Spagine della domenica 60

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spagine della domenica n°60 - 18 gennaio 2015 - anno 3 n.0

Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri

Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri


Il nuovo cristianesimo di Papa Francesco

spagine

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n modello di papa, evidentemente, non esiste. Ne abbiamo visti tanti nella storia! E uno diverso dall’altro. Papa Francesco, dunque, è uno dei tanti. Ma forse lascerà parlare di sé un po’ più degli altri. Non solo e non tanto per le sue dichiarate intenzioni di cambiare la chiesa quanto per il modo di farlo; e soprattutto per il suo linguaggio, con immagini e categorie che gli vengono così strada facendo. Se si dovesse trovare un paragone per lui, dovendo attingere alla letteratura popolare, assai ricca, si potrebbe definirlo un don Abbondio, un pievano Arlotto, un don Galeazzo, un don Camillo. Di ognuno di questi archetipi ha qualcosa, in cui addirittura è superiore. L’ultima sortita l’ha fatta nell’aereo che lo portava a Manila. A proposito dell’eccidio parigino del 7 gennaio nella redazione della rivista satirica “Charlie Hebdo”, se n’è uscito con una battuta che ha lasciato sconcertati tutti. Ha detto che se uno ti offende la mamma, si deve aspettare un pugno. Una roba del genere non sta né in cielo né in terra, per lo meno non nel cielo di Cristo né nella terra dei cristiani. Per Papa Francesco i redattori della rivista hanno avuto quello che si meritavano, avendo offeso più volte Maometto. Un’affermazione di una gravità assoluta, per quanto mitigata dalla subita

di Gigi Montonato

stereotipata contraddittoria affermazione, che comunque non si uccide per un’offesa. E vorrei vedere! Addio, dunque, al cristiano che porge l’altra guancia a chi gli dà uno schiaffo? Addio tolleranza cristiana? Addio cristiano perdono? La nuova dottrina di Papa Francesco è chiara: ad un’offesa bisogna rispondere con le mazzate. Così accadeva una volta per strada tra ragazzi discoli. Se dovesse passare questa nuova versione “francescana” della dottrina cristiana dovremmo andare tutti armati. Papa Francesco ha un modo di essere e di parlare poco attento, che gli fa dire delle cose non pensate né ponderate. Lo stesso si diceva, ma a livello decisamente diverso, di Papa Ratzinger, quando con alcune sue affermazioni provocava risentite reazioni internazionali, che tanto hanno scandalizzato e allarmato gli intellettuali sofisticati di una certa sinistra radicale. Il discorso di Ratisbona ancora fa testo del suo essere avventato. Francesco parla troppo senza pensare, Ratzinger pensava troppo prima di parlare. I soliti defensores del Papa, senza se e senza ma, incominciano a venir meno di ventose nei loro arrampicamenti sugli specchi. Tirano fuori il buonismo per non dire dabbenaggine o che parla alla buona per farsi meglio capire; danno la colpa alla scarsa conoscenza della lingua italiana mentre esaltano i suoi neologismi, che altro non sono che improprietà lessicali desunte da una sorta di “spagnitaliano”, come chi non conoscendo l’italiano parla in poleto semplicemente italianiz-

zando il dialetto. Altri nobilitano la gaffe “francescana” con la preoccupazione di mettere un freno alla satira sacrilega, offensiva, oscena che colpisce i sentimenti religiosi dei credenti, di qualunque religione essi siano. Ma c’è una tempistica anche negli interventi del Papa. Pur prescindendo dall’altra sua storica uscita “chi sono io a giudicare?”, finora non lo si è sentito mai dire mezza parola contro gli spettacoli osceni e indecorosi, contro il turpiloquio pubblico e sistematico, contro le gratuite e disgustose indecenze della televisione. I suoi interventi mirano sempre a stabilire con la gente un rapporto di affetto e di simpatia, di giovialità e anche di comicità. Cerca sempre di far ridere la gente, di farsi approvare, amare; denuncia una carenza di affetto ancestrale. Fa il duro solo con i preti, con la curia, contro cui torna con accuse di vanità, di arricchimenti, di agi e comodità eccessivi, di corruzione. Come se le piaghe sociali fossero tutte e solo nella chiesa. Tradisce un astio covato per anni nella chiesa argentina; un astio nutrito dal pensiero al mondo dorato dell’Occidente romano. Toh, mi accorgo di aver preso le difese dei preti, nei confronti dei quali non ho mai avuto l’appetito del mangiapreti, ma neppure particolare benevolenza, anzi. Ma Papa Francesco incomincia davvero a renderli simpatici, deboli e indifesi. Non credo che i suoi defensores gli rendano un buon servizio assecondandolo o esaltandone i limiti caratteriali e culturali come se fossero qualità.


diario politico

della domenica n°60 - 18 gennaio 2015 - anno 3 n.0

Certo, attaccare il Papa è come prendersela con chi lo ha fatto, che sarebbe lo Spirito Santo. Il quale, da qualche tempo in qua, si distrae con facilità; o forse, più laicamente, sono le Loro Eminenze che non sanno più interpretarne la volontà. Un difetto di comunicazione, si dice in politica. Più realisticamente nel mondo complesso e complicato della chiesa cattolica hanno smarrito il senso di un ruolo, l’importanza del Papa, che non può essere né un professore d’università né un parroco di campagna. La felice eccezione di Giovanni Paolo II ha fatto

diventare regola l’elezione di uno straniero al soglio pontificio, rinunciando alla millenaria consuetudine dei papi italiani, che erano di altra preparazione, con altri vizi sicuramente ma assai più esperti. E’ ben vero che la chiesa cattolica ha tante realtà diverse nel mondo, che vanno tutte capite e rispettate. Ma proprio per questo è necessario che il Papa sappia rappresentarle tutte. Un Papa come Francesco rappresenta egregiamente la chiesa latino-americana con tutte le caratteristiche politiche, sociali e culturali. Come può il

Vescovo di Roma riconoscere nel giusto uno che invece di perdonare colpisce chi lo ha offeso? Me lo chiedo con l’angoscia di chi ha sempre riconosciuto in chi perdona uno spirito superiore rispetto a chi cerca vendetta, pur riconoscendomi per carattere e cultura più nella vendetta che nel perdono, che è prerogativa esclusiva di Dio. L’angoscia di chi si accorge di veder spenta una luce, che pure gli serviva per orientarsi nel buio della vita, magari solo per prendere una strada diversa per libero arbitrio.


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spagine

a Lega Nord, dismesse per il momento le inammissibili idee parasecessionistiche, si propone addirittura di cercare consenso e di fare proselitismo a Roma e nel Mezzogiorno. Evidentemente, il Carroccio condurrà la sua pervicace lotta non più contro “Roma ladrona” e contro gli “improduttivi” cittadini meridionali, ma prenderà di mira particolarmente gli indesiderati migranti. Il segretario Matteo Salvini, in anticipata campagna elettorale, traveste la sua propaganda chiaramente xenofoba e vagamente razzistica con motivazioni economiche. In nome del mercato che tutto determina e tutto può, qualcuno vorrebbe sbarrare anacronisticamente le porte agli extracomunitari, vorrebbe addirittura respingerli o fermare in qualche modo i flussi. L’ “inedito” concetto leghista, vecchio e obsoleto come un arnese in disuso, è il seguente: “Con tanti stranieri attualmente disoccupati, quante nazioni ne farebbero entrare altri? Nuovi arrivi di extracomunitari, che il mondo del lavoro non può assorbire, verrebbero ad innescare una pericolosa bomba a livello sociale”. Per attirare facile approvazione elettorale, c’è chi si candida come supposto e improbabile difensore degli “interessi” nazionali, ingaggiando una spietata lotta intestina fra i più poveri, fra gli ultimi della terra. Ma la piaga della disoccupazione è un grave, frustrante, invalidante problema, che tocca pressoché tutte le latitudini, le popolazioni autoctone e quelle che vengono da fuori. Anzi, i migranti, per una loro cultura più morbida e più umile della nostra, sono disposti ad accettare lavori modestissimi, che gli italiani solitamente rifiutano. Quanto sarebbe limitato e povero il nostro Paese senza l’apporto di genti diverse? Quanto sarebbe triste e poco armonica una terra di confine senza la coesistenza di culture, di tradizioni di varia provenienza? Sul banco degli imputati devono essere messe certe concezioni economiche mondiali, che, invece d’includere e di assottigliare le sperequazioni sociali, invece di creare prosperità, crescita, sviluppo, possibilità per tutti, generano solo vasti squilibri e dolorose sacche di esclusione. Da noi, sul banco degli imputati vanno collocate soprattutto le trascorse politiche popolazionistiche inadeguate e securatarie, volute dalla Lega Nord quando era al governo. Una superiore ragione interpella a fondo e direttamente la coscienza d’ogni cittadino e delle istituzioni. L’etica della responsabilità, che è mansione ineludibile, dovrebbe essere sempre guidata da un inesauribile senso di umanità e di solidarietà, al cospetto di migranti, che fuggono da miserie, da guerre, da carestie, da persecuzioni etniche. Un’umanità ferita, dolente, che scappa, preme e chiede ospitalità. Il cammino del popolo errante deve essere certamente disciplinato, ma non può essere frenato o frustrato da politiche chiuse dal fiacco impatto, dal fiato corto. Chi ha conosciuto gli odi, non può essere rifiutato dalla ricca e opulenta civiltà occidentale. L’Europa delle banche e della finanza sovrana si è dimostrata inadeguata ad affrontare sagge e razionali istanze immigratorie: non si può

La Lega a sud Contemporanea

della domenica n°60 - 18 gennaio 2015 - anno 3 n.0

di Marcello Buttazzo

continuare a eludere drammaticamente il problema, a demandare ai vari governi nazionali l’onere gravoso d’una intricata questione. Anche la recentissima missione Frontex dell’Europa nelle acque del Mare nostro è limitatissima e deficitaria. In Italia, gli ultimi governi si sono adoperati per salvare le vite dei disperati, che vengono da lontano. Ma, in passato, le istituzioni hanno fatto ricorso a misure insensate. Un passato governo Berlusconi, solertemente incoraggiato dalla Lega Nord, ha saputo concepire inverecondi pacchetti sicurezza, assurdi e orripilanti reati di clandestinità, Centri di identificazione ed espulsione (già strutturati dal centrosinistra in un governo precedente), ancora più impraticabili, fatiscenti e invivibili. Un governo dell’ex Cavaliere, con Maroni ministro dell’Interno, ha avallato per un momento i feroci respingimenti in mare, ha stretto rapporti “significativi” con un dittatore come Gheddafi. Ciononostante, da noi, ha sempre allignato una solidale cultura dell’accoglienza, della benevolenza, della misericordia, vivida fra l’opinione pubblica, la Chiesa, le tante associazioni cristiane e laiche. Importanti esponenti del Carroccio si sono sempre addirittura meravigliati

Matteo Salvini

della missione umanitaria della nostra Chiesa cattolica. Si può notare ancora un’altra deteriore tendenza da aborrire tout court. Da anni, nel Belpaese, la mania politica dominante (di centrodestra e di centrosinistra) mira a supportare il “civile decoro”, a edificare città “dignitose”. Da tempo, in alcune città italiane, certe amministrazioni di vario colore partitico hanno avviato la caccia grossa al rom, al “disadattato”, al clandestino, in nome del vincente “rigorismo”, d’un supposto ordine. La Chiesa cattolica, per fortuna, ha sempre mostrato un bel volto caritatevole. Un Cristo profugo, anima errante, sofferente, batte e ribatte nel cuore di tanti uomini, lumeggia i giorni ordinari. La Chiesa cattolica, che per l’innanzi è madre, sa spalancare le sue braccia, sa diventare sangue e cuore, sa consolare i derelitti. Perché i leghisti, avvezzi alla propaganda di basso livello, si stupiscono che i religiosi siano accanto ai rom e agli immigrati? La povertà davvero è una “vergogna”, un “insulto”, una “minaccia” per la normale e civile convivenza? E se cominciassimo a rispettarci un po’ nell’intimo, magari tentando di perdonarci tutta la nostra vita, che resta comunque clandestina?


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L

Se non c’è coscienza...

’ispirazione e le radici che sono sottintese a queste note vogliono partire da lontano e da un arcobaleno d’umanità, con correlati drammi, abbracciante i continenti a tutto tondo. Non solo 11 settembre 2001, Iraq, Afghanistan, Medio Oriente, Siria, svariati e disgraziati Paesi africani, discriminazioni razziali, fondamentalismi e diatribe religiose, carestie, realtà diffuse di fame e miseria, ma anche ciò che fa non parte dell’elenco esemplificativo, ma c’è. *** Non possiedo galloni di penna da richiamo, né, tantomeno, di fonte di cultura e di opinione. Sono soltanto un comune narrastorie. Purtuttavia, sentendomi cucito addosso per mero fatto naturale - un dignitoso abito di cittadino e identificandomi quindi, nel mio piccolo, come tassello della collettività, non mi stanco -è più forte di me- di guardarmi intorno. E così, osservo, rifletto su ciò che accade: chiaramente, snocciolo un rosario senza fine di vicende, minuscole ed enormi, ordinari fatti di cronaca, drammi e tragedie, col risultato che orecchie e sentire interiore finiscono con l’essere, quasi ogni giorno, assordati da immagini e frastuoni di eventi, reati, delitti e stragi, che si caratterizzano tristemente per via dei loro eclatanti contenuti o per la particolare scorza di crudeltà che, sovente, li ispira e li avvolge. E però, ancorché una simile sequenza ravvicinata e incalzante di azioni negative e crudeli valga a giustificare, in linea di principio, il sentimento di netta repulsione e di condanna verso le losche figure degli autori, giammai, tale inferno, deve indurre, perché non è giusto, a generalizzare e a criminalizzare a tutto campo con leggerezza. A motivo, anche, giova ricordarlo, che sulle strade del male e della devianza, non ci si imbatte solamente in gente venuta da fuori e da lontano, essendo i protagonisti in negativo, talvolta se non spesso, nati e cresciuti in mezzo a noi, in seno alle nostre normali famiglie. A questo punto, mi sovviene il titolo di un articolo, uscito intorno a Natale di alcuni anni addietro, a firma del famoso giornalista e scrittore Enzo Biagi. Recitava: “E’ tornato Erode e la pietà è morta”. Analogamente al sentimento che mi pervase di primo acchito all'epoca, mi viene ancora oggi spontaneo di dare atto a Biagi della puntualità e della profondità di pensiero offerte ai lettori, attraverso tale titolo, proprio con riferimento agli accadimenti che, ora come già allora, si susseguono senza soluzione di continuità sul pianeta, sotto forma di eventi tragici, sanguinosi e distruttivi. Andando a maggior ritroso, eravamo invece abituati a registrare e a vivere fatti di carattere eccezionale, ossia a dire che lasciano il segno, vuoi da diretti partecipanti vuoi da testimoni vicini o lontani, con scansioni non a ritmo costante e neppure frequenti, nella mente e nell'anima ne registravamo la riso-

la riflessione

della domenica n°60 - 18 gennaio 2015 - anno 3 n.0

di Rocco Boccadamo

nanza e gli effetti grazie a processi fisiologici particolari, le tracce dei medesimi episodi restavano realmente e profondamente impresse nel nostro interiore, tanto che, a lungo, ci capitava di farne rievocazione, a guisa, davvero, di passaggi cruciali e indelebili dei nostri ricordi e della nostra stessa esistenza. Adesso, ahinoi, come è noto, di sconvolgimenti, calamità, sfracelli o catastrofi sensazionali, ne arrivano invece a ripetizione, in ogni angolo della terra. E questo, al pari di altre non poche sfaccettature su solchi di peggioramento, potrebbe leggersi e interpretarsi come un beffardo rovescio della medaglia in seno al processo di globalizzazione. Se siamo giunti al punto che la strada tracciata davanti all’umanità reca, più che segnali di diverso genere, muretti di lutti, ombre di distruzioni, impronte di disdegno assoluto della sacralità della vita e di disprezzo dell'esistenza del prossimo, bella conquista ha compiuto la società del terzo millennio! Né importa se i pupari che preordinano ciò che accade agiscono da soli o in scellerate congreghe, se si tratta di dittatori oppure di politici aridi o potentati economici e finanziari oppure di tiranni assetati di potere oppure di singoli fanatici religiosi o fondamentalisti. Magra consolazione è aggiungere che la nostra coscienza non può che rimpiangere taluni modelli di ieri, ma forse sbaglio, io comune narrastorie, a parlare di coscienza: mi sa che, nell’ambito della realtà che andiamo attraversando, la componente coscienza, già costituente - consciamente o inconsciamente - la base fondante delle manifestazioni e dei comportamenti d’ogni essere vivente e pensante, sia andata a farsi benedire. Che peccato! Conclusione, di questi tempi, dunque, si può restare vittime innocenti a ogni piè sospinto e in mille modi differenti e inimmaginabili; peggio ancora, la vampa del terrore che attanaglia non promana tanto dai drammi, uno per uno, che si succedono, quanto dal sospetto e dall'aspettativa della loro progressiva intensificazione e recrudescenza, sia come numero, sia come intensità di reiterazione, sia come dimensione e conseguenti effetti deleteri. Addirittura, finiscono con l'apparire unicamente un segno esteriore, non un autentico e concreto motivo di partecipazione e di solidarietà, iniziative del genere di lumini accesi, di selve di cartelloni, striscioni e slogan e, finanche, di riunioni dei responsabili di numerosi e svariati paesi tutto il mondo. Se il coinvolgimento si esaurisce, come sin qui accaduto, in breve arco temporale, non appena rientrato il primo effetto emotivo, e, subito a seguire, gli interessi di parte, di schieramento e di natura materiale tornano a prevalere schiaccianti rispetto a linee di condotta e politiche mirate al vantaggio e benessere comune.


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il saggio

della domenica n°59 - 11 gennaio 2015 - anno 3 n.0

Politica locale

Ambrogio Lorenzetti, Personificazione della Pace, dettaglio dalla Allegoria del Buono e Cattivo Governo e dei loro Effetti Palazzo Pubblico, Siena

e sogno del buon governo

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ei tempi della crisi della democrazia e della politica, in quelli della “solitudine del cittadino globale”, esiste ancora lo spazio pubblico per la politica locale? Ed ha ancora senso, oggi, il sogno del buon governo? Dico subito che ha ancora senso, prima ancora di tematizzarne la problematica, considerando che esistono nel Paese reti di comuni virtuosi, vedi http://www.comunivirtuosi.org/, reti di comuni partecipativi vedi: www.nuovomunicipio.net/documenti/statuto.html. Ed esistono buone pratiche amministrative, soprattutto in piccoli centri dove le specificità, che sempre esistono, non vengono viste come eccezioni, ed il “globale” non viene rimosso. Le domande di fondo preliminare da farsi è: esiste oggi uno spazio politico locale? esiste uno spazio territoriale, democratico, comunitario, nei tempi travolgenti della globalizzazione e dell’uniformazione? Dalla risposta a queste domande deriva la stessa possibilità di immaginare politiche locali, di avanzare nuovi modelli di democrazia partecipata e di cittadinanza attiva, di costruire un’ agenda politica locale. Per ovviare a queste difficoltà del lessico politico oggi si parla spesso di “glocal”, cioè di quell’intersezione che definisce una nuova territorialità situata tra locale e globale. L’altra questione odierna è che le politiche di austerità, con i vincoli di bilancio che ne derivano, riducono di molto le funzioni classiche del governo locale, riducono i trasferimenti centrali, spingono all’aumento della tassazione comunale per i servizi. Con la crisi economico-finanziaria che perdura, che incrementale diseguaglianze sociali, escludendo e precarizzando, soprattutto i giovani. Le leggi 142/1990 e 81/1993 hanno riformato poteri e modalità di elezione dei sindaci e delle amministrazioni comunali, con a seguire la legge 120/199. Si tratta principalmente dell’elezione diretta del sindaco, che passa da primus inter pares al ruolo diprimussolus, e che ha portato di conseguenza a una personalizzazione di questo ruolo.Con il sistema maggioritario, variamente coniu-

di Silverio Tomeo

gato in base al numero dei votanti,queste riforme istituzionali hanno stabilizzato maggioranze e minoranze, distinguendone meglio i rispettivi ruoli. Dove non si incrostino blocchi di potere, storici o più recenti, questo nuovo sistema ha comunque favorito la dialettica dell’alternanza verso una moderna democrazia competitiva tra due o più schieramenti. La figura centrale in democrazia è il cittadino, ma il cittadino è in primo luogo il cittadino socializzato. L’egoista e il familista restano sullo sfondo se il processo democratico comporta la socializzazione, l’apprendimento, l’informazione, la pluralità e la cittadinanza attiva. “Il cittadino è l’individuo socializzato a e nella sfera pubblica”, afferma Carlo Donolo, secondo cui “il buon governo è l’insieme di processi che cooperano alla riproduzione allargata dei beni comuni”. Il buon governo come processo politico legittimo dei processi sociali, prima ancora che come istituzione e amministrazione. Ed è più facile capire cosa sia il malgoverno che capire come si possa affermare e consolidare il buon governo. La società civile, le reti civiche, le associazioni, possono aiutare in modo determinante a riformare la politica dal basso. Sono decisive per connotare il microclima democratico che si respirain loco, diventano costitutive della stessa sfera pubblica. Le reti sociali ci ricordano che il processo democratico deve avere un contenuto sociale. Il ruolo dei legittimi interessi organizzati è parte della dialettica democratica, ma è l’esatto contrario dell’ irruzione di potentati economici in corto circuito con la politica. Una nuova alleanza sociale e politica può legittimamente aspirare ad esprimere un’amministrazione locale, su programmi, progetti, idee, per l’interesse generale della comunità democratica. Nell’agire politico vanno distinti lo scopo, il fine e il senso, scriveva HannahArendt, e lo stesso principio dell’agire. La crisi dei partiti ha spesso portato al loro evaporare, aridurli a comitati elettorali, a sterilizzarne il radicamento sociale, a frammentarli in cordate e fazioni. Ciò nonostante le alleanze civiche di liste locali, non sempre definibili politicamente, vanno a formare a tutti gli effetti,


Siena, “Il bene di tutti” – Gli affreschi del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti (Siena, 1290 circa – Siena, 1348), particolare Allegoria della giustizia L’allegoria domina la parte sinistra dell’affresco: è una donna vestita di rosso, che guarda in alto l’allegoria della sapienza di Dio, da cui riceve ispirazione.

anche giuridici, veri e propri “partiti locali”. Se la dialettica locale è giocata solo su bisogni corporativi, clientele, invadenza di lobby economiche, si arriva a un gioco distruttivo e incomprensibile di fazioni civiche che esprimerà amministrazioni con la barra dritta verso il malgoverno, quando non verso il commissariamento prefettizio nei casi più estremi ed eclatanti. Un governo locale senza adeguata rappresentanza equilibrata di genere dovrebbe insospettire, ad esempio. Un’amministrazione che non dà spazio al volontariato e che non sa interloquire con la società civile organizzata, con i sindacati, con i comitati di scopo, non esprime buon governo. Una società locale che non esprime cittadinanza attiva e nel caso combattiva, e che è invece soggiogata dal clientelismo e dalla demagogia, che si affida al populismo dall’altoper confusi

progetti miracolistici di sviluppo in tempi di crisi economica, tende a chiudersi nel gretto particulare e non è in grado di difendere i beni comuni e la loro riproduzione per il futuro. Va da sé che movimenti collettivi, società civile organizzata, comitati civici, il mondo dell’associazionismo, le reti civiche e sociali, sono il polmone della crescita culturale e del legame sociale, hanno la loro autonomia culturale, hanno tempi e progetti indipendenti al di là delle scadenze elettorali e dello stesso orizzonte politico-amministrativo. Riferimenti di studio possono essere: Donatella Della Porta,“La politica locale” (il Mulino, 2006) Carlo Donolo,“Il sogno del buon governo. Apologia del regime democratico” (Et al, 2011) ZygmuntBauman,“La solitudine del cittadino globale” (Feltrinelli, 2008)


spagine della domenica n°60 - 18 gennaio 2015 - anno 3 n.0

sull’educare

Senza paroline

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nostri bambini imparano a parlare perché noi parliamo loro. E imparano le parole, tutte le parole, anche le più difficili, anche in più lingue: non esistono parole per bambini e parole per adulti! Certo nessuno si rivolgerebbe a un bambino dicendogli: "Orsù, dispiega il tuo intelletto e predisponiti all'ascolto, che ti voglio estrinsecare codesto concetto: allorquando ti accingi ad attraversare la strada, è conveniente che tu mi porga la mano, poiché grazie alla mia esperienza pluriennale di persona adulta, sono maggiormente in grado di controllare l'eventuale arrivo di un veicolo da entrambi i lati, veicolo che, giungendo inatteso, potrebbe investirti e procurarti ingenti o addirittura fatali danni fisici" (anche per motivi di sicurezza: mentre gli teniamo questa dotta orazione, il bambino è da tempo finito sotto una macchina). Ma tra questo discorso, e " Attento, strada, manina

a mammina, brum-brum cattive, ahia bua!", esiste un'altra possibilità: "Adesso dobbiamo attraversare la strada, quindi dammi la mano, perché è pericoloso, e se una macchina ti investe ti può fare molto male". Io non ho mai capito perché un bambino dovrebbe essere capace di imparare "BRUM BRUM" e non "macchina" o "auto", "Bau-bau" e non cane, "Bua" e non "male" o "ferita". I bambini imparano con una facilità sorprendente anche parole come "Tirannosaurus rex" o "Pterodattilo", se noi gliele diciamo, tanto quanto imparano il generico "dinosauro". Imparano "margherita", "tulipano", "rosa" così come imparano "fiore", Perché gli adulti mangiano, o addirittura pranzano o cenano, e i bambini fanno, per anni e anni, sempre "la pappa"? Che noia! Che barba! Che noia! E poi, scusate, ma anche il continuo abuso di diminutivi: parolina, manina, sederino... è stucchevole! Ma non vi

di Lea Barletti

viene un attacco di iperglicemia? Ogni tanto va bene, ma ogni tanto! E' come con lo zucchero: troppo fa male, anche ai bambini! Dell'idiozia e totale incompetenza pedagogica della casa editrice "Edicart" che ha in catalogo due diversi libri cartonati per bambini "Paroline per bimbe" (naturalmente con copertina rosa) e "Paroline per bimbi" (naturalmente con copertina celeste), non voglio neanche parlare, poiché credo si commenti da sé... soprattutto se uno, come me, ha già un attacco di orticaria ad udire "paroline", siano esse per bimbi o per bimbe. La discriminazione, prima ancora che di genere, è già presente nell'insulto all'intelligenza (e al senso estetico, dato che la veste grafica è orrenda) dei bambini tout-court. In un mondo in cui volano parolacce, si sprecano paroloni e si sussurrano paroline, è tempo di dare ai bambini qualcosa che sia davvero alla loro altezza: PAROLE.


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pensamenti

della domenica n°60 - 18 gennaio 2015 - anno 3 n.0

Alcune immagini dell’opera di Tonia Romano

Io sono io tu sei tu

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ono qui, osservo; ai miei piedi sentiero di sassi lucidi di fiume; sui sassi, nel sentiero, avanza piano schiera di omini neri; curvi, a reggere, su spalle fragili, cuori rossi come la speranza o l’amore, chissà; è l’opera lirica di Tonia Romano. Un frammento d’arte, io penso, uno dei tanti che oggi i miei amici artisti offrono agli sguardi di tutti perché si rifletta sul senso della vita racchiusa, a volte in una idea d’artista che diventa espressione concreta. E d’un tratto i versi, quei versi “… nel cuore/ nessuna croce manca/ E’ il mio cuore il paese più straziato…”. Mi dico, San Martino del Carso, 27 agosto 1916, Ungaretti, il poeta soldato – chissà perché o forse lo so perché – mi ritornano sempre i suoi versi….”Di tanti/ che mi corrispondevano/ non è rimasto/ neppure tanto”… “Di queste case/ non è rimasto/ che qualche/ brandello di muro”…. Mi dico, Parigi, gennaio 2015, Charlie… niente o quasi niente è rimasto di un’idea di laicità… di tanti… non è rimasto neppure tanto. Ora io sono qui per strada, a Lecce, vado libera, quei versi dentro, nel cuore nessuna croce manca, poi l’edicola e all’edicola c’è Charlie chè è vivo Charlie e ora è con me e leggo, subito leggo, che la poesia vede le cose e Charlie vede i pensieri e allora io leggo “T’es heureux, Antonio? Moi, je suisheureuse. Normal, monmétier c’est rendreheureux. Et il n’y a rien de plus important.T’espas d’accoooord?” chiede Elsa ad Antonio Fischetti; ed è come se Elsa lo chiedesse a me che leggo, a noi che leggiamo; scrive, parla e sorride Elsa, a me che la leggo, a noi che la leggiamo; il suo mestiere è di rendere felici; ora, grazie ad Elsa, mi lasciano in pace i versi di Ungaretti; c’è Elsa, c’è Parigi, ci sono gli ebrei e di loro forse nessuno ricorda più il nome, di tante case non è rimasto che qualche brandello di

di Giuliana Coppola

muro, ma Charlie è tornato e dunque sono vivi gli ebrei, sono vivi nelle pagine coloro che non ci sono più, eppure ci sono grazie alla scrittura, ritorna l’ “enorme rire” di Elsa e di Charlie e ora è ancora lui a parlare; lui a dire e a rassicurare “T’inquiétepas, Mathieu, dansquelquessemaines tout serarentrédans l’ordre. Lesventesretomberont, lesaffichessurlesmursdisparaitront, les gens se detesteront à nouveau, lespolitiquesnouschierontsur la gueuledevantlestribunauxcommeavant, et tu pourrasenfin te sentir unique.” “J’espére, Charlie, j’espèrevraiment…”. Se memoria cadrà, rimarrà l’idea ed ognuno di noi, nel nome della laicità, si sentirà unico; il est Clarlie, je suis Giuliana, tu es Nicola, il est Mauro, noussommesnous et noussommesencorecescoeurs, questi cuori rossi da dove è partita la storia; i cuori rossi di Tonia Romano, pesantissimi su fragili spalle di omini neri che arrancano su ciottoli ma poi i cuori diventano ali e il passo si fa più leggero e si sale, si sale e i cuori ora sono foglie, foglie rosse tra foglie verdi di un albero che è l’albero creato da Tonia, a simbolo di un unico che diventa tanti per darsi forza ed il cielo è azzurro; no, è grigio e a Parigi c’è vento e piove ma Elsa sorride, per rendere felici gli altri perché è dura a morire l’allegria ed è dura a morire la speranza ed è forse “l’ Allegria di naufragi” e tutti si è un po’ “vecchi lupi di mare”, la vita si sconta vivendo ma poi c’è sempre una balaustra su cui poggiare la malinconia; oggi mia balaustra, ancora, è un cuore rosso che avanza su fragili spalle di omini neri; Charlie Hebdo con me; si va; son tornate a casa dalla Siria Vanessa e Greta; sia Eirene, sia peace, sempre; monmétier c’est de rendreheureux; il mio mestiere è di rendere felice, un po’, solo un po’, chi incontro. J’espère, Charlie, j’espèrevraiment….


Non sarà di certo la pioggia

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di Ilaria Seclì

spagine

scrittura

della domenica n°60 - 18 gennaio 2015 - anno 3 n.0

Pensieri su “Autonome valutazioni” di Vito Antonio Conte Luca Pensa Editore

cco una creatura che scrive ed è sana, ride, è laboriosa, prodiga, porta i figli a danza a boxe a calcio, lavora, ama, è figlio e padre perfetto, marito. Ecco una creatura che scrive e prende di petto la vita e usa spesso l'acceleratore mentre spara a tutto volume musica imprevedibile, note che lo fanno sognare ma senza pose né troppe malinconie. Nessun fianco prestato al passato. Poiché non indugia. Come colui che vive, vive senza tentennamenti né indecisioni. Sarà per questo, anche, che la scrittura di Vito Antonio Conte insuffla vita, vigore, forza. Spinge ad andare dritti senza se e senza ma. Andare. È come assistere ad un reading con Kerouac, Burroughs, Corso, Ferlinghetti, Ginsberg. E dalla città in campagna, dalla musica al silenzio più nero, dalla stregante cantilena leccese al moto dialettale con le sue bestemmie. Da una performance a un whisky. Questo è Vito Antonio Conte, stordito e ammutolito dalle cose della vita, nuove fresche o antiche non importa. Cammina vicoli civilissimi e sentieri di breccia con lo stesso rigore e la stessa forza, anche quando più nette e presenti si fanno le voci andate tra riverberi di campane di paese o note di blues. Il graffio del ricordo non sgualcisce la presa sulla vita. “Per l'unico equilibrio

che davvero importa: l'armonia dei movimenti: terrestre e celeste”. No, non sarà certo un po' di pioggia a fermarlo. Anche se in “Autonome valutazioni”, il suo ultimo libro uscito con il fedelissimo LucaPensa, c'è un po' più di penombra, ma è la stessa che constata e usa il leone per elaborare un piano d'attacco migliore e proficuo. Come la pioggia che poi fa tutto nuovo e no, ripete, non mi ferma. Incantevoli i movimenti dialettali, espressioni e cose nosce che sono traccia, faro, numi tutelari, pietre angolari di una civiltà e di presenze sante di provincia, ultimo baluardo contro il grigio ipocritamente conformista e omologante. Poi, in chiusura e dopo le notissime, familiari lamentele di tutti sulle condizioni meteo, scrive: Per me l'importante è che ci sono. Apprezzo qualsiasi tempo. Mi basta poterlo vedere. Esserci. Entrarci. Se voglio, starci. Se credo, uscirne. E l'ironia, il gentile sarcasmo che sono suoi e sono anch'essi degni di nota, e graffiano e strappano un sorriso nella quarta di copertina: Ha deciso di omettere ogni nota bio-bibliografica. Vi basti sapere che i suoi libri sono letti in tutto il mondo, senza essere mai stati tradotti... No, non sarà di certo la pioggia a fermarlo. Per fortuna.


Ladanza parola

spagine

poesia

della domenica n°60 - 18 gennaio 2015 - anno 3 n.0

Ritorno Sorgente di Alessandra Peluso, Lieto Colle

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osa sarebbe la quotidianità senza il dono della bellezza? Quanto povera e asfittica sarebbe la vita ordinaria senza l’apporto vivificatrice e nutriente dell’arte? Quanto limitati saremmo noi umani se non potessimo continuamente attingere al pozzo senza fondo del desiderio, dell’attesa, della passionalità? Ho letto, in questi giorni, la silloge “Ritorno Sorgente” ( LietoColle) di Alessandra Peluso. I suoi versi puliti, cristallini, d’uno sconfinato slancio vitale, sono davvero rassicuranti. Sono consolatori come la buona poesia. E come la vera poesia sono portatori d’una incidente e forte musicalità. Musica del respiro. Sospiro delle corde. Ritmo di danza, che è nell’intendere filosofico di Alessandra. Le sue liriche sono un continuum, un soave canto, di gioia, d’amore. Di grazia. Senza abnormi artifici o ridondanze del pensiero, i suoi versi colgono l’essenza vibratile dell’essere, scavano nel profondo, fino alle radici pulsanti. L’inno cantato con devozione filiale alla vita da Alessandra si può scorgere parola dopo parola, perché la poetessa è una donna sanguigna, che sa distinguere i beni essenziali e inalienabili dalle inutili e su-

perflue vestigia che appesantiscono. Alessandra è poetessa dell’alba, del giorno e della notte, custode dei sogni. È poetessa della luna. E un raggio di sole per lei è un meraviglioso universo da scrutare con certosina pazienza. È una fine e sensuale cantora dell’amore sentimentale, sfrondato dai suoi umori più torbidi, decantato, purificato, esaltato nel suo volto più scintillante. Dello sfavillio del mondo. Alessandra è una donna che sa emozionarsi davanti all’amore. L’amore bambino, stupito, messaggio universale. Il suo cuore è un forziere di calie preziose, che arricchiscono il lettore e lo guidano passo passo sui selciati d’un ardore rossosangue. Mi ha colpito particolarmente una sua piccola poesia: “La mia anima è risorta e scorre, come sorgente d’acqua zampillante, ritorno sorgente”. L’anima di Alessandra è una fonte profumata, propulsiva. La poetessa, senz’altro, nel corso delle sue vicissitudini terrene, ha conosciuto anche il dolore, ma non ha stagnato in esso. Anzi, lo ha saputo trasformare in qualcosa d’altro. In bellezza seconda, nella possibilità di intravedere nuove aurore frementi. Con piacere sfogliamo questo libro d’una fervente ed originale artista della vita. Marcello Buttazzo


spagine

della domenica n°60 - 18 gennaio 2015 - anno 3 n.0

L’abecedario di Gianluca Costantini e

Maira Marzioni

Ispirava un innesto d'incantesimi quell'inverno d'immobilitĂ . Innaffiavo l'incavo dell'immaginazione imitavo l' imbuto issato irriverente e laconico a lambire le linee di quel limaccioso lago lunare.


Quarto Reich spagine

scrittura

della domenica n°60 - 18 gennaio 2015 - anno 3 n.0

di Ilaria Seclì

Nello sdoppio nel rovello che arrotina indigesti punti cardinali * mappamondi * suole dell’obbligo * ruggine e muffe di storte genesi nel dilemma mai chiuso mai espulso nato una volta per tutte dall’utero inetto infetto deficiente * primo parto di lamiere del primo treno * delle leggi di mammona * fatta salva nessuna maiuscola fatta salva nessuna rosa fatto salvo nessun sacro né legame * fatte salve solo e per intero le marionette del circo perverso pedine in coda coi loro numeretti * lo schiavo non superi lo schiavo nel depositare se stesso nelle celle obitoriali di qualche invalida comodità nelle graduatorie di qualche compravendita di titoli di punti di qualche preferenza * sostegno lingua divisa militare orfanità * nella generale servitù di stato * nella tratta degli umani * nelle filiere lunghe * nella tratta Sole-Ade, nel ritorno mancato di Persefone, nell’avantimarche! della fine, nell’avantimarscc globale, in quel che resta dei maestri frattaglie frattaglie, frattaglie di affitti a metà stipendio signorsìsignore, frattaglie di cibo implasticato signorsìsignore, frattaglie di loculi per casa signorsìsignore, frattaglie di comuni fosse padane signorsìsignore, frattaglie di esselunghe signorsìsignore, frattaglie di folle aliene signorsìsignore, frattaglie di tram e avvoltoi signorsìsignore, frattaglie di musi ingrugniti e nonèunproblemamio signorsìsignore frattaglie di morstuavitamea signorsìsignore frattaglie di automi frattaglie di case al mare e in montagna, frattaglie di speranzebio frattaglie di happy hours frattaglie di solidarietà quotate in borsa * frattaglie di corpi frattaglie di dignità. Signorsìsignore Coro: Per la figlia che ha e non ritorna, per la figlia amata e persa è lì in un cantuccio ha bruciato il grano è lì si lamenta ha fatto scura l’erba.


Il terrorista culturale spagine

Note su I resti di Bisanzio di Carlo Michele Schirinzi

I

di Antonio Zoretti

Cos’è quest’eterno rifluire In spesso strato nebbioso Che impedisce dio ai fedeli E le alte fiamme A chi la rabbia le comanda

l documentario di Carlo Michele Schirinzi si lega al simbolismo per il suo carattere anti realistico, ma la sua qualità principale risiede negli aspetti violentemente grotteschi e amorali dei personaggi e della storia, diretti a suscitare effetti intenzionalmente provocatori. La figura centrale, C, è completamente esente da scrupoli e rappresenta l’epitome di tutto ciò che Schirinzi ritiene vuoto, insensato e vile nella società borghese, e di tutto ciò che è mostruoso e irrazionale nell’uomo. L’azione del dramma mostra come C sogni di bruciare tutta la storia che non gli è propria, recuperando scolature di carburante da R, un amico ex benzinaio sopravvissuto tra i resti delle sue mura. Alla fine arderà solo il mare di quella intima striscia di terra del Capo di Leuca, ma con la promessa di continuare le sue nefandezze altrove. Opinione condivisa col terzo amico, S, bandista. Irrompono sulla scena tre turisti per contemplare le rovine, l’abbandono, il naufragio esistenziale, i resti di ciò che è stato mancato, da sempre, le macerie che alla fine bruceranno anch’esse. Resti di cose che non ebbero mai un cominciamento, un ricordo di un natale, resti di che mai fu. La frase infine trovata dal ‘terrorista culturale’ appartato in un vecchio faro costiero, un habitat di cui ha provveduto a farsi eleggere guardiano, a seguito del suo fervore a sfogliare e poi ritagliare da un grosso libro parole per formare massime ritenute vane, evidenzia solo la sua indignata voluttà. Aspettando fiducioso l’insorgere del pensiero brillante, che tuttavia tarda a manifestarsi, un pensiero da lui devotamente sollecitato. Incrementando intanto epiloghi del suo ardire, con provocazioni intellettuali o omettendo o alterando il linguaggio opportuno. Financo nell’ultimo messaggio inserito in una bottiglia e lanciato giù in mare, dove le onde scorrono a trasportarlo invano. Tanto nessuno lo leggerà. Così egli non ha nessun rimorso. Nessun rimorso può inquietare la sua coscienza. Al di là delle influenze che Carlo Schirinzi abbia potuto avere, il suo documento può avere un buon seguito per la visione grottesca dell’uomo che propone, e si può considerare un precursore del cinema dell’assurdo. I suoi personaggi, infatti, sembrano vivere in un mondo che ha subito

profonde devastazioni e pone tragicamente in discussione l’effettiva esistenza dell’umanità. Il regista non si preoccupa tanto dell’uomo come creatura politica e sociale quanto della sua condizione in senso metafisico. I suoi relitti umani sono generalmente isolati in uno spazio immaginario senza tempo, si torturano e si consolano a vicenda, e si pongono domande a cui non possono rispondere. Sotto molti aspetti l’opera di Schirinzi riflette l’angoscia provocata dalla minaccia di distruzioni totali. Mentre opere di altri autori, nel denunciare l’irrazionalità del mondo, seguono forme drammatiche tradizionali, il ‘nostro’ autore invece, pur assumendo una posizione filosofica affine, modifica profondamente la struttura del linguaggio cinematografico. Impiegando una successione di episodi uniti semplicemente dall’argomento o dalla presenza di stati d’animo, e non da una relazione di causa-effetto, arriva infatti a costruire una struttura filmica in grado di riflettere il caos che costituisce il tema fondamentale della sua opera, dove il senso dell’assurdo è rafforzato dalla giustapposizione di eventi incongrui che producono effetti tragici e dolorosi. Inoltre, considerando il linguaggio verbale il caratteristico strumento della cultura razionalistica, l’autore tende a dimostrare la sua inadeguatezza e lo subordina a mezzi espressivi non verbali. La produzione di Carlo Michele Schirinzi può esercitare una buona influenza sull’arte di oggi, soprattutto attraverso la sua visione esistenzialista. Negando la possibilità di codici fissi di comportamento e di codici morali, verificabili, ponendo ogni individuo di fronte alla drammatica necessità di scegliersi i propri valori. Nella generale insicurezza che caratterizza i nostri tempi e luoghi, l’opera di Schirinzi, mettendo in discussione il conformismo che ha reso possibile la società piatta e borghese e predicando la necessità di esprimersi altrimenti, può attirare un vasto pubblico. Non minore importanza hanno le opere del passato del regista, già disegnatore e fotografo raffinato, e che quindi quello visto oggi è il risultato d’un profondo processo maturato nel tempo. La cui concezione è esposta a sostenere che la condizione umana è assurda a causa della lacerazione esistente tra le speranze dell’individuo e l’universo irrazionale in cui è posto. Per il corno della mia pancia! Non avremo demolito tutto se non demoliremo anche le rovine! Ora non vedo altro modo se non di equilibrarle una sull’altra E farne una bella fila di costruzioni in perfetto ordine Ubu


cinema

della domenica n째60 - 18 gennaio 2015 - anno 3 n.0

Due immagini dal film di Carlo Michele Schirinzi


spagine “La bella lavanderina che lava i fazzoletti per i poveretti della città ” Tradizionale

Blu, blu, blu

le mille bolle blu

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a qualche tempo, il fenomeno delle lavanderie a gettoni si è allargato e dal Nord Italia ha preso piede anche qui da noi al Sud. Non c’è paese che non abbia almeno una lavanderia self service. Dici bubble wash e pensi all’America, naturalmente. Tutti ricordano quel famoso spot della Levis trasmesso negli anni Ottanta, in cui il modello Nick Kamen entrava in una lavanderia a gettoni e, sotto lo sguardo stupito e imbarazzato dei presenti, si spogliava e metteva a lavare i suoi jeans, mentre in sottofondo andavano le note di "I heard it through the grapevine" di Marvin Gaye. All’epoca le lavanderie a gettoni non esistevano ancora qui da noi ma esistevano già le lavanderie industriali. E dire lavanderie industriali, per uno che è cresciuto davanti alla tv negli anni Ottanta, riporta subito alla mente un nome: quello di George Jefferson. La serie “I Jefferson”, tra-

smessa dalle tv della Fininvest, era molto seguita e riscuoteva un enorme successo di pubblico grazie ai siparietti comici fra il sulfureo e intrattabile George ( star indiscussa della serie) e la governante Florence, con la moglie di lui, Louise-Wizzie, a far da paciera. Esilaranti anche i diverbi fra l’inimitabile George e i vicini di casa, la famiglia bianco nera dei Willis, sui quali l’imprenditore (tipico self made man americano) esercitava la propria pesante ironia, definendoli “zebre” per il fatto che si trattava di un matrimonio misto (un caso dunque di razzismo inverso, esercitato dai neri sui bianchi). Inoltre, per sommo disappunto del vulcanico omino, il figlio Lionel era fidanzato proprio con la figlia dei Willis. Se volessimo andare alle origini del settore delle lavanderie, troveremmo le lavandaie. Dal Medioevo fino all’Ottocento, non esistevano certo le lavatrici, e quello di lavare i panni era un compito manuale ed un’occupazione esclusivamente femminile. Lungo le rive dei fiumi, dove si incontravano per lavare il bucato, le donnine chiacchieravano allegramente fra di loro oppure si scambiavano informazioni di

di Paolo Vincenti

ogni tipo e molto spesso intrecciavano canti della tradizione popolare. Il lavare infatti è sempre andato molto d’accordo con il cantare”. E cadenzato dalla gora viene/ lo sciabordare delle lavandare/ con tonfi spessi e lunghe cantilene” scrive Giovanni Pascoli nella poesia “Lavandare”. Un mestiere duro ed umile ma molto diffuso, e continuò ad esserlo anche quando comparve la prima forma rudimentale di lavatrice meccanizzata nel 1850. Le lavandaie eseguivano il lavoro a domicilio, oppure presso i lavatoi pubblici. Le loro forti mani, sformate dall’artrite, operavano energicamente sull’asse di legno (“lu lavaturu” era chiamato qui da noi) per smacchiare e sbiancare indumenti di ogni tipo. Nel Salento arcaico, le massaie facevano lu cofanu (dal nome del contenitore di creta che conteneva il bucato). Sistemavano nella parte bassa del recipiente le robe bianche e in quella superiore le colorate, separate da uno strato di teli su cui veniva messa la cenere. Con un recipiente più piccolo versavano più volte colate di acqua bollente procedendo a successivi risciacqui, fin quando i panni non ritornavano come


l’osceno del villaggio

della domenica n°60 - 18 gennaio 2015 - anno 3 n.0

nuovi. Dall’acqua di scolo poi, che fuoriusciva da un foro praticato nel cofanu, veniva ricavata la lissìa (lisciva) riutilizzata per lavare gli abiti più scuri e come shampoo per i capelli delle donne. Oggi questa pratica sopravvive solo nei musei delle tradizioni popolari e in alcune messe in scena tenute durante i presepi viventi a Natale. Il mestiere delle lavandaie viene rappresentato dall'impressionista Gauguin nelle opere "Lavandaie a Pont-Aven" del 1886 e "Lavandaie al Canal Roubine du Roi" del 1888 e in letteratura da Verga ne “I Malavoglia”. Più o meno nello stesso periodo, anche Zola fa di una lavandaia e stiratrice, l’umile Gervaise, la protagonista del suo romanzo “L’ammazzatoio”. Honoré Daumier dipinge molto realisticamente nel 1863 “La lavandaia”. Ma forse il più bel dipinto che ritrae le dure condizioni di vita di queste lavoratrici è "Il ponte di Langlois" di Van Gogh. La lavatrice moderna viene inventata in America nel 1906 e introdotta in Italia solo nel 1946. Dunque passa tanta acqua sporca sotto i ponti prima che il progresso della tecnica possa affrancare la massaia da una fatica tostissima. La prima lava-

trice che io ricordi a casa mia, fine Anni Settanta, è una Zoppas. Come quasi tutte, si caricava dalla finestrella centrale (pochissime avevano la carica dall’alto), ed era bianca zincata. Essa, insieme al frigorifero e alla cucina Ariston, rappresentava plasticamente il sopraggiunto benessere economico nella mia famiglia. Gli anni Duemila hanno portato enormi trasformazioni sociali, oltre che economiche e politiche. Sono cambiate le abitudini della gente, cambiato il modo di vivere le nostre giornate. L’ultima frontiera del lava e asciuga è la lavanderia self service, che da principio era appannaggio degli studenti universitari fuori sede, dei militari o degli extra comunitari, così massicciamente stanziati nelle nostre città. Ora invece tante famiglie ricorrono alla lavanderia a gettoni, e non solo per il cambio stagionale (piumoni, coperte, giubbotti voluminosi) ma anche per la biancheria, per il cambio di ogni giorno. È il segno dei tempi (si dice sempre così no?). il segno, in semiotica, è l’unione di significato e significante. E se il significato è il contenuto, quello di lavare ed asciugare panni e biancheria, il significante è la forma, dunque le bolle blu delle speedy

Vincent van Gogh - Pont de Langlois

wash, che diventano addirittura una nuova icona pop (come il gruppo delle dj svedesi Caroline Hjelt e Aino Jawo, quelle che cantano “I love it!”). Alcune lavanderie a gettone sono veramente spoglie ed essenziali, altre invece sono attrezzate anche per intrattenere i clienti in quel lasso di tempo necessario alla lavatura ed asciugatura dei capi. Ecco dunque, in alcune bubble wash, l’angolo giochi per i bambini, la tv sempre accesa che trasmette i cartoons, o la musica in filodiffusione, altre ancora addirittura posseggono un angolo lettura, dove l’utente può sfogliare il giornale o leggere un testo dalla piccola libreria che è all’interno. Sono sicuro, si finirà per fare delle presentazioni di libri nelle lavanderie self, e alla lunga, anche delle conferenze o dei piccoli raduni e convegni. Diverranno luoghi di ritrovo sociale, o i templi di una nuova popsophia, [a Lecce è accaduto con le mostre di fotografia alla lavanderia Jefferson n.d.r.] che qualche giovane e rampante pensatore nipotino di Derrida non tarderà a formulare. Viva le bubble wash, dunque, e viva la filosofia pop!


spagine

musica

L’orgoglio sardo nella musica di Dr. Boost

della domenica n°60 - 18 gennaio 2015 - anno 3 n.0

Risvegliare le coscienze

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r. Boost, la tua attività musicale inizia il lontano 1999, come è nata la tua passione per la musica black/rap? Nel 94/95 ancora vivevo in Sardegna e suonavo il basso e cantavo nella mia prima band. Facevamo una roba sperimentale, molto rumoristica. Contemporaneamente però riscoprivo dei vecchi vinili di Marley e Tosh che avevo sempre avuto in casa. Nel ’96 mi sono trasferito a Roma e ho iniziato a frequentare le dancehall di One Love HP e il mondo del reggae/dub mi ha catturato. Più che di cultura rap infatti parlerei di passione per il Toasting e i ritmi in levare… il rap mi è sempre piaciuto e mi ha sicuramente influenzato ma non sono mai stato un B-Boy e non mi sento particolarmente legato alla cultura hip hop che comunque rispetto profondamente. Fu il Dub dei “Revolutionary Dub Warriors”, “Dub Syndicate”, “Audio Active”, oltre ovviamente a tutta la vecchia scuola di Lee Perry e Augustus Pablo a farmi capire che questa era la dimensione ideale per me, quella con cui mi sentivo più a mio agio sia per le vibes che per la scrittura. Scrivere su un beat in levare mi viene sempre abbastanza semplice e naturale. “Allonga” è la tua ultima fatica discografica, come mai hai scelto questo singolo per il video? Il testo di Allonga è stato scritto con Gesuino Deiana, un grandissimo artista nel panorama della musica sarda soprattutto per le innovazioni che ha introdotto. “Allonga” vuol dire semplicemente “lontano” ed è un brano che ho visto come perfetto per “B-Powa” perché è un dub profondo, riflessivo e diretto al tempo, un po’ come tutto l’album. Dopo il primo video singolo “O.R.I.Tz.I.N.A.L.E.”, brano abbastanza fresco e veloce, ho voluto puntare su un dub che viaggiasse più lontano e lento. L’album ‘B-Powa’ è uscito qualche mese fa, come è nato questo tuo lavoro discografico? Innanzitutto volevo realizzare un album che fosse completamente “mio”, da ogni punto di vista. Anche se è il 6° album (il 3° da solista), è l’unico dove ho realizzato anche la quasi totalità delle strumentali, ed affrontare questo aspetto mi è piaciuto parecchio. Poi volevo realizzare qualcosa che fosse più cantato in italiano rispetto ai lavori precedenti dove il sardo-logudorese era la lingua dominante. Ov-

di Alessandra Margiotta

viamente il sardo è presente anche in B-Powa, ma molto meno rispetto ai precedenti album. Descrivilo con tre aggettivi… Diretto, Sincero, Dub. Vanti una lunga discografia e nel tuo ultimo tour si leggono date anche in Inghilterra. È il successo che speravi di raggiungere? Non mi sono mai posto obiettivi di successo particolari. Per me l’obiettivo è raggiunto quanto sento di dare il massimo in ogni cosa che faccio. Non faccio musica per scalare le classifiche… per fortuna questo non mi è mai interessato. Ho vissuto sempre la musica come un mondo in cui mi posso esprimere senza limiti, senza censure e senza filtri, cosa che nella vita di tutti i giorni difficilmente possiamo fare. Con queste premesse quindi ogni data, ogni serata ben riuscita, ogni tour in Italia o in Europa sono stati per me grande motivo di soddisfazione e fonti di energia per continuare. La tua è una musica di protesta rivendicando ciò che non va bene in Sardegna, nella tua terra, e in Italia. Credi che i ritmi in levare possano contribuire davvero al cambiamento? Più che protestare io rivendico. Rivendico il diritto di esistere del mio popolo e di ogni popolo della terra, al di là di religione, colore, cultura... La democrazia odierna unita al controllo sociale da parte dei media altro non è che una dittatura mascherata. Per chi detiene il potere tutto va bene finché la maggior parte delle persone pensano e agiscono come loro vogliono che facciano. La musica può servire a risvegliare le coscienze, ad attenuare paure, a rendere (forse) più lucidi, agli occhi di alcuni, i meccanismi di controllo e minaccia a cui siamo sottoposti. Detto questo le canzoni sono solo canzoni e gli artisti spesso sono tra i personaggi più contraddittori e incoerenti che si possano incontrare… e va bene così. Le rivoluzioni vere si fanno per strada e nei palazzi del potere. Dove è possibile acquistare il tuo album? Le copie fisiche di B-Powa per ora possono essere acquistate solo in Sardegna. Il cd è distribuito da “Zente Noa” e lo si può trovare in tutti i negozi di dischi. Per chi invece si trova fuori è possibile acquistare l’album in formato digitale su Itunes.


Passeggiata in città

spagine

N

el quasi cuore della stagione invernale, qui, madre natura, offre un mattino assai bello, sole splendido, luce sfolgorante del tipico genere salentino, nemmeno una nube in cielo, aria fresca e frizzantina, leggera a respirarsi e che ti rigenera dentro. Cornice ideale e stimolante, dunque, per una passeggiata in direzione del centro cittadino. Oltre che l'effetto dei propizi elementi atmosferici di cui anzi, l'appagamento del pedone narratore va man mano arricchendosi grazie, anche, a un piccolo rosario d’immagini e situazioni che si ha casualmente modo di incontrare e visionare. All’interno della villa comunale, nell’agorà delimitata da una serie di busti in pietra leccese raffiguranti concittadini illustri, lo sguardo si volge verso due panchine quasi contermini. Sulla prima, sostano tre giovani uomini dall'aspetto gioviale e tranquillo, tratti d'origine mediorientali o arabi, verosimilmente facenti parte della nutrita colonia d’immigrati che vive da queste bande. Sembrano intenti a una conversazione così semplice e pacata che, a osservarli, danno la parvenza, quasi, di vecchi amici. Sedute sull'altra, invece, due ragazze carine, intorno ai sedici/diciassette anni, trucchi appena accennati, capigliature garbate, niente sigarette o gomme da masticare in bocca, con accanto i rispettivi zaini. Anche loro, calme e distese. S’accosta, il curioso, e non riesce a trattenere la domanda: “Niente scuola, oggi?”. Al che, le interessate, non modificano l’espressione e si mantengono sorridenti; all’ulteriore domanda: “C’è, forse, un compito in classe?”, una di loro precisa di buon grado: “Si, di matematica”. E così, via allo scambio di un ciao. Nei pressi della Basilica di Santa Croce, proprio tra Palazzo dei Celestini e Pa-

racconti salentini

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di Rocco Boccadamo

lazzo Adorno dove hanno sede gli uffici dell'Amministrazione Provinciale, nel mezzo della strada, si nota un gruppetto di persone chiaramente intente a dar vita a una manifestazione. Dagli agenti di polizia presenti in zona, si apprende che trattasi di prestatori d'opera precari, della categoria dei cosiddetti lavoratori socialmente utili, i quali, a fronte di servizi resi al citato ente, a causa della dichiarata mancanza di fondi nell’attuale fase di ridimensionamento delle Provincie, lamentano di non aver ricevuto il corrispettivo previsto e spettante. A loro sostegno, un uomo con piccolo microfono in mano, si sbraccia affinché sia dato il misero pane a quei poveri, arrivando a proporre, se proprio c’è completa assenza di danaro in cassa, il taglio del dieci per cento sulle retribuzioni alte, ossia a dire dei dirigenti e dei capi dell'Ente, i quali incasserebbero cinque/sei mila euro netti al mese. Digressione nella cronaca, a proposito di dieci per cento, viene alla mente la medesima aliquota, calcolata a valere su commesse e/o appalti di dimensioni rilevanti, che un manipolo di ufficiali, sottufficiali e dipendenti dell'Arsenale Militare di Taranto, per fortuna testé scoperti, inquisiti e finiti in carcere, sono andati a lungo pretendendo, a titolo di tangenti e mazzette. All'inizio del salottino buono del centro storico, via Vittorio Emanuele, tre giovani turiste cinesi passeggiano beate, completamente a loro agio, quasi fossero di casa. Una volta tanto, un positivo risvolto della globalizzazione. Sul percorso del ritorno, rallento, al solito, all'altezza della Sala Bingo (un tempo, il glorioso Teatro Ariston), l'unica esistente nella capitale del barocco. E però, nella circostanza, eccezionalmente e per la prima volta, mi fermo e ardisco tirare la maniglia dell'uscio ed entrare. Nell’anticamera o hall dell’esercizio, un impiegato è pronto a mettermi garbatamente in mano un talloncino nu-

merato. Ma io, più che altro, passo lesto a chiedergli se, rispetto agli anni passati e lontani, la crisi abbia o meno fatto sentire i suoi morsi anche lì. L’addetto, sempre gentilmente, mi risponde che l’attuale situazione non è proprio identica a quella dei primi tempi, ad ogni modo la gente affluisce tuttora nel locale in buona quantità, tutti i giorni, con la speranza d’imbattersi nella fortuna, in ciò insistendo, in parte, proprio perché il ménage della vita è diventato difficile. Non manca, l'uomo, d’accennare anche a situazioni di dipendenza ludica evidenziate da taluni soggetti, cosa che, del resto, accade non unicamente nella Sala Bingo e si nota chiaramente mettendo piede nei tabacchini e ovunque si giochi o scommetta con gratta e vinci o strumenti similari. A completamento della breve conversazione, l’interlocutore fa presente che il suo datore di lavoro offre agli avventori soluzioni di confort durante la permanenza nel locale, compresi pasti, preparati da servizi di catering e/o ristoranti esterni, davvero a buon mercato: cita, ad esempio, per la colazione meridiana, il primo e il secondo piatto al prezzo di soli due ciascuno. Dopo la Sala Bingo, nell’ultimo tratto di strada, manco a dirlo, l’incrocio con una signora sfoggiante una tuta di lavoro dai colori accesi e vistosi: di nuovo sull’altare della curiosità, la domanda circa l’attività svolta e la relativa risposta “operatrice ecologica”. Piccolo ma indicativo particolare, la donna ha finito il suo turno odierno e, al momento, servendosi di una moneta di soli due euro, è impegnata a grattare su un mucchietto di tagliandi sazia popoli, anzi forieri di ricchezze e mirabilia. I rintocchi di mezzogiorno segnano il riguadagno del mio portone di casa: con l'animo appagato e contento, in virtù sia del bel mattino sotto il sole, sia degli stimolanti incontri.


spagine

Andar per presepi

Q

di Giuseppe Corvaglia

La rappresentazione della grotta nel Presepe Apparente “I chiodi, così mirabilmente disposti, fanno pensare a un involucro freddo nella notte di Betlemme, poco accogliete ma ci richiamano già l’epilogo della vicenda terrena di quel Bambinello”

uest’anno ero proprio soddisfatto del presepe nuovo: il cielo con l’asparagina che reggeva le lucine e le nuvole di ovatta, i nuovi abusi edilizi, che mi avevano consentito di ampliare la piazza del mercato di Betlemme, il borgo lontano con le case soprane, il forno nuovo, la circonvallazione rifatta per collegare la zona artigianale e infine il laghetto del pescatore fatto con la pellicola trasparente che traeva in inganno anche mio figlio che andava a toccare la superficie pensando fosse acqua vera. Così il giorno dell’Epifania mi sono preparato per andare a vedere qualche mostra di presepi. Mi stupiscono sempre. Mi piace vedere l’ingegno e la fantasia dei presepisti anche per fregare qualche idea, non lo nego. Non ne ho visti tanti quest’anno, ma di quelli visti due sono stati straordinari e mi hanno proprio colpito (e affondato o meglio innalzato). Sono stati due Presepi non presepi (come comunemente intesi): uno a Spongano e l’altro a Onzo in provincia di Savona. *** Il primo, che mi ha stupito, l’ho visto a Spongano nel contesto del Presepe vivente a Natale durante una bella manifestazione accolta nel frantoio ipogeo del palazzo baronale. Quel frantoio, modificato da Filippo Bacile per ottenere un olio buono, quello premiato all’esposizione di Vienna all’inizio del secolo scorso, e che è stato restaurato dal nuovo proprietario Fabio Bacile il quale non perde occasione per mostrare sincero amore per questa terra e per la sua casa. Ha voluto ospitare questa manifestazione e gli Sponganesi accorsi numerosi, ma da uomo colto e raffinato ha voluto, grazie alle sue preziose amicizie, fare un altro cadeau di rango agli Sponganesi e ai Salentini in generale: l’allestimento di una installazione d’arte interattiva dagli alti contenuti artistici, spirituali ed intellettuali. Si tratta del Presepe Apparente che i Fratelli Michelangelo e Massimiliano Galliani (fratelli, scultore uno e video maker l’altro)

e il pittore Marco Petacchi, con il commento musicale degli Stoop, avevano già allestito a Reggio Emilia nel 2011 e a Milano nel 2013. Non ho visto gli altri allestimenti (quella di Milano era in San Bernardino alle ossa, chiesa del ‘600), ma questo allestimento sponganese già nel luogo mostrava una sostanziale novità. Non più un luogo sacro, una chiesa, ma una grotta scavata nella parte seminterrata del Palazzo baronale con tutto il suo aspetto di vera come noi potremmo immaginarci la grotta di Betlemme: rifugio per bestie e qualche pastore e alla fine, nella sua fredda povertà, asilo per il Salvatore del mondo. Già l’ingresso, con le sue asperità, caricava di mistero l’evento. L’allestimento, rispetto agli altri allestimenti, non cambiava era sempre presente l’inginocchiatoio e il proiettore che mandava immagini fisse, e ma rese vive dal fruitore che le faceva progredire nel loro ciclo, parlando in un microfono. Infatti perché progredissero le immagini, necessitava il contributo vivo del fruitore che, parlando nel microfono, diventava parte dell’installazione artistica con il suo indispensabile interagire. Sull’inginocchiatoio venivano offerti testi di preghiera per agevolare il coinvolgimento dei visitatori. Le parole pronunciate e il tono della voce non solo facevano vedere l’immagine ma le restituivano anche i toni della luce, creando non solo un gioco di suoni e di luci, ma attivando un percorso intimo di interiorizzazione spirituale. Non starò a parlare della splendida resa artistica delle immagini con quella illuminazione che richiama Caravaggio e nemmeno della scelta dei soggetti, davvero coinvolgente. Le figure non sono personaggi a tutto tondo, sono personaggi che si immaginano. Così l’Angelo che annuncia ai pastori, ma anche il pastore che va alla grotta con l’agnello sul collo e i pastori che offrono al Redentore del mondo pochi doni e, apparentemente , di poco conto: la terra e i frutti (dell’ uva passa o delle olive, ma si può immaginare qualcosa di più grande della terra e dei suoi frutti?) son solo visti in parte, ma dicono perfettamente che cosa siano.


A Spongano Il presepe apparente di Michelangelo e Massimiliano Galliani e del pittore Marco Petacchi E “Nel nome della Madre…” a Onzo in provincia di Savona, pensando che non c’è figlio senza Madre

report

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Presepe di Onzo, statue di area africana

Il percorso così prosegue fino ad arrivare alla tenerezza struggente della Sacra Famiglia con il Pargolo illuminato che illumina, adorato dai genitori perdutamente innamorati di quell’Amore. Mi ha particolarmente colpito l’apparizione dell’Angelo che inizialmente è neve che turbina nell’aria per poi diventare piumaggio di ala appoggiato su una scapola di giovane biondo: questo è l’Angelo, la Buona Novella. I pastori si avviano verso la capanna come ha indicato l’Angelo con tutto il loro carico di pene e l’estrema povertà dei loro doni. L’offerta, però, non racchiude solo un dono. E’ come se si volessero presentare queste cose al Salvatore in fasce per chiedergli di salvarle dalla nequizia di cui l’uomo è capace per egoismo e smisurata ambizione. Particolarmente bella la capanna, non solo per linea ed essenzialità, ma anche per le sensazioni che evoca. I chiodi, così mirabilmente disposti, fanno pensare a un involucro freddo nella notte di Betlemme, poco accogliente, ma ci richiamano già l’epilogo della vicenda terrena di quel Bambinello che viene sulla terra per Amore, per portare Amore, per convertire all’Amore ma che verrà crocifisso dai suoi fratelli in Dio con tre grandi chiodi e un cartello che lo prende in giro. Eppure quell’Esserino avrebbe una potenza inimmaginabile per asservire qualunque cosa animata e inanimata. *** Il secondo presepe inusuale l’ho visto il giorno dell’Epifania a Onzo (Savona), nell’entroterra di Albenga, che si intitola “Nel nome della Madre…” con un sottotitolo: “un presepe a Onzo pensando che non c’è figlio senza Madre”. Qui Giuliano Arnaldi, giornalista ed operatore culturale responsabile del Museo e della Fondazione Tribale-globale che si articola in presidi sparsi fra Genova, Onzo, Imperia, ha voluto allestire un presepe che presenta una preponderanza di statuine e figurine femminili tutte inneggianti alla fecondità e alla nascita. La nascita diventa non la presentazione del figlio ma l’opera della madre che dona la vita.

Nella teca africana vengono esposte bambole rituali della cultura Mossi che le donne portano con se dal concepimento o dal momento in cui si vuole avere un figlio, fino al parto. Sempre in queste teca ho visto una sacra famiglia un po’ sui generis ottenuta sempre con bambole rituali. Nell’altra teca si possono ammirare piccole terracotte di Tell Allaf (area mesopotamica) e della valle dell’Indo che ci mostrano queste madri, alcune fatte 4000 anni prima di Cristo, archetipo della floridezza, della procreazione e della vita. La postazione centrale è quella che più si avvicina al presepe tradizionale, perché propone una figura centrale circondata da tante statuette. La figura centrale è una donna di età precolombiana che si propone, come molte delle nostre Madonne, con le mani rivolte in avanti verso chi a loro ricorre e la bocca lievemente aperta come se stesse alitando la vita, come il Creatore primigenio. Le statuette bronzee che la circondano sono esempi di fine arte contemporanea. L’autore, Rainer Kriester, noto per le sue sculture megalitiche poste in tutto il mondo e soprattutto in un parco all’aperto in questa terra ligure, si misura proprio con queste figure apotropaiche che con le loro caratteristiche implicite ed esplicite (la fessura di un triangolo, le semisfere sul busto, o un’asta che parte dal basso ventre… ) sono un inno alla fecondità, alla riproduzione, alla vita. E’ così che opere antiche di millenni dialogano con opere moderne, come dice il curatore della mostra, “parlano fra loro il sorprendente e muto linguaggio della bellezza”. Ma è intrigante questo presepe centrato più che sulla Natività, sulla Maternità che vuole “dichiarare l’urgenza del bisogno di uno sguardo femminile sul nostro mondo…. ” considerando che “quello maschile sta facendo molti danni”. P.s. nel presepe di Onzo c’erano anche delle magifiche foto di Irina Ionesco. Donne bellissime, ma troppo seducenti e misteriose per essere Madonne.


Gita a Matera L

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“Presepi di garza e gesso” dello scultore lucano Pier Francesco Mastroberti fino a domenica 25 gennaio Complesso rupestre “Madonna della Virtù” a Matera - Circolo Culturale La Scaletta

o scultore lucano Pier Francesco Mastroberti, per iniziativa del circolo culturale “La Scaletta”, espone i suoi presepi artistici nel complesso rupestre di Madonna delle Virtù nei Sassi di Matera. "In queste sculture di gesso e garza, si avverte un richiamo alla scultura classica e una modernità plastica nord europea improntata sulla potenza espressionista… il tutto in un contesto espositivo, quello del complesso rupestre di Madonna delle Virtù, realizzata intorno all'anno mille, luogo attualmente utilizzato come spazio espositivo per prestigiose mostre di arte contemporanea" scrive il giornalista Rino Cardone. Pier Francesco Mastroberti è stato allievo di Giovanni De Vincenzo, tra i maggiori esponenti della scultura partenopea contemporanea. Il presepe artistico esposto nei Sassi, a Matera è una personale di scultura dell’artista, nei suggestivi scenari della chiesa di “Madonna delle Virtù”, luogo che ha accolto quest’estate la 27° edizione delle Grandi Mostre nei Sassi, che ha raggiunto il numero di circa 15.000 visitatori, con una media di 120 al giorno. Mastroberti è uno dei 12 scultori che ha partecipato, quest’anno, alla mostra di Scultura Lucana Contemporanea nei Sassi, iniziativa a cura del circolo culturale materano ”La Scaletta” e ha esposto insieme ad altri importanti nomi della scultura contemporanea, rigorosamente scelti dalla curatrice Beatrice Buscaroli (docente di arte contemporanea all'Università di Bologna e curatrice del padiglione italiano della Biennale di Venezia 2009). Oltre che scultore Mastroberti è uno dei medici fondatori dell’A.M.Ar.S., Associazione dei Medici Artisti Salernitani. Negli anni ’70/’80 ha realizzato vignette e caricature per il Bollet-

tino Ufficiale dell’Ordine dei Medici e per alcune riviste mediche. Negli anni successivi ha partecipato a mostre e rassegne d’arte in Italia e in Francia. Nel 2012 ha creato il Pulcinella Mentore per il World Forum for Child Welfare per l’associazione Mentoring Italia/USA. Il 25 novembre 2013, nella cattedrale di Salerno, alla presenza dell’arcivescovo, è stato insignito del “Premio Ippocrate” come creatore del “Lumen et Magister”, la scultura che, nel corso degli anni, è divenuta simbolo internazionale del Premio delle Giornate della Scuola Medica Salernitana. Il suo percorso artistico è stato oggetto di due tesi di laurea in storia dell’arte contemporanea. Mastroberti è autore di diverse opere pubbliche tra cui: il “LOGO dell’ospedale di Salerno”, realizzato in collaborazione con il prof. Guarino, dove il concetto di ospedale è genialmente raffigurato nell’evoluzione del DNA umano; il monumento di “Padre Pio Confessore”, sito nei giardini dello stesso ospedale; il cristo in bronzo “Il Grido” nel chiostro dei frati cappuccini di Salerno a piazza S. Francesco; la fontana monumentale di “Bacco e Arianna” (bronzo 2 mt) a Sant’Angelo le Fratte (PZ), la “Lapide commemorativa”, in memoria degli avvocati Gassani, Barbarulo e Torre, per il Palazzo di Giustizia di Salerno nel 2009 . Ha realizzato numerosi ritratti commemorativi a: “Clelia Sessa”, Baronissi; “Nicola De Cesare”, Agenzia marittima Nicola De Cesare di Salerno;“Giovanni Siniscalchi”, Centro Commerciale Siniscalchi di Salerno; “Andrea Fortunato” (Policlinico di Perugia); “Pasquale Atenolfi” , Galleria dei Presidenti di Palazzo S. Agostino a Salerno. Alcune sue sculture sono presenti in musei d’arte contemporanea.


Giuliano Scabia per Astràgali

spagine

al Teatro Paisiello martedì 20 gennaio

U

n pomeriggio dedicato alla poesia, all’affabulazione, al potere magico della parola, al “gran teatro del mondo”. E un progetto dedicato alla voce e all’arte del narrare storie. Si inaugurano martedì 20 gennaio, al Teatro Paisiello di Lecce, alle 18.30, gli appuntamenti del progetto “Nel giardino delle parole magiche. La voce e l’arte del narrare storie” promosso dal Comune di Lecce – Assessorato alla Pubblica Istruzione in collaborazione con Astràgali Teatro, con la conversazione tra Fabio Tolledi, direttore artistico e regista di Astràgali Teatro e il drammaturgo e scrittore Giuliano Scabia, inaugurando così, eccezionalmente, un ciclo di incontri sulla parola e alla favola dedicati, oltre che alle alunne e agli alunni e alle loro famiglie, alle docenti e ai docenti delle scuole primarie e secondarie di primo ordine. Poeta e uomo di teatro, grande affabulatore e inventore di parole, Giuliano Scabia è uno dei protagonisti delle esperienze teatrali più rilevanti degli ultimi decenni. Come lui stesso ha scritto recentemente: “il teatro che mi piace di più è quello dilettantistico amatoriale – fatto per diletto e per amore – per stare in gioco – come i bambini quando fanno le improvvisazioni, o i matti quando si mettono a cavalcare – e a cantare. In una delle scene de Il Diavolo e il suo Angelo dicevo appunto: ed è per me in questo andare parlare e cantare conoscere e rappresentare il gran teatro del mondo”. Sarà, quella di martedì, anche l’occasione per riflettere intorno all’esperienza maturata nella scrittura e nella messinscena di “Lettere a un lupo” da cui muove lo spettacolo di Astràgali Teatro realizzato per “Leccelegge”. *** Dopo l’incontro con Giuliano Scabia, prossimi appuntamenti il 4 febbraio con Antonio Errico, il 18 febbraio con Carlo

Formigoni, il 3 marzo con Salvatore Colazzo, il 12 marzo con Andrè Bella, il 31 marzo con Fabio Tolledi. *** Giuliano Scabia è nato a Padova nel 1935, poeta, narratore e drammaturgo, è stato uno degli iniziatori del Nuovo Teatro, "protagonista di alcune tra le esperienze teatrali più vive e visionarie degli ultimi anni" (Gianni Celati, I narratori delle riserve), "uno dei pochi, forse l'unico scrittore mitico in circolazione" (Marco Belpoliti, La Stampa-Tuttolibri), "viandante in un tempo sospeso dove si può ancora sperare di entrare in una foresta e trovarvi magari delle fate e poi discutere di comunismo" Claudio Meldolesi per presentarlo: “Giuliano Scabia è stata una delle rare figure del teatro italiano a darsi un sistema di creazione, quindi un’intelligenza capaci di renderlo anche soggetto politico, quindi analitico, e diventare poi straordinario professore, uno straordinario intellettuale. Con questa sua capacità di vedere, di pensare, sapeva che bisogna lavorare all’arricchimento delle doti umane. Giuliano è poeta innanzitutto, diventa attore e uomo di teatro, e in quanto attore diventa drammaturgo, e in quanto drammaturgo diventa rinnovatore del teatro insieme a pochi altri maestri degli anni SessantaSettanta. Allora qual è il suo messaggio? In questa valle di lacrime dobbiamo darci una presenza molteplice. Dobbiamo non essere soltanto uomini a una dimensione, come diceva un celebre libro, ma dobbiamo essere capaci di articolare tutte le nostre doti. Il suo Cavallo era il ricongiungimento di tutto, compresa appunto la follia con la volontà di trasformazione della società, con lo spostamento della logica della salute oltre le abitudini correnti. Giuliano è un testimone che è riuscito a decantare tante presenze umane. Insieme a lui lodiamo il teatro che è il luogo in cui il molteplice si rimanifesta unitario”.

Stasera è di Teatro Stagione di Prosa del Moderno di Maglie Giuliano Scabia in una bellissima fotografia di Maurizio Conca

Al via il 22 gennaio

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per la direzione artistica di Salvatore Della Villa

l primo spettacolo in programma, giovedì 22 gennaio, porte 20.30 - sipario alle 21.00 è “Coppia aperta... Quasi Spalancata” uno dei testi più famosi e dissacranti di Dario Fo e Franca Rame interpretato da Antonio Salines e Francesca Bianco, curiosamente coniugi anche nella vita. Scritto nel

1983, è la storia grottesca di due coniugi alle prese con un matrimonio che sta andando allo sfascio e che decidono di sperimentare la formula della “coppia aperta” per risolvere i problemi della loro relazione. A trent’anni dalla prima rappresentazione la forza e l’attualità di quest'opera sono più che mai evidenti. Nulla sembra essere cam-

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giovedì 22 gennaio

martedì 10 febbraio

biato. Si finge una parità, una normalità, ma le conquiste delle donne e il rapporto con l’altro, sono sempre al limite. La commedia è una sorta di vaudeville sulla liberalizzazione della vita coniugale degno del miglior Feydeau, al quale l'ironia surreale di Fo sembra ispirarsi. La produzione dello spettacolo è del Teatro Belli.

giovedì 19 febbraio

martedì 10 marzo

martedì 24 marzo

giovedì 16 aprile


spagine

in agenda

della domenica n°60 - 18 gennaio 2015 - anno 3 n.0

Silvio Nocera Mercoledì 21 gennaio, dalle 18.30

al Fondo Verri

...Mi svegliai di primo mattino, era ancora buio quando mi

levai dal letto, indossai i pantaloncini e avvisai i miei genitori che andavo alle “cave”. Uscii, e mi avviai. Nel cielo c’era un quarto di luna che diffondeva una candida luce bianca sulle case tinteggiate di calcina, l’orologio della piazza annunciò con quattro rintocchi l’ora, contadini e carrettieri si preparavano ad affrontare il nuovo giorno. Cercai di contenermi nei pressi della legnaia per non far rumore ma, quando passai sotto gli alberi di fico adiacenti all’ingresso dell’anfratto, non riuscii a vedere dove mettevo i piedi e inciampai in una radice rompendo il silenzio. Tutte le mie attenzioni erano sfumate. Deluso, mi sedetti su un cubo di tufo, che si trovava all’ingresso della legnaia; da quel momento tenevo sotto controllo tutto l’interno. Restai immobile, ormai era quasi l’alba; ad un tratto vidi passare a mezzo metro dal mio viso la civetta che andò a rifugiarsi in un buco, sulla parete in alto, di fronte a me; restai parecchi attimi senza respirare poi un impeto di gioia mi fece soffiare tutta l’aria che avevo accumulato nei polmoni; ero finalmente riuscito a scoprire il punto esatto in cui si trovava la “dimora” della civetta!...”

Silvio Nocera con la sua civetta


GenerAzioni di scritture Online la nuova rivista di riflessione, recensioni

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e interviste della casa editrice Milella Giovedì 22 gennaio alle 18.30 la redazione incontra i lettori nelle sale di Lecce Spazio Vivo

C’è

Da martedì 12 gennaio è online GenerAzioni di scritture, rivista nata dalla fucina di Milella Edizioni che intende proporsi come alveo di riflessione e dibattito sull'accadere culturale del presente. Concepita e diretta da Carlo Alberto Augieri, GenerAzioni di scritture pone in dialogo accademici, scrittori, giovani studiosi e professionisti provenienti da settori eterogenei allo scopo di mettere in circolo visioni della realtà ibride, oblique, o animate da una logica di "leggerezza", per usare la felice espressione contenuta nelle Lezioni americane di Italo Calvino. Una riflessione che è già, in sé, un'"azione", una forma di incisione attiva sulla realtà. Al centro, la scrittura, protagonista sulla pagina attraverso la preminenza assoluta data alle recensioni, ma anche come "scrittura del presente", nei segni che ne danno gli eventi e le iniziative culturali su cui pure si intende riflettere. "Il bimestrale, di cui il presente fascicolo segna la nascita, si intitola non a caso “Generazioni di scritture”, volendo indicare già nel nome l’intenzione che lo giustifica: incontro generazionale di giovani e uomini/donne di esperienza umana e culturale, che in-

La cultura dei Tao... al Fondo Verri, un audio libro che è necessario acquistare e conservare nella propria biblioteca per ascoltare la "fiaba" contadina di Antonio L. Verri... e per sostenere l'attività del Fondo a lui intitolato.

sieme generano scritture critiche, aventi come referenti di osservazione la cultura che scrive e la cultura che organizza eventi promozionali di lettura e di condivisione seminariale" così nall'editoriale Carlo A. Augieri, direttore della rivista. Con lui, vicedirettore è Marco Gaetani, capo redattore e segreteria di redazione Giorgia Salicandro, il coordinamento delle recensioni è affidato a Chiara Agagiù, la progettazione grafica a Emanuele Augieri. Giovedì 22 gennaio alle 18.30 la redazione e i collaboratori della rivista presenteranno il nuovo progetto editoriale nelle sale di Lecce Spazio Vivo, in via Taranto n. 22/A a Lecce. A dialogare con il direttore Carlo Alberto Augieri vi sarà Mauro Marino, direttore del Fondo Verri e della rivista culturale Spagine. Nel numero zero della rivista, in primo piano sono l'agone culturale, mediatico, economico che ha visto Lecce competere per il titolo di "capitale" e il più importante evento di marketing editoriale del Salento con i quali si è chiuso il 2014, ma anche lo spirito comunitario da affidare al nuovo anno e altri importanti progetti legati alla lettura e alla scrittura.

Sabato 24 gennaio la presentazione a Tuglie al Museo della Civiltà Contadina del Salento La cultura dei Tao in una fotografia di Santa Scioscio

interverranno Eugenio Imbriani e il cantautore Mino De Santis


copertina

spagine

Antonio Gramsci jr. al Fondo Verri giovedì 22 gennaio, alle 17.00 per il 97° anniversario del Partito Comunista d’Italia in agenda

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La storia di una famiglia rivoluzionaria

er il 97° anniversario del Partito Comunista d’Italia sezione italiana dell’Internazionale Comunista, a Lecce, giovedì 22 gennaio 2015, alle 17.00, al Fondo Verri, in via Santa Maria del Paradiso nei pressi di Porta Rudiae, avrà luogo la presentazione del libro “La storia di una famiglia rivoluzionaria. Antonio Gramsci e gli Schucht tra la Russia e l'Italia” di Antonio jr. Gramsci, Editori Riuniti. Parteciperanno all’incontro l’autore, Maurizio Nocera segretario del Centro Gramsci di Educazione e Tonino Mosaico della Direzione Nazionale del Partito Comunista. *** Non si può non concordare con Antonio Gramsci jr. – scrive Raul Mordenti nell’introduzione - quando afferma a proposito del suo libro: «Man mano che il lavoro procedeva, ho capito che la storia della famiglia Schucht era interessante di per sé», cioè non solo come fonte per aspetti poco illuminati della vicenda biografica del massimo pensatore politico del Novecento italiano, suo nonno Antonio Gramsci. Questo giudizio dell’Autore sarà condiviso da qualsiasi lettore di questo libro, che è davvero più romanzesco di qualsiasi romanzo nel

narrarci una storia familiare, cioè un concerto di tante storie personali intrecciate vitalmente fra loro sullo sfondo del «mondo grande e terribile, e complicato», (per usare le parole che il nonno del nostro Autore scrisse più volte a sua moglie). “Nonostante il libro tratti la storia della famiglia Schucht, al centro della narrazione, anche se a volte non manifestamente, c’è sempre la figura di mio nonno, Antonio Gramsci. Sono fermamente convinto che lo studio della sua opera e della sua vita, come del resto di altri grandi classici del marxismo, non è affatto anacronistico, anzi, penso che sia molto attuale e necessario proprio ora, quando sembra che i pilastri della civiltà occidentale stiano per crollare e quando dobbiamo ricevere risposte alle domande essenziali: chi siamo, in quale direzione ci muoviamo e per quali ideali viviamo. Antonio Gramsci jr., è nato a Mosca nel 1965 da Giuliano, secondogenito di Antonio Gramsci, e Zinaida Brykova. Laureato in biologia, ha insegnato Morfologia, sistematica e ecologia delle piante presso l’Università pedagogica di Mosca. Ha ricevuto anche una formazione musicale: inizialmente dal padre – noto musicista e pedagogo, uno dei primi promotori della musica

antica in Unione Sovietica – successivamente ai corsi di musica antica nell’istituto mu- sicale «Carta Melone» e percussioni etniche. Insegna alla scuola italiana a Mosca e partecipa a varie attività musicali suonando gli strumenti antichi a fiato e percussioni etniche in varie formazioni di Mosca: «Volkonsky consort», «La Campanella», «La Spiritata», «Al-Mental» e altri. Dirige la scuola di percussioni etniche, «UniverDrums» presso l’Università Statale di Mosca e presso il laboratorio di musica elettronico-acustica del Conservatorio di Mosca, effettua ricerche sugli aspetti matematici del ritmo. In collaborazione con la Fondazione Istituto Gramsci ha effettuato ricerche sulla storia del Pci negli anni Venti e sulla famiglia del nonno. Nell’Archivio del Comintern e in quello della famiglia Schucht ha rinvenuto molti documenti importanti che hanno contribuito a colmare lacune sia nella storia del Pci, sia nella biografia di Antonio Gramsci. Nel 2007-2008 ha collaborato a l’Unità. Ha scritto La Russia di mio nonno. L’album familiare degli Schucht, pubblicata dall’Unità nel 2008 e nel 2010 è uscito presso Il Riformista il libro I miei nonni nella rivoluzione. Gli Schucht e Gramsci.


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