della domenica n°66 - 1 marzo 2015 - anno 3 n.0
Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
spagine we can be heroes
Semplicemente
toscano M spagine
atteo Renzi è un toscano. Bella scoperta, può dire qualcuno. D’accordo, non è una scoperta, ma consente di precisare alcuni suoi tratti. Chi conosce le vicende fiorentine, dai tempi di Dante a quelli di Papini, trova che in fondo Renzi non è un irriverente, un arrogante, un presuntuoso, un attaccabrighe, qualche volta perfino a vuoto, ma semplicemente un toscano. Recentemente ha rovesciato su Gasparri una tanto pesante quanto gratuita e stupida offesa dicendo “si può avere una riforma Rai che ha il nome di Gasparri?”. Giusta la replica del Senatore di Forza Italia: “Renzi è un imbecille!”. Gliene ha dette altre, ma lasciamo stare. Nel Pd non è sopportato, a parte i suoi valvassori e valvassini e tutte quelle belle oche che gli starnazzano intorno, che fanno fremere perfino il cavallo di Marc’Aurelio. I veri politici – non è solo questione di sesso e di età! – gli vogliono rompere il lato B. E fanno bene. Si sbrighino, prima che il moccioso cresca. Non è vero che il successo del paese coincide col successo di Renzi, come si vuol far credere, e che lui ne è garanzia. Per un Renzi che cade, c’è sempre qualcun altro che si alza o si rialza. L’insostituibilità del capo è abbaglio populista, molto ben sfruttato da chi ne ha interesse. Quello di considerarsi insostituibile, come pensa Renzi, è vizio antico. Il suo concittadino Dante, ai tempi del suo priorato, si trovò a gestire la crisi della minaccia di Bonifacio VIII di far intervenire a Firenze Carlo di Valois per mettere fine agli scannamenti tra Bianchi e Neri. Occorreva andare a Roma a dissuadere il papa dal chiamare il francese. Chi meglio di me può andare a convincerlo? – diceva Dante – ma se io vado a Roma chi meglio di me può restare a Firenze a garantire l’ordine? Insomma, se Renzi giocasse nella Fiorentina vorrebbe fare almeno il cen-
di Gigi Montonato
trattacco e il portiere, scontato che non ci sarebbe bisogno di Montella! Nel Pd c’è un bel gruppo di persone, che hanno una compostezza di pensiero e di modi che sono davvero garanzia per il futuro più prossimo, a prescindere se si sia politicamente e ideologicamente della loro parte. Renzi ha posto un problema antropologico prima ancora che politico. Di recente l’area del dissenso a Renzi si è ampliata. Laura Boldrini, Presidente della Camera, non è del Pd, viene da Sel; ma insomma se non è zuppa è pan bagnato. Un paio di sue sortite ha fatto gridare Renzi & compagni all’indebita interferenza in questioni che non la riguardano sotto il profilo istituzionale. La Boldrini prima ha detto che in una democrazia i corpi intermedi vanno rispettati, vincolanti o meno, ma proprio perché non vincolanti, a proposito del Jobs Act. Poi, a proposito di un ventilato/minacciato ricorso al decreto legge per la riforma Rai, ha detto che non ci sono i motivi d’urgenza per ricorrere a questo abusato istituto legislativo. Apriti cielo, lo strepito che hanno fatto le oche di Renzi ha superato quello fatto per miglior causa dalle ben più note oche del Campidoglio. E quando anche il capogruppo Pd alla Camera Roberto Speranza si è detto d’accordo con le osservazioni della Boldrini, Renzi gli ha ricordato che il ruolo del capogruppo è di rappresentare tutti e non una parte; altrimenti via. Non ha detto via, ma quello era il significato. Ovviamente, finché Speranza difende la posizione di Renzi difende tutti, quando poco poco difende una posizione diversa, non rappresenta più tutti. La solita idea del tutto e delle parti che hanno Renzi e i renziani. Venerdì, 27 febbraio, gran parte della minoranza Pd, da Bersani a Civati, ha disertato l’assemblea dei parlamentari Pd per discutere sulla riforma costituzionale. Sono segnali, questi, di non poco significato se si considera il mortorio politico del paese. Lui continua a dire imperter-
rito che andrà avanti, che non si lascerà fermare dai gufi e da quelli che non vogliono le riforme. Anche qui le uniche riforme concepite da Renzi sono le sue; quelle degli altri non sono riforme, sono resistenze reazionarie.
Quel che non ha capito Renzi – errore fatale di tutti i tipi come lui – è che a voler dar credito ad un altro suo concittadino, Machiavelli, il suo attuale successo è frutto fifty-fifty di virtù e fortuna. La fortuna di Renzi è il combinato della crisi politica ed economica nazionale e della crisi economica internazionale, che ha creato un vuoto politico in Italia e favorito la sua ascesa. Probabilmente non durerà un minuto di più quando le condizioni di crisi, cui si è fatto cenno, lasceranno il posto al formarsi di una ripresa politica seria e al crearsi di nuove leadership. Allora le sue faccette e le sue smargiassate, che tanto marionettismo fanno, non gli basteranno neppure a ispirare il buon Crozza. Lui pensa di essere un uomo eccezionale, che tutto quello che ha conseguito è frutto del suo talento, della sua intelligenza, della sua chiaroveggenza e lungimiranza; della sua predestinazione. Intanto è marcato stretto. Sul lancio dell’opa da parte di Mediaset per comprare i ripetitori della Rai, si sono levate le proteste di chi ormai non perde di vista né Berlusconi né Renzi e sa che dove si vede l’uno nei paraggi, magari nascosto, c’è pure l’altro. Hanno pensato: vuoi vedere che quei due hanno il sottofondo al “Patto del Nazareno” per nascondere altre cose? Vero o non vero, ha poca importanza. In politica la psicosi è un fatto. Renzi va esaurendo la credibilità dell’homo novus, del rottamatore; e viene ormai guardato con diffidenza. Per ora non conviene a nessuno forzare i tempi. I suoi avversari si accontentano di prendergli le misure; per le scarpe c’è tempo.
diario politico
della domenica n°66 - 1 marzo 2015 - anno 3 n.0
Nel Pd vogliono fare le scarpe a Renzi
R
icapitoliamo. I consiglieri regionali, con in testa quelli del mio partito (ultime propaggini dei mitici funzionari di partito) con poche eccezioni, hanno nell'ordine fatto finta di eliminare i vitalizi salvo poi farseli versare nel contributivo, affossato con
accade in puglia il voto segreto la paritĂ di genere nella legge elettorale e impedito ai sindaci, potenziali concorrenti, di candidarsi a consiglieri regionali salvo dimettersi prima. Caro Renzi altro che rottamazione serve il napalm. Alessandro De Matteis
da facebook
L spagine
’aborto è sempre un dramma, una lacerazione che la donna vive sulla sua pelle. A partire dagli anni Settanta, il dibattito su una fondamentale tematica eticamente sensibile continua senza sosta. Anche laicamente, è molto difficile classificare l’aborto. Molti ritengono che esso debba essere definito come un diritto della donna. La filosofa Claudia Mancina scrive: “Anche se l’aborto è vecchio come la società umana, come regolarlo è una questione nuova, e come tale va trattata. È diventata una questione di cittadinanza”. Noi cittadini ci poniamo interrogativi del tipo: può avere valore “un diritto a non esistere”?; la vita umana può divenire disponibile?; oppure essa è sempre sacra e inviolabile e non può in alcun modo essere violata? Molti cattolici, ad esempio, non condividono “l’aborto terapeutico”, perché “in queste pratiche abortive di terapia non si vede l’ombra; uccidere una vita, ancorché malata, non è certo un modo per guarirla, ma semplicemente per sbarazzarsene”. Da un punto di vista più utilitaristico, però, potremmo dire che embrioni, zigoti, feti gravemente o irreversibilmente malati, se avessero la possibilità di decidere, forse talvolta preferirebbero non nascere. Come non tenere conto delle possibili controversie, delle dispute giuridiche: secondo alcuni, addirittura, i genitori, che fanno nascere un figlio irreversibilmente malato, potrebbero essere sanzionati penalmente. È senz’altro scorretto, ingiusto asserire tuttavia che la “vita imperfetta” non debba essere degna di attenzione, di calore, di amorevoli cure. La questione aborto è travagliosa: solo la donna può essere risolutiva, può superare l’impasse con il suo buon cuore. Appare decisamente intransigente la posizione di alcuni bioeticisti cattolici (come Francesco D’Agostino), che s’appellano alla responsabilità e alla forza morale femminile al fine di “non offrire false giustificazioni al cosiddetto aborto terapeutico e di accettare la nascita (tragica, ma giusta) di soggetti portatori di handicap”. La vita è un evento dolcissimo e tremendo: essa non può essere mai misurata secondo un preciso e stereotipato metro morale. La donna dà la vita, la presceglie: forse noi tutti dovremmo accettare la sua libera volontà, mettendo da parte certe nostre concezioni rigide e apodittiche, che sanno solo rinchiudere il vivente in una sterile campana di vetro. Certo, l’aborto è sempre un dramma. Sono auspicabili campagne culturali e politiche per tentare
Contemporanea
della domenica n°66 - 1 marzo 2015 - anno 3 n.0
La scelta
di scegliere
di Marcello Buttazzo
di combatterlo o quantomeno di contenerlo? Sono benaccette le battaglie di sensibilizzazione, di aiuto concreto, a condizione però che esse non abbiano il volto aspro e tagliente dell’ideologia. Dovremmo, forse, incamminarci su un terreno di saldi principi, uscire fuori dalle nette contrapposizioni, da quella improduttiva dialettica bipolare che ci porta a ragionare per categorie. La donna, al cospetto d’una scelta dolorosissima, non è né cattolica, né laica: è una cittadina, che esige rispetto per la sua autonomia morale. Da un punto di vista laico, difficilmente condivisibile è certa cultura cattolica, che intravede il diavolo perfino nella contraccezione e nelle pillole abortive. C’è chi, fra i bioeticisti cattolici, sostiene che con il possibile uso della Ru 486 si banalizzi un dramma, perché l’aborto viene di fatto “ridotto a un atto medico”; inoltre c’è chi dice troppo severamente che “la Ru 486 serve a mascherare culturalmente l’aborto, nascondendolo dentro una scatola di pillole”. Però avvilire il senso di responsabilità femminile, non vuol dire favorire una piena crescita civile e sociale. La donna, che affronta un day hospital o un ricovero ordinario, agisce sempre coscientemente. Le condizioni per “arginare” le interruzioni di gravidanza devono essere laicamente create dalla politica con la buona amministrazione: incrementando le possibilità di sviluppo, le effettive pari opportunità, facendo costruire nuove scuole e asili. L’approccio culturale comporta sempre un’apertura alla diversità, un adattamento alle libertà. Dopo qualche anno dalla libera circolazione della Ru 486 e dell’aborto chi-
Robert Mapplethorpe-Orchids
mico, anche in Italia, l’inossidabile e trasversale “partito della vita” continua ancora oggi ad osteggiare anacronisticamente la somministrazione d’una pillola. Che viene commercializzata, nel mondo, da più di venticinque anni, introdotta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nella lista dei farmaci essenziali. Eppure anche nell’ibrido governo Renzi, c’è chi (ricordiamo soprattutto Giovanardi, Roccella, Sacconi) è paladino integerrimo della conservazione, opponendosi strenuamente anche all’aborto farmacologico. Ma con la chiusura non si edificano ponti di dialogo e di conoscenza. In Italia, abbiamo un’ottima legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, modello di efficienza in tutta Europa. Anche i detrattori della legge 194, dovrebbero poter leggere con occhi chiari i dati che puntualmente il ministero di Giustizia ha fornito negli ultimi anni. Dalle relazioni emerge che gli aborti, soprattutto fra le minorenni, sono in diminuzione. Purtuttavia, la clandestinità in parte esiste ancora fra la popolazione migrante. Le interruzioni di gravidanza fra le straniere si potrebbero ridurre ulteriormente cominciando a praticare una corretta informazione. In generale, invogliare tutta la gioventù a ricorrere a una disciplinata contraccezione non dovrebbe essere neppure un “problema” etico, ma semplicemente l’affermazione d’un metodo pratico. Pare che motivazioni psicologiche e socio-economiche spingano le minorenni ad abortire. Le varie agenzie e istituzioni su questi fattori possono in qualche modo intervenire. Ma ci chiediamo: in un evento tragico e dirimente, la libertà di scelta d’una adolescente può talvolta avere il suo peso sostanziale, determinante?
della domenica n°66 - 1 marzo 2015 - anno 3 n.0 spagine in agenda Giovedì 5 marzo dalle 19.00, al Fondo Verri, la presentazione di
Post-patriarcato. L'agonia di un ordine simbolico. Sintomi, passaggi, discontinuità, sfide
S
Aracne (collana Donne nel Novecento) di Irene Strazzeri. Con l’autrice intervengono Elettra Deiana, Anna Caputo, Patrizia Colella e Mauro Marino. Modera l’incontro Diego Dantes. ono passati molti anni da quando uno dei fogli più importanti per il femminismo italiano, il Sottosopra rosso, scrisse con il titolo “È accaduto non per caso” che il patriarcato era morto perché non aveva più credito, né funzione ordinatrice. Da allora quasi tutti gli uomini hanno continuato come se nessuno avesse parlato e noi donne ci siamo divise fra quelle che sostenevano che il patriarcato era ancora vivo e quelle che ne ribadivano la morte, facendo vedere quanto di nuovo c’era sotto il cielo. È forse necessario riconsiderare che “nulla finisce d’un colpo”, come fa questo libro e come sintetizza Elettra Deiana nell’introduzione. Irene Strazzeri giustamente parla di un’intera fase, il post-patriarcato, in cui ci sono contemporaneamente sintomi dell’agonia patriarcale, passaggi ad altro, discontinuità e sfide da vincere. Tanto più importante è scrivere un libro del genere per l’Università. Nelle università, nella scuola, con gli e le studenti ancora c’è timidezza nell’usare la categoria del patriarcato con grave danno per la loro formazione. E come potrebbe essere altrimenti visto che anche nel dibattito politico è un discorso a rischio, per non dire, poi, nell’informazione? A maggior ragione è apprezzabile introdurre nei saperi specialistici la categoria del patriarcato, perché proprio in quei saperi c’è un continuo esercizio di potere che tenta di asservirli e di conformarli nel linguaggio, separandoli dalle domande che invece sono vive nella realtà. Osare di pensare e nominare le cose con voce femminile nei saperi specialistici, assumendosene la responsabilità, senza la tranquillità che dà il muoversi sui binari riconosciuti dall’accademia richiede già fiducia nella propria autorità: è già aprire un conflitto fra potere e autorità. E chi dà questa autorità? tutti sanno che non è possibile scrivere senza aver in mente un interlocutore o interlocutrice a cui ci si rivolge, delle figure da cui ci si sente autorizzati. Se si guarda alle donne, se si scrive per loro, si restituisce loro autorità e se ne riceve in cambio. Questa é la più evidente dimostrazione di come l’autorità di cui parlano le donne, l’autorità femminile, sia un processo circolare e sia una pratica prima ancora che un paradigma. Ma attenzione l’autorità femminile non è una questione di sguardi rassicuranti fra donne. Irene Strazzeri sa bene che l’autorizzazione che cerchiamo si gioca sul piano simbolico: sulla capacità di dare diverso senso e diverso peso ai vari aspetti della realtà, di trovare collegamenti inediti, di lasciar cadere lacci che ci vincolano alla ripetizione dell’esistente. E il libro si cimenta in questa lettura del presente modificata dallo sguardo femminile. Così facendo si colloca nella grande sfida che il femminismo ha aperto fin dagli anni ’70 del 900 per far vivere all’interno dei saperi altri punti di vista, rispetto a quello neutro dominante, e un’altra lingua che, per dirla con Simone Weil, “accolga il
grido della realtà per essere letta diversamente”. Penso a tutto il lavoro fatto, in questi anni, sul corpus letterario e artistico, sulla scienza, sulla teologia, sulla storia, sulla politica, sull’economia. O sulla sociologia, come fa questo libro. Con questo lavoro di ricerca a tutto tondo le donne si sono tolte dal posto in cui il patriarcato voleva relegarle, l’ambito della sessualità e della maternità, mostrando che potevano ripensare tutto a partire dal proprio sesso. Un altro grande atto di libertà e autorità insieme: intreccio fecondo e inedito! Fa bene quindi Irene Strazzeri a concludere il libro indicando l’autorità femminile come una strada maestra per “rimettere al mondo il mondo”. Alcuni passaggi tuttavia del libro mi hanno suscitato perplessità e io voglio nominarne due. Lei trova parole molto attente ed efficaci per indicare il cambiamento avvenuto ormai nella società “dal riconoscimento al solo lavoro produttivo alla visibilità della cura”. E per questo dobbiamo dire grazie anche al lavoro politico fatto dal gruppo di femministe del mercoledì di Roma. Ma Strazzeri sottovaluta la proposta del Sottosopra “Immagina che il lavoro” che tenta di raccogliere questa nuova sensibilità indirizzandola verso la necessità di modificare l’intera organizzazione sociale e sessuale del lavoro che io, anche come madre, trovo urgente ed essenziale. Immagino infatti quanto deve patire mio figlio, padre di un bimbo di quasi tre anni e di due gemelli di otto mesi ogni volta che è costretto a chiedere permessi familiari. Il lavoro deve ormai essere pensato, mettendo in conto la cura della vita per uomini e donne. È chiaro che se si perdono questi passaggi aperti nella contrattazione sociale, ci si trova a dar credito a chi afferma che posizionarsi solo in quanto donne non sia sufficiente per avere una visione anticapitalista. Chi sostiene questo ha ancora l’idea delle donne non come umanità femminile, ma come parzialità rispetto al tutto che rimarrebbe l’uomo. A me sembra, infine, che nel trattare la questione dell’identità l’autrice sottovaluti l’esperienza della lingua materna riferendosi alla lingua solo a partire dall’affermazione di Derrida: “Ho solo una lingua e non è la mia”, che lei fa diventare: “Ho solo un’identità e non è la mia”. Eppure in un’altra parte del libro ha scritto che le donne cambiano le parole perché vogliono cambiare le cose, quindi sa bene l’importanza della lingua. La lingua materna nel dare conto dell’esperienza femminile avvicina ciò che la cultura patriarcale tende a separare e fa vedere un altro modo di sentire, pensare, amare, conoscere, più vicino alla vita. È ciò che abbiamo per deviare rispetto alla lingua del potere. di Antonietta Lelario (Circolo La merlettaia) da http://www.libreriadelledonne.it
spagine
C
corsivo
della domenica n°66 - 1 marzo 2015 - anno 3 n.0
Pensieri di prima mattina
i si sveglia sempre (quasi sempre) positivi, poi si guarda il primo TG e tutto passa. Renzi dice di voler fare un DL per impedire l'ostruzionismo. Il prossimo passaggio potrebbe essere l'abolizione delle opposizioni. Tsipras chiude i campionati di calcio per troppa violenza, noi ci occupiamo di import/export di criminali del calcio. Vennero a spaccarci una fontana, domani gli ultras romani andranno e minacciano ferro e fuoco. E poi dici parlare di filosofia, democrazia, intelligenza... Cose così insomma. E mentre a Lecce fioriscono gli stop pros-
simamente anche davanti alla porta di casa del vicesindaco, mentre quando piove ci vuole la patente nautica per navigare in via Cesare Battisti completamente allagata, proseguiamo al giornata guardandoci attorno, ascoltando la pioggia cadere e i muratori lavorare sull'impalcatura davanti alla finestra. Intanto siamo protetti, a San Cataldo c'è il camion radar militare a vigilare sulla costa. Però sbarcano, arrivano. "Quando ho aperto erano una trentina ad aspettare. Sono entrati nel bar, uomini e donne siriani, hanno chiesto il bagno, uno alla volta sono entrati per ripulirsi, si sono cambiati, le donne si sono anche truc-
di Gianni Ferraris
cate. Hanno fatto colazione, parlavano inglese, alcuni anche un buon italiano. Poi abbiamo chiamato i carabinieri, li hanno caricati su un pullman". Così mi dice il barista a Castro marina. Arrivano da una guerra criminale, (quale guerra non lo è?), conoscono regole e lingua, sono giovani, belli, illusi di trovare l'america. Il camion radar non ha visto quel segnale la notte in cui sbarcarono a Castro, forse troppo lontano, forse distratto. Chissà. Profumo di biscotti appena sfornati, di prima mattina, notizie già vecchie e l'immarcescibile oroscopo che non c'entra nulla con la vita e la civiltà, ma così è, di prima mattina.
spagine
della domenica n°66 - 1 marzo 2015 - anno 3 n.0
L’abecedario di Gianluca Costantini e Rappacifica le mie ore rende le rughe ritornelli mi racconta di rabbie e di rese. Rido randagio dei miei ricordi senza paese. Allora ogni cosa risuona non riescono a resistere
Maira Marzioni
la rondine, la ringhiera, il ragno, la rosa. Suonano con me anche se stoniamo... Sultani del sogno saltimbanchi e sciarade. Suoniamo la stellare sinfonia delle storie storte delle sorde strade.
spagine
Nudo e crudo E
lio, ho letto A nuda voce. Canto per le tabacchine (Musicaos:ed), con due salti. Col primo ho saltato l’introduzione e col secondo, i due interventi critici. Ti prego, non pensare che sono un grillo (forse sono un grullo). Con i due salti non ho voluto fare una crociata né contro le introduzioni (che spianano la strada verso il testo), né contro gli interventi critici (che lo scortano). E spero non me ne vorranno gli ottimi, Ada Donno, Francesco Aprile, Luciano Pagano (che è pure l‘editore) se procrastino la lettura dei loro testi. Ho voluto verificare se nel tuo poema, e in esso a solo, ci fosse tutto quanto occorre per leggerlo al meglio. Capire di cosa parla (il tema), cosa ha messo in moto l’immaginazione poetica et cetera. Credo, orecchio una punta di teoria critica letteraria (così, con le minuscole, perché tali sono le mie conoscenze e non me ne vanto), che si possa dire che ho cercato l’autonomia dell’arte. Spesso, nelle introduzioni ci sono anche delle incursioni critiche sul testo a venire. E a me questo non garba punto. Le puntate critiche dopo, se ne può parlare. Mi piace praticare, mi esprimo con una metafora, il free climbing (l’autonomia del lettore?). Il testo è la parete da scalare a nude mani (in tasca, però, ho un coltellino svizzero). Poi, può darsi che non arrivi neanche a un paio di metri e sono già caduto. Se non mi sono fatto male, ricomincio. Prima di leggerlo un libro, mi piace toc-
carlo, sfogliarlo, sbirciarlo. Tutto questo, l’ho fatto anche col tuo libro. E così i primi righi della quarta di copertina, li ho letti d’emblèe (sono appena 6). E ho scoperto il fatto di cronaca (risale al 1960), che ha originato i tuoi versi. I testi che scelgo di leggere, oltre che fonte di godimento estetico, per me sono un campo in cui passeggio per raccogliere, invece di fiori, domande. Spero non ti dispiaccia. Tra l’altro, le domande che strappo lasciano intatti tutti i fiori. Le domande le strappo, dico così, all’aria in cui traspirano i fiori (sono fatte di aria e all’aria torneranno). Riprendo, con variazione, la prima domanda. Nel tuo testo, c’è tutto quanto occorre per definire, ora e sempre, il tema? Ti propongo un esperimento mentale. Immaginiamo, tra un po’ di anni, un ragazzo, o una ragazza, che prende in mano il tuo poema per tuffarcisi dentro. Che succede? L’esperimento lo riformulo così. Un puer, o una puella, a spasso in A nuda voce, senza alcuna bussola e con uno zaino leggero, che custodisce poche ma essenziali cianfrusaglie giovanili. Il puer riuscirebbe a orientarsi? E dove approderebbe? (Lo so, sto mescolando due metafore per la lettura del testo: quella del nuoto e quella del cammino. Arriccia pure il naso, se credi.) Dunque, all’origine del tuo poema c’è un fatto vero, un fatto tragico. Tu hai scritto cinquant’anni dopo. Il dolore crudo si è attenuato, ma ne è rimasta
di Massimo Grecuccio
l’eco. Tu l’hai raccolta, creando per essa una cassa di risonanza. A nuda voce. Canto per le tabacchine è una cassa di risonanza. L’avrai saputo. Ogni tanto un demone s’impossessa di me. Questo demone, tra altre, ha la fissa classificatoria. Mi suggerisce che il tuo poema rientrerebbe nel genere didascalico. Che ha avuto i suoi fasti nell’antichità (ricordo le Bucoliche di Virgilio) e ora è un genere negletto. Col tuo poema chiedi di più della semplice lettura e del puro squario. Chiedi una condivisione, una comunione tra te e il lettore. E chiedi l’attivazione, nel lettore, della funzione memento. Leggetene e ricordatene tutti, questo sembra che tu abbia avuto l’intenzione di dire. Ecco, la tua poesia non è pura, ha un’intenzione. Un’intenzione morale. Che si può esprimere così: Per non dimenticare. In opposizione a chi sostiene che la letterarura non debba proporre né messaggi né valori. C’è una punta di epico in quello che hai scritto. Per questo le voci principali sono io collettivi. L’epopea che qui narri è la lotta padrone-servo nell’ambito, così importante per il Salento fino a qualche decennio fa, della lavorazione del tabacco. Gli eroi sono i vinti (ma è una consolazione magra). Poesia didascalica o epica, il tuo disegno poetico ha una linea nitida. La nitidezza è nemica dell’arte poetica? Il poetico è meglio tale, se un po’ di nebbia avvolge le parole che dicono il tema? L’intelletto non è nemico del cuore. Questo è quello che non pen-
Lettera aperta, e ingenua, a Elio Coriano, su “A nuda voce”
della domenica n°66 - 1 marzo 2015 - anno 3 n.0
sano gli epigoni romantici. Loro ancora credono l’intelletto e il cuore separati in casa. Il proposito è buono. A trovare il pelo nell’uovo, posso solo dire che da un buon proposito non discende in modo naturale buona poesia. Che significa, poi, buona poesia? Con un tema così tragico. Versi ben torniti? Versi ben levigati? E la levigatezza, quante ferite nasconderebbe? Le farebbe intravedere? Il terreno diventa molto scivoloso. E tu hai avuto un bel coraggio, ad avventurartici. Se la materia è così scopertamente prelevata dalla cronaca (che nel tuo caso è già storia), cosa sarebbe più opportuno fare? I fatti sono così evidenti. La morte è la morte. Anche se non la nomino direttamente. I rapporti di forza sono rapporti di forza. Anche se la crudeltà del padrone verso lo schiavo può variare su una scala di toni.
Un saggio di storia potrebbe essere più efficace? A questa, rispondo. Sono due cose diverse, anche se la matrice è la stessa. Elio, sono in difficoltà. Non riesco a dire neanche una parvenza di giudizio motivato. Posso almeno affermare che questa girandola di domande, oziose oppure pertinenti, intensifica in me la percezione del soggetto del tuo poema. E posso aggiungere quest’altro. Per me, l’eccesso di poetico è più stucchevole dell’eccesso di zucchero. Non so l’efficacia dell’omeopatia. Sono più pronto a giurare sulla bontà della poesia in dosi omeopatiche. Pochi. Pochissimi virus, lenti ma forti. (Qui mescolo organico e inorganico, seppure a piccolissime dosi. Sic.) Ché, se pure vengono visti subito dal sistema immunitario, continuino ad agire per inoculare, a dosi omeopatiche, le tos-
Elio Coriano e la copertina del libro edito da Musicaos Ed
sine poetiche. Qual è la funzione di queste tossine? Una funzione credo che possa essere - Non dimenticare -. E chi se ne frega della bella poesia. Che si mescoli, talvolta, con la storia. Che si imbastardisca, talvolta, con la cronaca. Impurezze, imperfezioni. La šcoma dei giorni.
...ma era tanto il fuoco erano troppe le mani di fumo che ci stringevano la gola.
Elio, spero a presto.
Massimo Grecuccio
P.S. Solo in quarta di copertina, all’esterno del poema, è menzionato il tragico incendio della cronaca del 1960 da cui prende spunto il tuo poema. L’autonomia del testo non è completa?
spagine “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume”
Di chi predica bene e razzola male Vangelo Matteo, 23
V
ecchia storia, quella della coerenza fra il dire e il fare, vecchia come il cucco e molto di più di un vecchio bacucco. Ci pensavo ascoltando in televisione Mario Capanna, che del vecchio bacucco ha anche la barba bianca. Lo ascoltavo difendere a spada tratta lo status quo, pateticamente definito “diritti acquisiti”, nell’insulsa trasmissione televisiva “L’Arena”, annebbiato nei fumi della letargia pomeridiana dopo il consueto e forzoso pranzo domenicale a casa dei genitori (ultimo luogo di sopravvivenza dell’ esecrabile mito della famiglia tradizionale patriarcale ). Quello dell’Arena (sebbene di fronte a Capanna anche Giletti sembrasse intelligente) è stato uno scontro, vero o costruito che fosse, fra due campioni dell’incoerenza. “Pancho” Capanna, che passa dalle barricate sessantottine alla difesa del vitalizio, dalla cesta (della colazione proletaria) alla casta; Giletti-Gillette (“il meglio di un uomo”) che fa del becero populismo, guadagnando somme spropositate. Vecchia storia, quella della coerenza, che si può definire come la connessione logica ed etica fra un comportamento e quello precedente, oppure fra quello che si dice e quello che si fa. Ne sapeva qualcosa Seneca (I sec. d.C.), accusato di avere una doppia morale, e lo sapeva bene il libertino inglese Bernard de Mandeville, autore nel Settecento del poemetto satirico “La favola delle api, ovvero Vizi privati e pubbliche virtù”. Ma la storia è piena di esempi eclatanti, di personaggi famosi, papi, politici, attori, regnanti, musicisti, con una doppia mo-
rale, pubblica e privata. Ora, fatturare in nero, esportare i capitali all’estero per metterli al riparo dalla scure fiscale, sembrerebbero legittima difesa in uno Stato che fa pagare più del 60% di tasse ai propri cittadini. Invece, questi sono reati e chi li commette è perseguibile per legge. E li commettono in tanti, se è vero che il nostro è il paese con il più alto tasso di evasione fiscale in Europa. Una cifra stratosferica, si parla di 180 miliardi di euro all’anno, sarebbe davvero pazzesco. Gli è che non tutti i cittadini italiani sono preparati a far proprio l’esempio di Socrate, disposto a morire, come riferisce Platone nel “Critone”, pur sapendo di affrontare una condanna ingiusta, solo per rispettare le leggi della sua città. Pochissimi, coloro che, pur sapendo che è pieno di evasori fiscali e che lo Stato richiede una tassazione ingiusta, sono disposti a pagare il dovuto. Così apprendiamo dalle cronache che noti artisti e sportivi del panorama nazionale evadono le tasse e devono restituire molti soldi all’erario. Da Luciano Pavarotti a Valentino Rossi, da Lele Mora a Fabrizio Corona e per venire ai casi più recenti, e ai nomi della cosiddetta “lista Falciani”, Stefania Sandrelli, Tiziano Ferro, Gianna Nannini, lo stilista Valentino, Renato Zero , Dolce e Gabbana, Elisabetta Gregoracci, e così via. Uno degli ultimi ad essere stanato dalla Guardia di Finanza è stato Gino Paoli. Confesso che il fatto mi ha turbato non poco. Amo il cantautore genovese, sono cresciuto con le sue canzoni. Paoli ha sem-
di Paolo Vincenti
pre rappresentato per me, oltre ad un inimitabile artista, un poeta della musica, un uomo di specchiata moralità, uno con la schiena dritta, come si suol dire, uno che negli anni Ottanta ebbe anche una breve parentesi politica, e infatti si candidò nelle liste del Pci in Parlamento, ma dopo pochi anni uscì, disgustato dagli intrallazzi e soprattutto, a suo dire, dall’immobilismo, dall’impossibilità di cambiare alcunché , dalla palude della politica romana. Da anarchico quale si è sempre professato, non poteva essere diversamente, pensavo, basta ascoltare canzoni come “Gorilla al sole” oppure “Bastiano”. Sticazzi! Davvero mai niente è come sembra. Saperlo grande evasore fiscale è stata come una pugnalata al cuore. Un brutto colpo, me lo aveva assestato un paio di anni fa quando divenne presidente della Siae. Ma come, mi chiedevo, il bastian contrario che entra nel sistema? Uno che si professa “matto come un gatto”, che canta “io no, col branco non ci sto”, che prende una poltrona come quella? Sapere che percepisce anche il vitalizio dalla breve esperienza parlamentare dei lontani anni Ottanta è stato l’affondo finale. Ancora una volta il problema dell’incongruenza fra i comportamenti privati e l’immagine pubblica mi si è presentato con drammatica evidenza. Per inciso, pare che fra i cantanti ad aver orchestrato qualche furbo giochino per aggirare il fisco vi sia anche Vasco Rossi, un altro che io amo da sempre. Ma per tornare all’ipocrisia, il fatto è che prendermela con uno come Capanna mi viene facile. Sono sempre stato su posizioni politiche diverse dalle sue. Da gio-
l’osceno del villaggio
della domenica n°66 - 1 marzo 2015 - anno 3 n.0
Gino Paoli in una foto giovanile
vane ero vecchio e mi riconoscevo nella Dc, oltre che nell’allora PLI per le politiche economiche e un poco anche nel PRI perché avevo un’adorazione intellettuale per Giovanni Spadolini. Dunque Capanna e quelli di Democrazia Proletaria erano come il fumo negli occhi per me. E poi, diciamolo, sapere di apocalittici integrati, di ex pauperisti, cenciosi, pacifisti, anarchici, comunisti, scesi a patti col sistema capitalistico mediatico global merdoso occidentale, procura sempre un certo perverso piacere. Apprendere che un ex sessantottino oggi è parte integrante dell’apparato mi da un senso di rivalsa che farà schifo ma è più che comprensibile. Per Gino Paoli invece è diverso. Il turbamento mi ha ghermito, come un leone che acciuffa la gazzella, come un falco che azzanna il coniglio e ne fa strame. Ma poi, passata la sbornia emotiva, il coccolone della prima ora, messa a tacere la pancia (quella del paese, a cui
parlano tutti i finti indignados della politica), c’è da utilizzare la ragione, far funzionare il cervello, esercizio difficile ma necessario. Che significa tutto ciò? Che se uno evade il fisco, o commette reati di qualsiasi tipo, non possa essere un bravo, un ottimo, un eccelso artista? Niente affatto. Anzi, dovremmo dire, secondo il noto cliché, dovuto a Dumas e alla sua opera “Kean, ou Désorde et Génie”, che il genio si accompagna sempre alla sregolatezza. E allora? Perché sono rimasto turbato dal comportamento di Paoli? Non era forse Marlowe, l’autore del “Doctor Faustus”, una spia dei servizi segreti, che morì accoltellato in una rissa da taverna? E non aveva il grande Caravaggio, un temperamento violento, tanto che uccise un uomo? È chiaro che quanto più un artista si eleva, raggiungendo impossibili vette, con il suo genio, tanto più pleonastica ci
pare la sua vita ordinaria, da uomo qualunque. Tanto più è grande il genio, tanto più difficile ci riesce di accettare che, al di fuori di quei momenti di illuminazione, egli sia un uomo come tutti, pieno di limiti e difetti. L’evasione fiscale fa parte della vita prosastica, ordinaria, del transeunte. Un’opera d’arte ha a che fare con la bellezza, l’eccezionalità, l’immortalità. Dunque, ristabilito un minimo di presupposti, mi sento più sollevato e posso tornare a cantare:“quando sei qui con me, questa stanza non ha più pareti…”, oppure “sapore di sale, sapore di mare, che hai sulla pelle, che hai sulle labbra…” “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti…”: questa, con cui ho principiato, è certamente suggestiva. Ma quest’altra è molto, molto più bella: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra” (Vangelo Giovanni, 8).
spagine
Saggi Universale Economica Feltrinelli
Orientalismo
L’immagine europea dell’Oriente
La copertina del libro edito da Feltrinelli e ad illustrare un’opera di Josep Tapiró, El santón darkaguy de Marrakech, 1895. Acquerello su carta Museo Nacional de Arte de Cataluña, Barcellona
Una certa idea
letture
della domenica n°66 - 1 marzo 2015 - anno 3 n.0
Edward W. Said, "Orientalismo. L’immagine europea dell’oriente”, Feltrinelli
È
singolare come in questi ultime settimane su molti media italiani il dibattito sull’islam e sul mondo arabo abbia raggiunto il suo parossismo guerrafondaio, con schiere di temerari “intellettuali” - un esempio su tutti il giornalista Magdi Allam pronti a imbracciare lance, spade e scudi crociati per difendere l’Occidente dalla minaccia dell’islam. Ed è altrettanto singolare notare come i contemporanei Goffredo di Buglione utilizzino per preparare la loro “crociata” tutto l’armamentario culturale che nel corso dei secoli ha fatto dell’Oriente e dell’islam due entità estranee e contrapposte all’Occidente e ai suoi benedetti valori. E’ stato Edward W. Said, critico letterario di origini palestinesi, con la pubblicazione nel 1978 di “Orientalismo”, che per primo ha chiarito quei processi di colonizzazione culturale attraverso i quali l’Occidente ha prima definito per poi appropriarsi di una certa idea di Oriente, tuttora lontana dall’essere confutata, visto principalmente come luogo d’elezione in cui far risiedere l’Altro da sé. Tracce di questa rappresentazione occidentale dell’Oriente si trovano, fa notare Said, già nell’Iliade, nei Persiani di Eschilo e nelle Baccanti di Euripide. Eschilo dipinge il senso di disfatta che si impadronisce dei persiani allorché apprendono che la grande armata, guidata dal Re in persona, è stata sconfitta dai greci. Per la prima volta nella cultura occidentale l’Asia parla per bocca dell’immaginazione europea, e l’Europa è raffigurata come vincitrice dell’Asia, mondo ostile e “altro” al di là del mare.
di Alessandro Vincenti
guenza di ogni sfida lanciata all’Occidente. Nelle Baccanti, forse il più asiatico di tutti i drammi attici, Dioniso è esplicitamente legato all’Asia vuoi per le sue origini, vuoi per gli strani eccessi dei misteri orientali. Penteo, re di Tebe è rovinato dalla madre Agave e dalle baccanti sue alleate. Avendo sfidato Dioniso, non volendogli riconoscere né la divinità né il potere, Penteo viene orribilmente punito (il suo corpo viene straziato e la testa esibita come un trofeo!), e la tragedia termina nel generale riconoscimento della tremenda potenza del Dio di origine asiatica. I due aspetti dell’Oriente, che nei due drammi citati lo differenziano dall’Occidente, rimarranno centrali nella geografia immaginaria in Europa. L’Europa è forte e ben strutturata; l’Asia è lontana, oscura e sconfitta. L’Oriente, il Vicino Oriente in modo particolare, fu da allora considerato dall’Occidente il proprio grande opposto complementare. E la stessa sorte toccò all’islam, giudicata una versione modificata, in modo fraudolento, di qualcosa di già esistente, cioè del cristianesimo.
È Dante Alighieri ad inserire “Maometto” Mohammed nel canto XXVIII dell’Inferno. Lo troviamo nell’ottavo dei nove cerchi maledetti, nella nona delle dieci bolge di Malebolge, anello di tetre fosse che circonda la sede stessa di Satana. Maometto è collocato nella categoria dei “seminatori di scandalo e di scisma”. La punizione che gli tocca, eterna come ogni altra dell’Inferno, è quella di essere lacerato in due metà dal mento all’ano, come – spiega il poeta – una botte le cui doghe vengano diAll’Asia sono attribuiti sentimenti di sgiunte. desolazione, lutto e sconfitta, visti da I versi di Dante non trascurarono allora in poi come l’inevitabile conse- alcun dettaglio escatologicamente im-
portante della percezione di un così esemplare supplizio: i visceri di Maometto e i suoi escrementi sono descritti con vivida precisione. Lo sventurato spiega a Dante la propria punizione indicando anche Alì, che lo precede nella fila dei peccatori che un diavolo divide metodicamente in due.
Il Poema del Cid, la Chanson de Roland e lo “Otello” di Shakespeare sono ulteriori opere dove Oriente e islam vengono rappresentati come forze esterne, estranee, seppure con un ruolo speciale nelle vicende interne dell’Europa.
Ma persino Karl Marx, fa notare Said, attinge nella tradizione romanticoorientalista, quando sostiene in “Survey from the Exile” che: “In India, L’Inghilterra ha da compiere una duplice missione, distruttiva da un lato, rigeneratrice dall’altro, dissolvere l’organizzazione sociale asiatica e insieme gettare le fondamenta di una società di tipo occidentale”. Per il filosofo di Treviri, il superamento del sistema economico asiatico non poteva non passare dall’interferenza colonialista della Gran Bretagna, male necessario per raggiungere un successivo riscatto. Alla luce di tutto ciò, com’è facile immaginare, la retorica anti-orientale e anti-islamica, che oggi pervade ampi strati dell’opinione pubblica e la penna di molti intellettuali occidentali, sarà difficile da scalfire visto che i suoi fondamenti si perdono agli albori della cultura occidentale. Prima di chiudere c’è da sottolineare il fatto che Gesù Cristo viene, invece, riconosciuto dal Corano come uno dei più grandi messaggeri di Dio al genere umano; e a Lui e a sua Madre (Maryam) sono dedicati diversi versetti.
Le parole spagine
Daniele Menozzi, "Giudaica perfidia. Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia”, il Mulino
del pregiudizio
L
Perfidus si tradurrebbe semplicemente con "incredulo", cioè "senza la vera fede", ma in realtà nei volgari europei veniva tradotto con l’eticamente e socialmente negativo “perfido": malvagio
’antisemitismo, come lo Spirito nel vangelo di Giovanni, soffia in tutte le direzioni. E tra le pieghe della liturgia cattolica c’è un luogo – luogo retorico, famigerato sintagma – che per secoli ha alimentato gli stereotipi antiebraici. Ne indaga il significato e i risvolti un recente studio di Daniele Menozzi, "Giudaica perfidia. Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia”. Tra le preghiere che formavano la liturgia del venerdì santo, preghiere, per esempio, per il Papa, per il clero, per i vescovi, c’era infatti anche quella rivolta agli ebrei. L’incipit dell’orazione era Oremus et pro perfidis Judaeis, preghiamo anche per i perfidi giudei e, poco più avanti, si poteva leggere ancora della judaicam perfidiam. Fatto salvo lo storico e teologico pregiudizio della Chiesa di Roma verso gli ebrei, lo studio di Menozzi ne indaga la presenza nella liturgia, e cioè in uno dei momenti più intensi e sacrali della realtà cattolica, che troverà definizione e disciplinamento nel Messale romano del 1570, redatto secondo le norme del concilio di Trento. L’oremus, che risale a una tradizione molto antica, viene cristallizzato precisamente in quel momento nella liturgia ufficiale latina e avrà una notevole diffusione tra i fedeli, che la leggevano o l’ascoltavano nelle versioni in volgare dei tanti messalini. Perfidus si tradurrebbe semplicemente con "incredulo", cioè "senza la vera fede", ma in realtà nei volgari europei veniva tradotto con l’eticamente e socialmente negativo "perfido": malvagio. Per dimostrarlo, nel 1937 il filologo cat-
tolico Erik Peterson in un saggio notevole ricostruirà la storia del termine e delle varie sue traduzioni: "perfido" in italiano, "perfide" in francese, "perfidious" in inglese. Peterson sottolinea che il perfidus latino originario, quasi un tecnicismo religioso che indicava il non credente o l’infedele (e infatti perfidis erano anche eretici, pagani o musulmani), nelle traduzione volgari diventava perfido nel senso moderno, cioè cattivo e sleale. Nessuna coincidenza, quindi, tra il significato della parola latina e la corrispettiva traduzione nelle lingue nazionali. "Perfido" si aggiungeva così ad altre presunte caratteristiche dell’ebreo: usuraio, empio, dedito alla pratica dell’omicidio rituale, capitalista, cospiratore, e così via; si andava così a sostenere il secolare antisemitismo europeo e lo si puntellava con un fondamento religioso. L’antigiudaismo teologico si poteva saldare, in contesti ben precisi come quello delle leggi fasciste del 1938, all’antisemitismo politico e razziale: l’aggettivo "perfido" e la locuzione "giudaica perfidia" tralignavano così dal circoscritto ambito teologico a quello politico e della propaganda. Menozzi non tratta l’antisemitismo come categoria dello spirito, bensì lo analizza nell'ambito specifico delle pratiche discorsive della Chiesa cattolica e all’interno di una retorica religiosa che tendeva a diffondere e stabilizzare il pregiudizio (possiamo ricordare, in tutt’altro versante, il magnifico studio di Victor Klemperer Lingua tertii imperii, ovvero la lingua del terzo Reich). Scrive Menozzi, ricordando il linguistic turn della storiografia contemporanea, che "l’analisi storica delle prati-
di Sebastiano Leotta*
che retoriche, e in particolare delle espressioni linguistiche, lungi dal ridursi a una mera storia di parole, rappresenta uno dei più efficaci strumenti ermeneutici a disposizione dello studioso per disvelare i meccanismi di funzione dell’aggregato sociale che le utilizza". Lo studio si sofferma, dunque, sulle conseguenze nefaste di un sintagma dal grande potenziale evocativo, come è appunto "giudaica perfidia", diventato velocemente cliché senza tempo, scritto e ripetuto infinite volte. Del resto la formularità non è altro che l’essenza di ogni discorso antisemita e di ogni stigmatizzazione: "la perfidia diventa il canale linguistico con cui si proietta su tutti gli ebrei, in ogni tempo e in ogni luogo, un’immagine negativa, in cui l’accusa di slealtà, doppiezza, tradimento, cattiveria si salda con la denuncia a ingannare, rubare e sfruttare. Si tratta di un’operazione retorica che risulta funzionale a quella demonizzazione dell’alterità che sfocia spesso nella propensione a cancellare il diverso". Lo storico della Normale di Pisa ricostruisce nel suo lavoro la storia e le discussioni del coté antigiudaico del rito romano fino alle più recenti riforme liturgiche, adottate dal Vaticano II, intese ad eliminare, non senza resistenze, gli accusatori perfido/perfidia, segni di un superato antisemitismo della Chiesa. La mia impressione è che Menozzi abbia voluto mettere in evidenza come le ricadute sociali della cosiddetta "perfidia giudaica" della liturgia potessero essere di portata vastissima: la liturgia, che risuo-
letture della domenica n°66 - 1 marzo 2015 - anno 3 n.0
A “contrappunto” l’illustrazione scelta è La crocifissione in bianco dipinto (155x140 cm) realizzato nel 1938 da Marc Chagall (Vitebsk, 7 luglio 1887 – SaintPaul-de-Vence, 28 marzo 1985), conservato nel The Art Institute di Chicago. Papa Francesco ha dichiarato che questo è il suo quadro preferito. Opera ambiziosa dell'artista, ispirata alla persecuzione degli ebrei nell'Europa centrale e orientale. Non viene raffigurata una scena reale, bensì vi è un'evocazione della sofferenza atteraverso l'uso di simboli ed immagini. Affascinante è la rappresentazione in alto di personaggi veterotestamentari che, vedendo cosa sta succedendo, piangono.
nava fin nella chiesetta più sperduti non poteva, infatti, non influenzare tra i fedeli comportamenti, valori, orientamenti. E possiamo ricordare anche, in un senso analogo, come nel grande e insuperato saggio di Carlo Cattaneo del 1837, Interdizioni israelitiche, si indaghino gli effetti pratici, nella vita economica e civile, dell’antisemitismo discriminatorio che esisteva sul piano giuridico e formale. Inevitabile, dopo la Shoah, un ripensamento dell’antisemitismo cattolico e una riforma di quella liturgia che era stata uno dei veicoli del pregiudizio contro gli ebrei. Con il Vaticano II dalla nuova edizione del Messale del 1970 spariscono le parole perfidis e perfidiam. Ma alcune resistenze permangono. Da ultimo Menozzi si concentra sui pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ravvisandone alcune ambiguità nel tentativo di entrambi di recuperare gli scismatici lefebvriani, da sempre avversi alle aperture del Vaticano
II. Permettendo ai tradizionalisti francesi, anche se con qualche restrizione, l’uso della versione tridentina della liturgia si sono infatti reintrodotte posizioni teologiche che quel concilio aveva voluto superare. A partire da un dettaglio linguistico (ma spesso è proprio nei particolari che si nascondono gli indizi più significativi), il saggio ci consente di illuminare in profondità questioni di carattere molto più generale: "Il dibattito sulla ‘giudaica perfidia’ diventa lo scorcio attraverso il quale si colgono aspetti fondamentali della presenza della chiesa nella società contemporanea", scrive Menozzi. Facciamo qualche esempio. Di fronte ad eventi della modernità come l’Illuminismo e la Rivoluzione francese e, per quanto ci riguarda, il Risorgimento italiano, la Chiesa si è opposta risolutamente. Per la minoranza ebraica italiana, il processo di unificazione nazionale significò fine delle discriminazioni,
emancipazione e diritti politici; basterebbe leggere i numeri della "Civiltà cattolica" dopo il 1870 per accorgersi come le opinioni antiunitarie non fossero disgiunte da quelle antisemite. La persistenza dell’antisemitismo, per concludere, è stato uno dei molti aspetti attraverso cui il Cattolicesimo ha espresso il suo rifiuto della modernità. Qualcosa di simile a quanto si può verificare nelle discussioni attorno ai Quaderni neri, appena pubblicati in Germania, del filonazista Heidegger. Il filosofo tedesco vi definisce infatti gli ebrei come gli "agenti della modernità" che hanno distorto e occultato le radici dell’occidente con il loro cosmopolitismo e con il loro sradicamento. Nulla di nuovo. In fondo ogni antisemitismo finisce pateticamente per assomigliarsi.
*http://www.unipd.it
spagine pensamenti
della domenica n°66 - 1 marzo 2015 - anno 3 n.0
Con gli occhi di Claudia
O
ggi ho preso in mano la matita, quella consigliata da Mari della libreriaMondadori, ma certo, la matita con l’angelo che dondola mentre tu scrivi. Già, perché “gli angeli sanno. Oltre le confessioni, sanno. Oltre le parole. Saranno le confidenze, i segreti dei comignoli, le formule magiche che danzano dai fumi dei camini all’Idume sotterraneo. Le assaltano gli angeli e ballano. Sanno gli angeli. I mesi i boschi gli olivi la pietra la libertà le nenie anarchiche gli esili. Sanno”. “Nel persempre” sa che dietro un alberello rosso di una bambina, Claudia il suo nome, c’è tutta la fantasia di Claudia ma ci sono tutti i desideri di tutti i bambini e gli adolescenti del mondo, qualunque nome abbiano, a qualunque parte dell’Universo appartengano. Per loro, per esaudire i loro desideri, si ha ancora una volta la forza di raccogliere sogni e speranze per un mondo a loro misura, di loro che hanno capito tutto; per loro si ha la forza di rimettersi in viaggio e di credere che davvero su in alto in alto si abbracciano a formare un cuore nascosto nella chioma dell’alberello rosso dei rami che si sono arrampicati fin lassù; si ha la forza di illudersi che goccioline-foglie di color rosso anche loro danno vita a fiori nuovi di primavera. Allora, allora, si mitiga l’angoscia che ti porti dentro per tutto questo sangue che continua oggi a cospargere la terra, che non fa sbocciare nessuna primavera, che invade la tua anima mentre senti la pioggia che cade incessante, continua a cadere per tutta la notte, lacrime del cielo, tu pensi e hai paura per i ciclamini, le primule e le viole e le piante e gli uccelli e le cose e gli uomini; chiedi ancora una volta aiuto alla tua matita, all’altra, alla matita-pianta che hai trovato a Città del Sole, così per caso e che in punta, non ha una gomma ma semini così che, quando matita finisce, tu la pianti e germogliano i semi e natura e anima si mettono in pace. Idea geniale degli studenti dell’Università di Cambridge, negli Stati Uniti; dà nuova vita alle matite di legno di cedro. Sono i giovani e la cul-
Il disegno di Claudia
tura a dare nuova vita alle idee ed è lei la matita che nasconde semi di timo a ricordarti i versi di Foglie d’erba ( Walt Whitman, appunto) quelli che t’eri proprio dimenticati e oggi li ripeti come litanie “Come giunse il poeta adulto,/ Lieta così la Natura parlò (il tondo globo impassibile con tutti i suoi spettacoli diurni e notturni) dicendo – Egli è mio -;/ Ma, ecco, interloquì l’Anima dell’uomo, altera, gelosa, irriducibile, - No, è tutto mio -;/ E allora il poeta adulto si fermò fra le due, e ciascuna prese per mano;/ E oggi e per sempre resta così, per fondere, unire, fermo stringendo le mani,/ Che non lascerà andare finché non abbia riconciliato le due, / Lietamente fondendole fra loro.” Lietamente fondendole tra loro e la vai a raccontare in giro questa storia e piove ma hai il tuo ombrello azzurro sulla testa, nel cuore l’alberello rosso, nell’anima i versi – foglie d’erba – e ti gusti il caffè sempre lì in via Matteotti e poi, poi riscopri che proprio di fronte a te li ritrovi tutti lescompagnons de voyages,ogni giorno un amico e una penna e non c’è due senza tre, tu pensi, e ti riconquisti quell’attimo di incredibile felicità, quella che ti tieni nascosta, come un cane nasconde il suo osso (te lo ha ricordato Roberto Benigni) e invece oggi la regali a tutti i tuoi amici di tutti i tuoi giorni e m’accompagnano touslesjoursmesstylos, compagnons pour travailler. Oggi, primo marzo ed è domenica, riprendo il mio viaggio così, ché poi l’otto marzo s’avvicina; ho una settimana di tempo davanti a me e allora, da donna, me lo regalo questo programma “Lundì, voir un film, mardìécouter un disque, mercredì lire un roman, jeudìécrire un poéme, vendredìacheter un billet, samedì ed dimanche, faire un petit voyage”. Me lo consiglia la mia penna il programma, cercare la penna in via Matteotti per credere; il mio uomo me l’ha regalata in anticipo, un briciolo di felicità in anteprima per scrivere di angeli, alberelli rossi e ancora di poesia che sconfigge lacrime di cielo e male del mondo; si tengono strette strette natura e anima così, per farsi coraggio e compagnia.
spagine
cronache culturali - cinema della domenica n°66 - 1 marzo 2015 - anno 3 n.0
La sveglia per il meridione L’immagine-logo del film documentario e il regista Paolo Pisanelli
L
Il film-documentario di Paolo Pisanelli, proiettato a Lecce, martedì 24 febbraio a sensibilità intellettuale, ambientale, di affetto e di rispetto per una città ferita, come Taranto, l’appartenenza e la coscienza di essere meridionale sono il significato del titolo del film: Buongiorno Taranto, di Paolo Pisanelli proiettato a Lecce nella sala del DB d’Essai, martedì 24 febbraio. Buongiorno ad una città vuol dire: dichiarare la propria disponibilità all’ascolto della vita e a non avere resistenza ai modi di vivere il tempo e abitare lo spazio dei cittadini in una città impegnata a non morire di inquinamento. Per Paolo Pisanelli questo non è un approccio difficile, anzi, innovativo, interessante ed equilibrato. Paolo Pisanelli si muove in un terreno semantico dove la lingua italiana e quella dialettale sono unite nel racconto della storia personale legata alla città e tutte le parole non sono bianche, vuote, ma tutte piene e misurate nell’esperienza di una terra vissuta e sentita nell’appartenenza. Il risultato migliore e sorprendente è il rapporto radio film e colonna sonora. La musica è il vocabolario più profondo e piùricco di emozioni perché la musica trasforma e fa vedere le ferite contro il paesaggio di una città di mare recate dal grande stabilimento dell’acciaio. Taranto ha perso la luce bianca ed il passaggio del giorno alla notte con l’avvento della luna rossa ha perso il fascino colpito e cancellato dalle lingue di
di Luigi Mangia*
fuoco dei camini dei forni della grande fabbrica di acciaio. La luce e l’aria non hanno più quel sapore erotico di piacere e di salsedine perché nella bocca ora si sente il sapore amaro e secco delle polveri nere delle ciminiere. Nel racconto delle donne, che negli occhi hanno il mare proibito perché inquinato, la città di Taranto è l’esempio della dittatura dell’inquinamento di quel modello di sviluppo che ha fallito perché non ha saputo promuovere il futuro e ha mancato il rispetto della terra. Lo dicono i bambini interrogati sul destino dello stabilimento Ilva se deve continuare a produrre oppure chiudere. I bambini non hanno dubbi: deve chiudere perché da grandi preferiscono essere pescatori e non malati di tumore. L’Ilva ha avvelenato l’aria, inquinato la luce con le polveri, offeso la luna, tradito e rapinato i bambini del diritto di avere una città dove vivere e giocare. Con Buongiorno Taranto rimane ancora viva la forza della lotta l’impegno di non cedere alla rassegnazione ma continuare ancora a fare la partita. Il film di Paolo Pisanelli vuole essere anche questo: Buongiorno Taranto è la sveglia per il meridione, è l’invito ad aprire gli occhi per guardare la luna rossa e avere le orecchie attente per sentire il mare. La luna e il mare parlano ancora bene di noi e della nostra terra allora buongiorno Taranto. *Responsabile Biblioteca braille A. Antonacci di Lecce
creatività
spagine
“
della domenica n°66 - 1 marzo 2015 - anno 3 n.0
La moda della città in una sola vetrina
Ascolta, non vorrei davvero cadere sul filosofico, ma vorrei dirti che se sei vivo, devi agitare le tue braccia e le tue gambe, e devi saltare parecchio attorno, devi fare un sacco di rumore, perché la vita è l’esatto opposto della morte. E quindi, come la vedo io, se sei tranquillo, non stai vivendo. Devi essere rumoroso, o almeno i tuoi pensieri devono essere rumorosi, vivaci, brillanti.” (Mel Brooks) Movimento di idee, vivacità espressiva, tanto rumore per altrettanta fame e voglia di realizzare. E’ ComeTiVeste.it, il futuro che aiuta il passato, la tutela dello slowshopping attraverso dinamiche fast. Dei giovani brillanti e preparati che miscelano sapientemente gli ingredienti necessari per un portale moda all’ avanguardia, risposta alternativa all’ ecommerce, che mira a ricreare l’ atmosfera dell’ esperienza d’ acquisto ormai dispersa in una mera scelta digitale, a smuovere ogni senso, a toccare con mano, a vedere con occhio, a sentire i profumi che ogni capo emana, senza filtri, senza schermi. Un’ esperienza diretta e emozionante, appannaggio del passato, ma con Come
Ti Veste speranza e storia del futuro. “Vite frenetiche e tempi sempre più ristretti, fanno sì che sia impossibile permettersi giornate di lunghe passeggiate per negozi alla ricerca di ciò che serve. La crisi economica, d’altro lato, ha fatto in modo che si innescasse il timore di entrare all’interno di una boutique a causa dell’incognita del prezzo“. Coniugare tempo e spazio, risparmiare tempo e ritagliarsi uno spazio… come? Il sito è vetrina digitale per i negozi di ogni città, si possono consultare i capi e i prezzi, il cliente sceglie, poi compra, fisicamente, in negozio, salvaguardando la shopping experience e rispettando il sacro tempo. I ragazzi di CTV sono sinceramente e fortemente convinti che la crisi si combatta, non si subisca. Che la moda e le ricerche di stile, non passino attraverso magazzini seriali dalla funzione di uffici smistamento postali. Che il piccolo commerciante debba essere salvaguardato attraverso l’ inserimento in database di ricerca i prodotti scattati dalle District Manager con semplicità, professionalità ed efficienza. In alternativa il negoziante può richiedere un vero e proprio shooting fotografico da rivista di moda con attrezza-
staff@cometiveste.it https://www.facebook.com/cometiveste
di Silvia Dongiovanni
tura fotografica completa e in location adeguatamente selezionate, per mano del fotografo ufficiale del sito. Professionalità, atteggiamento corretto e tanta creatività e positività. Articoli moda degni delle maggiori riviste glamour con protagonisti i capi presenti in negozio, sostegno marketing, consulenza aziendale e consigli freschi e giovani. Come giovani sono gli stilisti che Come TiVeste accompagna nel loro percorso in un settore che ha sempre barriere molto alte. Attenzione all’ originalità creativa, allo spirito e al talento. Le creazioni verranno valorizzate, così come la storia di ognuno, e personalità e unicità la faranno da padrone. C’è voglia di impegnarsi, di darsi una mano, di creare sinergie e magie uniche in percorsi dal sapore del dolce successo condiviso, dando uno schiaffo all’ opportunismo e a chi vede, e forse vuole, i giovani piangere di una realizzazione non avvenuta senza muovere un dito. Non è così! Qui i giovani si danno da fare, e non si arrendono, non partono questa volta, non abbandonano, ma creano e si ricreano.
spagine
in agenda
della domenica n°66 - 1 marzo 2015 - anno 3 n.0
“
12 parole 7 pentimenti
A Lecce dal 14 al 18 marzo, un'istallazione teatrale della compagnia svizzera Officina Orsi (fuori abbonamento) per la stagione del teatro Paisiello
Ho registrato, storie, pensieri, amori, emozioni, illusioni, inganni, fantasie erotiche, dolori, pentimenti, parole. Incontrato, a volte non conosciuto. Registrato, ma non intervistato. Di tutto questo vi rendo partecipi” così Rubidori Manshaft dell’Officina Orsi presenta 12parole _ 7pentimenti allestimento sonoro e visivo sul concetto di “parola liquida” che sarà presentato a Lecce, fuori abonamento per la Stagione Teatrale del Teatro Paisiello dal 14 al 18 marzo, l’atto accoglierà sedici spettatori ogni settanta minuti.
Alla base di 12parole7pentimenti - leggere nella nota che accompagna lo spettacolo - c’è un lavoro di ricerca che ha portato l’artista a raccogliere, dialoghi carpiti in molteplici situazioni pubbliche e private. Ore e ore di registrazioni. Un’enciclopedia di stralci di dialoghi le cui estrapolazioni andranno a raccontare delle storie. “La scelta dei temi (amore/ morte/ sesso/ denaro) é giunta solo a posteriori. Dalla costatazione che nelle migliaia di ore di registrazioni raccolte, i tempi portanti del vissuto, si riassumevano prepotentemente su queste scelte” Dal montaggio di tanti piccoli stralci nasce la traccia/tema. La drammaturgia, il racconto tematico Un ascolto singolo in cuffia, comodo e raccolto. Un ascolto privato, l’ascolto di noi stessi. Un “the end” per ogni traccia, scritto dall’autrice Roberta Dori Puddu e letti, solo questa volta, da attori.
Il titolo è un gioco che ci siamo permessi. Tra numerologia e Tradizione, intesa quest’ultima come trasmissione di memorie, notizie, testimonianze.
12 dodici_Viene considerato il più sacro tra i numeri, insieme al tre e al sette. Il dodici è in stretta relazione con il tre, poiché la sua riduzione equivale a questo numero (12 = 1+2 = 3). 7 sette Il numero sette esprime la globalità, l’universalità. Considerato fin dall’antichità un simbolo magico e religioso della perfezione, perché era legato al compiersi del ciclo lunare. E' il numero che fa da tramite fra il noto e l'ignoto, ed è il numero delle intuizioni magiche Parole_Sono quelle che compongono le tracce. Riempiono o svuotano di significati. Uniche o universali. Sono le storie, i pensieri, le emozioni. Pentimenti_Il pentimento è un ripensamento in corso d’opera che l’artista mette in atto. Solo l’originale presenta il pentimento. Il processo creativo che passa attraverso il pentimento è uno strumento fondamentale in fase di attribuzione dell’opera. Nessuna copia, nessun falso presenta rifacimenti o pentimenti. Il pentimento è la prova dell’autenticità di un gesto artistico e del gesto di vivere. Il lavoro di raccolta continua. E chiede a tutti coloro che incontreranno, partecipandovi, oppure a quelli che ne avranno sentito parlare, di lasciare una traccia. Delle loro vite delle loro visioni. Testi, storie, audio mp3, video.
su FACEBOOK: DODICIPAROLE SETTEPENTIMENTI oppure inviando via mail a 12parole7pentimenti@gmail.com canale YOUTUBE: 12parole7pentimenti
copertina
Fragile - Progetto GAP
spagine
creatività
della domenica n°66 - 1 marzo 2015 - anno 3 n.0
WE CAN BE HEROES laboratorio di fotografia con Alessia Rollo
W
e can be heroes è un laboratorio rivolto agli adolescenti tra i 15 e i 19 anni. Un invito a indagare sulla propria identità per provare a raccontarsi attraverso la fotografia fuori dagli stereotipi, utilizzando i propri codici visivi e culturali.
Gli incontri si svolgeranno nel mese di marzo in orario pomeridiano in giorni da concordare con i partecipanti. Il laboratorio è sia teorico che pratico e si concluderà con una mostra e una pubblicazione delle immagini prodotte. We can be heroes è condotto dalla fotografa Alessia Rollo nell'ambito del Progetto GAP - il territorio come galleria d'arte partecipata. La partecipazione è gratuita e aperta a tutti gli adolescenti anche senza una particolare esperienza nel campo fotografico. Alcuni incontri si terranno alle Manifatture Knos ma il laboratorio si svolgerà in vari luoghi della città. Alessia Rollo, fotografa concettuale, nel 2009 ha ottenuto un Master in "Fotografia creativa" presso la scuola EFTI a Madrid. Ha partecipato a mostre personali e collettive in Italia, Spagna e in Brasile e ha collaborato con "Media Lab Prado" nella realizzazione di Fluxstudio Performance Project, un progetto performativo in streaming che ha collegato artisti impegnati a Madrid e Salvador de Bahia. Insegna come docente nel corso avanzato su I nuovi linguaggi fotografici, che si tiene da tre anni a Lecce e ha partecipato alla residenza artistica internazionale Default. Masterclass in residence (Lecce). Recentemente è stata selezionata da "Cimetta Found" per una residenza presso il MO.ta (Museo di arte transitoria) a Lubiana. Vive e lavora tra Lecce e Madrid. www.alessiarollo.com
G.A.P. il territorio come galleria d'arte partecipata Il progetto GAP è un esteso laboratorio territoriale di sperimentazione e contaminazione dei linguaggi contemporanei dell' arte nel dialogo con il tessuto sociale e geografico di confine. Da Lecce a Santa Maria di Leuca quattro associazioni interagiscono, attraverso pratiche artistiche, con luoghi estremi, territori residuali per restituirli attivamente allo spazio pubblico e accrescere il senso di appartenenza e comunità. “Vogliamo dare all'arte il ruolo sensibile e politico di svelare e re-immaginare altre prospettive e nuove forme di relazione con il territorio di cui facciamo parte” - scrivono i curatori presentado G.A.P. E ancora:”Questo è il paesaggio che concepiamo, un paesaggio simbolico che cerca collegamenti tra uomo e mondo, nel quale arte e socialità diventano occasioni di riflessione ed interpretazione della contemporaneità, dell' umano e del collettivo, della scoperta di nuove prospettive, spazi agibili destinati ad essere vissuti in modo nuovo”. http://gapgapgap.tumblr.com/projects
Ideazione e cura / Francesca Marco Coordinamento / Gaetano Fornarelli Comunicazione istituzionale / Alessandra Lupo Comunicazione artistica / Luca Coclite Photos / Yacine Benseddik
Partecipano: Laboratorio Urbano Aperto, Ramdom, Pepe Nero, Sud Est / Manifatture Knos con la collaborazione di Big Sur, DamageGood, Fondo Verri, Cinema del reale, Officina Visioni