per l’arte ma arte con l’arte. Soprattutto arte e poesia. Axa Cultura in collaborazione con Salentoweb.tv propone un workshop/laboratorio con l’obiettivo di condurre i partecipanti alla conoscenza del mondo del Libro d'Artista, così affascinante e, purtroppo, così poco conosciuto in Italia. Il laboratorio si terrà il 19-21-22 gennaio 2015, dalle ore 16.00 alle ore 19.30 presso la Galleria della Biblioteca Provinciale di Lecce. Il laboratorio sarà condotto dall’artista Roberto Bergamo. Durante il laboratorio, della durata di 3 ore, i partecipanti realizzeranno un proprio Libro di Artista partendo dal proprio modo di esprimersi e dalla personale cifra stilistica in base ai materiali che si vorranno utilizzare. Il docente, nella prima giornata del workshop, metterà i par-
in agenda
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Roberto Bergamo,C’era una volta un libro d’artista
tecipanti nelle condizioni di apprendere innanzitutto cos’è un Libro d’Artista, attraverso la sua storia e gli esempi dei vari movimenti artistici che in tutto il mondo lo hanno costantemente praticato. Da non confondersi con i classici libri d’arte, esso rappresenta un vero e proprio manufatto artistico, unico ed originale. Le tecniche usate sono relativamente semplici e offrono svariate possibilità di percorsi: ad esempio, solo cambiando un tipo di carta o colore si possono ottenere differenti risultati con varie possibilità di soluzione. A questo punto i partecipanti saranno in grado di scegliere in quale modo realizzare il proprio Libro, a secondo degli obiettivi che si vogliono raggiungere. Al fine di una corretta riuscita saranno preparati dei bozzetti in modo da poter stabilire, con l’ausilio del docente, i vari materiali più idonei allo scopo.Il secondo e terzo appuntamento si concentreranno nella realizzazione pratica del Libro d’Artista, con esposizione finale al pubblico. Ai partecipanti si chiede di procurare forbici ecolla,gli altri materiali saranno selezionati e stabiliti insieme al docente . Il laboratorio è rivolto agli artisti, agli appassionati d’arte e a tutti coloro che vorranno sperimentare la realizzazione di un personale ed esclusivo oggetto d’arte; è aperto sia agli adulti che ai ragazzi (fascia di età 8-13 anni | adulti) che saranno ovviamente divisi in gruppi differenti. Si partecipa previa pre-iscrizione. Numero massimo partecipanti 10 persone Per iscrizioni ed info: axacultura@gmail.com - mob.: 320 9654542
Le serre
Amarcord e qualche mito dal Sud Salento: quei grappoli bruni del Serrito
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Murge
di Rocco Boccadamo
di Rocco Boccadamo
Pianura salentina
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Cartina fisica della penisola salentina
er alcuni tratti del versante litoraneo fra Otranto e Santa Maria di Leuca, da cui si ha agio di godere dell’affascinante e un po’ misterioso connubio fra Adriatico e Ionio, le Serre salentine si protendono sotto forma di catene costiere: intendiamoci, nulla di più di semplici e modeste alture. Forse, dalle Serre, la denominazione di «Serriti» attribuita, probabilmente a partire da epoche remote, ad una parte del feudo (o campagne) del mio paesello natio, ai confini con il mare. La conformazione concreta di tali terreni, frammentati in piccole proprietà contadine, consiste in terrazzi degradanti, su più livelli, sino alla scogliera demaniale che sprofonda nelle limpide distese. Vi allignano, soprattutto, piante di ulivo, ficheti, carrubi e, infine, minuscoli fazzoletti di vigneti ad alberello. Non si è in presenza di veri e propri strati coltivabili e continui, bensì di macchie, o cortili di humus (dal colore rosso particolarmente caldo) inframmezzati da ossature e spuntoni di dura roccia che emergono bassi e consistenti, ma si rivelano spesso anche interrati, rispetto alla superficie. La densità dell’aria e la temperatura risentono di siffatta conformazione: man mano che si scende, si respirano e avvertono con sensazioni progressivamente più intense.
Pure Nonno Giacomo, genitore (in concorso con la mitissima e dolce Nonna Lucia) della mia povera mamma e di altri cinque figli, maschi e femmine, possedeva il suo «Serrito», non un podere qualunque ma una vera e propria costola, ovviamente dopo la famiglia, dei suoi interessi e dei suoi sentimenti. Radici contadine, stazza consistente, baffi vivaci e grintosi, incarnato e pelle rosolati dal sole, mani forti e dure, personalità tosta, severo all’occorrenza ma di solito estroverso e giocoso nelle relazioni con gli altri, autorevole a modo suo, l’anziano uomo si muoveva a piedi (per trecento giorni all’anno, ovviamente scalzi) o tutto al più, quando gli toccava affrontare discrete distanze, in sella ad una vecchia bicicletta, mezzo con cui talvolta trainava una docile capretta, menandola, insieme con sé, verso qualche povero pascolo in campagna. A capo di gruppi di operai i quali, stagionalmente, per quattro/cinque mesi complessivi all’anno, prestavano attività nei frantoi oleari (da frantoiani, appunto, e lì il coordinatore aveva il preciso appellativo, di incerta etimologia, di «nachiro») o negli stabilimenti vinicoli, il nonno si spostava dal paesello verso località del Brindisino, riuscendo in tal modo ad assicurarsi un salario anche in periodi che, a casa, sarebbero altrimenti stati «morti» e privi di entrate.
Serre salentine
Questi i connotati di massima di Nonno Giacomo: ma, torniamo al suo «Serrito». Quando non lavorava lontano da casa, era solito recarvisi pressoché quotidianamente, percorrendo, come ricordavo prima a piedi o in bici, circa sei chilometri tra andata e ritorno, in discesa e in salita. Negli intervalli distanti dai raccolti, egli, con l‘aiuto dei due figli maschi, attendeva ad un’attività particolare, strana e anche un po’ pericolosa: praticando manualmente, mediante lunghe aste di perforazione, dei fori nel corpo degli spuntoni rocciosi e, aiutandosi con piccole e rudimentali cariche di polvere da sparo o mine, ne provocava lo sfaldamento, dopodiché passava allo sradicamento, con la sola forza delle braccia, di quelle rocce, che, si osservi bene, non venivano buttate via, bensì, ridotte in piccoli massi e pietre, erano utilizzate per rinforzare, rifare ex novo o sopra elevare i muretti a secco delimitanti la proprietà. Però, la finalità vera dell’operazione era di «guadagnare» qualche metro quadrato di terra su cui poter impiantare nuovi alberelli di vite: insomma, un far crescere «amorevolmente» il piccolo terreno agricolo. Nel penultimo terrazzamento, ormai in prossimità della scogliera e del mare, esisteva una minuscola costruzione, una «caseddra», con muri e copertura di pietre aggregate a secco o appena saldate mediante un
racconti salentini
della domenica n°59 - 11 gennaio 2015 - anno 3 n.0 povero impasto di calce viva e terra rossa. Nonno Giacomo si configurava alla stregua di personaggio «tosto», dicevo, e sicuro di sé, indubbiamente si era andato irrobustendo pian piano a cominciare dalla tenera età, sotto la spinta della povertà e del bisogno di rendersi precocemente utile, di divenire fonte di un qualche reddito. Ho impressi nella mente certi suoi comportamenti, per così dire un po’ stravaganti, anche se di una semplicità, una naturalezza e un’ingenuità senza eguali, come il fare o «prendersi» il bagno nel mare del «Serrito», in compagnia del suo quasi coetaneo e confinante Peppe «u russu», in costume assolutamente adamitico: del resto, non credo che Nonno Giacomo abbia mai posseduto un costume da bagno, né, evidentemente, egli doveva giudicare opportuno immergersi con i normali mutandoni che, poi, avrebbero richiesto di essere risciacquati e lasciati al sole ad asciugare. Ho memoria, anche, di una sua caduta, in paese nei pressi di casa, dalla bicicletta, scivolata su un sottile strato di neve ghiacciata (eccezionalità per il Salento), con la conseguenza di una leggera menomazione agli arti inferiori che gli rimase per sempre. Ma, in queste righe, desidero mettere a fuoco soprattutto la figura del mio progenitore giustappunto nel suo rapporto col «Serrito» e, in particolare, con la modesta estensione a vigneto lì esistente. Nonno Giacomo era geloso, morbosamente geloso, dei suoi alberelli di vite: li accudiva con le migliori cure in tutte le fasi della coltivazione, dando l’impressione di accentuare oltremodo il trasporto, l’ansia e la premura verso quelle piante nel mentre si approssimava la formazione e la graduale maturazione dei grappoli d’uva. Vietato a chiunque di avvicinarsi ai «cippuni», guai a sfiorare o toccare o cogliere qualche grappoletto che poteva parere già «pronto»; Nonno Giacomo si ergeva, per tutta la giornata, e in estate anche di notte fermandosi a dormire nella richiamata caseddra di pietre, a custode e guardiano ferreo della sua vigna. Ad essere sinceri, man mano che l’uva incominciava ad essere mangiabile, egli soleva, di sua iniziativa, recidere i primi grappoli e, un panierino per volta, al rientro la sera in paese con la bici, li dispensava ora ad una e ora all’altra delle figlie sposate, fra cui mia madre. Sussulti di generosità, quindi, ma fino ad un certo punto. Però, quando esordiva il mese di agosto, arrivava a scattare un evento straordinario: all’epoca, le stagioni si snodavano costanti, le previsioni meteorologiche si potevano fare a naso, cioè senza bisogno di satelliti o di esperti, tipo Giuliacci, sicché Nonno Giacomo era in grado di indicare, con sette e anche dieci giorni di anticipo, la data in cui si sarebbe proceduto al raccolto, o meglio alla vendemmia, dell’uva del «Serrito».
E coinvolgeva in tale evento non solo moglie, figli, figlie, generi e nipoti, ma parimenti fidanzati e fidanzate dei ragazzi ancora in casa, insieme con le relative famiglie al completo, oltre a qualche suo anziano fratello e ad altri congiunti. In definitiva, venticinque-trenta persone, chiamate tutte a convenire al «Serrito» nel tardo pomeriggio della vigilia della vendemmia. Piccola e festosa adunata campestre. Ecco il rito di quella cena allargata, come mai succedeva durante l’anno, frugale, molto alla buona; solamente una volta, ricordo, solennizzata con la cottura e la distribuzione in porzioni sufficienti di una gigantesca piovra che, il giorno prima, mio padre, mentre faceva «prendere» il bagno a me ed ai miei fratelli, era riuscito ad agguantare da una buca sul bagnasciuga erboso della vicina Marina dell’Aia ed a sbattere sugli scogli (autentico eroe di genitore, sebbene all’inizio un po’ esitante). E dopo il frugale pasto, frammenti di conversazioni e di allegre risate e, quindi, tutti a nanna: pochissime persone, fra cui Nonna Lucia, mia madre ed una zia sposata, unitamente a qualche pargolo, all’interno della caseddra, tutti gli altri all’aperto, distesi a terra su stuoie (zinzuliere) sotto le chiome degli alberi. Rammento che a coricarsi così si stava da Dio, le stelle in alto sembravano voler sussurrare qualcosa, la temperatura era molto mite, accarezzava la pelle e quasi accompagnava il sonno, l’aria si annusava pulitissima e profumata. Ci svegliava l’alba, prima ancora che sorgesse il sole: tutti riposati e rinfrancati, pronti per l‘opera. In un baleno, venivano distribuiti coltelli e forbicine e subito il solenne via alla vendemmia proclamato da parte di Nonno Giacomo con la precisazione ad alta voce: «Ora potete mangiare tutta l‘uva che volete!». In verità, bastava poco per riempire dei panierini di vimini che man mano venivano svuotati in più grosse «panare» fatte dello stesso materiale, a loro volta portate a spalla dagli adulti su, per il sentiero in salita sino alla strada litoranea, dove, intanto, era giunto e stazionava un traino con due botti che avrebbe portato il prodotto in paese, sino al palmento, per il processo di trasformazione dei grappoli in mosto e l’avvio della fase di vinificazione. Tre – quattro ore e la vendemmia, ancor prima che i raggi del sole assumessero l’effetto rovente del mezzogiorno, risultava già ultimata. A quel punto, il piccolo esercito di umanità, indistintamente fra grandi e piccoli, avvertiva e serbava intimamente un senso di profonda soddisfazione per aver vissuto il tanto atteso rito dell’abbuffata e del taglio dei grappoli del «Serrito». La cerimonia si concludeva del tutto con il tonificante bagno nelle antistanti acque cristalline e corroboranti e, a seguire, ognuno, per suo conto,
rientrava a casa e alle proprie cose. Il vino ricavato dalla vigna del «Serrito», Nonno Giacomo lo utilizzava con cura, esclusivamente per il fabbisogno della famiglia, nel corso dell’intero arco dell’anno: perciò quella bevanda scura, quasi nera, segnava, allietando i palati, tutte le ricorrenze solenni, dal Natale al Capodanno alla Pasqua alla festa di S. Vitale. In tali occasioni, Nonno Giacomo invitava a casa sua i familiari e anche i nipoti come chi scrive, e si poteva assistere alla mescita del nettare da bottiglioni che recavano infilati nel collo rametti di finocchio: un rudimentale ma efficace tocco di profumo aggiuntivo al già olezzante liquido. Ancora vivente, Nonno Giacomo, in uno con qualche altra sua piccola proprietà, donò il «Serrito» ai figli; per la precisione, una parte del fondo è stata successivamente venduta a terzi, esattamente ad una nobildonna della zona (madre del regista cinematografico Eduardo Winspeare), la quale vi ha costruito una grande villa. In tale residenza, si è trovata a trascorrere le vacanze estive, per almeno una quindicina d’anni, l’attuale famiglia reale belga; cosicché, in un mattino d’agosto, la regina Paola, allora principessa, si avvicinò ad un mio zio, il quale, da parte sua, aveva conservato la proprietà della rispettiva quota del «Serrito» ed anzi aveva tirato su una moderna casetta di villeggiatura, in parte utilizzando e ristrutturando la vecchia caseddra di pietre, domandandogli se fosse d’accordo a venderle il fondo, intenzionata a realizzarvi un’altra villa per la sua famiglia. Ovviamente, il predetto zio, pur con il sorriso sulle labbra, declinò la proposta dell’augusta e bellissima signora. Ho cercato di rievocare un piccolo spaccato di tempi lontani, tempi che, ad ogni modo, sento tuttora giovani, attivi e vivi dentro di me. Anche adesso, ogni volta che costeggio con la mia barchetta a vela la scogliera prospiciente il «Serrito», succede come se compissi un tuffo all’indietro, mi si affacciano agli occhi volti, voci ed avvenimenti che hanno lungamente ed intensamente segnato la mia infanzia e la prima spensierata giovinezza. E, autentica chicca in fondo ai presenti ricordi, mi viene in mente anche il fugace transito lungo il nostro tratto di litoranea, nell’ottobre 1959, a bordo di un’autovettura di lusso, dell’avvenente principessa Soraya, già Imperatrice di Persia, la quale era stata da poco ripudiata dallo Scià per non essere riuscita a dargli un erede al trono. Ieri, in un contesto di maggiore e più vera semplicità, per il nostro comune sentire esistevano anche dei miti, grandi e piccoli: invece, oggigiorno, tutto è purtroppo divenuto diverso.
diario politico
spagine
della domenica n°59 - 11 gennaio 2015 - anno 3 n.0
copertina
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di Mauro Marino
iorni amari questi! Con il criminale attacco terroristico al settimanale satirico francese “Charlie Hebdo” le frange estreme dell’integralismo jihadista hanno scelto di colpire l’Occidente nei fondamenti della sua capacità di elaborazione culturale: la satira punge affilando le matite e le parole. È pratica di disincanto – la satira - provoca il sorriso, muove alla leggerezza. Un atto culturale complesso, intelligente, capace di integrare, in pochi segni, la critica ed insieme la tolleranza. I due fratelli terroristi hanno colpito con Parigi tutta l’Europa, gli intellettuali e il popolo ma anche l’islamismo moderato e tutte le genti che chiamano Dio, Allah. Un atto grave soprattutto nelle conseguenze di rabbia e di intolleranza che innesca nella fragile Europa, allontanando le sponde del Mediterraneo e complicando l’incontro tra culture diverse. *** “Mamma li turchi!”, abbiamo sempre avuto paura dell’invasore noi, qui! Otranto è testimonianza antica, ferita incisa nella terra. Memoria indelebile di un tempo in cui nessuno però era innocente. Come ora d’altronde… Anche i Cristiani hanno compiuto sterminio. Dio è sempre servito ad ispirare e a coprire crimini contro la sua più importante creatura: l’uomo… Amo un poeta che per dare “ordine” al suo fare s’era immaginato un nome particolare:
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opo l'assalto alla redazione di Charlie Hebdo, la campagna social Not In My Name ha subito una crescita immediata e sensazionale. Not in my name: non nel mio nome, e non nel nome dell’Islam, da Berlino a Londra, passando per Milano, i musulmani di tutta Europa fanno sentire per condannare lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, colpevole di “corrompere la loro religione” usandone il nome ma violandone i principi di fondo.
“Pensionante de’ Saraceni”. Il salentino Antonio Verri così decise di nominare, negli anni Ottanta, la sua casa editrice. Un luogo dove dare ospitalità all’altro, al diverso, allo straniero, al temuto “turco”, al saraceno invasore. Che meraviglia, che lungimiranza, che coraggio. La cultura elabora il conflitto, lo rende risorsa, nutrimento per la comunità. Beanea, il Salento per sua natura un territorio senza confine, “penisola” messa in mare, approdo naturale dei respiri e delle speranze di quanti in fuga guardano all’Europa come luogo di riscatto, di vita. Il Salento e la Puglia dagli anni Novanta hanno dimostrato di essere terra capace di uno straordinario senso dell’accoglienza. Qui numerose comunità vivono in pace, integrandosi, trovando uno spirito di “tolleranza” spesso virtuoso nel costruire convergenze di vita condivisa. Non mancano gli episodi oscuri molti per demerito di nostri connazionali… ma questo non deve allontanarci da quello che sempre più pare essere il destino della nostra città. Una città europea nel cuore del mediterraneo, lo dice la Storia ed è “scritto” dalla Geografia. Su un social network ho letto: “Siamo illuministi e non cederemo alla paura”, così deve essere… La paura non deve frenare i processi di integrazione - evoluzione naturale del Mondo - specie quando le democrazie occidentali non riescono - non sono riuscite sinora - a sanare i guasti provocanti con il Coloniali-
smo, con l’arroganza di un etnocentrismo che certo è alla base delle ferite ancora aperte nei territori a sud del Mondo. *** Nei giorni della candidatura a divenire nel 2019 Capitale Europea della Cultura, molte parole si sono spese in favore di un disegno avanzato di città, una comunità aperta al cambiamento quella che si prefigurava, “eutopica” capace cioè di realizzare l’idealità di un modello sociale. Erano solo parole? Buoni proponimenti? Sì, se è vero com’è vero che appena chiuso quel processo la nostra città s’è fatta sospettosa ed ostile nei confronti del progetto che individuava Lecce e la vecchia manifattura tabacchi di via Dalmazio Birago come sede di un’università islamica, la prima in Italia. Certo non sarebbe accaduto se Lecce avesse ottenuto il titolo… promossa non poteva permetterselo l’oscurantismo, almeno penso. Oggi, all’indomani (e al presente) dei fatti di Francia quel progetto va ripreso, difeso e valorizzato se veramente vogliamo costruire un Mondo di pace, un Mondo dove sulla cecità e la violenza vince l’ascolto e la tenerezza; dove la cultura e la spiritualità possano tessere e rafforzare la convinzione che solo la Pace ci rende vivi. Concetti deboli per chi invoca la guerra ma questa è la battaglia da fare, quella per la Pace, l’unica battaglia che può definitivamente vincere.