spagine della domenica n°61 - 25 gennaio 2015 - anno 3 n.0
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri
Non sentite l'odore del fumo Auschwitz sta figliando
Le più grandi risorse erano la speranza e la dignità. Chi si rassegna, muore prima. Non so se i giovani hanno appreso. Se ci si lascia chiudere, terrorizzare se ci si lascia cristallizzare si diventa una cosa gli altri ci diventano cose. Molti ancora non sanno: Auschwitz è tra noi, è in noi.
Non so se i giovani sanno in ogni parte del mondo: non c'è rivoluzione se si trattano gli uomini come sassi, ai giovani occorre l'esperienza creativa di un mondo nuovo davvero. Ad Auschwitz ci torno volentieri. mi da la misura dei fatti. Danilo Dolci
spagine
Allegri trasformismi
I
l trasformismo, malattia endemica della politica italiana, è stato sempre argomento di studio da parte di politologi, storici e politici più virtuosi. Oggi non lo è da meno rispetto al passato. Quel che cambia è che mentre prima era considerato unanimemente un vizio o una necessità, cui si faceva ricorso nella consapevolezza di compiere comunque un’azione poco commendevole, oggi lo si considera un modo come un altro di stare in politica. Tanto per la semplice constatazione che non ci sono più i partiti, non ci sono più le ideologie; tutto è più liquido. E questo è un altro aspetto della grave crisi morale – anzi, preferisco dire culturale – che stiamo attraversando. Come si fa a non dare ragione alla fronda dem, capeggiata dallo storico Miguel Gotor, che si ribella al più allegro e sfacciato trasformismo di Renzi? Come si fa a non dare ragione alla fronda forzista, capeggiata da Raffaele Fitto, che si rivolta contro il più cinico e arrogante trasformismo di Berlusconi? Già, come si fa? Eppure si fa, si deve fare. Perché esse sono le due ridotte, dalle quali respingere gli assalti sconsiderati di politici geneticamente trasformati, che sarebbe già più dignitoso considerare venduti anziché stupidi e incapaci di collocarsi in un cammino di civiltà politica. Fossero venduti, infatti, starebbero ancora nelle categorie tradizionali e sarebbe poco male; sono, invece, convinti assertori di nuove categorie, ancorché non ancora definite. Ma quali? Sono figli del vuoto lasciato dalla borghesia. Secondo una lettura sociologica di Giuseppe De Rita. «Il vuoto borghese ha lentamente trascinato la società italiana verso una deriva antropologica, caratterizzata da pulsioni individuali, anche le più sfrenate, interessi personali o di singola categoria sempre più frammentati» (L’eclissi della borghesia). Sono figli del nulla, orfani delle tanto vituperate ideologie, cachielli di facile e vuota parlantina, maturati nelle scuole della didattica modulare, priva di logica consequenziale, di ordine temporale, di finalizzazione di un gesto, di un’idea, di una proposta. Sono sconosciuti in cerca di
tutto ciò che li possa far conoscere. Sempre De Rita scrive: «Una prova empirica, ma molto indicativa, del fenomeno dell’eclissi borghese la si può ricavare partendo da uno sguardo attento alle liste dei candidati durante le elezioni… migliaia di nomi di aspiranti consiglieri, tutti sconosciuti. Non sappiamo se cercano pubblicità, potere, affari». Sappiamo sappiamo! Cercano tutte queste cose; e se ce l’hanno, non le vogliono perdere. Sia i renziani che i berlusconiani sono capaci di fare colazione, pranzo e cena a base di gnocchi chiodati pur di essere ricandidati alle prossime elezioni. Non hanno altro di più importante, di più dignitoso. Sono come i cosiddetti “cornuti contenti” di una volta, i quali, pur di avere qualche beneficio dal signore del paese o di non perderlo se già ce l’avevano, erano capaci di prostituire moglie e figlie. Per il presidente del Pd Matteo Orfini, renziano dell’ultima o della penultima ora – faccia lui! – è perfettamente normale che una trentina di senatori del Pd, renitenti all’adesione cieca alla proposta del loro segretario premier, di questo nuovo feudatario, venga sostituita, per far passare la legge elettorale, da una trentina del partito di opposizione guidato da un altro feudatario, un uomo che per la vergogna del paese è ancora in auge, dopo non solo e non tanto le condanne della magistratura, ma lo schifo dei suoi comportamenti pubblici e privati. Con quella sua faccia di cospiratore ottocentesco Orfini ha il coraggio di dichiarare: si è sempre detto che per le riforme istituzionali non contano maggioranza e opposizione, e nel momento in cui ciò accade si grida allo scandalo. Come se si trattasse del principio dei vasi comunicanti in versione politica: posti due partiti comunicanti è normale che si verifichi un passaggio di liquami, pardon di liquidi, politici ad un unico livello. E in Forza Italia, non vanno tutti in brodo di giuggiole i berlusconiani, che si masturbano all’idea che Berlusconi sia tornato al centro del dibattito politico? Come se il fine ultimo del loro impegno politico sia il ritorno di Berlusconi, il suo pieno recupero politico, la sua restituzione a nuove porcherie!
di Gigi Montonato
Il vuoto lasciato dalla borghesia per certi aspetti è causa ed effetto insieme della trasformazione antropologica di cui parla De Rita. C’è una deriva assai più complicata e grave, che ha diverse altre cause. Lo stato della politica italiana dipende sì dai cattivi esempi degli anni passati, dalla corruzione diffusa, che fu quasi sul punto di avere un suo statuto; ma anche dall’impotenza politica di cambiare il corso di questa slavina devastante, così la chiamò agli inizi degli anni Novanta il politologo socialista Luciano Cafagna (La grande slavina. L’Italia verso la crisi della democrazia). L’altro grande vuoto è la perdita nazionale di sovranità, seguita dalla convinzione che ormai nulla dipende dalla nostra volontà, dal nostro impegno. E’ la conseguenza del nostro essere ormai sottomessi a dei poteri sovranazionali che ci impediscono di pensare, di riflettere e di agire secondo prospettive, di avere dei sogni politici da realizzare. Quando tutt’intorno non ci sono che muraglie insormontabili, che si chiamano Europa e globalizzazione, a cui si è aggiunto il terrorismo islamico, che ci tiene tutti in ambasce, come si può aspirare a qualcosa? Nella condizione in cui non si hanno più sogni da realizzare, mete da raggiungere, prospettive, subentra una sorta di spleen politico che annichilisce. Allora monta il sommerso. Così emergono i furbi, gli spregiudicati, i Girella del Giusti, quelli che facilmente perdono “la bussola e l’alfabeto”, o i senza memoria storica, i depurati da ogni forma di ideologia. Quanti renziani e berlusconiani non sono riconoscibili nelle categorie citate? Direi moltissimi. Per tornare alle ragioni di quelle minoranze che non ci stanno a svendersi, ad accodarsi alle mutazioni genetiche che hanno aggredito la politica di questi ultimi vent’anni, devono prendere atto che vanno incontro alla sorte dei perdenti, di quelli, che, pur avendo ragione, sono sconfitti e mortificati dalla congiura dei tempi. Non è un caso che sia nel Pd che in Forza Italia i dissidenti gridano, urlano, minacciano, ma poi regolarmente stanno al loro posto. Come ad aspettare che passi l’eduardiana nuttata o, magari, che arrivi Godot.
diario politico
della domenica n°61 - 25 gennaio 2015 - anno 3 n.0
L
Il vocabolario detta la pace
a via per superare il conflitto la troviamo nel vocabolario. L’attentato e la morte dei giornalisti contro il settimanale satirico “Charlie” pone nella sua gravità, di violenza, di rifiuto, di lotta estrema, il conflitto della civiltà islamica verso la civiltà occidentale e ai suoi valori. Il tema è il conflitto, la misura l’uccisione dei tredici ragazzi iracheni colpevoli di aver visto in televisione la partita di calcio della nazionale. Isis, Califfato, Jihad, Sharia, Corano dei Salafiti sono parole che si muovono in un fiume nero e quindi risultano per noi oscure ed incomprensibili. Siamo dentro il conflitto; lo sentiamo vicino, percepiamo il pericolo: ci sfugge la conoscenza, siamo smarriti e viviamo nella paura. Sentiamo di avere un grande bisogno di conoscenza delle parole del conflitto per essere facilitati nella via della conoscenza delle culture d’oriente e d’occidente. Pensiamo di fare questa esperienza nello spirito dei versi del poeta Countee Cullen “Camminare insieme”:
Calligrafia araba, la parola Allah
“Tenendosi per mano, attraversano la via, il ragazzo negro e il bianco, il dorato splendore del giorno, l’orgoglio scuro della notte. Dalla finestra socchiusa la gente negra guarda e qui la gente bianca mormora, indignata per questi due che osano camminare insieme. Ignari di sguardi e di parole, essi camminano e non sanno…” .
Nel 2007 con l’Associazione “Le mamme in prima fila” di Collemeto, Galatina, in collaborazione con la Mezzaluna rossa e con la televisione araba Al Jazeera abbiamo organizzato un progetto culturale di dialogo fra la cultura del Mediterraneo e quella del Medioriente. Il linguaggio era quello della moda e prevedeva di offrire ad una coppia di sposi della città di Gaza un abito nuziale occidentale per il loro matrimonio come risposta alla distruzione della guerra che aveva distrutto la popolazione di Gaza nella morte. Ebbi molte difficoltà con la lingua ma feci un importante esperienza superando i problemi della comunicazione. I testi in lingua araba, per la televisione
di Luigi Mangia
Al Jazeera, furono tradotti dal Direttore SamirQaryouti. AlJazeera diede spazio al progetto. Ricordo le precauzioni: furono oscurati i volti dei giovani sposi, ma tutto si svolse senza problemi e pericoli. La lingua e quindi la comunicazione è un vero e grande problema che complica il nostro rapporto nella comprensione del conflitto nelle culture oriente occidente. La televisione di Al Jazeera può essere di grande aiuto per superare le difficoltà della lingua perché trasmette in lingua araba ed in lingua inglese. Al Jazeera può essere la luce che cerchiamo e può liberare le parole da quel fiume nero e quindi favorire la loro difficile per noi comprensione. Io sono convinto che la via per superare il conflitto la troviamo nel vocabolario e che il linguaggio comprensibile è la migliore forma di rispetto delle culture e della civiltà. L’esperienza culturale della moda della via della seta da oriente a occidente che abbiamo fatto nel 2007 può essere un esempio da riprendere per capire il conflitto e per fare la via della convivialità delle differenze.
R spagine
aggiungiamo quasi l’età di mezzo con intatte le attese nel cuore. Sorpassammo turbolente stagioni, senza che la speranza d’una vita nuova e più radiosa ci abbandonasse. Vivemmo amare disillusioni, ferite inferte nell’intimo, ma non rinunciammo mai per un attimo all’ardire del viaggio. Che è fantasticheria, immaginazione. L’esistenza è cammino continuo, senza interruzioni di sorta, lungo strade sterrate, accidentate, malagevoli, agevoli, piane. L’esistenza è una fanciulla con le trine bionde e con gli occhi da cerbiatta, che ci avviluppa e ci chiama. Ci chiama per nome. Nonostante tutto. Anche quando soffiano venti vorticosi e incomprensibili, anche quando stagioni stremate ci fanno sentire in gola l’acre sapore del dolore, l’esistenza ci chiama e ci desidera. Ci domanda di sfogliare l’eterna margherita, come una luna interrogativa. Una luna piena e sfavillante, che ci scruta e si rallegra della nostra presenza. L’esistenza è un bambino che piange e ride e vuole essere coccolato, cullato. Un bimbo fragile, che gioca con le sue piccole cose e drappeggia ininterrottamente i suoi scenari di sogno. Anche quando la vita, magari in età giovanissima (quella delle rosee utopie e delle aspettative), ci ha colpito con la sua scure implacabile, obnubilandoci vari aspetti della realtà, non lo ha fatto invano. Non lo ha fatto per cattiveria o per sadismo. La vita, talvolta, ci ha mostrato il suo volto crucciato non per punirci di inverosimili colpe commesse, ma per spingerci a compiere il sentiero del viaggio. Quante volte coi ginocchi piagati, con le mani sanguinanti, la mente angosciata, traversammo il tempo, che sembrava una prigione di pietra e d’insensibilità? Quante volte ci sentimmo assalire da un sordo dispiacere, da una incapacità intrinseca di comprendere noi stessi e quindi da una impossibilità di condividere le ragioni degli altri? Vivemmo, per tanto tempo, anni imbrigliati nei nostri fortini d’apatia, senza avere la spinta giusta d’entrare in contatto con l’altro. Ma anche la vita afflitta si affronta sempre con occhi chiari. Con occhi compagni. Ora nell’età di mezzo, abbiamo ammainato le bandiere di nessun costrutto. Purtuttavia, continuiamo ad inseguire chimere imprendibili e aspettazioni di giorni migliori. Non ci stancheremo di vagolare per strada con l’anima in spalle, di attendere l’aurora fremente ogni mattina, perché ci sveli la faccia veritiera del futuro. Ogni meriggio ci addentreremo, passo passo, nei giardini d’inverno, per godere gli effluvi e la bellezza degli ellebori blu ardesia, le rose dei poeti. Vezzeggeremo sempre la sera serena perché ci plachi l’irruenta onda dell’anima e ci prepari alla notte e al suo fruscio di stelle silenziose. Ora, nell’età di mezzo, molto meglio di prima, intuiamo l’importanza dell’amicizia, baluardo
Contemporanea
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Nell’orizzonte dell’altro di Marcello Buttazzo
formidabile, che è tutto ciò che abbiamo. Corrispondere d’amorosi sensi con gli altri è il più fenomenale atto conoscitivo, che possa essere compiuto. Rapportarsi empaticamente ad un uomo o ad una donna è un privilegiato viaggio in prima classe. E per noi, anime semplici, avvezze da sempre a stazionare in vagoni di terza, giova sentirsi importanti, visti, da un fraterno interlocutore. Il riconoscimento dell’altro da sé è un progetto paradigmatico fondamentale, che serve a definire e a rafforzare l’identità. Incontrandosi con l’altro, ognuno di noi conosce meglio se stesso, comprese le ineliminabili “zone d’ombra”. C’è, altresì, la possibilità di entrare in sintonia con inediti mondi e universi sentimentali. Ora che siamo giunti all’età di mezzo, possiamo finalmente uscire all’aperto e respirare aria rinnovata. Possiamo disconoscere gli abbaglianti fari di falsa illusione, possiamo rigettare i richiami volgari di certa politica autoreferenziale e gli stridori di chi lancia urla solo per farsi notare. Desideriamo uscire all’aperto per prospettare mattini più
Guido Reni, San Francesco in estasi, XVII secolo, olio su tela
lucenti, sere più placide, notti di abbarbaglianti stelle assorte. Usciamo all’aperto con la voglia di voler abbracciare il mondo, il nostro mondo spirituale. Sempre saremo pellegrini e anime erranti come la luna, sempre cammineremo. Saremo a volte profughi, a volte clandestini, ma alfine troveremo le dritte per sentirci in pace con il nostro simile. Compiremo il viaggio in povertà, così come siamo. Francescanamente, saremo nell’orizzonte dell’altro. E i dolci, agognati orizzonti arricchiscono le desiderate giornate. La vita, in fondo, anche quando s’è in preda agli scoramenti, resta la più meravigliosa e insopprimibile avventura umana. Nella mente ho sempre questa straordinaria poesia di Sandro Penna. “La vita…è ricordarsi di un risveglio triste in un treno all’alba: aver veduto fuori la luce incerta: aver sentito nel corpo rotto la malinconia vergine e aspra dell’aria pungente. Ma ricordarsi la liberazione improvvisa è più dolce: a me vicino un marinaio giovane: l’azzurro e il bianco della sua divisa, e fuori un mare tutto fresco di colore”.
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riviste
della domenica n°61 - 25 gennaio 2015 - anno 3 n.0
È on-line il nuovo numero di Amaltea. Trimestrale di cultura - Anno IX, n. 4/2014 Memoria, cultura della terra, alterità, arte, attualità... Ecco di seguito l’editoriale che apre il numero
Sono io quello negli occhi dell’altro
D
all’ultimo saggio di Tullio De Mauro apprendo che le lingue in Europa sono ben 103: il numero comprende lingue ufficiali, lingue nazionali e lingue minoritarie riconosciute, una “fisionomia eccezionale nel pianeta”, una storia linguistica, e non solo, quella dell’Europa, paragonabile ad un arabesco, egli scrive. Un intrico di linee e forme è stato ed è lo scenario europeo, frutto di una diversità sopravvissuta attraverso il tempo, che in alcuni casi è stata vera e propria ‘resistenza’ di gruppi e singoli verso editti, divieti, persecuzioni, spinte culturali omologanti. Penso soprattutto alle lingue minoritarie. Consultando l’inventario geopolitico delle lingue che lo studioso fornisce, ritrovo, per l’Italia, la dicitura ‘neogreco’ tra quelle contrassegnate come lingue minoritarie, ipotizzo che essa debba includere anche il griko, parlato nell’area ellenofona del Salento. E penso a quei contadini del Salento griko, che dopo ore e ore di zappa e spalla curva, trovarono ancora la forza e il senso di un resistere, fatto dell’ostinazione a par-lare la propria lingua-madre nel segreto della casa, con i cari, e amici più prossimi; o ancora fatto del paziente riempire, da analfabeti autodidatti, quadernetti e quadernetti con le parole della loro amata lingua, mentre tutto intorno diceva che era giusto ripudiarla. Quel resistere giunge a noi attraverso il tempo, come un fossile prezioso attraverso cui puoi intravederela stratificazione di quei gesti d’amore di cura e custodia. Per me quei gesti sono pura poesia ed eroismo. È triste constatare che i governanti europei, in queste settimane, si riscoprano come unità solo nell' "essere contro...",
di Ada Manfreda
nella chiusura, nella difesa da un 'nemico'. Una Europa del negativo. Una brutta Europa, che ancora una volta perde un'occasione preziosa per cambiare la sterile rotta tracciata da logiche di economia e finanza, per mettere piuttosto in valore la sua ricchezza di diversità di culture, di lingue, di storia, perseguendo giustizia sociale ed equità, veri fattori protetti-vi contro estremismi, intolleranze e violenze. Una Europa che ha voltato le spalle al Mediterraneo – non solo a quello non europeo, ma anche a quello europeo –, scrigno di un sentire, di un vivere, di un essere, straordinari, pregni di civiltà e bellezza, caleidoscopico. Si alimenta piuttosto il mito dell’efficienza, degli standard, una conoscenza su-perficiale e tendenziosa dell’altro difforme da que sto, e la logica del sospetto, della paura, del rifiuto. La strategia a cui si è subito guardato dopo i fatti di Parigi è stata: meno libertà più sicurezza. Un’equazione banale che simmetrizza l’altrui violenza. E suicidaria perché chiude, laddove la sfida, difficile ma decisiva, nella molteplicità e complessità dei rapporti umani che tramano le società odierne, sarebbe un maggiore impegno nel dialogare e nel ri-conoscere. Non solo per l’altro, ma per se stessi. L’alterità è necessità per l’identità. Lo sguardo dell'altro rivela la mia presenza, il mio esserci, mi tocca, mi chiama: eccomi! allora ci sono, non sono un'illusione! Quello negli occhi dell'altro sono io. Le mani dell'altro rivelano a me il mio corpo, lo manifestano a me. Ci sono e ci sono con una carne che percepisco cominciare in quel tocco, lì dove finisce il bordo delle mani dell'altro. Quelle del dialogo e del riconoscimento non sono pratiche da talk-show. Abbiso-
gnano di prossimità e con-tatto.
Avete mai incontrato il musulmano? Io mai. Conosco Lekbir, che è arabo, marocchino, è musulmano, immigrato e fa il muratore; un altro che si chiama Sa’id, è un ragazzo che gioca molto bene a calcio, è tunisino e musulmano; un altro ancora che si chiama Moustafa, non arabo, è senegalese ed è di religione musulmana; e poi conosco ancora... chi va bene di tutti i nomi che potrei fare? E perché avete mai incontrato l’occidentale? Io mai. Conosco così tanta gente, e così diversa, ‘occidentale’ non mi fa visualizzare alcuna persona in particolare. Quale occidentale? Di che tipo? Con che caratteristiche? Le categorizzazioni generali non servono a conoscere, ad approfondire, non servono alla relazione. Le pratiche del dialogo e del riconoscimento vogliono il tempo della cura, che è un tempo qualitativo, un tempo lento, attento, che approfondisce, esplora, un tempo dell’esserci fisicamente in uno spazio condiviso, attorno ad un fare insieme. Certo, poi, devi gestire l’angoscia che ti prende di fronte all’aperto che, nell’incontro, necessariamente ti attende. Perché non sai mai cosa perdi e cosa acquisti, di sicuro niente rimane immutato, né in te, né nell’altro. Accogliere l’altro, in fondo, significa esser disposto ad accettare di divenire tu altro. L’altro è domanda, non vi è nulla di scontato. Né vi sono risposte a priori, prima della relazione. Solo scoperta, da dentro la relazione, volta a volta, con le regole di ogni relazione: avvicinamenti, errori, passi indietro, aggiustamenti, riprese.
letture
Cercasi popolo
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Franco Cassano, “Senza il vento della storia. La sinistra nell’era del cambiamento”, Laterza 2014
L
a “Ragionevole follia dei beni comuni”, era questo il sottotitolo di “Homo Civicus”, un bel testodel 2004del sociologo Franco Cassano. Probabilmente furono Cassano, e soprattutto Carlo Donolo,tra i primi a introdurre nel dibattito di idee italiano la tematica dei beni comuni, per quanto il sociologo dell’ Università di Bari sembrasse già allora ridurla a quella dei beni pubblici, dei beni immateriali e al “bene comune”. I beni comuni (commons) non sono il “bene comune”, concetto derivato da Tommaso D’Aquino e dalla scolastica medievale, il “bonumcommune” che nell’età moderna si è secolarizzato nel concetto di “interesse generale”. Adesso, a distanza di dieci anni, nel pamphlet “Senza il vento della storia. La sinistra nell’era del cambiamento” (Laterza, 2014), Franco Cassano liquida frettolosamente la teoria dei beni comuni nel polemico capitolo sulla “sinistra radicale”. Ma non sono poche le aporie e le incongruenze in questo ultimo testo, che segna una nuova curvatura teorica dell’autore. Alle elezioni politiche del febbraio 2013 il padre nobile dell’operaismo italiano Mario Tronti, ora presidente del CRS (Centro per la Riforma dello Stato) e archivio Pietro Ingrao, viene eletto al Senato. Il filosofo della politica Carlo Galli viene eletto alla Camera, così come Franco Cassano. Tre intellettuali nelle file del PD, ma non si tratta della “sinistra indipendente” con il vecchio PCI, che si costituì in gruppi parlamentari autonomi ed espresse personalità di rilievo come Stefano Rodotà, Gianfranco Pasquino, Altiero Spinelli, Mario Gozzini, Guido Rossi, Claudio Napoleoni, solo per ricordarne alcuni. Essere eletti in un partito e pubblicare un pamphlet sono fatti differenti, ma entrambipubblici, e per quanto Cassano voglia discutere del merito del suo libro non si
di Silverio Tomeo
sfugge alla sensazione di un sapore giustificazionista di quest’ ultimo lavoro. Dal lato dell’autonomia culturale del Sud (vedi il fortunato “Pensiero meridiano” del 1996), dal lato dell’autonomia della società civile e della cittadinanza attiva, ben presente anche nella fase propulsiva della “primavera pugliese”, Cassano rimase sempre abbastanza distaccato dai movimenti sociali collettivi ed estraneo alle nuove culture politiche dal basso e alter-mondialiste che esprimevano. In un convegno di Scienze delle Comunicazioni dell’Università del Salento sul finire del 2011, con la presenza anche di “negriani di sinistra” come Franco Berardi Bifo e Carlo Formenti, Cassano tenne una lezione magistrale sul tema weberiano dell’etica dell’intenzione e dell’ etica della responsabilità. Ma mi sfugge oggi il senso dell’etica della responsabilità nel voto al pacchetto del Jobs act del governo, con ampia delega in bianco. Forse è tra le righe in questo pamphlet, dove si sostiene che nell’era della globalizzazione i diritti sociali vanno realisticamente rinegoziati in base alle risorse date. Come dire che dalla teologia economica del neoliberismo non si sfugge con la sola etica delle intenzioni. Ma allora: o il conflitto apre spazi e muta rapporti di forza, oppure, con Hegel, “tutto ciò che è reale è razionale”. “La sinistra europea e occidentale, sia quella radicale che quella moderata, quando racconta la storia recente ne racconta solo un lato”, scrive Cassano, che nella globalizzazione non vede solo un gioco a somma zero, vale a dire un conflitto amico/nemico, ma una nuova dislocazione di forze su scala globale, una novità di cui tenere conto. La fine dei “trenta gloriosi” del compromesso socialdemocratico, i trent’anni seguiti al secondo dopoguerra, e la fine dello “scontro tra il capitalismo nella sua forma liberale e il socialismo nella sua forma sovietica”,
segnano la caduta del vento della storia e la necessità di una nuova visione della coppia concettuale destra/sinistra. In realtà il conflitto che ha segnato la Guerra Fredda, il bipolarismo tra URSS e Stati Uniti, è statoordinativo di un equilibrio mondiale post-secondo conflitto, ma soffocandone i conflitti reali senza rappresentarli, anzi distorcendoli. Quello non fu nella realtà il conflitto tra “campo socialista” e capitalismo finanziario, ma tra un socialismo di Stato (con un suo particolare sistema di welfare) in salsa totalitaria ed egemonistica e un mondo liberal-capitalista sotto l’egemonia dell’iperpotenza statunitense, che in nome dell’anticomunismo arrivò a fare e giustificare di tutto. Il modello sovietico contemplava un produttivismo e un fordismo nell’organizzazione del lavoro analogo a quello del capitalismo, e con in più tutti gli strumenti di coercizione del conflitto sociale e di annullamento della società civile, oltre che nello strumentalismo dell’aiuto ai “partiti fratelli” e ai Paesi del “campo socialista”. Il conflitto era sovraordinato e distorto dal bipolarismo, in campo nazionale ed internazionale, ed ancora oggi ne subiamo le conseguenze in campo globale. Insomma: quando il comunismo “si fa Stato” e il socialismo reale diventa integralismo produttivistico, lo spazio pubblico e sociale del conflittosi si fa molto difficile, e molti di noi della Nuova Sinistra degli anni ’70 ne avevamo già allora qualche consapevolezza. È nel capitolo sul presunto profetismo e catastrofismo della sinistra radicale che si appuntano le perplessità principali di Cassano. Non che ne manchino le ragioni. In ogni caso riportare la polemica all’anno zero della coppia concettuale massimalisti e riformisti, o apocalittici ed integrati, è una semplificazione eccessiva e non situata dal punto di vista della processualità delle contraddizioni in atto. Basterebbe pensare al piccolo spazio, contraddittorio
quanto si vuole, aperto anche in Italia dalla lista l’Altra Europa conTsipras, in un contesto europeo che vede in Grecia e in Spagna il tracollo dei partiti della famiglia del socialismo europeo e mediterraneo, a vantaggio di nuove formazioni di sinistra. La critica alla metafisica di Toni Negri sull’ idea di un conflitto globale tra Impero e moltitudine è persino scontata, e non va affatto confusa con le tematiche dell’altermondialismo. Negri, ancora oggi, ritiene l’opera Mario Trontiil vero elemento di “innovazione teorica dell’ontologia italica del XX secolo”. Strano destino quello degli operaisti italiani, di destra e di sinistra: per leggere in chiave anti-togliattiana il pensiero di Gramsci approdarono a una regressione politica di saporebordighista sul tema delle alleanze e dell’egemonia, negando la dialettica della società civile, nel caso di Negri a favore prima dell’operaiomassa, poi dell’operaio sociale ed infine della moltitudine. Ma è verso le riflessioni di Marco Revelli che la polemica diventa imprecisa e pregiudiziale. La sinistra dei beni comuni viene liquidata come astratta, la sinistra sociale dei movimenti collettivi ritenuta non all’altezza della complessità, si mischierebbero istanze teoriche diverse e spesso auto-contraddittorie
nel calderone del catastrofismo apocalittico, cose tutte da argomentare e neppure presenti nella lunga elaborazione di Revelli. Un nuovo blocco sociale per la sinistra dei diritti, propone Cassano. Liberarsi dal peso del passato, non difenderlo accanitamente, accettare la realtà dei mutamenti, e sin qui apparerealistica la dialettica tra intenzione e responsabilità delle forme del politico. Anche se restiamo ancora nel vago riguardo alla necessità di nuove culture politiche e di un nuovo lessico politico per la sinistra. Per costruire un nuovo blocco sociale bisogna che si arrivi alla “costruzione di un popolo”, afferma Franco Cassano. Questa idea non mi appare in contraddizione, anzi ne è ben conseguente, rispetto alla visione di Alfredo Reichlin di un “partito della nazione”, come a dire una nuova forma di politicismo. Un tentativo di costruzione dall’alto di una nuova egemonia storica, in chiave populistica, è già in atto in questo senso da parte del governo Renzi, con la presenza sovrabbondante di populismi reattivi di ogni tipo in campo, in una dialettica reale di nichilismo politico. Si ricorderà quella che scherzosamente
veniva definita laécolebarisienne, il movimento attorno a Beppe Vacca di trent’anni fa. Fu un crogiuolo di ricerca marxista, da cui poi molti presero vie autonome e diverse, da Cassano a Francesco Fistetti. Ben distanti dall’uso delle lenti distorcenti dell’operaismo italiano, il tentativo di quel tempo all’ Università di Bari fu quello di emancipare Gramsci dall’ipoteca dell’addomesticamento togliattiano, purtroppo restando vincolati a un hegelo-marxismo di fondo, con tentativi successivi di evoluzione attraverso la lettura di Louis Althusser e Nicos Poulantzas e con vistose regressioni togliattiane in Vacca. Sembrerebbe che a quella formazione di fondo ritorni oggi Cassano, per quanto in chiave critica e autonoma, in un processo elaborativo come interrotto. È nell’ “Interpretazione dei sogni”, del 1900, che Sigmund Freud introduce per la prima volta la nozione di regressione (regression). Nozione descrittiva per dire come di fronte agli scacchi della realtà le vie di fuga verso formazioni precedenti di pensiero, se non proprio verso situazioni psichiche anteriori, sono sempre possibili. Per chiunque, anche per i migliori.
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il saggio
Gramsci della domenica n°61 - 25 gennaio 2015 - anno 3 n.0
“La liberazione per poche non esiste. O si è tutte libere, o nessuna è veramente libera”
Joyce Lussu
e l’universo del femminile
H
a osservato qualcuno, con ragione, che c’è un’apparente contraddizione fra l’infaticabile azione politica svolta da Gramsci nel promuovere l’adesione delle donne alle lotte per la loro emancipazione e l’esiguità, tutto sommato, della sua produzione teorica sulla “questione femminile”. Nell’azione politica Gramsci non si stancava mai – come testimonia Camilla Ravera in Diario di trent’anni, 1913-1943 di esortare le donne alla partecipazione diretta e consapevole all’azione per la trasformazione della società, di indicare nella partecipazione femminile un fattore essenziale della rivoluzione proletaria e, al contempo, nello sviluppo autenticamente democratico e di massa del movimento femminile un fattore essenziale della liberazione della donna. Aderì con entusiasmo all’idea di istituire sull’Ordine Nuovo, a partire dal 24 febbraio ’21, una “Tribuna delle donne”, della cui redazione incaricò la stessa Ravera. In un articolo intitolato “Il nostro femminismo”, nella Tribuna del marzo ‘21, la Ravera affrontava la questione della differenza di genere in questo modo: “L’uomo e la donna hanno nella vita una funzione loro propria; hanno nella loro natura dei propri valori, fisici, intellettuali e sentimentali; si tratta di porre l’uno e l’altra in condizioni tali che ognuno possa liberamente svolgere, manifestare e utilizzare tali valori, a beneficio suo e della collettività”. In seguito Gramsci, appena eletto segretario del Partito Comunista, nell’agosto del ’24, ideò il quindicinale “Compagna”, che nelle sue intenzioni
doveva essere l’organo del movimento femminile del partito, chiamando alla sua direzione Rita Montagnana da Torino. Eppure da qualche parte si è descritto l’atteggiamento di Gramsci come segnato da una concezione tradizionale della donna che avrebbe determinato in lui una sorta di apprensione verso le questioni che il femminismo “intellettuale” andava proponendo e di timore che la mentalità “illuministica e libertaria nella sfera dei rapporti sessuali” potesse sottrarre le lavoratrici all’impegno della rivoluzione proletaria. Sarebbe questa, insomma, la ragione di una presunta reticenza. Ma basterebbe, a smentire, questo passaggio di un discorso di Gramsci alle donne comuniste, riferito dalla stessa Ravera: “Nel nostro lavoro tra le donne bisogna partire dalla conoscenza esatta e differenziata delle condizioni di vita e di pensiero delle donne, delle loro esigenze e aspirazioni”. In più occasioni, in realtà, già prima della fondazione del partito comunista, Gramsci aveva criticato aspramente la morale tradizionale borghese che penalizzava la donna. In una nota critica ad una rappresentazione di “Casa di Bambola” di Ibsen (Avanti! ed. torinese, 22 marzo 1917), Gramsci sollecitava i lettori a comprendere il dramma umano della protagonista Nora Helmer, una donna borghese che “abbandona la casa il marito i figli per cercare se stessa”, esortandoli con energia ad aprire la mente a una nuova morale e ad un nuovo costume “per il quale la donna…è una creatura umana a sé, che ha una coscienza a sé, che ha dei bisogni interiori suoi, che ha una
di Ada Donno
personalità umana tutta sua e una dignità di essere indipendente”. La vicenda di Nora appare a Gramsci così emblematica, che diventa l’occasione per una riflessione critica sulla famiglia borghese, nella quale la donna è schiava, “sottomessa anche quando sembra ribelle, più schiava ancora quando ritrova l’unica libertà che le è consentita, la libertà della galanteria. Rimane femmina che nutre di sé i piccoli nati, la bambola più cara quanto più è stupida, più diletta ed esaltata quanto più rinuncia a se stessa, per dedicarsi agli altri, siano questi suoi famigliari, siano gli infermi, i detriti dell’umanità che la beneficienza accoglie e soccorre maternamente. L’ipocrisia del sacrificio benefico è un’altra delle apparenze di questa inferiorità interiore del nostro costume.” In queste poche righe, in realtà, Gramsci sfiora un problema enorme, che in futuro sarà al centro di approfondita elaborazione nel movimento delle donne: quello della oblatività delle donne e della cosiddetta “complementarità” della donna all’uomo, sotto la quale si è mascherata nei secoli, e si maschera tuttora, la giustificazione patriarcale dell’oppressione del genere femminile. Tuttavia è vero che si fa fatica a rinvenire negli scritti di Gramsci la traccia di un’esposizione sistematica sui temi dell’emancipazione e della liberazione delle donne. Inutilmente si cercherebbe, ad esempio nei “Quaderni del carcere”, una trattazione specifica e compiuta sull’argomento: ci troviamo invece di fronte a pochi riferimenti, poche note sparse sulla condizione femminile, sul femminismo, sulla sessualità, sempre all’interno di un discorso generale sulla morale o
sull’organizzazione del lavoro. Egli sembra essere più interessato all’individuazione di una nuova etica sessuale funzionale al processo di sviluppo delle forze produttive e “conforme ai nuovi metodi di produzione e di lavoro”. L’annotazione forse più netta e illuminante, riferita alla necessità della formazione di una nuova personalità femminile, che egli avverte come questione etico-civile fondamentale, compare sotto la voce “Questione sessuale” (Quaderni, I - § 62, pag.73): “La questione più importante è la salvaguardia della personalità femminile: finché la donna non abbia veramente raggiunto una indipendenza di fronte all’uomo, ma anche un nuovo modo di concepire se stessa e la sua parte nei rapporti sessuali, la questione sessuale sarà ricca di caratteri morbosi e bisognerà esser cauti nel trattarla e nel trarre conclusioni legislative.” Nella “cautela” di cui parla Gramsci è forse la chiave di lettura, pur nelle stringate righe, di un pensiero che guarda avanti e nella direzione giusta: a quando, cioè, sarà la donna stessa, ormai “indipendente di fronte all’uomo”, a definire se stessa e la propria parte nella società, ad affermare la propria soggettività autonoma, capace di autosignificarsi al di là di ogni tutela ma-
schile e capace di descrivere l’intreccio fra progetto di libertà individuale e progetto di superamento della società patriarcale. Aveva scritto Marx nell’Ideologia tedesca: “La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza è in primo luogo direttamente intrecciata alla vita materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. La coscienza non può mai essere qualcosa di diverso dall’essere cosciente e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita”. In altre parole, ogni processo di liberazione reale nasce dalla produzione di un pensiero autonomo da parte degli stessi soggetti che, a partire dalle loro concrete condizioni di vita, avvertono il superamento del sistema dato come necessario per l’abolizione della propria subordinazione e per l’affermazione di sé. In un prezioso volumetto intitolato “Volontà di futuro. Rilettura attuale di Gramsci”, pubblicato una quindicina d’anni fa, la studiosa gramsciana Laurana Layolo scriveva: “La funzione di egemonia culturale nell’universo femminile, svolta dalle donne intellettuali (studiose, politiche, organizzatrici sociali, educatrici) è stata di grandissima importanza per la costruzione di una concezione forte di
Julja Šucht, moglie di Antonio Gramsci con i figli Delio e Giuliano
sé di tutte le donne, dopo millenni di storia in cui esse erano vissute in condizioni d’inferiorità… Le tappe storiche dell’emancipazione e della liberazione sono divenute per ogni donna fasi di un percorso ontogenetico e filogenetico di conoscenza di sé e del proprio essere sociale, della propria dimensione culturale e della determinazione del proprio agire femminile”. La produzione di pensiero autonomo delle donne, insomma, non può avvenire che a partire da sé, dall’elaborazione dell’esperienza materiale e concreta di sé. Purché, mi verrebbe da aggiungere, tale processo di elaborazione necessariamente comprenda l’esperienza e la volontà di futuro di tutte le donne, di ogni classe sociale e di ogni parte del mondo. Amava ripetere Joyce Lussu, grande intellettuale femminista che comunista e proletaria non era, ma nutriva grande rispetto sia di Gramsci che delle donne lavoratrici, unito ad un forte sentimento internazionalista: “La liberazione per poche non esiste. O si è tutte libere, o nessuna è veramente libera.” Ed ecco che - avvertiva Gramsci - prima di allora “bisognerà esser cauti”. *Pubblicato sulla rivista GRAMSCI, luglio 2007
spagine
Giornata della Memoria 2015
scritture
della domenica n°61 - 25 gennaio 2015 - anno 3 n.0
ECCE HOMO (favola ma non troppo) C'
“Il sonno della Ragione produce mostri...” Goya
di Carlo Stasi
era una volta un uomo che viveva tranquillo. Lavorava il suo campo, disegnava i suoi tramonti, cantava insieme ai suoi uccelli, leggeva la natura e scriveva la sua vita con la zappa. Voleva fare del suo campo un giardino, ed in effetti campava allegro e felice nel paradiso terrestre che si era creato. Un bel giorno, Homo Sapiens (questo era il suo nome) conobbe Homo Insipiens che vegetava tranquillo nel suo campo incolto. Invece di lavorare dormiva, e così non vedeva né albe né tramonti, non sentiva neppure il canto degli uccelli; dormiva, e dormendo non leggeva che sogni, non scriveva che fantasmi. Non sapeva che farsene del suo campo che ormai era diventato il suo letto, un letto di erbacce. Era pigro ed annoiato, il tempo non passava mai, anzi pareva che per lui si fosse fermato, tanta era la immobilità, la monotonia della sua vita. Quando Homo Sapiens si affacciò nel suo campo e gli chiese come si chiamava, Homo Insipiens socchiuse appena gli occhi, disse il suo nome con flemma, si girò dall'altra parte e continuò a ronfare. Homo Sapiens rimase deluso nel veder così sfumare la possibilità di avere qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere di tanto in tanto, ed ancor più quando si ritrovò Homo Insipiens addormentato (tanto per cambiare) nel proprio campo. Il perché non tardò a capirlo: durante la notte un tale aveva praticamente conquistato il campo dell'Insipiens e lo aveva cacciato via. Subito si mise a spiare le mosse del tale che pareva in preda ad una strana agitazione. Sbraitava al vento, sgridava gli uccelli perché cantavano, cancellava lo sguardo dei tramonti con l'ira dei suoi occhi infuocati, leggeva parolacce, scriveva bestemmie, non lavorava, ma si limitava a girare lungo i confini del campo appena usurpato; insomma, sembrava pazzo, e Sapiens decise di chiamarlo Homo Demens. Quando Insipiens si svegliò (solo per un attimo naturalmente), e seppe che il suo campo non gli apparteneva più, invece di reagire, si riaddormentò. Ma al timore di Sapiens di dover ospitare, chissà per quanto, quel parassita, si aggiunse il terrore che il pazzo volesse prima o poi allargare ulteriormente i propri domini. E da quel giorno la vita di Sapiens cambiò radicalmente, l'ansia e la preoccupazione di perdere il proprio amatissimo campo, lo resero guardingo e sospettoso. E ne aveva ben ragione, perché, ben presto, Homo Demens si accorse della presenza
di quel bel campo e lo volle suo. Detto fatto! No, stavolta trovò di fronte un avversario deciso a difendersi a colpi di zappa e dovette far subito dietro front! Sapiens, benché pensasse che forse la lezione sarebbe bastata, non abbassò la guardia, ma da solo, poveretto, non poteva certo vegliare giorno e notte. Così, una notte, mentre Sapiens dormiva morto di stanchezza, Demens entrò nel suo campo e, disarmando il suo legittimo proprietario, se ne impossessò. Che amaro risveglio per Sapiens reso schiavo in casa propria! Demens infatti a suon di frusta costrinse Sapiens a lavorare per lui, e, incredibile ma vero, riuscì a far lavorare perfino quello scansafatiche di Homo Insipiens. Il pazzo non voleva un campo, né un podere, ma il potere! Così i due schiavi non zapparono, non ararono, non seminarono, non irrigarono, non raccolsero, non mangiarono, non riposarono. No, il pazzo non voleva coltivare i campi, voleva farne dei campi di concentramento! E fece lavorare i due infelici per costruire le armi che gli servivano per difendere il suo potere e si fece innalzare una torre su cui sistemò il suo trono. Da quell'altezza scrutava gli orizzonti alla ricerca di nuovi campi da conquistare e nuovi schiavi da soggiogare. No, il pazzo non voleva conquistare i campi e nemmeno farne dei campi di concentramento; voleva farne dei campi di battaglia! E così fece lavorare i due schiavi per scavare delle buche che gli servivano da trincee per difendere il suo podere e la torre del suo potere. Ma il pazzo non voleva farne nemmeno dei campi di battaglia; voleva farne dei campisanti! E naturalmente fece lavorare i due malcapitati per costruire delle scatole di legno che sarebbero servite per chiudere i morti eroicamente caduti per difendere il loro capo. Sì, il pazzo voleva morire, voleva uccidersi; ma per farlo aveva bisogno di uccidere prima tutti gli altri che, benché stanchi morti di lavoro, non avevano alcuna intenzione di morire! Infatti i due schiavi lavorarono, uno con la rabbia di chi era costretto a lavorare per un pazzo, l'altro con la fiacca di chi non aveva mai lavorato. E così furono uccisi dalle armi da loro stessi costruite, chiusi nelle bare da loro stessi fabbricate, sepolti nelle fosse da loro stessi scavate nei loro stessi campi... solo per far compagnia all'unico che non lavorava, all'unico il cui unico scopo nella vita era di uccidere e morire!
La deportazione dal Ghetto di Varsavia in una delle pi첫 note immagini della shoah
delle parole
La libertà
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scritture
della domenica n°61 - 25 gennaio 2015 - anno 3 n.0
di Giuliana Coppola
S
LETTERA APERTA DES MOTS A GIULIANA ed essere in tanti omini curvi con cuorirossi su spalle grae p.c. a ILARIA cili e leggere Ilaria e seguire il suo esempio signorsìsignorsisignorsìsignore, imparare da Ilaria a dire sempre e IGNORSISIGNORSISIGNORE… monmésoltanto signornosignornosignornosignore e sfilare sfilare tier c’estrendreheureux… il n’y a riendeplu- compatti vicinivicini come nelle epigrafi dei nostri padri ansimportant ettupourrasenfintesentirunique… tichi chè là non c’era nessuno a dividerci con orribili segni e tu, Giuliana, leggendo la Spagina di doortografici. Non ha segni ortografici il pensiero corre e noi menica numero 60, hai subito pensato “che parole siamo i segni impressi da voi delle sue corse e figura, che figura”, col tuo piccolo pensiero delle sue soste e quando tutta questa storia finirà TUdi donna che scrive; che figura, hai pensato, credendo POURRASENFINTESENTIREUNIQUE, tu potrai finalche noi parole fossimo unico enorme refuso che si ripemente sentirti unico, come noi parole vogliamo che tu sia, teva qua e là, andando. per sconfiggerlo quarto reich fatta salva nessuna maiuSIGNORNOSIGNORNOSIGNORE, come insegna Ilaria; scola perché mai più morstuavitamea nella tratta SOLENOUSSOMMESLESMOTS, noi siamo le parole che oggi ADE nel ritorno mancato di ti scriviamo per spiegarti come noi libere parole, abbiamo Pesefonesignornosignornosignornosignore e ora noi padeciso in libertà di fare quello che vogliamo, di mostrare role nousquisommesnouslesmots, noi che siamo le paquello che noi siamo; noi siamo la PAROLA CHE VEDE. role, tutte unite come chicchi di melograno da offrire a Cortàzar lo dice, parlando di Keats, perché per noi, come Persefone per ritornare dall’Ade al Sole e per riandare dal per Keats, “dev’essere detto tutto senza sosta, subito; Sole all’Ade incontro al suo amore, noi rivoluzione tranquilla di parole in libertà, noi metafora di girotondi di esidetto agli amici, organizzato nella poesia, visto dalla parola”. Noi, parole, vediamo; abbiamo visto la tua ansia fe- stenze uniche e irrepetibili, noi vi preghiamo di fermarvi un attimo a decifrare inostrisegnivicinivicinichè anche lice ad esempio, quando hai incontrato gli omini di Tonia questa è rivoluzione; fermarsi un attimo, respirare e deciRomano, quando hai ritrovato vivo in edicola Charlie frare ciò che non è un refuso, tranquilla Giuliana, tranquilli Hebdo e hai deciso di scrivere per Spagine, di lui, di noi, tutti, non è un refuso; ogni parola è un unico che diventa come sempre, con virgola punti punto e virgola virgolette tanti, la parola, di per sé vede e provvede; dirigiamo noi le due punti ci mancava solo punto esclamativo eppure dofila della storia; inutile opporsi; non è un refuso, non vevi scrivere di libertà; allora noi parole che vediamo absiamo refusi; noi siamo le parole che vediamo; siamo i biamo deciso di scappare di mano a voi tutti e abbiamo segni dei vostri pensieri. scritto la nostra pagina di libertà a nostro modo chè per farle le rivoluzioni bisogna essere non uno lontano dall’alNOUS, LES MOTS tro come in questo momento ma essere vicinivicinivicini
spagine
della domenica n°61 - 25 gennaio 2015 - anno 3 n.0
L’abecedario di Gianluca Costantini e
Maira Marzioni
Liberammo i languori su liscio linoleum Lievitavamo leggeri Mogli e mariti Le mani materializzavano mambi tra le malinconie micro merletti morbide mazurche.
spagine
A
Comunismo civette proiettili e futuro
spettiamo Antonio Gramsci. Occhi puntati all'estremità di luce nera: Fondo Verri. Qui e là falce e martello su sfondi rossi. Qualcuno, anche tra i compagni, ha il volto basso sugli schermi sanguisughe. Ah sì?, anche i compagni cedono ai vizi del capitalismo, della dittatura tecnologica. Una donna russa dietro di me parla un perfetto italiano. Dice: io l'Italia la conosco così: governi che cadono ogni due anni, litigi, stragi, pasticci, chiacchiere e chiacchiere. Lui replica e lei incalza: ma non bisogna essere fatalisti! Non è così perché così deve essere. È così perché voi accettate tutto questo. Una compagna chiede all'altra: ma stamattina, all'Università, ce n'erano giovani? A sostenere, incoraggiare una speranza anemica, troppo sbiadita ormai, vana. Hanno un discorso più lungo queste creature, hanno argomenti, i pensieri e le parole sono più diluiti, hanno un respiro che scorre, non inciampa, non balbetta, non finisce prima di cominciare. Cosa si è spezzato tra loro e noi. È qualcosa che ha a che fare col futuro. Quella e questa generazione. Quella e questa vita. Noialtri a volte spezziamo le parole quasi credendo di infastidire. L'interlocutore si annoia presto, è stanco, svogliato. È tutto un singhiozzo, una frizione usata costantemente, un freno a mano in piena corsa. Ora filmano Stella Grande che intro-
cronache culturali
della domenica n°61 - 25 gennaio 2015 - anno 3 n.0
duce la serata. Ciò che deve arrivare arriva. Ciò che ordinano debba arrivare, arriva. 94esimo anniversario della fondazione del partito comunista. Con Antonio Gramsci junior. Nipote di... Le compagne sono eleganti, vestite bene. Sciarpe rosse. Na sira passai te le patule e ntisi le ranocchiule cantare. Intanto ripenso a Silvio Nocera, uomo di disegni, grotte e civette. È da mesi che va avanti questa storia. Storia della ricostruzione e restituzione. Di vite. È la mia terra. È la mia gente. La cultura dei tao. Anche Barbara Balzerani, sere fa, ha restituito la sua storia privata. E la rabbia per come le creature trascurano e offendono il Creato. Fiumi strozzati, montagne bucate, quindi paesi distrutti, frane, alluvioni. Epiloghi tristi, terribili, mancanza d'amore. Julia Schucht aveva un linguaggio poetico. Suo marito Antonio un po' la rimproverava per questo, un linguaggio troppo classico, diceva. Era una donna di una “bellezza mondiale”, sostiene Maurizio Nocera. Le pieghe del privato, la curiosità. Intanto suona anche Gramsci, il tamburello comprato a Calimera. Alla fine si spazzano via le sedie e si balla. Maurizio apre le danze, quell'indomito fanciullino. Più in là Giuseppe con la naturalezza di un rigurgito di neonato mi racconta della sua infanzia in istituto, della cattiveria, una volta uscito, di cui è capace la gente di provincia e quello che di conseguenza ha generato. Nel frattempo passano pure le civette di Silvio, quelle che nei momenti più significativi, visi-
di Ilaria Seclì
tano la vita dei parenti rimasti a terra. I morti sanno sempre come restare vivi. Penso alle torte e ai dolci arrivati a Lecce dalla provincia, da Tuglie. I dolci del figlio di Silvio, quelli che lui preferiva. Penso che la provincia sia più sana, più triste ma più vera e sana. Anche la sua cattiveria. Ma una cosa torna come un verso di picchio di montagna, accanita, incalzante: cosa si è spezzato? Cosa si è rotto tra questa e quella generazione. Mentre suonano e cantano Bella ciao, io sono fuori. È un canto che mi strazia e per me non ha senso cantarlo mentre noi si vive come viviamo. Come abbiamo supinamente accettato di vivere. Mentre suonano e cantano, alcune compagne, pugno alzato, dicono: ma questi giovani inermi inerti senza un lavoro senza un futuro senza niente, immobili, fermi, senza sangue, non rovesciano cassonetti, non protestano, non si indignano. Ecco, questo è il punto, trovato! È questo che si è spezzato. Il tempo. La lungimiranza è possibile, il progetto è possibile, la lotta è possibile se un futuro lo si vede. Ecco quello che si è spezzato, rotto. [Ridateci il futuro. Ridatecelo, cazzo. Entro il mese prossimo, al massimo. Altrimenti son guai. Alleghiamo alla lettera 7 proiettili. Vi sia d'avvertimento. Vi veniamo incontro, il riscatto non lo chiediamo. Ma il futuro sì]. Sì, ma la lettera a chi la spediamo? Ai compagni?
spagine della domenica n°61 25 gennaio 2015 - anno 3 n.0
accade in città
Ad illustrare una fotografia di Francesca Woodman. “L’artista appariva in molte delle proprie fotografie e il suo lavoro si concentrava soprattutto sul suo corpo e su ciò che lo circondava, riuscendo spesso a fonderli insieme con abilità. La Woodman usava in gran parte esposizioni lunghe o la doppia esposizione, in modo da poter partecipare attivamente all'impressionamento della pellicola”.
I “polacchi”
I
l venerdì spesso nella mia mente fa il paio con il lunedì benchè siano uno l'inizio e l'altro la fine della mia settimana lavorativa e quindi ispiratori di umori mattutini diametralmente opposti, ma spesso accade, come oggi che ho iniziato a preavvertire la Primavera, che il ricordo allarghi le mie narici fino a sentire l'odore pulito e frizzante della mia giovanissima femminilità mischiarsi con quello non bene identificabile dei panni usati delle bancarelle del mercato e più specificatamente delle robbbe dei Polacchi. L'appuntamento del lunedì e del venerdì era fisso con Patrizia poi con Rita e poi lì ci si incontrava con la Rossella la Gabriella e le altre con cui si faceva a gara amichevolmente ma con destrezza felina all'accaparrarsi i capi-per così dire- più belli e preziosi a cui avremmo magari apportato le giuste modifiche. Tornate a casa con le buste di nylon stracolme di "favolose camice indiane ricamate o gonne lunghe e gilet di panno o caldi maglioni oversize oppure le famosissime e odorosissime giacche di renna, borse sciarpe etc etc etc. Immergevamo i capi nell'acqua calda con detersivo profumato nel vano intento di eliminare l'odore dolciastro del disinfettante che invece persisteva e fagocitava come un avvoltoio ogni altro odore prevalendo su tutte le essenze
I riti del mercato del lunedì e del venerdì a Lecce
di Tiziana Buccarella
all'ambra o al sandalo o al patchouli o su qualsiasi jasmine intenso delle quali abbondavamo disperatamente, o al massimo si ritraeva un poco per congiungersi in un afflato eterno, pregno e denso di odori misti oltrechè anche un pò mistici- che ci accompagnava ovunque come un gemello siamese. Bisogna pure ad onor del vero ammettere anche qualche sconfitta e riconoscere che molte delle scelte esclusive fatte con cotanto neofita entusiasmo, lavate e indossate, allo specchio erano davvero troppo “lisergiche” e quindi venivano tristemente declassate e accantonate in un angolo dell’armadio con la promessa, e la inconfessata coscienza di non mantenerla, di venire riprese e riumanizzate al più presto; ecco che rimasero quindi, diciamo per anni, a fare da cuscino morbido per la gatta e da “deodorante” per armadi fino a trovare la loro destinazione finale con dolorosa eutanasia nella spazzatura o venire miracolosamente riesumate in brevi barlumi di vitalità carnascialesche. Tutto il resto di panni colorati- gonnone lunghe sabot tipo olandesi con calzettoni colorati scialli e sciarpe gilet collane lunghe orecchini cavigliere etc facevano parte del nostro regolare guardaroba quotidiano… A noi ragazze di allora Liu Jo, o Disegual e tutti i freakfashionstyle ci facevano e ci fanno un baffo-finto!
spagine
vs
Lettera aperta e semiseria a Carlo Michele Schirinzi su “I resti di Bisanzio”
Demone
C
arlo, sono costretto a non unirmi al coro degli elogi sul tuo film. Stefano De Santis ha dichiarato: - I resti di Bisanzio è un film di merda. Lui l’ha detto con scoperta ironia. Io non posso. Però sono obbligato a essere meno stringato di lui, e a spargere un po’ di parole per argomentare la mia dissonanza esclamativa! Un piccolo elogio, intanto (indoro lievemente la pillola): dopo tanti video corti (precoci), finalmente uno lungo (ritardato). Tuttavia non voglio farti sorridere. Non voglio neanche essere sistematico. Rabdomantico, forse. Nel presentarti al pubblico, dopo la proiezione al Cinema Elio di Calimera (cinema old style, forse l’ultimo baluardo, nella nostra provincia, contrapposto alle multisala imperanti) hai tradito almeno due tuoi numi tutelari (modelli, se preferisci): Beckett e Bene. Beckett una volta (o, forse, più di una), a chi gli chiedeva che genere fosse Aspettando Godot, pare abbia risposto: - Western. Avrai sicuramente letto qualche intervista a Carmelo Bene (si avverte sempre un vago senso di paura negli intervistatori). Nelle risposte, quando decideva di darle e di non perdere di vista le domande, rispettava sempre (così a me è parso) l’alterità della sua opera. Fatta da lui, con le sue impronte. Poi, però, da lui staccatasi. Nel coro degli elogi, c’è un aggettivo che mi sembra ricorra più volte: spiazzante. E caspita, tu ti affacci al pubblico, nella tua posa ubuesca, e che fai? Spieghi, cioè dici a parole, tu proprio tu, le metafore visive del tuo film. Con le immagini spiazzi, secondo il coro dei tuoi elogianti, e con le parole piazzi, collochi significati certi.
Terrorista
Ancora. Mi è capitato di leggere (on line) le tue note di regia, dove non solo racconti cosa hai voluto fare, ma anche fornisci un senso del tuo film. Capisco che le cosiddette note di regia sono il vestito buono di un film quando va a un festival o a una rassegna. Ma per quanto riguarda il senso, soprattuto quello fornito dall’autore, io credo che il film debba andare in giro nudo. Non sto dicendo che l’autore debba avere un grado zero di autocoscienza artistica; ma che debba praticare l’arte della discrezione critica nei confronti del suo manufatto e lasciare parlare soprattutto gli spettatori. Alternative: essere Beckett oppure Bene. Le note di regia stanno al film come il bugiardino sta al farmaco. E non è vero! Le note di regia che apprezzo (oltre al riassuntino della vicenda, vera o presunta tale, del film) sono, per darti un esempio, il racconto di Herzog delle vicissitudini per girare Fitzcarraldo. Ma la spiega, no! La spiega, che dà una visione orientata del film (anche qui, nelle note di regia, hai violato lo spazio di alterità del tuo film), no. Un film con il libretto delle istruzioni per l’uso? No, grazie. Preferisco un film che mi dà il privilegio (la libertà!) della scoperta (con l’errore incluso; piacere, questo, irrinunciabile). Insomma, sei un delatore, sei! Tuttavia, non c’è alcuno sconto di pena, sappilo!. Piazza pietre miliari visive, piuttosto, e abbi fiducia nello spettatore. Se sono ben impizzate, lui le vedrà. Do più credito alle tue immagini che alle tue parole (qualche volte le tue immagini sono bellissime). I numi tutelari, infine, non si tradiscono. Piuttosto si uccidono (anche quando sono già trapassati). Sto divagando. Mi sto occupando del contorno. Giro intorno al tuo film come il motoscafo intorno al relitto arrugginito
della nave riversa in una delle sue scene iniziali (questa sì, straordinaria). Qualcuno, non vedo chi, mi chiede: - Secondo te, l’opera di Carlo Michele Schirinzi a quale corrente artistica appartiene? Nella fretta di rispondere, trascuro il puntino di insensatezza della domanda e dico: - Manierismo! Poi, mi imbambolo un po’, sorpreso io stesso da quella parola da me pronunciata: - Manierismo! Qualche volta ho il sospetto che qualche entità non ben identificata, dormiente dentro di me, improvvisamente si svegli e mi detti le parole da pronunciare. Aiuto! Un daimon si è impossessato di me e mi costringe a dire cose che mai mi sognerei di dire! Chiamate un esorcista! Che allontani da me il daimon e faccia tornare da me l’angelo custode! Il mio angelo custode! Manierismo e automanierismo (questo neologismo non è mio, è del daimon, lo giuro!). Azzardo: automanierismo, rifacimento di sé stessi. Mi viene in mente che nell’arte cosiddetta contemporanea mi sembra si dica: arte che lavora sull’arte, postproduzione. Arte che lavora sulla propria arte, Post Production My Self, PPMS. Il fuoco, l’acqua, la terra, l’aria. Un ritmo quaternario (- Stupido – mi dice il daimon, - si dice presocratico!). Questa la cornice del tuo film (come molte cornici, infatti, ha quattro lati). Dentro ho visto (non in ordine di apparizione). Le chiesette, con resti figurativi di Bisanzio, in rovina. Il distributore di benzina quasi abbandonato e quasi a secco. L’uomo che incede con la sua latta da riempire. Tre uomini (poco raccomandabili? da dove vengono e, soprattutto, dove vanno?) che scendono in una cava e poi gironzolano, e vanno altrove.
cronache culturali - cinema
della domenica n°61 - 25 gennaio 2015 - anno 3 n.0 L’esposizione del cadavere della donna anziana. La veglia dei restati. Il bandista solitario e vagante dopo che ha pianto. L’artista al tavolo nella torre costiera. L’anziano artigiano al lavoro (lui sì che porta a compimento le cose con cura!). La bella sans merci in atmosfera flou di sogno (poteva mancare, la bella?). Il piede della bella con le dita tentacoli (Feticista! - è lui, che lo dice). La polla nella grotta (so dov’è, un luogo mitico della mia infanzia). Le Cento Pietre. Sparuti fiorellini di campo e alberi. Abitazioni, periferie desolate e quasi abbandonate. Pochi uomini, ancor meno animali (non è un buon segno). Sono esposte (non si nascondono né si rimuovono) le rovine e la morte (la voce interiore diventa un vocione: - Finalmente!); ma l’accompagnamento musicale del feretro è svanito o non si dà più (-Che peccato!). Molteplici fili intrecciati, senza trama e con esile ordito, non danno un tessuto compatto. Strappi o, meglio, sfilacciature già all’origine! Però, alcuni fili rossi si distinguono.
L’uomo che incede, Hulk minore, con le sue latte da riempire. I suoi giri nel basso Salento, tra le rovine di una civiltà che non è più contadina e tra i residui, deteriori e minimi, di una civiltà industriale che non è mai decollata. Un’odissea, la sua, nelle stazioni di servizio in decadenza. Il carburante è agli sgoccioli e per racimolarne un po’ bisogna succhiare (alla lettera). Come fa il benzinaio, che aspira la benzina dal tubo di gomma (la suca, nel nostro dialetto). Una delle immagini capitali del film. Questo è quello che ho visto. (Non so più in quale luogo, ho letto (devi averlo dichiarato tu in qualche spiega) che il cercatore di benzina e il benzinaio sono amici. Io non l’ho capito, che sono amici. E comunque non mi sembra fondamentale.) L’uomo, che per tutto il film è andato in giro a riempire di benzina le latte, alla fine svela il suo disegno. È un incendiario, un incendiario che si spegne in mare.
I tre tipi. Secondo una tua delazione, ripresa dalle recensioni/comunicati di stampa del tuo film, i tre sarebbero turisti. Con quelle facce! Salentine, che più salentine non si può! (La prossima volta metti tre marcantoni nordici.) E che fanno questi tre turisti? Invece di andare alle famose spiagge del basso Salento, come fanno tutti i turisti veri, a godersi le bel-
lezze salentine, fanno la via crucis delle chiesette abbandonate e sperdute nelle campagne. Ma si può? Io non l’ho capito, che sono turisti. (- Ciuccio, che altro non sei!, mi dice la voce interna. – Quante cose non capisci. Stai perdendo colpi.). E comunque non mi sembra fondamentale. I tre tipi che vagano (senza l’etichetta: turista; - Ma fermateli, e chiedete loro i documenti!) mi sembra che fanno una cosa semplice e fondamentale che ancora provano a fare gli umani (anche oggi, che non sono più nomadi): camminare ed esplorare. Esplorare anche per rintracciare le vestigia, via via sbiadenti, del passato. Le tue immagini, questo lo raccontano bene. (Il daimon mi suggerisce e mi intima di ripetere: - E quello quando gira, gira di qua gira di là, qualche volta perde di vista la sceneggiatura.) Costringo le parole in libertà del daimon in una formuletta: le immagini sopravanzano la scrittura scenica (- Meglio così!). Un’altra immagine capitale del film: la mano dell’uomo, uno dei tre, che sfiora l’icona quasi svanita all’interno di quella specie di santuario delle Centopietre.
L’artista. Una vedetta nella torre di avvistamento costiera (torre eburnea?). Che vive a fare? Che spera? Di avvistare i nuovi bizantini? Chi aspetta? I barbari? (Già sentita.) Fino all’orizzonte il mare è sgombro (non il pesce!). Nel frattempo ritaglia parole già scritte (già detto, arte che lavora sull’arte!); oppure le verga per costruire frasi che subito dopo frantuma. Infila un messaggio in una bottiglia che lancia in mare e che (non c’è alternativa) mai arrivera sulla terraferma. Perennemente in balia delle onde (che bello! il dondolio eterno!). Un naufragio, quello della bottiglia, provocato ad arte! Ho una visione (no, santo no!): vedo il daimon seduto, i piedi sollevati da terra, la pancia è prominente ma non troppo, le mani intrecciate quasi sostegno alla pancia, la bocca spalancata, i denti un po’ larghi. Mi sembra che sorrida (non è sguaiato). Non è un bel vedere. Pronuncia distintamente: - New Age purissima. È un soffio, poi svanisce. Anche in questo caso mi arriva una soffiata. L’artista (lo scrittore?) sarebbe un terrorista culturale. Io non l’ho capito, che era un terrorista (e comunque non mi sembra fondamentale). Artista terrorista (-La cacofonia, la senti?). Mo’ è sparito e già ricompare. A me rivolto: - Quante cose non cogli! Uffa! Gli do ragione, stavolta. Vero. L’artista terrorista mi ha annebbiato la
vista e confuso la mente. Delle sue scene, non ho serbato come ricordo un’immagine memorabile. La mia vista era deviata. Non posso giurare, quindi, che non ce ne fossero, di memorabili.
A me sembra che ll basso Salento, che tu hai provato a raccontare (con l’ambizione di elevarlo a paradigma extraterritoriale), sia ormai il regno di un Dioniso destituito, ossia impotente (ma si puo!). Tutto, tutto quello che hai filmato (sopra ho fornito un elenco parziale) a me sembra che documenti solo la congiura, già avvenuta, per detronizzare Dioniso. E nei paraggi, questo il dramma, non si vede alcun Apollo che venga in suo soccorso. E Apollo, Apollo dov’è? Non lo vedo. (Cieco, che non sei altro – mi ingiuria il daimon, - Apollo non c’è, è alle Seichelles. Lì c’è un sole che qui non c’è più!.) La fuga di Apollo ha scatenato un delirio di impotenza. Questo hai filmato: un delirio di impotenza!
Nello spirito di colui che guarda, che qualcosa ma non tutto coglie, provo a fare alcuni corto circuiti. Poche piccole scintille, che non provocano alcun incendio. Un rumore aspro che dura poco. L’incendiario: l’emissario di Dioniso Impotente (le menadi non sono contente). L’artista: l’emissario fantasma di Apollo Latitante. Nessun contatto tra i due. Sospetto che nessuno dei due sospetti ormai dell’altro. I tre uomini vagolanti, purtroppo, non sono l’anello mancante.
Una coda alla questione del SPMS. Busi, più di ventanni fa, accostava (cito a memoria) Liala e Moravia. Entrambi, scriveva, non hanno fatto altro che riscrivere sempre lo stesso romanzo. A suo dire, Liala lo sapeva, Moravia no. Dimentica Ciprì e Maresco, dimentica Bene, dimentica Klossowski, dimentica il punk (no, questo no), dimentica Bataille, dimentica Beckett, dimentica Jarry, dimentica Russ Meyer (no, questo neanche!), dimentica, dimentica, dimentica. Ricomincia. Il demone mi ingiunge: - Il faut boire des océans et les repisser. Così, a muzzo: - Bisogna bere oceani e poi pisciarli. Un augurio e una richiesta. Ti auguro di pisciare tanto. Mi aiuti a trovare un esorcista? Con una punta, ma solo una punta, di affetto. Massimo Grecuccio
Scrivere,
spagine
per non essere travolti di Sebastiano Leotta
F
libri
della domenica n°61 - 25 gennaio 2015 - anno 3 n.0
Antonio Gibelli, “La guerra grande. Storie di gente comune”, Laterza
orse si dovrebbe riconsiderare, leggendo La guerra grande. Storie di gente comune, di Antonio Gibelli, una osservazione di Walter Benjamin sulla prima guerra mondiale. Il filosofo tedesco, in un saggio del 1933, scriveva che la guerra aveva cancellato nei reduci ogni capacità di comunicare e raccontare l’inedita e radicale esperienza vissuta al fronte. Lo storico dell’università di Genova, invece, ci riporta all’interno di un vastissimo repertorio di testimonianze e scritture popolari che la Grande Guerra intendevano raccontare e ricordare, per non esserne travolti. La "memorabilità dell’esperienza di guerra", come Gibelli la definisce, passerà attraverso un materiale ricchissimo composto da cartoline, diari, taccuini, memorie, lettere. È la guerra vista dal basso, la guerra vissuta e scritta dai fanti italiani analfabeti, semianalfabeti o pochissimo scolarizzati che scrivono con un italiano zoppicante, dialettale, incerto. "Se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare", scriverà il fante "inalfabeto" Vincenzo Rabito in una memoria della sua vita pubblicata da Einaudi nel 2007. Se ci sono luoghi dell’Italia contemporanea che più di altri, forse, possono rappresentare l’identità di questa nazione, sono gli archivi della memoria popolare su cui ha lavorato Gibelli: oltre a quelli ligure e trentino, c’è quello di Pieve di S. Stefano, un luogo meraviglioso che raccoglie i ricordi e le memorie di uomini e donne del Novecento italiano. Una immensa autobiografia collettiva. Scrivere in guerra si rivelò una necessità esistenziale: basti il rimando all'essenziale libro sulle lettere dei prigionieri italiani della Grande Guerra di Leo Spitzer, apparso già nel 1922, a testimoniarlo. Dalla semplice cartolina banale e ripetitiva, le celebri cartoline in franchigia, alla lettera più personale, la necessità era quella di tenersi in contatto e di non interrompere il legame con il mondo al di là del fronte. Immersi in una guerra distruttiva e apocalittica che allontanò milioni di uomini dagli affetti e dai loro mondi vitali, la parola scritta diventava l’ unico filo che a questi li legava: "Tutte erimo redotte senza penziero, erimo inrecanoscibili, erimo tutte abbandonate del mondo", scrive ancora Rabito, uno dei "ragazzi del ’99", l'ultima classe di leva scaraventata al fronte appena maggiorenne. L’ esperienza della morte di massa, la nostalgia di casa, le preoccupazioni per i familiari, le sofferenze e le privazioni dei prigionieri italiani, la fame: sono questi i temi che Gibelli riscontra nelle scritture che ha analizzato e contestualizzato in modo tale che le testimonianze private possano rivelare il loro valore storico e completare la narrazione della guerra 19151918. Nessun feticismo della microstoria, ma i molteplici punti di vista individuali di un gigantesco fatto collettivo. La Grande Guerra non è solo quella raccontata da Lussu, D’Annunzio o Jünger, ma è anche quella vissuta nelle parole scritte da uomini (e donne) comuni. "Quello che si narra nelle pagine che seguono non è dunque la storia della guerra, ma la storia di questi singoli uomini e donne comuni […] la storia di questi individui non sarebbe intellegibile senza la storia dell’evento che prese e deviò le loro
vite, delle sue dinamiche, delle sue logiche, delle sue procedure discorsive, logistiche, organizzative, della sua potenza plasmatrice. E, viceversa […] la storia di questo evento sarebbe molto più povera senza la storia delle loro vite" Sono circa 4 miliardi i "pezzi" postali circolati tra il fronte di guerra e il cosiddetto fronte interno. La lettera, che stabiliva un legame tra il presente militare e il passato civile dei soldati, costituiva una forma di risarcimento, per quanto minimo, nell’orrore della guerra. Chi non ricorda, ne La grande guerra di Monicelli, come il momento della consegna della posta fosse per i soldati un momento atteso quasi religiosamente? Scrisse Piero Calamandrei, addetto al servizio propaganda durante il conflitto, che"La posta è il più gran dono che la patria possa fare ai combattenti: perché in quel fascio di lettere che giunge ogni giorno fino alle trincee più avanzate, la patria appare ai soldati non più come idealità impersonale ed astratta, ma come una moltitudine di anime care e di noti volti". Credo che si possa accettare quello che sostiene il grande giurista, nonostante il mood un po’ liricheggiante e la sordina sulla censura sempre vigile. Gibelli ci offre anche autentici romanzi epistolari come quello di una coppia di contadini parmensi, Vittore e Maria. Uno scambio di lettere, sono 359, che assume, a tratti, toni di struggente intimità: "Caro marito mi dici che avresti piacere essere qui a mangiare una fetta di polenta sorda [?] e te lo chredo e io vorrei essere nuda come il verme della terra e avere il mio caro Marito qui con me ma chi sa se avero ancora grazia di vederti qui atorno a me avero solo la consolazione di insognarti e tutte le notti". In questa lettera del 24 dicembre 1917 notiamo un paio di cose, dalla nostalgia e dalla fame, anche di una semplice fetta di polenta ma mangiata a casa accanto ai propri cari, all’eros a distanza, concreto e materiale, che mai, forse, i due avrebbero osato verbalizzare alla sublimazione onirica, nella chiusa della lettera. Qualche osservazione finale. Nella sezione di memorie e diari dedicati alla rotta di Caporetto si leggono pagine che raggiungono un pathos che potremmo mettere accanto a quelle, per esempio, di Addio alle armi di Hemingway. Pagine che riportano la guerra, la sua tragicità e la sua assurdità fra noi, vive e concrete. Come in Carlo Verano, classe 1894, contadino ligure: poco permeabile alla retorica dello Stato-nazione, come tutti gli appartenenti alle classi popolari, ha come unica preoccupazione portare a casa la pelle. Nei suoi ricordi mette bene a fuoco lo sbandamento dell’esercito, la ritirata confusa e disordinata e a tratti carnevalesca dopo il crollo del fronte. "Tutti gridavano eccoli eccoli dietro e noi a fuggire senza nessuno comando. Si vedeva da una parte e dall’altra far scoppiare i cannoni con la gelatina, si vedeva dar fuoco a tutto e noi sempre a fuggire. Sono le ore 9 e in una casa che domando un pezzo di polenta per carità e me la diedero.Un po’ di forza la presi ma le forze non sono ancora quelle per camminare all’ungo. A si vede che il Signore e la Madonna mi aiuta. Passando per quelle vie si vede donne uomini ragazzi soldati animali carelli carozze automobili tutti nel
C’era una volta l’Artusi
La cucina al tempo di masterchef spagine
M
asterchef, Prova del cuoco, le ricette della Parodi e mille altri momenti culinari. Accendi la TV in ogni ora del giorno e della notte, fai zapping e trovi almeno sei programmi in contemporanea che parlano di cucina. Da quella raffinata che propone tartufi, fois gras ecc, a quella più terra terra. E i programmi hanno successo evidentemente, i cuochi, pardon, gli chef che li conducono sono solitamente ricchi, con almeno tre ristoranti sparsi per il globo, con una conoscenza universale dei prodotti, dal filetto delle vacche allevate da un solo pastore altoatesino una alla volta per non saturare il mercato, ai pesci che vengono pescati in un fazzoletto di otto metri quadri dell’Oceano Indiano, all'erbetta cipollina procurata da un santone pakistano che vive in montagna e ne raccoglie due soli steli ogni sei mesi, al formaggio fatto maturare nel fieno di fine maggio proveniente da una specifica collina monferrina, e via dicendo. E noi qui a dialogare sulle cime di rapa ci sentiamo dei reietti, a volte ci si vergogna un po’ di aprire il frigorifero e non sentire neppure il profumo di un tartufo d’Alba raccolto alle 6,48 di un mattino di dicembre (unico momento giusto per farlo) dal cercatore Flaminio che viaggia con la scorta perché lo venderà pesandolo con la bilancia degli orefici (e degli spacciatori), sei tartufi l’anno sono sufficienti per man-
corsivo
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tenere un tenore di vita più che dignitoso a lui, alla sua famiglia e a quelle dei suoi sette figli. Negli ultimi anni, chissà se per colpa della crisi, stanno aumentando a dismisura gli appassionati di cucina. Dalle gare per giornalisti, a D’Alema che cucina in diretta TV un risotto. A proposito di risotti, pare sia il piatto preferito dagli uomini che vogliono fare colpo su una signora, è fine, presenta bene, è buono. E poi, diciamolo, è facilissimo da preparare, basta conoscere tre regole basilari e il gioco è fatto, attenti a non scuocerlo, sarebbe un delitto. Eh si, il risotto è un piatto raffinato, non me lo vedo proprio D’Alema ai tempi in cui voleva conquistare sua moglie, invitarla a cena e offrirle lingua salmistrata in salsa verde o pasta alla puttanesca. Col risotto si potrà dire in rima: “galeotto fu il risotto”. Suona meglio di “che bella tresca con la puttanesca”. Quindi le cucine, in un misto di Masterchef, la Parodi che gioca a fare la brava massaia (gioca solo però, mia madre quando vedeva una vestita come lei alla TV, intenta a cucinare o a lavare i piatti era solita dire “quella di piatti ne lava pochi, e non pulisce certo i polli dalle interiora” lo diceva in dialetto ed era decisamente più incisivo, faceva riferimento a pulire i polli partendo dalla parte posteriore nella qualle occorreva penetrare con le dita), queste cucine, dicevo, si arricchiscono di nuovi strumenti tipo “il coppa pasta” o altre dia-
di Gianni Ferraris
volerie, l’olio diventa EVO (altro che il prosaico extra vergine di oliva), c’è il sac a poche (che noi villani potremmo chiamare tasca da pasticceria, per esempio), e non tutti sanno che il nome dell’ormai desueto Sartù di riso deriva da Sur tout (sopra tutto). Neppure si sa che è esattamente quella cosa che mia madre faceva con una certa regolarità e chiamava sformato di riso, noi siamo peones, in fondo. E poi i neologismi come l’inquietante, orripilante, terrificante: impiattare! Ogni tanto, a tavola con amici che hanno appena “impiattato”, mi vien da dire “ti imbicchiero un po’ di vino?” Bah, saranno anche utili i programmi, o meglio, lo sarebbero se si limitassero a parlare di cose di ogni giorno, invece alcuni sembrano proprio come il racconto del padre poverissimo che diceva al suo figliolo “se fai il bravo ti porto a vedere quelli che mangiano il gelato”. Intanto guardo in strada e vedo passare un furgone, il faccione è il suo, uno chef di grido, che si occupa solo di altissima cucina (alta come prezzi che pratica, soprattutto) si chiama Craco. Pubblicizza una vera raffinatezza, un lusso, la patatina che fa crock. Chiamatela come vi pare: haute cousine, provocazione gastronomica dell’artista o sottile forma di (diciamolo in francese, alla maniera degli chef) prostitution. E va bene, oggi ciceri e tria e non ne parliamo più.
Nella foto Pellegrino Artusi (Forlimpopoli, 4 agosto 1820 – Firenze, 30 marzo 1911) scrittore, gastronomo e critico letterario italiano, autore de La Scienza in Cucina e l'Arte di Mangiar Bene.
L'opera è una raccolta di 790 ricette della cucina casalinga di tutta Italia, frutto del lavoro di documentazione e scrittura dell'autore, accompagnato dall'indispensabile sperimentazione da parte dei suoi cuochi e servitori Francesco Ruffilli e Marietta Sabatini. Nel 1891 il testo fu consegnato in forma di manoscritto all'Editore Landi, che ne pubblicò a spese dell’autore la prima edizione. L'Artusi volle una tiratura limitata a mille copie, negativamente influenzato da sue precedenti esperienze editoriali di scarso consenso. Dopo le prime edizioni il successo invece arrivò travolgente, generando la richiesta di nuove edizioni con un numero accresciuto di ricette e soprattutto il contributo dei lettori, che scrivevano per ringraziare l'autore e proporgli le ricette della propria tradizione. E’ ancora oggi il iibro di cucina più venduto.
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libri
della domenica n°61 - 25 gennaio 2015 - anno 3 n.0
Bello e vero
Francesco Pasca “[L]-ISA. Appunti per viaggio. Con il viandante e i suoi colori” musicaos:ed
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n viaggio affascinante nella pittura e nell’arte di Leonardo da Vinci e del suo capolavoro, un percorso con cui Francesco Pasca unisce l’odierno al passato, attingendo alla cosmologia, alla narrazione, dalla storia dell’arte al presente. Leonardo da Vinci ritorna, moderno e cosmologico, nella narrazione singlottica dell’autore. Un modo nuovo di raccontare lo stato dell’arte. Ritorna nel ritratto magico e diversamente poetico nella narrazione incalzante e onirica di Francesco Pasca. Da un luogo Altro, avviene la pittura della parola. Qual è il Luogo da cui l’Arte parla? E chi è il volto di Mona Lisa? Due viaggi paralleli, due gemelli nell’uguale, due identici nel diverso. L’Alber(t)o che mette radici e il Fiat(o) che si dissipa nel sempre ora. Per diversa collocazione fonosemantica e idiovisiva, il lettore prova a vedere la domanda fondamentale posta francamente, da Francesco Pasca: si può dire l’immagine? E se sì: cosa immagina la parola? Leggiamo, dunque, e rivediamo i segni. I giochi di luce, e di parola, hanno una serietà e una verità che la razionalità comune ha scordato. Nel segno del gioco e della liberazione del segno. In quel segno Vinci, ed è così bello, che il Bello stesso scende a confrontarsi con il Vero. La verità della scienza e la bellezza dell’arte si articolano e si oppongono come 1 e 0. Accad(d)e qui e ora nel visitare il volto di Leonardo. Un viaggio parallelo tra
la parola singolare del rifare l’arte nell’eterno presente, e il linguaggio universale della scienziata dimestichezza che pone nomi, categorie, cornici e che usa se stessa a salvaguardare l’arte con tutto il chimico processo che permette di fissare colori, ammorbidire luci e trafugare ombre all’ignoto. Quasi che dietro il vero si nasconda il bello e viceversa. O meglio, ad libitum. Come se dietro il primo sguardo di Isa, ce ne fossero tanti altri da scoprire e seguire al primo infatuarsi poetico e speculare dell’infans, di colui che non parla ancora, ma che già immagina. Provate a fissare a lungo i vostri occhi in uno specchio: vedrete che la visione periferica del vostro volto muterà, fissando l’identico si produce il differente. Il viso cambia. Pure è lo stesso. Il viso dispiega la sua storia passata e ripiega sull’ultimo fantasma di donna. Che è l’ultimo atto simbolico per ricostruire lo sguardo che ha fissato il nostro volto, il primo sguardo, alla nascita. Lo sperimentare ossessivo-creativo di Eu è ciò che darà la soluzione, o la soluzione di continuità del passato e del presente, del cielo e della terra. I due gemelli, come poesia e scienza, si traducono l’un l’altro. Sviscerano il suono dal colore e la cromatura della parola. Non c’è, finalmente, un distinguo tra quello che vedo scritto e quello che sento dipinto. Quasi che al simbolico della scrittura non si possa anteporre o opporre l’imago, l’immaginario della pittura. Come se, infine, queste due ali servissero ensemble a sbattere via una farfalla da un bruco. E qui i riferimenti alla mitologia platonica potrebbero avvalersi
di Gianluca Garrapa
anche dell’amore, pleonastico, irripetibile e che mai ci si stanca di ripetere, nei confronti della Madre. Non fosse altro che la madre generatrice, che si voglia o meno incarnare nella propria madre biologica, è lo Zero dell’Uno, del padre. Anche figurativamente la verticalità unaria e la circolarità Zero sono infine quello che genera l’altro, il completo, il Due. Si nasce dal due. Guai a distinguere e contrapporre dunque la lettera dal suo disegno, il Fiato dalla sua visione, il principio dalla sua fine, il proprio icastico maschile dal proprio etereo femminile. C’è una scia che lascia il nostro viaggio e che è come la luce dell’ombra o viceversa: è l’antiscia. Questa è forse la soluzione possibile, o forse improbabile: il futuro anteriore. Quel che sarà accaduto. La scia che avrà lasciato dopo il passaggio la cometa Isa. E sappiamo già che lascerà il suo tragitto di vapore. Di Fiati attraverso Oggetti che bruciano. E lo sappiamo proprio perché gli oggetti ci sono stati, e ci saranno. Ma come ci saranno? ci saranno? esiste allora un luogo che ci precede e che ci consegue? siamo forse noi questi oggetti lanciati nel vuoto sidereo dell’esistenza artistica e siamo noi che avremmo percepito il nostro passaggio solo dopo l’avvenimento della nostra coda? non c’è risposta. C’è solo un infinito sguardo-parola che in questo punto si fa segno, disegno. La scultura è un’altra cosa. Forse è la fine. Una rosa, sbiancata, incisa nel marmo. L’esatto opposto del volto impressionato sul legno.
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“Spero che fai l’asino sul serio, per un po’/ e se fai il ballo dell’asino, io ci sto” Donkey Tonkey – Zucchero
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L’asinello che sei tu
A e i o u: l’asinello che sei tu”: non ci stava metricamente ma da piccoli ripetevamo spesso questa tiritera. Era indirizzata, a scuola, ai compagni più negligenti e sfaticati, o meno versati per lo studio, i quali venivano fatti oggetto di scherno dai più bravi e volenterosi. Tuttavia se la scuola, come la morte per Totò, non è proprio “na livella”, molto facilmente mutano le umane sorti, e dunque poteva succedere che almeno una volta nel corso dell’anno scolastico anche i più bravi prendessero qualche cattivo voto: ecco allora consumarsi implacabile la vendetta a lungo covata dei più asini. “Chi non sa leggere la sua scrittura, è un asino di natura”: questa veniva riservata a chi, come me, era un po’ disordinato ed aveva una calligrafia non tanto kalé quanto piuttosto kaké. Per
di Paolo Vincenti
fortuna, almeno ai miei tempi, il peggiore della classe non era costretto come una volta ad indossare il cappello da asino o ad essere additato all’attenzione generale come esempio negativo; altrimenti sai che danni sulla psiche dei miei compagni già minata da una spaventosa sottocultura e dalle miserande condizioni di vita delle loro famiglie? Cioè questi, piuttosto che tossicodipendenti, come quasi tutti sono diventati, sarebbero stati dei potenziali serial killers e maniaci. Benedetta la droga che, rinchiudendoli nelle comunità di recupero, li ha sottratti ad un destino di follia omicida. Infatti, alcuni di essi oggi sono cittadini esemplari, ottimi genitori ed addirittura educatori e catechisti. Ma torniamo al nostro asinello, inteso non come il simbolo del partito dei Democratici di Romano Prodi che lo presero a pre-
l’osceno del villaggio
della domenica n°61 - 25 gennaio 2015 - anno 3 n.0 stito da quello più noto del partito democratico statunitense, ma come il famoso mammifero quadrupede della famiglia degli equidi. Chissà se l’asino abbia mai sofferto di essere la brutta copia del cavallo. Il cavallo altero, di nobile figura, cantato da scrittori e poeti, l’asinello umile, dimesso, sfruttato e da tutti trascurato. Il cavallo nitrisce, l’asino raglia, il cavallo bizzoso, superbo, amato e corteggiato, presente nell’araldica delle nobili famiglie del passato, l’asino mite, lavoratore, schivo e represso, bistrattato dalla storia e dagli uomini. Nei primi secoli del Cristianesimo, durante le persecuzioni nei confronti dei cristiani, questi erano accusati dei più infami delitti ed orribili misfatti. Minucio Felice, un autore del III secolo, nella sua opera Octavius, riferisce che fra le accuse vi erano quelle di sacrifici umani al momento dell’iniziazione, di rendere onore ad un uomo punito con la crocifissione, e di adorare una testa d’asino. In un graffito inciso sulla parete di una casa sul Palatino a Roma, è raffigurato proprio un uomo crocefisso con la testa d’asino. Alla sinistra è rappresentato un ragazzo con la scritta in greco: “Alexamenos adora il suo dio”. Leggiamo nell’opera di Minucio Felice: “Sento dire che essi consacrano e adorano la testa dell’animale più vile, l’asino, spinti da non so quale credenza..”. In una favola di Esopo, “Il leone e l’asino selvatico”, l’asinello si vanta di aver messo in fuga alcune capre e il leone risponde che quelle sono scappate solo perché ingannate dal suo raglio, non sapendo che in realtà il verso provenisse da un mite animale. L’asino, bestia da soma, è sempre stato utilizzato per i lavori più pesanti e come mezzo di trasporto, anche se dà un latte molto buono e simile a quello della donna. “Sei proprio un asino”: quante volte abbiamo sentito, se non ricevuto, questa offesa da qualcuno adirato con noi. Ciò a causa della testardaggine tipica di questo animale, “o ciucciu” come dicono i napoletani. Quanto alla distribuzione geografica degli asini, l’animale è molto più presente nel continente asiatico che in quello europeo. Solo in Cina si contano circa 11 milioni di asini e in India 1 milione e mezzo. In Europa , il Portogallo e la Grecia hanno il maggior numero di capi. Ogni razza d’asino ha le sue particolarità. Basta non confonderlo con il mulo o bardotto, che è dato dall’incrocio fra asino e cavallo. Queste le principali razze italiane. Amiata: razza originaria della Toscana e per l’esattezza del Monte Amiata, provincia di Grosseto, di colore grigio chiaro con riga mulina e croce scapolare (di particolare bellezza). Poi abbiamo l’asino dei Monti Lepini, a cavallo tra la province di Latina e Roma, di colore grigio scuro, con o senza riga mulina. L’asino calabrese, dal colore del mantello grigio marrone. L’Asino Grigio Siciliano. Il nostro Asino di Martina Franca, uno dei più pregiati, con mantello morello e con addome, interno delle cosce e muso chiari. In Sardegna c’è un’isola che da loro prende il nome, l’Asinara, dove i bei ciuchi bianchi dagli occhi azzurri fanno compagnia agli ergastolani della colonia penale. Ancora, l’Asino di Pantelleria, con mantello morello, riga mulina e muso chiaro. L’asino del Ragusano che a differenza degli altri ha un pelo molto più folto. L’asino romagnolo (in particolare Provincia di Forlì), uno dei più belli e imponenti, dal pelo prevalentemente chiaro. L’asino sardo con riga mulina crociata, bordo scuro delle orecchie. L’Asino Viterbese - Asino di Allumiere, uno dei più piccoli, bicolore, grigio chiaro e bianco.
E’ abbastanza presente, o ciucciariello, anche in letteratura. Nella sua opera “Metamorfosi”, altresì conosciuta come “L’asino d’oro”, lo scrittore Apuleio (II Secolo d.C.), che si rifà a Lucio di Patre, di poco precedente, racconta la storia di Lucio il quale in Tessaglia conosce una signora esperta di arti magi-
che e, spinto da forte curiosità, cerca di carpirne i segreti. Introdotto dalla servetta Fotide nella camera della maga, egli, sbagliando ad utilizzare un unguento, si trasforma in un perfetto asino che però conserva i sentimenti umani. Dopo una lunga serie di peripezie, Lucio si ritrova in riva al mare, dove prega la Dea Iside che metta fine alla animalesca trasformazione e viene ascoltato dalla dea che gli chiede in cambio che egli diventi un adepto del suo culto. Lucio, mangiando una corona di rose, ritorna uomo. La stessa storia, che attinge molto alla novellistica orientale ( come “Le mille e una notte”), viene ripresa dallo scrittore greco Luciano di Samosata, in “Lucio o l’asino”. Questa storia ci ricorda anche quella di Pinocchio che, insieme all’amico Lucignolo, viene trasformato in ciuco e poi si ritrasforma in burattino, mentre il suo cattivo compagno rimane asino. Insomma, la letteratura non riserva un buon trattamento a questo animale, come è confermato da Verga quando in “Rosso malpelo”, a proposito del carattere cocciuto dell’asino, scrive: “ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se li pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare modo loro.” E ancora: “ L'asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi.” Ma il riscatto dell’asino viene dalla religione cristiana, precisamente dalla natività di Nostro Signore (“L'asinello lemme lemme lungo la via di Betlemme,con Giuseppe e con Maria per la lunghissima via”). Infatti chi c’è nella grotta di Betlemme a riscaldare col suo fiato il Bambin Gesù, insieme al bue? Il Nostro, smentendo il detto popolare “Raglio d'asino non giunse mai in cielo”, da quella posizione privilegiata ogni anno ne può ridere su di tutte le beffe e umiliazioni patite. Ma anche Ih-Oh, l'asinello di peluche amico di Winnie the Pooh, almeno per chiunque abbia figli piccoli, fa la sua parte nel rendere amabile questo equino, così come Ciuchino, l'asino parlante dei film di animazione della serie “Shrek”. Ora proviamo a fare un gioco e stabiliamo, fra i personaggi che hanno maggiormente influenzato la vita pubblica in Italia nel 2014, chi sia il più asino. Offriamo tre risposte. 1: “Papa Francesco”, il quale continua a non andare d’accordo col vocabolario italiano, collezionando strafalcioni ( che a così alti livelli si trasformano tosto in incidenti diplomatici) nella lingua che fu proprio di quel santo di Assisi da cui Bergoglio prende il nome. 2: Matteo Salvini, leader della Lega Nord. E qui entriamo nel campo minato della pubblica istruzione e della scuola, ritornando così all’argomento da cui siamo partiti. Che cosa hanno fatto le coalizioni Pdl-Lega in anni e anni di governo per la scuola nel nostro paese? Nulla, se non peggiorare le cose con avventate e improvvide riforme, tipo Gelmini. Ora Salvini rinfaccia al presidente del consiglio Matteo Renzi di aver promesso molte vagonate di euri per risistemare le scuole italiane che versano in condizioni del tutto precarie. Ma questi soldi non sono stati ancora stanziati e quindi dà al presidente rottamatore del bugiardo. 3: Il Matteo superstar, Renzi forever, il quale viene dalla stessa terra di Pinocchio ( Collodi, Pistoia, patria dello scrittore Carlo Lorenzini, è a pochi chilometri da Firenze). Sarà un caso? Renzi -Pinocchio, tra le tantissime cose, ha promesso dei criteri di premialità per gli insegnanti, un congruo aumento degli stipendi e la fine del precariato; inoltre di aprire almeno un migliaio di asili. Ma pure in questo, ancora, il bischeraccio Matteo non s’è dato da fare. Dunque, chi sarà il più asino di questi tre mostri sacri della vita pubblica italiana? Siete invitati a scegliere. L’importante è farla, una scelta, per non correre il rischio di morire di fame nell’incertezza, come l’asino di Buridano.
Scarda spagine
musica
della domenica n°61 - 25 gennaio 2015 - anno 3 n.0
di Alessandra Margiotta
C
iao Scarda, hai provato ad imparare il pianoforte e la chitarra ma la tua vocazione è sempre stata la scrittura. Quando hai capito che la tua strada era il cantautorato? L'ho capito nel 2010, quando ho scoperto che oltre ai cantanti che si ascoltavano nelle Radio Principali e in TV ne esistevano altri che andavano avanti grazie al passaparola e a un circuito che all'epoca scoprii chiamarsi "indie". Fu la scoperta della "ancora esistenza" di un certo tipo di musica. Due anni dopo (2012) esordii con una demo sul tubo. Sei cresciuto e vissuto in Calabria ma ben presto sei ‘fuggito’ a Roma. Cosa ti ha spinto a raggiungere la capitale? Quando mi trasferii a Roma lo feci con la scusa dell'Università, avevo finito la triennale a Reggio Calabria, in quel momento piantai i piedi per terra a casa "o Roma o niente, mi metto a lavorare". In realtà sapevo benissimo di andarci alla ricerca di qualcosa che in Calabria non trovavo. E qualche anno dopo mi resi conto di averla trovata. Non è solo il contatto con un luogo artisticamente più vivo e stimolante, è anche la lontananza che ti fa vedere meglio le cose, c'è un tempo per vivere e c'è un tempo per descrivere. Io quando vengo a Roma faccio la se-
conda cosa. Arriva il primo successo con il brano Smetto quando voglio premiato come migliore canzone originale che diventa la colonna sonora del film girato da Sydney Sibilia. Come è nato l’incontro con il giovane regista e l’idea del brano? È nato in un locale che adesso ha chiuso. Qualcuno mi ha filmato mentre suonavo e gli ha mostrato il video, da li in poi sono iniziati i contatti che hanno portato alla "commissione della canzone", alla nomination al David e all'inizio della mia avventura "ufficiale" nella discografia. I piedi sul cruscotto è il tuo disco d’esordio. Come è nato e perché questo titolo? La sua gestazione è iniziata già prima della storia di "Smetto quando voglio". Da un lato è stato un peccato non avercelo pronto in quel periodo, dall'altro forse no, perché sarebbe stata una cosa fatta troppo di fretta e perché probabilmente questa gavetta in più un giorno mi tornerà utile. In ogni caso alla fine è uscito per MK Records, con un aiuto concreto da parte di un'altra realtà calabrese: Manita Lab. Il nome nasce dal fatto che mi piace la frase in se, ma è anche la posizione nella quale immagino l'ascoltatore, l'illuminazione è arrivata guardando i segni lasciati sulla mia macchina da due piedi! Immagino un paio di converse o di "ballerine"
quando penso questa frase. Vorrei aggiungere che il disco nasce anche grazie al lavoro di Daniele Mirabilii (fonico e bassista del disco) e Alessandro Albino (batteria), presso il "Lift Project Studio" di Roma. Ascoltando i brani si percepisce l’influenza dell’artista Brunori Sas, è vero? Sì, di Brunori sono un grande fan, sono stato a svariati suoi concerti e mi sono fatto autografare pure il disco, l'influenza evidentemente c'è ma non è stata volontaria, è che a me viene di cantare con questo timbro di voce e ci posso fare poco, come lui ha potuto fare poco quando lo accostavano a Rino Gaetano. La scrittura di tutti e tre è molto diversa e in generale vedo che chi ascolta Brunori, Dente e compagnia bella, una volta che mi scopre ascolta anche me, quindi vivo molto bene questo accostamento, però cercherò di affrancarmi nel prossimo disco, promesso. Tra gli artisti contemporanei con chi ti piacerebbe collaborare? In altre occasioni ho detto "Maria Antonietta"perché ho scritto un duetto in cui ci vedo molto bene la sua voce. In questa occasione... Confermo. Dove è possibile acquistare il tuo album? Sui Digitale Store, ai concerti e nei negozi di dischi.
spagine
corrispondenze
della domenica n°61 - 25 gennaio 2015 - anno 3 n.0
Milena Galeoto da Montréal
Attention à nos enfants
Educare alla convivenza
“
Fate attenzione ai nostri bambini”, c’è scritto davanti alle ruelles, i vicoli alle spalle delle abitazioni montrealesi, dove non transitano le auto e dove i giochi restano in strada per essere usati da tutti i bambini. “Attention aux enfants”, è la parola d’ordine, perché si è compreso da tempo che tutelare l’infanzia significa preservare il futuro del paese. Numerose sono le iniziative rivolte ai bambini, a partire dalle scuole, molte delle quali collocate in chiese o edifici religiosi convertiti, almeno un paio per ogni quartiere, dove il multiculturalismo e l’attivismo dei comitati di genitori sono realtà fortemente consolidate. Educare al rispetto, alla convivenza civile, alla salvaguardia dell’ambiente e della persona, sono i punti cruciali su cui si poggia il sistema educativo, attraverso discipline come: etica e storia delle religioni, studi sociali, ecologia, agricoltura urbana, etc. Fin da piccoli, si ha l’accortezza di sensibilizzarli alla convivenza democratica, suggerendo alle famiglie, al fine di evitare discriminazioni e atti di bullismo, di evitare accessori scolastici griffati, anche per superare insieme problemi legati agli stereotipi di genere. I quaderni utilizzati, infatti, sono uguali per tutti e di diversi colori, così come le semplici uniformi con le scarpe da ginnastica rigorosamente ai piedi perché i bambini possano muoversi ed esprimersi in piena libertà. A tal fine, le lezioni sono disposte in modo che i giovani studenti possano seguirle spostandosi da un’aula all’altra, avendo anche a disposizione enormi cortili e saloni per giocare durante la ricreazione che dura una buona mezz’ora. In ciascuna classe, inoltre, è riprodotto un angolo che ricorda un ambiente domestico, con un
Biblioteca
Biblioteca ambulante
divano, un grande tavolo e numerose librerie per far sentire i ragazzi a proprio agio, per meglio socializzare e godere della loro ora di “lettura e comprensione”, una materia prevista dai programmi ministeriali e che è alla base di una corretta formazione. “L’amore per la lettura”, afferma una docente della scuola primaria Bancroft, “porta l’allievo ad appassionarsi nel tempo allo studio. Personalmente, ho creato una vasta biblioteca nella mia classe, con testi sia in inglese che in francese perché possano continuare a leggerli anche a casa.”. In un paese, inoltre, dove da secoli sono presenti numerose comunità con il proprio credo religioso, si è ritenuta necessaria l’ora di “etica e storia delle religioni” dove sono discussi temi comuni a tutte le confessioni perché la conoscenza educhi al rispetto e alla tolleranza dell’altro. Sempre parlando di rispetto e tolleranza, è la prima volta come madre di osservare come già nelle scuole primarie si affrontino problemi come l’omofobia e le diverse famiglie sono esposte con enormi sorrisi su cartelloni affissi nei corridoi, dove è facile individuare nuclei composti da un padre e una madre, da due madri, due padri o da un genitore sigle. Si comprende chiaramente, osservando queste iniziative come si dia priorità alla crescita della persona prima ancora d’insegnare le nozioni che comunemente si apprendono a scuola. Questa dimensione ti predispone come genitore a offrire volentieri un tuo contributo per l’entusiasmo che riescono a trasmetterti e l’aria di familiarità che viene a instaurarsi. E’ facile, per questo motivo, ritrovarsi con pennello e latta di vernice a rinfrescare le pareti di un’aula, con le mani nella pasta frolla per sfornare biscotti, a confezionare lavoretti per i mercatini di raccolta
Zona relax
Agricoltura urbana
di Milena Galeoto
fondi, o a installare scenografie e festoni per festeggiare insieme giornate speciali. Alla scuola che frequenta mia figlia, tra le persone più attive, ci sono le nonne, le più tenaci in assoluto, quelle portoghesi che armate di ago e filo, confezionano i costumi per i musical, o berretti, sciarpe e guanti sempre a disposizione per chi ne avesse bisogno. I bambini e gli anziani non sono considerati categorie deboli ma persone a cui dare priorità per garantire loro autonomia e partecipazione. Una volta, fui sorpresa a vedere un residence per anziani (che qui non chiamano ospizio ma cooperativa di coabitazione per anziani) affacciato su un cortile di scuola, pensando a una bella casualità. Apprendendo, invece, con enorme piacere che questa disposizione fosse voluta proprio dal comune, dove gli inquilini si trovano ad essere coinvolti nelle attività scolastiche. Il bene comune e il benessere sociale, sono sicuramente i valori che in assoluto emergono da queste osservazioni, anche soltanto passeggiando lungo le strade, nei numerosi parchi, biblioteche e centri culturali per le famiglie. E’ attraverso gli occhi di meraviglia di mia figlia, vederla libera di correre a piedi nudi sull’erba di chilometriche aree verdi, giocare a suonare il piano sui numerosi pianoforti dislocati nella città, tuffarsi nelle piscine gratuite, partecipare liberamente a numerosi laboratori urbani, sfogliare libri senza sosta in fornitissime biblioteche ambulanti, assistere a spettacoli improvvisati in strada, giocare nei villaggi invernali, degustare pietanze durante le feste di quartiere delle varie etnie, che ho compreso il vero investimento che un paese può e deve fare per garantire la propria reale ricchezza, attraverso la parola d’ordine: “ATTENTION AUX ENFANTS!“.
Fontanina a misura di bambini
corrispondenze
della domenica n°61 - 25 gennaio 2015 - anno 3 n.0
spagine
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Spagine Fondo Verri Edizioni
Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Fondo Verri esce la domenica a cura di Mauro Marino è realizzato nella sede di Via Santa Maria del Paradiso, 8.a , Lecce Programma delle Attività Culturali della Regione Puglia 2015 Artigiana - La casa degli autori
copertina
spagine
in agenda
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Non sentite l’odore del fumo?
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Martedì 27 gennaio, dalle 18.00 negli spazi del Museo Ferroviario della Puglia di Lecce
l 27 gennaio, l’AISAF (Associazione Ionico-Salentina Amici Ferrovie) il Museo Ferroviario della Puglia, il Fondo Verri e Teatro Naturale celebrano la ricorrenza del Giorno Internazionale della Memoria della Shoah, settantesimo anniversario dell’abbattimento dei cancelli del campo di sterminio di Auschwitz con due performance e una mostra di immagini realizzate da Massimiliano Spedicato nel corso di due suoi viaggi a "bordo" del "Treno della Memoria" verso i luoghi della shoah. *** La fotografia per ispirare un altro educare questo l'impegno del reportage di Massimiliano Spedicato. “Andiamo a guardare cos’è stato” è il pensiero che ispira il fo-
A seguire Renato Grilli (Teatro Naturale) e Rocco Nigro (fisarmonicista e compositore) presentano “Ora e sempre! considerazioni fuori dal coro”, letture, musiche, danze klezmer. In programma: per le considerazioni pedagogiche, la lettura di “Perché Kafka è comico e perché ho deciso di rinunciare a spiegare agli studenti americani la comicità dei suoi racconti” di David Foster Wallace. Per le considerazioni inattuali, la lettura con musica dal vivo di “Un sogno nell’oasi”, da un racconto misterioso con animali parlanti di Franz Kafka per le improvvisazioni musicali di Rocco Nigro. Per le considerazioni umane, muLa mostra farà da cornice a due perfor- sica, canzoni e poesie “Ora e sempre, gioia!” canzoni, inni, danze di gioia dal mance. mondo klezmer. La lettura a cura di Mauro marino e Piero Rapanà del poemetto “Non sentite Il Museo Ferroviario l’odore del fumo” che il poeta Danilo Dolci ha compilato visitando all’indomani è in Via G. Codacci Pisanelli 3 a Lecce Tel. fisso: 0832 228821 della Guerra i reduci di Auschwitz e di Hicellulare: 335 6397167 roshima – poesia raccolte in un libro edito da Laterza nel 1971.
tografo salentino. Destinazione Auschwitz, per ricordare una delle più grandi tragedie della storia dell’umanità, per non dimenticare che il Mondo, a volte, può perdere l’orizzonte della ragione e smarrire il senso profondo della Storia che, giorno dopo giorno, lo costruisce. I luoghi della Shoah, dello sterminio di milioni di persone, i lager di Auschwitz e di Birkenau, e ancora la Berlino contemporanea in alcune immagini di significativa astrazione. Il contrasto con la natura, con i colori, a rinnovare la speranza che ciò che è stato non sarà più.