della domenica n°68 - 15 marzo 2015 - anno 3 n.0
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
spagine Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri
spagine
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Giustizia è sfatta
a Corte di Cassazione ha definitivamente assolto Silvio Berlusconi dai reati di prostituzione minorile e concussione, per i quali era stato condannato in primo grado e assolto in secondo; come dire: vincita, rivincita e bella, come alla briscola. Ha giustamente chiosato Antonio Polito sul Corsera di giovedì, 12 marzo: «D’altra parte l’assoluzione in sede penale non assolve certo l’allora presidente del Consiglio dalla responsabilità politica e personale di aver ospitato “atti di prostituzione” a casa sua, cosa che anche la difesa ha riconosciuto in Cassazione». Insomma di sporcaccionate si trattò e di puttane, che certo non depongono bene all’immagine di un capo del governo e, per lui, all’Italia e agli italiani. Per i cittadini basta e avanza. Ma non mi entusiasma affatto il gioco tutto italiano tra colpevolisti e innocentisti, perché, gratta-gratta, ognuno condanna e assolve per motivi che nulla hanno a che fare col merito della questione. Perciò non scendo in campo né per indignarmi dell’assoluzione, né per entusiasmarmi. Colgo un aspetto ben più grave per qualche riflessione. L’aspetto riguarda i tempi e i modi della giustizia che appare sempre più al servizio della politica; anzi, di certa politica. Si è spesso detto e dibattuto in questi anni, da Tangentopoli in poi, che la politica è stata messa sotto dalla giustizia. Ma quando mai! Neppure quando i magistrati incarceravano i politici la giustizia ha trionfato sulla politica, perché questa si è nuovamente imposta nella lotta per il potere, con una parte soccombente e con l’altra dominante. Chi ha beneficiato di Mani Pulite, tanto per capirci?
Berlusconi, che certo non ha fatto giustizia, ma politica e affari; e le mani non se l’è mai lavate. Di qui l’utopia della giustizia di continuare a voler fermare l’acqua con le mani (metafora di Bersani), finendo per dimostrare una cosa sola: la sua sostanziale subalternità alla politica. Ma torniamo a Berlusconi. Agatha Christie diceva che un indizio è un indizio, due indizi sono due indizi, tre indizi sono una prova. Ora il primo indizio del rapporto giustizia-politica è la condanna in primo grado del Cavaliere. Questa arrivò in un momento particolarmente caldo dello scontro politico, quando Berlusconi andava eliminato, fatto decadere e umiliato con l’affido ai servizi sociali. Per carità di Dio! Servire dei bisognosi e dei sofferenti è importante ed è tra i gesti più cristiani che si possano compiere; ma qui stiamo parlando di politica e quella di Berlusconi fu comunque una pena, dall’opinione pubblica percepita come un affronto alla sua dignità. Secondo indizio: l’assoluzione in appello arrivò in stagione nazarena, quando Berlusconi serviva al nuovo corso politico, quello renziano, per fare delle riforme sulle quali una parte del Pd non sarebbe stata d’accordo. Della serie che del “porco” non si butta niente. Berlusconi era pronto alla causa, doveva surrogare i voti dei pieddini, detti anche dem, contrari a quelle riforme. Il patto del Nazareno è filato liscio, l’Italicum (leggi riforma elettorale) è sfrecciato come l’Italo (leggi treno) e tutto si è svolto secondo patti. Poi Renzi si è preso lo sfizio di stravincere con l’elezione di un presidente della repubblica che non stava né in cielo né in terra, ma sicuramente stava nei desiderata di chi voleva guastare quel patto allo
di Gigi Montonato
scopo di recuperare un ruolo di insostituibilità. Gli abbracci della Rosi Bindi a Renzi la dicono tutta. Terzo indizio e perciò prova: l’assoluzione definitiva in cassazione cade in un momento in cui il centrosinistra ha bisogno di minare, più di quanto non lo sia già di suo, il campo del centrodestra. Quale migliore occasione per restituire alla discordia un personaggio che si può colpire in qualsiasi momento e che ora impedisce al centrodestra di riprendere il filo di un discorso serio di ricostruzione? Ed ecco il rinverginamento, sia pure provvisorio e strumentale di Berlusconi. Fa i conti senza l’oste Giovanni Sabbatucci, che sul Messaggero del 12 marzo scrive: «L’esito del processo Ruby ter più rilanciarlo come leader nazionale, sembra offrirgli l’occasione doverosa per scegliere più serenamente una uscita di scena da “padre nobile”, già da lui evocata in passato, in momenti meno tempestosi». Ma Berlusconi è di tutt’altro avviso e ha già fatto sapere che si sta preparando al rilancio. La conseguenza è che per Alfano, se mai avesse avuto intenzione di rientrare, per Fitto e per Salvini campa cavallo, Berlusconi è lì, a pie’ fermo a danzar nel sanguinoso ballo di Marte, come disse Ettore ad Aiace prima del duello, interrotto poi dal sopraggiungere delle tenebre. Berlusconi ora dentro il centrodestra è più forte e meno ricattabile; fuori del centrodestra è un altro discorso. La vicenda berlusconiana, di cui si intravedono timidi avvii revisionistici – la sua storia non può ridursi alle sue stravaganze, dice oggi più di uno – è la chiara prova che in Italia la giustizia, sia quando condanna, sia quando assolve, segue i bisogni della politica che è al potere. Non solo per Berlu-
diario politico
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sconi – intendiamoci – ma per qualsiasi altra questione e per qualsiasi altro personaggio, che può costituire motivo di scelte e di svolte. Oggi, con Berlusconi insediato nuovamente al vertice del suo partito, il centrodestra, che ha impellente necessità di rinnovarsi e di riavviare un percorso di credibilità, deve fermarsi e fare i conti con questo “cadavere” buttato
A
tra i piedi, deve tornare indietro come al gioco dell’oca. Il problema non è tanto dei politici – di Verdini, di Alfano, di Fitto, di Salvini, i quali già si sono adeguati alla bisogna – ma dei cittadini che si riconoscono nel centrodestra. Essi si trovano oggi, salvo che non si voglia fare come gli ultras di una squadra di calcio, a non avere l’opportunità di esprimere un
voto convinto e positivo per la propria parte politica nelle prossime competizioni. Se è vero che Forza Italia ricompattata su Berlusconi non è credibile, è un film visto già tante volte, è altrettanto vero che nessuna delle sue frange è di per sé più credibile. Allora delle due l’una: o votare in apnea o restarsene a casa.
poesia
desso non posso, ho da fare, non posso fare il cucito, fare la cena, lavare i pavimenti, dare amore, abbracciare, adesso non posso, devo cercarmi, trovare le parole, devo trovare di nuovo la nascita, la grazia, il presente, semplice come un fiore, devo ritrovare la pioggia dentro di me dove io pure rido, adesso non posso, ho da fare, devo farmi terra, minerale, devo farmi ulivo che non muore. Stefania De Dominicis
Gli epici fallimenti di Gianluca Buonanno spagine
M
entre al di là del Po infuria la lotta tra il segretario Salvini e il sindaco di Verona Fabio Tosi, Gianluca Buonanno, eurodeputato leghista, si è messo in testa di combattere l’Isis da solo e ha preso il primo volo per raggiungere la Libia. Prima della partenza, il Nostro ha rilasciato un’intervista a “Il Giornale” in cui dichiarava di recarsi in Libia oltre che per far vedere che lui, al contrario di altri, le palle ce l’ha davvero, anche per portare il suo conforto agli italiani che lavorano laggiù. Aggiungendo, inoltre, che nel caso rimanesse vittima di un sequestro, preferirebbe che non si sprecassero dei soldi pubblici per il pagamento del riscatto. Autorità italiane avvertite! Buonanno non è certamente nuovo a iniziative sopra le righe, già come sindaco di Varallo, un comune di 7000 anime della Valsesia, si era distinto per azioni eclatanti come la dieta a premi, sponsorizzata dalla sua amministrazione, che prevedeva un incentivo in denaro per chi fosse riuscito a far abbassare la lancetta della bilancia; oppure, lo sconto del 50% per l’acquisto del viagra per gli italiani, e profilattici gratuiti agli extracomunitari; il divieto, tramite ordinanza, di indossare il burka nel paese; l’introduzione del bonus caffè + un gratta e vinci in regalo per stemperare la rabbia di quanti avessero ricevuto una multa per le strade di Varallo; la "geniale" idea di posizionare in ogni angolo di strada delle sagome di cartone raffiguranti i vigili, utilizzate come deterrente per le infrazioni al codice della strada. E poi, le strade dedicate a personaggi come Benito Mussolini, Giorgio Almirante e… Lucignolo, il riferimento è alla nota trasmissione trash-televisiva, mica al personaggio di Collodi! Ma è nella veste di deputato della Lega Nord che Buonanno riesce a fare ancora meglio, insidiando nella speciale classifica del “Leghista più pirla” personaggi della caratura di Borghezzio, Gentilini o Calderoli. Quest’ultimo, ad esempio, per confermare quanto di meglio è stato raccontato sul suo conto in decenni di "onorata" attività politica, la scorsa estate ha tenuto banco, sui principali quotidiani nazionali, con la storia della macumba che gli
derive
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avrebbe fatto il padre della ex ministra Kyenge come vendetta per aver epitetato la figlia “orango”. Calderoli dichiarava che a causa della macumba di Mr. Kyenge negli ultimi mesi era stato sei volte in sala operatoria, due in rianimazione, una in terapia intensiva, gli era morta la mamma, si era rotto due vertebre e due dita in un incidente e, per ultimo, aveva trovato un serpente lungo 2 metri nella cucina della sua abitazione. Calderoli appariva in una foto postata su Facebook fortemente dimagrito ed emaciato con in mano un bastone da cui penzolava, ferale, il lungo serpente; nel post in basso scongiurava Mr Kyenge di toglierli la macumba, ché aveva capito i suoi sbagli e per questo si era pentito. Per amor di cronaca, c’è da sottolineare il commento al post di un tale che si augurava che la macumba di Mr Kyenge potesse abbattersi con tutta la sua forza non solo su Calderoli, ma sull’intera classe politica nostrana. Il nostro Buonanno da deputato si dipinge il volto di nero per protesta contro la ministra Kyenge; un giorno decide di portare a spasso tra i banchi di Montecitorio una spigola; si fa beccare dai fotografi mentre gioca con le bolle di sapone durante una seduta parlamentare, fino a scegliere di mettere alla prova il suo innato ingegno con la Logica e il sillogismo ipotetico, allo scopo di dimostrare anapoditticamente, e una volta per tutte, la fondamentale questione dell’esistenza della Padania. Intervistato nella peggiore trasmissione radiofonica degli ultimi dieci anni, La Zanzara di Radio 24, condotta da due disgustosi sciroccati, Buonanno sale in cattedra e prendendo in prestito il noto sillogismo di Crisippo, anche conosciuto del “modus ponendo ponens”- “se A, allora B; ma A; quindi B”- afferma senza ombra di dubbio che la Padania esiste in quanto esiste il Grana Padano! Sillogisticamente: se esiste il Grana Padano, allora esiste la Padania; ma esiste il Grana Padano, quindi esiste la Padania. Sillogisticamente! Negli anni, inoltre, si è anche fatto apprezzare per il profondo rispetto che nutre verso gay e rom: fosse per lui schederebbe tutti gli omosessuali e nella malaugurata ipotesi di trovarsi di fronte alla richiesta di celebrare le nozze di due appartenenti allo stesso sesso, bhe… lui
di Alessandro Vincenti
consiglierebbe alla coppia un benefico TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) come alternativa al matrimonio, non prima di aver loro regalato una beneaugurante banana o un’insalata di finocchi. A scelta. I rom, invece, per Buonanno sono da assimilare, senza troppi giri di parole, alla feccia. "Sono la feccia della società” ha di recente affermato in una trasmissione televisiva, sfiorando così una delle vette del suo mirabile pensiero. Con questo invidiabile background, Buonanno all’inizio di marzo decide che è arrivato il momento di fare qualcosa di utile per le sorti geopolitiche del Mediterraneo : partire per la Libia e diventare il primo politico europeo ad entrare nel Paese africano del post-Gheddafi. Non c’è che dire: un’iniziativa lodevole e, soprattutto, molto apprezzata dal suo stesso partito, talmente apprezzata che Salvini… non ne ha mai fatto cenno, neppure per sbaglio, nelle centinaia di interviste che rilascia ad ogni ora del giorno e della notte. Eppure Buonanno prima di partire si era anche fatto confezionare una felpa, simile a quelle indossate dal suo Segretario con tanto di scritta BUONANNO sulla parte davanti, come segno, forse, di appartenenza e di condivisione, se non proprio del programma, quanto meno del terribile look di Salvini. Il pericoloso viaggio prevedeva come prima tappa l’ingresso in Egitto, da lì l’entrata in Libia sarebbe stata garantita da mezzi blindanti. Buonanno racconta tramite Twitter la sua incredibile avventura: posta foto in cui è ritratto mentre imbraccia un kalashnikov, un’altra mentre si trova con il Ministro libanese degli Esteri Al Shgayar Hassan e un’altra ancora in cui orgogliosamente sostiene con le braccia aperte una bella bandiera della Lega Nord, intorno a lui delle strade polverose e muri semidistrutti su cui appaiono delle inquietanti scritte in arabo. E siccome la gaffe per il povero Buonanno è sempre dietro l'angolo, sui social network lo scrittore Tahar Lamri fa subito notare che le scritte in arabo che appaiono nella foto starebbero a significare: 1)"Non buttate i vostri rifiuti qui per favore!"; 2) "Questo non è un bidone dell'immondizia. Non lasciate i vostri rifiuti qui!" . Caro Gianluca, a quanto pare neppure in Libia ti vogliono!
da Vincenzo Capraro
Ora et labora
Op.cit.
(dalla dissolutezza in s첫) aprile 2013
Nell’ascolto spagine
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QUARTO E QUINTO POTERE
correndo da un canale televisivo all’altro la sera, è un susseguirsi di trasmissioni politiche, talk show, in cui a dominare sono sempre più spesso l’insulto, l’offesa gratuita, le liti furibonde fra vari esponenti politici oppure fra questi e gli opinionisti presenti in studio. I toni si accendono, l’atmosfera si surriscalda e lo studio televisivo si trasforma nell’arena o nel ring di pugilato, a tutto vantaggio dei disincantati spettatori i quali non aspettano altro che di vedere quante se ne daranno. Si cerca la polemica a tutti i costi, per un calcolata strategia di “marketing” televisivo, perché, se l’audience sale, anche gli introiti pubblicitari saliranno e tutti, in diversa misura, ci guadagneranno: il conduttore, l’editore e gli ospiti cafoni e urlanti. Oggi va di moda il giornalismo d’attacco, quello gridato, aggressivo, feroce nei confronti del sistema di potere. La regola è attaccare la classe dirigente, di qualsiasi colore politico essa sia, e gridare forte, sparare nel mucchio. Vi è una gara, fra i giornalisti d’assalto, a chi mitraglia più forte, una lotta, fra gli anchormen, per accaparrarsi un punto di share in più negli ascolti. D’altro canto, col fatto che l’offerta informativa mediatica si è moltiplicata all’inverosimile, bisogna inventarsene di ogni, per sopravvivere. Il giornalismo d’inchiesta dunque alimenta polemiche e costruisce scoop, veri o falsi che siano, per sostenere la tesi del “sono tutti ladri”, del “devono andare tutti a casa” e del “vaffanculo” già sdoganato dal Grillo pentastellato. Tutti a scarruffarsi per arrivare primi sulla notizia, spalare letame per rivelare le magagne, schiavardare gli armadi per tirare fuori gli scheletri, scalmanarsi per dimostrare “di che lacrime grondi e di che sangue” il potere.
H
PRIVILEGI (?)
pensamenti
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a iniziato Papa Francesco, con la sua impresentabile Ford Fiesta e con la borsa di pelle. Ad onta del Cardinal Bertone e del suo superattico ( e le feste a base di tartufi e shampagne che vi tiene!). E dopo il Papa low profile, ecco il Presidente della Repubblica low profile. Mattarella gira in Panda, prende il volo di linea per andare a Palermo, usa il treno Frecciargento per andare a Firenze e addirittura il tram per spostarsi a Scandicci, accompagnato da un sorridente Dario Nardella ( a proposito, avete notato la somiglianza impressionante fra il Sindaco di Firenze e quello spilungone di “Gianfi” della sit-com di Canale 5 degli anni Ottanta “I cinque del quinto piano”? Secondo me, è il suo figlio segreto). Maledetto populismo e dannata demagogia! Qualcuno vuole ricordare a Bergoglio che è il Sommo Pontefice, cioè un sovrano, un regnante, il capo della cristianità mondiale? E qualcuno vuole ricordare a Sergio Mattarella che è il Capo dello Stato, cioè la massima carica istituzionale in Italia? Privarsi del complesso ma significativo rituale che accompagna una carica così importante non vuol dire necessariamente far risparmiare denaro, ma assecondare gli umori della gente, aizzata dal Movimento Cinque Stelle e dai vari tribuni televisivi. Ciò è becero, oltre che stucchevole, è una mancanza di rispetto per l’istituzione che si rappresenta. In certi casi, infatti, la forma è sostanza. Non si può proprio vedere un Presidente della Repubblica seduto sulla poltroncina di un tranvai. Mario Ajello, sul Messaggero del 25 febbario 2015, scrive che “la sobrietà di Mattarella ha ascendenze cristiane e francescane e guai a banalizzarla come risposta al grillismo”. Beh, sarò banale, ma credo che proprio questo stia facendo Sergio “brizzolo” Mattarella. Presidente, lasci perdere Gilletti, Del Debbio, Paragone e gli altri guitti del populismo mediatico, e riprenda l’auto blu e i voli di Stato. Questi non sono privilegi.
P
di Paolo Vincenti
FRA PONTIDA E BERLINO
rima era “Roma ladrona”, adesso è la “Troika”. I cavalli di battaglia cambiano ma non la sua politica, che rimane sempre la stessa. La Lega Nord, come un’araba fenice sembra risorgere dalle sue stesse ceneri , e sfruttando il malcontento e la rabbia della gente comune, prima se la prendeva con i meridionali “terroni”, ora invece con gli immigrati clandestini (ma anche con gli immigrati tout court) e con le politiche comunitarie sulle migrazioni. Matteo Salvini, leader della Lega Nord, nella sua “crociata” contro l’Europa e nei ripetuti attacchi al Parlamento Europeo (del quale fa parte e dal quale percepisce lauto stipendio da anni), sembra essere affezionato alla storia. Nel Medioevo, la Lega Lombarda infatti, nata dall’unione dei comuni di Veneto e Lombardia nel 1167, si batteva contro l’Imperatore tedesco Federico Barbarossa che voleva imporre la sua influenza su tutto il territorio italiano. Analoga situazione viene denunciata da Salvini quando si scaglia contro lo strapotere della Germania e contro un’Europa che corre a due velocità ed eccessivamente “germanocentrica”. La Cancelliera Merkel, a dire del leader lumbàrd, vorrebbe dettare legge, rendendo gli italiani vassalli, tributari, servi sciocchi, sudditi, ecc., del teutonico. La rivolta dei Comuni settentrionali contro il Barbarossa, come sappiamo bene, ebbe la sua epica conclusione nella famosa battaglia di Legnano del 1176, che si concluse con la Pace di Costanza, pattuita fra le forze italiane, appoggiate anche dal Papa, e lo svevo Federico. Come terminerà il duro scontro fra i ribelli leghisti e la Troika? Abbracceranno le armi, Salvini and company, e si scontreranno con i vertici dell’eurocrazia tedesca, magari a metà strada, in Svizzera? E resteranno neutrali, i pacifici e disciplinati svizzeri, fra banche e fabbriche di cioccolata? Oppure, vedendo messe a ferro e fuoco le ordinatissime aiuole, si incazzeranno anche loro e parteggeranno per una delle due forze in campo? Mistero della fantapolitica.
spagine
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L’abecedario di Gianluca Costantini e Volevano tagliarmi la terra con un tubo IO me la sono tenuta intera quella terra di periferia come traccia di una storia non tutta mia. Oggi traduco ogni tormento in torba
Maira Marzioni
e trattore, cosĂŹ tengo unita l'uva con l'umore, l'umano troppo umano con l'ulivo tengo vigile il tremore L'universo vivo.
spagine
A
La storia riposa negli archivi?
Lettera aperta, con inchino chapeau e le rose, ad Ada Donno
da, ho letto e riletto il tuo L’archivio di Rosetta o del riprendersi la Storia (racconto introduzione a A nuda voce di Elio Coriano, Musicaos: ed, 2014). Non sono venuto a capo di questo dilemma: è una biografia, o un saggio di storia locale? Leggendo però, andavo maturando una sensazione che alla fine si è trasmutata in certezza (per me). Quello che ho letto, è un bell’esempio di letteratura. Mi fingo ingenuo, qualche volta, non per affettazione, ma per pronunciare domande e giudizi ingenui. Come se fossi venuto al mondo l’altro ieri (purtroppo non è così). E potessi ignorare (sono un vagnone!), molte delle cose (letterarie e di critica, in questo caso) prodotte prima che io fossi al mondo per emettere un giudizio. Un vagnone, poiché ignora molte cose, non è legittimato a parlare? Non lo credo. Può dare un giudizio, eccome. Un giudizio di vagnone. Anzi, è bene che dia un giudizio. E che poi continui. Così, di giudizio in giudizio, magari un giorno arriverà a dire giudizi retoricamente (nel senso più nobile) fondati. Cioè, convincenti per la forza delle parole. Io, vagnone nell’anima (all’anima del vagnone), sono in questa fase, della ricerca della maturità del giudizio. Intanto, abbandono la chimera della maturità e, con ingenuità intera e non affettata, dico: L’archivio di Rosetta è bello ed è una carezza al cuore e alla mente. È pieno di commozione, la tua, ed è commovente. Ora, però, passato il giudizio delle mele, tento di dire qualcosa di retoricamente convincente. Nel primo rigo del tuo racconto, c’è già la tua dichiarazione programmatica: la curiosità cauta. Programmatica e di metodo. Consentimi intanto una digressione, che non è campata in aria, credo, sul genere Biografia. Con questo genere, non ho un buon rapporto. Spesso, ho ricevuto cocenti delusioni. Ti porto tre esempi (in anni recenti): una biografia di Jacques
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Prevert, una di Glenn Gould, la biografia di Samuel Beckett (qui il determinativo è d’obbligo, perché è considerata tale). Al di là della qualità letteraria (a mio giudizio: assente nel primo esempio, così e così nel secondo, migliore nel terzo), questi tre esempi avevano un difetto comune: erane dei grossi tomi, dei tomoni. Lo spirito in comune ai tre biografi in questione credo che fosse l’accumulo forsennato di particolari e aneddoti sulle vite dei loro argomenti. Qando ero vagnone per davvero, sentivo l’obbligo morale di portare comunque a termine la lettura di un libro che non mi piaceva molto. Con la giovinezza è anche volato via quel grado di masochismo che mi imponeva di restare. Ora pratico l’abbandono del libro e sono un abbandonista convinto. Voglio dire, non amo i biografi che aspirano a raccontare (lo dico con l’efficacia lapidaria e senza eleganza del nostro idioma natio) tutti li pili. La qualità prima di un biografo, e forse anche di uno storico (ma non voglio spingermi in territori a me del tutto sconosciuti) è di selezionare il grano dal loglio. Chi è disposto a mangiare un pane di loglio? Forse in tempi di estrema carestia, non ora ancora. Biografi ipertrofici, quelli. Come se tutti fossero nipoti di Saint Beuve (il nonno era più bravo). Piuttosto, tra i prerequisiti per il mestiere di biografo, io propongo di mettere Contro Saint Beuve di Proust. Il quale invitava, nelle disamine critiche, a non rovistare troppo (alla ricerca di particolari di vita che illuminassero l’opera) nelle vite degli esaminati. Ma anche nelle biografie, aggiungo io (minor). Se pensi che la Recherche sia più che una maratona (io dico, un giro del mondo a piedi) quel libello è una passeggiata nei dintorni (per onestà, dico che il libello l’ho letto; Saint Beuve e il resto di Proust, li ho solo saggiati). Ti indico due biografie che ho apprezzato: una è quella di Charles Bukowski di Howard Sounes (che si intitola Bukowski) , l’altra è Vita di Samuel Johnson di Manganelli. Due libri smilzi. Efficaci nel fornire qualche idea dei personaggi letterari in questione. Eh,
di Massimo Grecuccio
si, personaggi. Creature che non vivono più. O, meglio, che vivono ormai solo nella fantasia, o nel regno delle anime. Ritratti di creature. Il ritratto è la persona? Il ritratto è piatto. La persona che l’ha ispirato aveva anche la profondità (perdona la presunzione: Monsieur De Lapalisse, al mio confronto è un pivello). Non si tratta di vita vera. Quella, forse, è nel presente, e tra un attimo di certo non c’è più. Attimo, fermati! Ma dove, quello è già scappato. E chi lo riacciuffa? Tutti li pili tu non li dai. Il tuo racconto ha all’origine (parole tue) “un fascicolo di carte un po’ sparigliate e sgualcite”. “Una cartelletta verdina”, che tu hai chiamato “L’archivio di Rosetta”. Non quantità copiose (di dati, d’informazioni, di aneddoti), da cui ricavare il racconto di una vita e di una stagione lunga della nostra terra (dal fascismo fino all’estrema propaggine degli anni sessanta del secolo scorso). No, “ricordi”, stralci di racconti, lacerti di parole un tempo vive (pronunciate in assemblee del sindacato o del partito), appuntate su fogli tipo protocollo. Non propriamento un archivio. Orme, che hai identificato; tracce, che hai visto; frammenti che hai ricomposto in una qualche forma intera. E che tu, con la pazienza e la scienza dell’archeologa, più che della storica, hai prima elevato al rango di archivio e poi hai trasfuso, con l’arte della scrittrice, in un racconto che è biografia, storia e letteratura. Tutti li pili non li avresti detti neanche se avessi avuto non “una cartelletta verdina”, ma più e più faldoni di cartellette. Le muse che ti hanno assistito nell’impresa sono: la Musa curiosità cauta, la Musa garbo, la Musa sto con i vinti ma vedo anche i vincitori. E queste muse non sono molto ciarliere. Anzi, sono piuttosto riservate. La biografia di Rosetta, la sua caparbia aspirazione alla realizzazione personale attraverso la ricerca della dignità (per sé, per le donne, per tutti), è diventata esemplare attraverso la tua penna. Questo racconto, in cui la fedeltà al vero storico (il saggio storico) e la fedeltà al vero in-
dividuale (la biografia) sono intrecciati, non è altro che l’ennesimo racconto sulla ricerca della dignità. Un racconto con questo tema non può mai essere il racconto definitivo, non può mai essere l’ultimo racconto. Un racconto con questo argomento e con il sigillo definitivo, dovrebbe avere come sottotitolo: La scomparsa della razza umana dalla terra. La ricerca della dignità intera non ha mai termine, e chi sente, come tu hai sentito, l’obbligo morale di perpetuarla con il racconto acquista, ai miei, occhi, un’aura speciale. Dignità, dunque, è la parola chiave della tua narrazione. Io dico: nella forma e nella sostanza. Nella vicenda biografica (la sostanza) e nella maniera di raccontarla (la forma), il racconto della ricerca della dignità diventa la dignità del racconto. La tua attenzione cauta, il tuo metodo, la tua forma mentis, questo a me dicono: la dignità è il racconto. Bella l’idea di disseminare, nel racconto, le molliche di Pollicino delle parole di Rosetta. “Certo furono le sofferenze che ci fecero unire nella lotta”. Parole semplici, sostanziate di vita vissuta, memorabili. Con che garbo, e con quanta discrezione, scrivi del ruolo subalterno, imposto e subito, delle donne nella Storia e nel racconto della Storia. Ruolo contro cui ha lottato, con coraggio e determinazione, Rosetta. Qualità, che tu nel racconto fai emergere (senza bisogno di dirlo esplicitamente) come eminente-
mente morali, perché utilizzate a scopi sociali. Qualità, che hanno permesso a Rosetta di scavalcare lo svantaggio della sua condizione di vinta quasi analfabeta. L’occhio della storica è umanissimo. Chiede che si veda, dietro la subalternità delle donne, il ruolo che hanno avuto altre donne, sempre subalterne, ma serve con vantaggio dei capi uomini. Chiede che si veda, dietro le realizzazione (che sono il visibile) degli amministratori locali, lo spunto del singolo cittadino (l’invisibile). La sensibilità e le qualità della scrittrice sono grandi. La fedeltà al vero storico non ha bisogno di diffondere più particolari dei necessari. Non è reticenza. È l’esatta percezione, raccontata con parole esatte (un misto di precisione e discrezione), che non è necessario profanare spazi privati per raccogliere notizie che non hanno rilevanza storica. Ada, voglio dirti, inoltre, una mia sensazione sulla tua maniera di raccontare (che hai mostrato ne L’archivio di Rosetta). Tu hai fiducia nell’intelligenza del lettore, questo mi sembra. Lasci che anche lui, se vuole, faccia la sua parte. Lo lasci, cioè, con un poco di fame. E questo, per me, è un dono bellissimo. Quando leggo un racconto (e per me un racconto può essere anche un saggio), non chiedo la sazietà, chiedo l’acquolina in bocca. La storia riposa negli archivi (quando ci
sono). Finché non arriva una storica, che è anche scrittrice, che, come la principessa delle favole (la favola qui è capovolta), con un bacio la sveglia dal letargo. Lei, la Storia, ritorna tra noi. La sua nuova veste, di una bellezza che non passa inosservata, ci dice che il tempo fugge e accumula dolorose estinzioni. I residui delle quali sono ancora tra noi. Frammenti opacizzati, che dobbiamo prima raccogliere e strofinare (perché siano di nuovo lustri); e, dopo, tentare di ricomporre in una qualche forma possibile. Perché non cadano nel buio della Storia, e continuino a essere visibili. Punte fondamentali dell’umano nelle nostre esistenze ancora in corso. Ada, prima di salutarti ti chiedo di trovare il tempo (in giornata) di passare dal Fondo Verri. Ho lasciato a Mauro alcune rose per te. Con ammirazione. Massimo Grecuccio
P.S. La tua Rosetta fa il paio con un bel film di un po’ di anni fa dei fratelli Dardenne, che si intitolava Rosetta. Anche lì una donna, giovane in quel caso, che cerca caparbiamente, partendo da una situazione di svantaggio, la dignità nel lavoro. Più cupa, quella vicenda, perché senza il conforto del sentirsi parte di organismi sociali come erano stati per la tua Rosetta il sindacato e il partito.
L spagine
unedi 16 febbraio la Giunta regionale pugliese ha approvato il Piano paesaggistico territoriale regionale (Pptr). Sull'importanza e il significato di questo evento il giornalista Gabriele Invernizzi ha intervistato Angela Barbanente, vicepresidente della Regione e assessore all'Assetto del territorio. Gabriele. giornalista di lungo corso, per molto tempo a L’Espresso, è un amico “innamorato” del Salento, in particolare di Cisternino. Con il locale comitato si batte contro la diabolica scelta degli amministratori di violentare il territorio con una strada assolutamente inutile, la cosiddetta “Strada Dei Colli”. Dello scempio ci eravamo occupati in tre occasioni:
art. uno art. 2 art. 3. L’intervista all’assessore Barbanente è di estrema attualità anche per il Salento leccese dove altre scelte amministrative sembrano cozzare con il buon senso. Parliamo di TAP, della sciagura chiamata Strada 275 con la quale si vogliono decimare gli ulivi, parliamo delle scelte di irrorare con pesticidi chimici altamente tossici il territorio, le campagne e i paesi del basso Salento con l’alibi della xylella. Insomma, ringraziamo Gabriele per questo prezioso contributo.
Un Piano per salvare la Puglia “bene comune”
Gianni Ferraris
di Gabriele Invernizzi
Signora Barbanente, può spiegarci in dalle politiche di tutela e salvaguardia delpoche parole che cos'è un Pptr? l'ambiente e del paesaggio; al settore turismo, per il quale si prefigurava un rilancio E' un piano paesaggistico finalizzato alla incentrato su tutela dell'ambiente, valorizconoscenza, tutela, valorizzazione e riqua- zazione del patrimonio culturale e integralificazione del paesaggio, approvato in at- zione nell'area del Mediterraneo. Intanto in tuazione del Codice dei beni culturali e del Puglia è cresciuta la consapevolezza colpaesaggio del 2004 e conforme alla Co- lettiva della gravità dei problemi ambientali venzione europea del paesaggio adottata prodotti dalla politica dei poli industriali proa Firenze nel 2000 e ratificata dal Parla- mossa dalla Cassa per il Mezzogiorno, mento italiano nel 2006. con l'Ilva di Taranto o la centrale a carbone di Cerano, insieme al dissesto idrogeoloTutte le regioni italiane devono dotarsi gico e all'erosione costiera provocati dalla di questo strumento di governo del ter- urbanizzazione selvaggia dei versanti, ritorio, ma la sola Puglia per ora l'ha delle aree naturali, dei litorali e dei corsi fatto. Tanto zelo si spiega soltanto con d'acqua superficiali e sotterranei. una particolare sensibilità della giunta Vendola oppure cela anche un'urgenza E' dunque evidente che il Pptr avrà un dettata dalla gravità dei problemi del forte impatto sul piano economico. A territorio pugliese? quali modelli di sviluppo vi siete ispirati? C'erano entrambe le ragioni. Già nel presentare il programma di governo, nel giu- A modelli autosostenibili e durevoli che gno 2005, il presidente Vendola aveva fondano le prospettive di sviluppo sulla parlato di un nuovo ciclo di sviluppo attra- salvaguardia e la valorizzazione del patriverso la valorizzazione delle risorse mate- monio territoriale e paesaggistico, inteso riali e immateriali, costituite da donne, quale bene collettivo prodotto nei tempi uomini, giovani e dai beni ambientali e cul- lunghi della storia e nel quale si intrecciano turali del territorio. Il nuovo ciclo doveva in- indissolubilmente natura e cultura, risorse vestire tutti i settori produttivi: dal settore materiali e immateriali, compresa la sfera agricolo, che prevedeva un modello di svi- sociale e culturale e la capacità dei sogluppo basato non solo su una maggiore e getti di attivarsi e autoganizzarsi. migliore produzione ma soprattutto sulla capacità di cogliere le opportunità offerte Le ho fatto questa domanda pensando
a quanto accade in Val d'Itria, dove un gioiello paesaggistico come i Colli di Cisternino è minacciato dall'insensato progetto di farci passare una nuova strada: ancora asfalto e cemento, e in prospettiva nuove case “a schiera”, alberghi e magari campi da golf e tutto quanto va insieme alla solita speculazione edilizia. Il vostro Pptr rappresenterà un baluardo capace di allontanare queste minacce?
Il Pptr è stato concepito proprio per evitare tali minacce agendo su un doppio fronte. Un fronte è la tutela, appunto, dei “gioielli paesaggistici” come i Colli di Cisternino che vengono descritti nell'Atlante del patrimonio e nelle Schede d'ambito molto più accuratamente di quanto faceva il vecchio Piano paesaggistico. Il secondo fronte è quello delle scenario strategico, prima del tutto assente, che assume i valori patrimoniali del paesaggio pugliese e li traduce in obiettivi di trasformazione per contrastare le tendenze di degrado e costruire le precondizioni di forme di sviluppo locale socioeconomico autosostenibile mediante progetti territoriali regionali, linee guida, progetti integrati.
La lotta contro questa famigerata Strada dei Colli ha dato per la prima volta una voce a migliaia di cittadini, dai giovani ai vecchi agricoltori, che
territorio
della domenica n°68 - 15 marzo 2015 - anno 3 n.0
Intervista a Angela Barbanente vicepresidente della Regione Puglia
non si limitano a dire “no!” e chiedono progetti di sviluppo alternativi, dall'agricoltura biologica al turismo sostenibile, dai parchi naturali al paesaggio come “bene comune”. Nel vostro Pptr vi è traccia di tutto questo?
dei pasaggi costieri. Cinque, i Sistemi Ter- vendo forme di coprogettazione locale per ritoriali per la fruizione dei beni culturali e sviluppare la coscienza di luogo e la cura del territorio... paesaggistici...
Peccato che la vostra giunta si avvicini alla fine del mandato... Ma il Pptr risulterà vincolante anche per i nuovi goIl Pptr, nel suo Scenario strategico, com- verni? prende cinque progetti territorali che, supportati anche da coerenti programmi di Finchè resterà in vigore così come è stato finanziamento, intercettano tutti i progetti approvato, certo che risulterà vincolante. di sviluppo come quelli che vengono ri- Ovviamente un piano può sempre essere chiesti dai cittadini di Cisternino che si op- cambiato... Ma difendere questo Pptr non pongono alla Strada dei Colli. spetta solo alla Regione, ma anche a tutti coloro che ne condividono la visione e la Ci può descrivere questi cinque pro- strategia. Per renderlo ancora più profongetti? damente patrimonio comune e garantirne un'attuazione efficace, occorrerà bilanUno è la Rete Ecologica Regionale, per ciare sapientemente l'applicazione delle rafforzare le relazioni con le politiche di norme volte alla regolazione e al controllo conservazione della natura e tutela della delle trasfiormazioni, con l'uso degli strubiodiversità. Due, il Sistema Infrastruttu- menti volti a promuovere la qualità del rale per la Mobilità Dolce, per rendere frui- paesaggio e la valorizzazione dei patribili i paesaggi regionali sia per gli abitanti moni identitari della Puglia attraverso gli che per il turismo escursionistico, enoga- strumenti della produzione sociale del stronomico, culturale e ambientale, grazie paesaggio... a una rete integrata di mobilità ciclopedonale, ferroviaria e marittima che recupera Come? strade panoramiche, sentieri, tratturi, ferrovie minori, stazioni, attracchi portuali. Dando impulso alla progettualità locale... Tre, il Patto Città-Campagna per rafforzare Incentivando l'uso degli strumenti di demole funzioni pregiate delle aree rurali e ri- crazia partecipativa per la comunicazione qualificare i margini urbani. Quattro, la Va- sociale e l'arricchimento delle conoscenze lorizzazione e Riqualificazione integrata sul patrimonio paesaggistico... Promuo-
Ha visto che cosa è successo in Toscana? Lì il Pptr non è stato ancora approvato e già il Pd, che pure è al governo della regione, ha proposto un maxiemendamento per trasformare le sue direttive “vincolanti” in semplici “indirizzi”. Anche il Pptr pugliese va incontro a rischi del genere?
Il nostro Piano ormai è stato approvato e quindi non vi è un rischio di maxiemendamento. Tuttavia anche noi abbiamo attraversato momenti di vivace contraddittorio sul sistema delle tutele, degenerato in aspra polemica nei giorni immediatamente successivi all'adozione, nell'agosto del 2013. Il fatto che non si fosse in vigilia di elezioni, com'è la Toscana oggi, ci aveva consentito di superare le tensioni grazie a un intenso confronto con le parti politiche, gli enti locali, i produttori di paesaggio, le associazioni e i cittadini, in innumerevoli incontri in giro per la Puglia. E' stato un lavoro faticoso che ha rischiesto molta tenacia e pazienza, ma che ha consentito di superare l'impasse solo con qualche lieve modifica che non ha snaturato la filosofia e il rigore del nostro Piano. http://paesaggio.regione.puglia.it
spagine
Dell’ulivo
TOMA
di Giuliana Coppola
Poveri ulivi solitari, avvolti nella tristezza de le vostre foglie, poveri arbusti giovani, sepolti nella scordata valle, fra le spoglie erbe incolori, d’erbe disseccate! L’infertil terra del selvaggio umore vostro si nudre, e la bollente estate le fibrule vi spossa col calore… Girolamo Comi
X
ylella – una serie di labiali, si sciolgono in bocca dopo il suono forte, quasi un colpo alla tempia –X – xylella, dolce quasi come lucciola; non ci sono più le lucciole – c’è lei ora. Eppure c’era una volta Girolamo Comi – prevedono i poeti – c’erano una volta le lucciole e i ciclamini; era la strada dei ciclamini, conduceva alla collina di Specchia; si andava tutti a raccoglierli, noi bambini e il poeta, i poeti, a raccogliere profumatissimi ciclamini di campagna. E c’erano lucertole e formiche e grilli e cicale e le tortore e il verde di erba alta a proteggere radici e c’era la voce dei traini, prima, la voce dei trattori, poi. D’un tratto lattine bianche di plastica a dondolare nel vento, appese ai rami; d’un tratto i cartelli, spesso scritti a mano su pezzi di cartone “zona avvelenata”; tu uomo, non entravi; le creature del mondo entravano e pian piano morivano; tu imploravi “per favore, per favore, non avvelenare i miei alberi” poi voltavi le spalle e l’erba non c’era più al ritorno; non verde ma il giallo della morte; “zona avvelenata” leggevi e pensavi che stava iniziando il ciclo di chemio anche per gli ulivi e per le piante tutte e sai com’è per la chemio; distrugge mentre cura; va via il male ma quasi a dispetto, mentre va via, fa soffrire e indebolire la parte sana – cadono i capelli – cadono i petali dei ciclamini – s’affievolisce la voce – s’affievolisce sussurro della terra – s’allentano difese immunitarie – s’allenta difesa di
tronchi millenari – secca la pelle – secca corteccia di rami giovani e meno giovani, intristiti su se stessi; smuoiono i colori, diventano altro da sé – il verde non esiste più. Tranquillo, è la chemio, tranquillo, ai tuoi piedi il tuo frutto che spesso non si raccoglierà, ma tranquillo, fratello albero, oggi c’è l’integrazione; conta gli alberi l’integrazione, non il frutto che tu produci; conta il numero degli alberi e su gli alberi e su voi è arrivata la xylella, una turista tra tante, forte, allegra, affamata, curiosa, decisa a sfamarsi, ha cercato tuo corpo, i vostri corpi – è sua natura; li ha trovati senza fatica, già prima nei vivai, dove corpi esausti di ulivi iniziavano già a morire, sacrificati a chemio, autostrade, industrie fantomatiche dalla durata di una stagione e figli che partivano senza più ritorno. Tanto c’è l’integrazione ed oggi c’è la xylella, nome dolce come lucciola, solo che lei non illumina la notte; c’è buio ora che non esiste più tra ciclamini; c’è buio e non ci sono i poeti, quei poeti che SABOTANO SILENZI; oggi s’ascoltano tra loro i poeti. …Alle mie spalle un po’ più a valle quasi a ridosso della collina una ruspa enorme selciava tra i papaveri un abisso forse il letto di un grattacielo forse unimmondizzaio forse un luogo da cui gettarsi e morire sicuri…… Salvatore Toma 21.1.80
rivoluzionari l’uno e l’altro, oggi con i versi suoi aspettiamo primavera; i versi suoi per madre terra e i suoi figli stanchi. Domenica 15 marzo
DIO E’ GRANDE: nessuna casa e nessun letto lo contengono 5.12.79
Lunedì 16 marzo Vento leggero che parli con voci di foglie che apri i germogli e li fai trepidare nella primavera. Vento che asciughi i panni, bianchi come visi di bambini e a volte con dolcezza il sudore della fronte, fa’ che la mia morte sia liscia, serena come il tuo respiro. Martedì 17 marzo
Un giorno sarò albero e radice sarò terra contesa. Mi vorranno i vermi i lombrichi le stelle sarò cosa che cambia chissà cosa diventerò. Sarò fiore o montagna o terra da cemento per un buon palazzo eppure un giorno ero vivo e ho visto il mondo eppure un giorno ero vivo e ho visto il mondo.
Salvatore Toma ha paura dell’uomo, delle sue ruspe; canta abbracciando al- Mercoledì 18 marzo Presso mezzogiorno beri e fiori e animali, anche la morte, se mi sono scavata la fossa la sente accanto, ma soprattutto la vita. nel mio bosco di querce Quando lui c’è, c’è primavera e ci sono ci ho messo una croce le “prime rondini” e, oggi, con i versi suoi e ci ho scritto sopra che se n’è andato quasi all’età del Cristo,
spagine
ricordo
della domenica n°68 - 15 marzo 2015 - anno 3 n.0
Se si potesse imbottigliare oltre al mio nome e ormai fino alla morte. L’odore dei nidi, una buona dose di vita vissuta. se si potesse imbottigliare Poi sono uscito per strada Venerdì 20 marzo l’aria tenue e rapida a guardare la gente Il poeta esce col sole e con la pioggia di primavera con occhi diversi. come il lombrico d’inverno se si potesse imbottigliare e la cicala d’estate l’odore selvaggio delle piume Giovedì 19 marzo canta e il suo lavoro di una cincia catturata che non è poco è tutto qui. La colpa e la sua contentezza, non è di nessuno D’inverno come il lombrico una volta liberata. sbuca nudo dalla terra ma proprio si torce al riflesso di un miraggio di nessuno insegna la favola più antica. ANCORA UN ANNO, Salvatore Toma la colpa è (Maglie, 11 maggio 1951 – 17 marzo della stessa poesia 1987), e buona primavera a tutti. che io amo fino alla vita Sabato 21 marzo
spagine “Uno schiaffo fa tacere anche i giochi dei bambini son calate le serrande, neri sfilano i vicini. Le ghirlande hanno gettato la tristezza sulle scale fra i parenti addolorati se ne scende il funerale restò...solo qualcosa che volò nell'aria calma e poi svanì per dove non sapremo mai”
Scene da un funerale
L’uomo – Francesco Guccini
I
funerali, si sa, nei nostri piccoli centri, sono occasioni di socializzazione, si rivede gente che non si incontrava da tanto, si scambiano quattro chiacchiere, meglio ancora di come si farebbe in piazza dove il rumore assordante delle autovetture di passaggio non concilia. In quel luogo di lutto, invece, si è favoriti dalla pace e dal religioso silenzio che vi regnano e si riesce anche ad entrare in un’intimità confidenziale che in altri contesti non si avrebbe. Si parla a fior di labbra, sussurrando le frasi, per non dare nell’occhio (o meglio, nell’orecchio) di chi è assorto nella veglia funebre, vale a dire i congiunti del de cuius ed i parenti più stretti. Ci si aggiorna sulle rispettive vite, si maligna di imbrogli e infedeltà coniugali, si calunniano gli assenti, specie nei paesini dove ci si conosce un po’ tutti e ciascuno è roso da livore e invidia nei confronti di chi la sa più lunga di lui. Questo avviene sia ai funerali dei poveri Cristi, pincopallini qualsiasi, sia a quelli di un personaggio di spicco, uno dei notabili del paese, come può essere un maresciallo dei carabinieri, un sacerdote o parroco, un grosso imprenditore, un aristocratico, un pubblico amministratore, o un arruffapopolo dei tanti che scalmanano da mattina a sera nelle piazze dei nostri sgarrupati paesotti. Fra un “l’eterno riposo” e un “padre nostro”, si ripensa agli episodi della propria vita insieme con la persona scomparsa, si ripercorrono i momenti belli ma anche quelli brutti, difficili, e si indirizza allo scomparso un saluto affettuoso, un augurio di buon viaggio. Si fanno anche dei resoconti personali e ci si accorge quasi sempre di aver fallito; i rimorsi o i rimpianti dal feretro si propagano e iniziano a lambire i nostri piedi salendo su fino alla giacca, e ci si deve allontanare per sfug-
di Paolo Vincenti
gire a quella pressione fastidiosa, a quel venticello mortifero. Se il defunto non è un congiunto, ci si limita ad esprimere il cordoglio ad amici e parenti; se invece si tratta di un famigliare, si portano dei fiori oppure, quando i fiori non sono richiesti, del denaro che, contenuto in una bustina dove si è fatto ben attenzione a indicare il mittente, viene lasciato nel cestello sistemato ai piedi della bara. Se poi il grado di famigliarità è ancora più stretto, allora si commissiona un cuscino o una corona di fiori che l’impresario delle pompe funebri si premura di recapitare. Quando si avvicina l’ora fatale delle esequie, solitamente le 15 o le 16 di pomeriggio, il prete che celebrerà la funzione viene a casa a fare una ispezione preliminare e ad impartire l’estrema unzione al trapassato. A quel punto l’impresario fa capire a tutti che occorre prepararsi per il drammatico momento e sigilla la bara per il trasporto. Allora si levano più strazianti i lamenti dei famigliari. Su tutti spiccano quelli della vedova inconsolabile e delle figlie femmine, mentre se a dipartire è lei, il vedovo resta contrito in un cupo silenzio e a volte leva gli occhi al cielo in un gesto di sfida e di ingiuria. Circola infatti, nel comune sentire dei nostri paesi, la stramba teoria secondo cui in una famiglia, se è proprio necessario che uno dei coniugi perisca prima dell’altro ( e in effetti morti simultanee se ne vedono di rado), sia lui, il marito, a precedere, perché in questo modo la casa rimane aperta e frequentata (in poche parole la vita continua a scorrere come sempre, fra beghe famigliari, pettegolezzo e vendette incrociate). Se invece a decedere è lei, la moglie, allora comari, compari, figli e amici non hanno più interesse a frequentare la casa e lasciano il vedovo a spegnersi nella
l’osceno del villaggio
della domenica n°68 - 15 marzo 2015 - anno 3 n.0
solitudine. Dopo la funzione religiosa e il rito più o meno lungo delle condoglianze in chiesa, la bara viene sistemata di nuovo nell’auto e ci si avvia al cimitero per la tumulazione. Qui il corteo di macchine che ha accompagnato la mercedes funebre si sfalda e ognuno va via in ordine sparso. Al camposanto, è facile per i famigliari, assistendo all’ingrato compito svolto dal necroforo, venire assaliti di nuovo dal dispiacere, dallo sconforto, che si esprime in un pianto dirotto dovuto alla consapevolezza di non rivedere mai più il proprio congiunto. Quando si fa rientro a casa, è ormai sera inoltrata. A quel punto, riunendosi la famiglia intorno al tavolo per la cena, può succedere che sia quella l’occasione per iniziare a discutere anche animatamente del futuro in termini di successione e divisione dei beni. Non sempre i famigliari sono d’accordo e capita che i figli e soprattutto le nuore litighino preventivamente, a babbo morto, come si suol dire, prima di essere duramente richiamati dalla madre, la neo vedova, che rinfaccia loro di non avere rispetto per il cadavere ancora caldo del genitore. A volte, nel nostro sud sottosviluppato, si incontrano delle sopravvivenze folkloriche come quella delle chiangimorti. Non mi pareva vero ma, ad una veglia funebre cui partecipai qualche tempo fa, incontrai un drappello di pie donne, moderne “prefiche”, assoldate dai congiunti per conferire ancora più pathos all’atmosfera di lutto. Non riuscivo a credere a quello che vedevo e che io pensavo fosse ormai solo confinato nei libri di storia e in quei rari documentari in bianco e nero girati nel Salento qualche decennio fa. Credevo si trattasse di una finta, cioè una ricostruzione inscenata a vantaggio di telecamera e mi aspettavo che da un
momento all’altro sbucasse fuori la troupe di cameramen e antropologi interessati. Invece era tutto vero a ai lai delle chiangimorti si univano le urla disperate della moglie e dei figli del morto in una scena davvero straziante. All’uscita da casa poi, il lento corteo funebre fino alla chiesa venne accompagnato dal suono della banda e anche questa è una tradizione che va ormai a scomparire. Si rimane colpiti dall’attaccamento, dall’amore muliebre, dalla devozione filiale. Capita poi che, trovandomi al cimitero il giorno dei defunti, io veda che nell’urna di quello scomparso, a distanza di alcuni mesi, non sia ancora stata apposta alcuna lapide e vi campeggi ancora il piccolo ritratto formato fototessera appiccicato sbrigativamente alla calcina il giorno delle esequie. Strano. Vengo poi a sapere da chi è sempre informato su tutto che, appena incassata la cospicua eredità del defunto, i figli hanno mollato il lavoro e si sono trasferiti ad Ibiza dove gestiscono una discoteca. La madre invece, insieme al compaesano con il quale teneva una relazione extraconiugale da molti anni prima della dipartita del becco, si è trasferita in Olanda dove, grazie alla legislazione vigente in materia di prostituzione, fa la tenutaria di un bordello mentre il compagno trascorre da magnaccia le giornate, bevendo e mangiando a ufo e fumando il narghilè. Tutto vero, mi dicono, vedendomi leggermente incredulo, e la tomba spoglia della lapide lo conferma. Sarà apposta solo a Natale, quando ritorneranno a casa per le feste. Tutto vero, insistono, lo può confermare anche il marmista che ha ricevuto l’incarico di realizzare il manufatto. Eh sì, meglio che a perire per primo sia il marito. Davvero, molto meglio.
Ciao bella! Un caffè? spagine
R
icco, cremoso, dal sapore deciso, un gusto tutto italiano, quello del caffè espresso. Ma quanti sorsi ho dovuto provare, e quanti granelli ho dovuto masticare, depositati sul fondo di bevande color marròn, per trovare finalmente quello che al mio paese consideravo una cosa ovvia: l’espresso. Difficile pronunciare in questi mesi “se il vous plaît, un café expresso”, “please, an espresso coffee”, senza provare un piccolo brivido di sgomento dopo averne bevuti di surrogati alla caffeina. All’inizio m’illudevo quando vedevo le belle macchine cromate della Cimbali made in Italy, pensavo, è fatta, finalmente un caffè come si deve, pensavo… e invece ricevevo un liquido marrone, con la schiuma di latte che galleggiava come fosse sapone sulla superficie d’acqua. Un giorno mi è successo perfino di vedere, come fosse un miraggio, uscire del liquido cremoso dall’erogatore, scendere lento nella tazza, quando all’improvviso il barman con lo sguardo preoccupato, e senza pensarci due volte lo versò nel lavandino, dicendomi: “sorry, it was bad, I will do another”. Quel gesto mi fece comprende che per molti l’espresso non è altro che un caffè small size. Ma, finalmente, dopo tante avventure l’ho incontrato, era lì, al numero 124 di Rue St-Viateur Ouest, in una tazzina di ceramica doppia, col fondo bianco che ci puoi leggere dentro l’impronta lasciata da un signore caffè, robusto, profumato, gustoso, da sentire i cucchiaini tintinnare a festa. Una riscoperta fantastica, avvenuta al Café Olimpico di Mile-end, gestito da generazioni d’italiani. E’ qui dagli anni 70, fondato da Rocco Furfaro e oggi gestito dalle sue figlie, Rossana e Vittoria e dai suoi nipoti. Era il ritrovo dove i nostri compaesani si riunivano per vedere in differita le partite di calcio, poiché Mile-end era un quartiere, oltre a Jean Talon, abitato dalla comunità ita-
corrispondenze
della domenica n°68 - 15 marzo 2015 - anno 3 n.0
di Milena Galeoto da Montrèal
liana. Un bar (volendo chiamarlo in gergo nostro) rimasto intatto nelle sue tradizioni, dove attendi il tuo caffè lasciando le monete sul massiccio bancone di legno, e ti servi lo zucchero direttamente dalle tipiche zuccheriere di alluminio. Usano ancora la stessa ricetta segreta della miscela di caffè, che vendono pure al pubblico. I muri di questo locale, raccontano la storia di una casa che nel tempo si è trasformata in un esercizio commerciale, mantenendo intatta quell’atmosfera tutta italiana. Anzi, direi che quando entri, hai come la sensazione di rivivere quell’italianità che neanche da noi esiste più, dal profumo di brillantina Linetti e dai colori sbiaditi delle bandiere delle squadre del cuore, affisse sui muri. Con le fotografie delle squadre di calcio dove i giocatori sono ordinati in fila, con la riga sul capo rigorosamente di lato. Alle spalle del bancone, il ritratto del capofamiglia, di quell’uomo che tanti anni fa ebbe il coraggio di partire dal nostro paese, diretto in questa terra lontana, portando nella valigia tanto coraggio e intraprendenza. Un orgoglio che ancora si respira in quest’ambiente, attraverso la cortesia e il calore di chi, avendoti visto per la prima volta, ti saluta con un: “Cià, bella!” I tavoli sono pieni di amici, colleghi di lavoro e anche personaggi famosi, come lo scrittore Sean Michaels che quando lo scorso anno ricevette il premio Giller, ringraziò gli amici del Cafè Olimpico, dove ha passato mesi a scrivere il suo romanzo. A ogni ora del giorno, poi, si crea una fila silenziosa che avanza dal lato destro del bancone fino alla macchina del caffè, come se ti trovassi di fronte al rituale dell’eucarestia, dove ognuno attende la sua agognata tazzina d’espresso. Inutile il tentativo di chiedere la ricetta segreta di famiglia, ma di sicuro una cosa è certa, che per fare un buon caffè espresso ci vuole arte ed esperienza, combinate insieme alle miscele di caffè Arabica e Robusta.
Il prospetto del Caffè Olimpico; una foto d’epoca; oggi, tutti in fila per un caffè; lo scrittore Sean Michaels scrive al Caffè Olimpico
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La fontana seicentesca nella Galleria del Palazzo Castromediano
Carlo D’Aprile a Cavallino spagine
U
n interessante caso nella storia dell'Arte e dell'Architettura barocche in Puglia è quello del palazzo dei Castromediano a Cavallino. Lungi dal fare una analisi dettagliata dell'edificio e degli aspetti singoli che gli conferiscono l'importanza cui si accennava, ci soffermeremo solo su un aspetto in particolare ovvero quello dell'intervento dello scultore “Carlo d' Aprile della città di Palermo”. Un noto inventario del 1663 indica questo artista come l'autore delle sculture che adornano la celebre Galleria del palazzo e non solo. Vari i soggetti che queste statue raffigurano, alcune infatti sono allegorie altre invece restituiscono i ritratti dei membri della famiglia Castromediano, quelli più antichi come il capostipite Chiliano, oppure quelli “contemporanei” come la moglie e i figli del committente le sculture, Don Francesco. Oggi la Galleria ha perso molti degli elementi che la decoravano inclusa una fontana, vero fulcro compositivo di questo spazio palaziale, che nel citato documento viene così descritta (c.9r. , righi 5-9): “... Nella istessa Gallaria una Fontana d'Altezza palmi diecedotto con tre fonti / di Pietra viva una de quali è di porfido miscio con sua statua di Pietra / viva di Rilievo rappresentante l'Abbondanza con suoi diversi giochi / d'acqua condotti di Piombo, et Piloni quattro di capacità d'acqua Barili / duecento che fanno durare la fonte almeno dodici hore continue. / ...”. La pur vasta bibliografia sull'argomento nulla sembrerebbe dire su quale è stata la fine di questa fontana. A questo interrogativo, almeno in parte, sembra si possa dare una risposta adesso perchè all'interno dello stesso palazzo Castromediano esiste un
della domenica n°68 - 15 marzo 2015 - anno 3 n.0
di Fabio A. Grasso
pezzo erratico la cui struttura compositiva lascia ragionevolmente supporre che potrebbe trattarsi proprio di una parte componente la scomparsa fontana. Alto circa un metro esso è costituito da 4 figure di bambini nudi con le braccia sollevate nell'atto di sostenere qualcosa (forse un catino). A quanto detto si aggiunge che stilisticamente i volti e le anatomie di queste 4 figure ritornano simili nei soggetti scultorei analoghi presenti nella Galleria stessa, opere come detto documentate di Carlo d'Aprile.
Ultima notazione di natura cronologica. Nell'inventario ricordato, quando si descrive il cortile del palazzo, si cita solo la grande statua di Chiliano di Limburg, capostipite dei Castromediano e non i mezzibusti raffiguranti due dei Castromediano, l'uno Don Francesco e l'altro Don Domenico, rispettivamente padre e figlio primogenito. Tali mezzi busti furono plausibilmente scolpiti sempre dallo stesso artista Carlo d'Aprile ma sembrerebbe successivamente al 9 giugno 1663, data di redazione del detto inventario. Sembra utile sottolineare ai fini di questa breve analisi che nel palazzo Castromediano esistono due ritratti scultorei, entrambi mezzi busti, come detto, di Don Domenico Ascanio dai quali è possibile dedurre che l'artista Carlo d'Aprile lavorò per i Castromediano (prima Don Francesco e poi, plausibilmente, Don Domenico Ascanio) in tempi diversi. Il primo mezzobusto, collocato nella Galleria, è un ritratto giovanile del primogenito di Don Francesco, Don Domenico Ascanio, quando cioè quest'ultimo era Duca di Morciano “vivente patre” (recita così l'epigrafe alla base della scultura); il secondo (collocato, come qui già segnalato, nella nicchia in alto a destra della statua di
Chiliano che domina il cortile del palazzo) rispetto a quello nella Galleria, rivela le fattezze di un uomo più anziano; l'epigrafe che accompagna anche quest'ultimo mezzobusto ricorda tra le altre cose Don Domenico “semplicemente” come “Duca di Morciano” perché il titolo era evidentemente già ereditato ed il padre, Don Francesco, non era più “vivente”. In quanto alla datazione delle sculture presenti all'interno della Galleria un elemento potrebbe aiutare più di tutto: due dei mezzibusti ritraggono Frate Don Tommaso e Frate Don Giovanni Battista, figli di Don Francesco. Sul petto di ognuno di loro campeggia la croce dell'Ordine Gerosolimitano, i due fratelli fecero infatti la loro professione di fede a dodici giorni dalle calende di dicembre del 1649. L'intervento scultoreo di Carlo d'Aprile potrebbe essere successivo a quest'ultima data pertanto. E' anche utile ricordare però che in quegli anni si era a ridosso di un altro evento estremamente importante per la storia della famiglia Castromediano ovvero il matrimonio -celebrato a Napoli alle None di Giugno del 1652- fra il primogenito, Don Domenico Ascanio, e Donna Isabella Caracciolo . Non è da escludere quindi che l'intervento di Carlo d'Aprile nella Galleria del palazzo, per volontà di Don Francesco, sia la rappresentazione dei “Trionfi” della famiglia Castromediano e dei sui prestigiosi imparentamenti, proprio in occasione del matrimonio detto tanto più che manca, fra le sculture della Galleria, proprio l'immagine di Donna Isabella Caracciolo. Il lavoro di ricerca è stato condotto in collaborazione con Enrico Spedicato. Nelle foto: Frammento della fontana della Galleria
spagine
in agenda
della domenica n°68 - 15 marzo 2015 - anno 3 n.0
“La cultura dei tao” sarà presentato a Novoli sabato 21 marzo al Teatro Comunale dalle voci di Simone Franco Ilaria Seclì, Piero Rapanà per le musiche di Valerio Daniele L’introduzione sarà di Eugenio Imbriani
La terra nel libro
I
l libro digitale ha cambiato la lettura e il rapporto con il libro non è più quello del nostro passato. Oggi si vede esclusivamente, abbiamo perso il piacere di ascoltare. Gli occhi sono sempre impegnati in tutte le attività, sono sempre interessati a vedere a cercare informazioni sul tablet o sullo smartphone. Si pensa poco e non si immagina più. La vita si vede solo in superficie. L’audiolibro: “La cultura dei tao” riedizione a cura di Spagine - Fondo Verri edizioni di un testo del 1984 di Antonio Verri propone un approccio con il libro diverso non però alternativo al libro digitale. La lettura-ascolto fa pensare ed aiuta ad immaginare: le voci recitanti di Angela De Gaetano, Simone Franco, Simone Giorgio, Piero Rapanà la musica di Valerio Daniele sono il risultato di una complessiva melodia dove le note e le parole sono il sapore della memoria che vive nei canti antichi della nostra gente salentina e non dimentica la fatica dei contadini. Le parole sono specchio e riflettono le immagini che la mente incontra nei corpi: sono i pantaloni gonfi di fichi secchi e le zappe esposte in lunghe fila alle fiere regolate dal succedersi delle stagioni. Nella scrittura di Antonio Verri le parole non sono vuote e non sono libere dagli aggettivi, sono piene: le parole sono le cose e la grammatica popolare sostenuta da Verri insegna a vivere la terra e ad essere capaci di distinguere i sapori, gli odori e i colori dei frutti di giardino da quelli dei campi selvatici cresciuti liberamente. Per Antonio Verri le parole sono come “le cirase”, una tira l’altra. La nostra storia senza memoria, senza le parole è come un passato muto, come un silenzio vuoto, senza la misura del tempo. La scrittura di Antonio Verri è la voce intonata della terra, il racconto legato alla legge della luce che regola il succedersi dei giorni e sente il rosso del tramonto come forza della vita. Nella sua scrittura Verri si esercita alla terra, la sente nella tradizione e la fissa nella conoscenza senza rinunciare mai alla forza dell’immaginazione: è la cultura dei tao. La lezione di Antonio Verri non si limita al ricordo della storia del paesaggio salentino, è molto di più, è poesia che vive della voce dei volti e dei luoghi della nostra terra. Luigi Mangia
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della domenica n°68 - 15 marzo 2015 - anno 3 n.0
La performance di Rubidori Manshaft al Castello Carlo V° per la Stagione teatrale dell’Amministrazione Comunale di Lecce
12 parole 7 pentimenti
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ino a mercoledì 18 marzo al Castello Carlo V appuntamento con un interessante fuori abbonamento della Stagione Teatrale del Teatro Paisiello con Officina Orsi che propone l'installazione teatrale di liquide parole "12parole 7pentimenti" di Rubidori Manshaft con la collaborazione artistica di Paola Tripoli. Più che uno spettacolo è un esperimento sociale spiazzante e, a volte, esilarante che approda nel Salento dalla Svizzera, come scelta insolita e internazionale all’interno della stagione del Comune.
Dal Castello Carlo V partirà il “viaggio” che ogni spettatore/ascoltatore potrà fare munito di IPod e cuffia alla volta di quattro luoghi della città (un bar, una sala d'aspetto, una panchina e un'auto parcheggiata) seguendo una mappa che gli verrà consegnata alla partenza. Un esperimento che Rubidori Manshaft “artista residente” della label svizzera Officina Orsi, ha sviluppato in due anni di peregrinaggio urbano tra città e luoghi diversi in tutta Italia e nella Svizzera Italiana. Quello che ha raccolto sono stralci di dialoghi. Circa 2500 ore di registrazioni rubate, carpite, all’insaputa di ignari protagonisti. Rubidori ha voluto dar senso ad una sua abitudine sviluppata durante viaggi in solitario: l’osservazione della vita e l’attenzione per le vite degli altri, racconti di vicini di tavolo al bar, ristorante, bus, tram, sale d’attesa, aereoporti, taxi, eccetera eccetera. Registrazioni poi stralciate in un montaggio che ha portato, a posteriori, alle scelta dei quattro temi: amore, morte, sesso, denaro. La scelta è giunta solo a posteriori. Dalla costatazione che nelle migliaia di ore di registrazioni raccolte, i tempi portanti del vissuto, si riassumevano prepotentemente su queste scelte. Dal montaggio di tanti piccoli stralci nascono la traccia/tema, la drammaturgia, il racconto tematico. Un ascolto singolo in cuffia, comodo e
raccolto. Un ascolto privato, l’ascolto di noi stessi. Un “the end” per ogni traccia (che sarà poi regalato allo spettatore su una chiavetta usb), scritto dall’autrice Roberta Dori Puddu e letto, solo questa volta, da Daria Deflorian, Cinzia Morandi, Monica Piseddu, Yuri Tre Re, Jessica Matteo e Arianna Panizza.
«Il titolo è un gioco che ci siamo permessi», sottolinea Rubidori Manshaft. «Tra numerologia e tradizione, intesa quest’ultima come trasmissione di memorie, notizie, testimonianze. Il dodici viene considerato il più sacro tra i numeri, insieme al tre e al sette. Il dodici è in stretta relazione con il tre, poiché la sua riduzione equivale a questo numero (12 = 1+2 = 3)», prosegue l'artista. «Il numero sette esprime la globalità, l’universalità. Considerato fin dall’antichità un simbolo magico e religioso della perfezione, perché era legato al compiersi del ciclo lunare. È il numero che fa da tramite fra il noto e l'ignoto, ed è il numero delle intuizioni magiche. Le parole sono quelle che compongono le tracce. Riempiono o svuotano di significati. Uniche o universali. Sono le storie, i pensieri, le emozioni. Il pentimento è un ripensamento in corso d’opera che l’artista mette in atto. Solo l’originale presenta il pentimento. Il processo creativo che passa attraverso il pentimento è uno strumento fondamentale in fase di attribuzione dell’opera. Nessuna copia, nessun falso presenta rifacimenti o pentimenti. Il pentimento», conclude «è la prova dell’autenticità di un gesto artistico e del gesto di vivere». L'installazione può ospitare 16 spettatori per turno (durata circa 70 minuti). Questi gli orari 14 marzo (ore 19 e 21.30), 15 marzo (ore 18 e 19.30), dal 16 al 18 marzo (alle 21 e alle 22.30). Ingresso 5 euro su prenotazione 0832246517 teatropaisiello@gmail.com
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Il concorso dell’Associazione “Filippu e Panaru”
La vita è... poesia
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'Associazione Culturale “Filippu e Panaru” indice il 1° Concorso Nazionale di Poesia in memoria di Filippo Fasanelli sul tema: “La Vita è...”. Il concorso avrà scopo benefico e si articolerà in 3 sezioni: Poesia inedita in lingua italiana, per concorrenti under 19, (con autorizzazione sottoscritta da almeno uno dei genitori, se minore.); Poesia inedita in lingua italiana per concorrenti over 19 / under 99; Poesia composta esclusivamente in dialetto salentino, per concorrenti senza limitazione di età. Le poesie dovranno essere redatte in 7 (sette) copie (una per ogni foglio in formato A4), in forma rigorosamente anonima, inserite in un plico all’interno del quale andrà inserita anche una busta sigillata contenente a sua volta un foglio con le generalità dell'autore, recapito telefonico, indirizzo di residenza ed eventuale e-mail nonché il titolo della poesia con cui partecipa e la sezione appartenente; titolo e sezione andranno ripetute sulla busta di cui sopra. La commissione del Premio, il cui giudizio è insindacabile, è costituita da sette membri. Ciascun commissario di giuria riceverà le opere in forma rigorosamente anonima e formulerà il proprio giudizio individuale, considerando il contenuto ideale e concettuale dei testi, oltre che l’elemento lirico e stilistico. Alla suddetta commissione spetta il compito di stilare la graduatoria finale dei vincitori del Concorso e di pronunciarsi sui casi controversi e su quanto non espressamente previsto dal presente regolamento. Il comitato organizzatore dell’Associazione si impegna a fornire gli elaborati in forma rigorosamente anonima alla commissione del Premio. La partecipazione al concorso implica l’accettazione del presente bando in ogni sua parte. La Giuria potrà inoltre esprimere eventuali segnalazioni di merito.
Bando e Regolamento della PRIMA EDIZIONE 2015
Art. 1. Ogni autore può inviare una poesia di non più di 40 versi, I testi dovranno essere tassativamente inediti fino al giorno della cerimonia di premiazione. Per poesie inedite si fa esplicitamente riferimento a componimenti poetici i
quali, rispondenti ai requisiti del presente, non abbiano ricevuto regolare pubblicazione editoriale. (carattere Times New Roman; dimensione carattere 12); la partecipazione è consentita solo e soltanto ad una sezione. Art. 2. Le composizioni inedite dovranno essere redatte in lingua italiana o in dialetto, scritte a macchina o a computer su fogli A4. Le composizioni in dialetto dovranno essere accompagnate della traduzione italiana, curata della stesso autore. Art. 3. Ogni concorrente dovrà far pervenire, esclusivamente a mezzo raccomandata A.R., sette copie anonime, dattiloscritte, del testo poetico recanti su ognuna il titolo dell’elaborato e la sezione per cui concorre. Le copie non devono indicare dati personali né riferimenti al suo curriculum letterario e devono essere inserite in una busta sigillata, contenuta all’interno di un plico da spedire entro e non oltre il 25 marzo 2015 all'indirizzo: Ass.ne Culturale “ Filippu e Panaru” c/o Dott.ssa Babbo Lucia Via Lupiae 44/c - 73100 LECCE Nel medesimo plico postale deve essere inserita la scheda di adesione (da richiedere all’indirizzo e.mail: gisella.centonze@gmail.com), completa dei dati personali e dell’autorizzazione al trattamento degli stessi: il nome, il cognome, la data ed il luogo di nascita, l’indirizzo, un proprio recapito telefonico, un eventuale indirizzo di posta elettronica, il titolo delle opere in concorso ed una breve biografia. Per gli autori minorenni, il partecipante deve allegare fotocopia di un valido documento d’identità di uno dei genitori o di chi ne fa le veci, opportunamente firmato. È gradita, ma non obbligatoria, una breve nota biografica dell'Autore. Gli autori premiati saranno contattati al recapito telefonico o di posta inoltrato. Gli elaborati che risulteranno firmati verranno automaticamente esclusi. Art. 4. La quota di partecipazione, valida per ogni sezione, è di € 5,00 da inserire nella busta che contiene i dati del partecipante. Art. 5. Le composizioni inviate non saranno restituite. Art.6. Saranno premiate le prime tre opere delle sezioni a), b) e c) scelte dalla Giuria. In particolare, spetteranno: al 1° classificato: € 250,00 e targa; al 2° classificato: targa; al 3° classificato:
targa. Art. 7. La cerimonia di premiazione avrà luogo nel Teatro Paisiello di Lecce in data 10 aprile 2015. I concorrenti premiati sono tenuti a presenziare alla cerimonia di premiazione. I premi non ritirati di persona costituiranno monte premi per l’edizione successiva. I vincitori potranno ritirare personalmente, o su delega, i premi aggiudicati, benché sia gradita la presenza del vincitore nella data della cerimonia. È a carico dei partecipanti l’onere di informarsi circa tutti gli aggiornamenti e/o eventuali variazioni concernenti il Premio contattando direttamente la Segreteria dell’Associazione “Filippu e Panaru” al n° 349 1324094 o all’indirizzo e.mail: gisella.centonze@gmail.com Art. 8. L’Organizzazione del Concorso si riserva di procedere alla pubblicazione di un volume antologico che radunerà i lavori premiati e quelli che saranno ritenuti meritevoli per dignità di forma. Art. 9. Con l’iscrizione al concorso tutti i partecipanti danno il consenso alla pubblicazione delle loro opere. Nessun diritto verrà corrisposto agli autori. Partecipando al concorso gli autori acconsentono a cedere a titolo gratuito il diritto di pubblicazione, riproduzione, diffusione e distribuzione al pubblico, nelle modalità di pubblicizzazione decise dall’Associazione “Filippu e Panaru” che, comunque, garantirà che sia sempre riportato il nominativo dell’autore dell’opera. Art. 10. In relazione alla normativa di cui al DLGS n° 196/2003 sulla privacy, i partecipanti devono acconsentire esplicitamente al trattamento dei propri dati personali per le sole finalità legate al Concorso in oggetto. Art. 11. Non saranno presi in considerazione i lavori che non avranno osservato tutte le norme contenute nel presente bando. Art.12. La partecipazione al Concorso implica l’accettazione del presente regolamento.
Garanzia di riservatezza Il trattamento dei dati personali avverrà nel rispetto di quanto stabilito dal D.lgs. 196/2003 a successive modifiche e integrazioni. La cancellazione dei dati potrà essere richiesta in ogni momento inviando una e-mail all’indirizzo gisella.centonze@gmail.com
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della domenica n°68 - 15 marzo 2015 - anno 3 n.0
L
'Associazione Le Ali di Pandora partecipa alla manifestazione del Comune di Lecce “Itinerario Rosa 2015” con la mostra/laboratorio “E tutti arriveremo”, dal 25 marzo al 2 aprile nell' Ex Conservatorio Sant'Anna a Lecce, gode del Patrocinio dell'Accademia di Belle Arti di Lecce “E tutti arriveremo” è un giOCArtista, uno spazio potenziale tra adulti e bambini, un'esperienza ludico-culturale che permette di sensibilizzare sulle tematiche della contemporaneità: la diversa-abilità, l'emarginazione, l'omofobia, la xenofobia, la guerra, la violenza ma è anche occasione per mettere in risalto la bellezza, l'amore, la condivisione, la fratellanza. 42 artisti si sono cimentati nella realizzazione delle 63 tessere che compongono il “Gioco dell'oca”, più i piccoli ospiti della ludoteca “LO SPAZIO DI LILLI”, ogni tessera racconta una storia, l'attività creativa si è espressa sul piano simbolico ed esistenziale, perché fermarsi all'immagine delle cose è nasconderne il senso e l'arte non cerca rifugio all'ombra delle immagini, ma le straccia. L'uso del mezzo ludico, all'apparenza ricreativo, non è che la metafora dell'esistenza che include in sé i contrari: l'immaginazione e la realtà, l'estraneo e il familiare, il sovrumano e l'abituale, il manifesto e il nascosto in una rinascita perpetua. L'immedesimazione del “giocatore” ge-
Il giOCArtista Una mostra laboratorio
al Conservatorio Sant’Anna
nera scambi di identità in un principio di intersoggettività atto a combattere l’Incomunicabilità, che spesso rende l’altro “straniero”, e trovare nella diversità un valore, un segno distintivo di unicità nella diversità. Il gioco dell'oca, quindi, è un archetipo del cammino della vita, la sua struttura a spirale, ripartita in 63 tappe, è un viaggio-ricerca, mai statico, le caselle sono i simulacri degli ostacoli (fisici e morali) che si incontrano nel tragitto; la fortuna regola gli eventi agevolando oppure ostacolando il viandante ma si continuano a lanciare i dadi nella speranza che la luce non smetta di brillare ed arrivare alla meta: nel giardino dell'Oca, la Grande Madre dell'Universo. Le Oche donano delle "ali" che permettono di procedere rapidamente; non ci si può fermare sulle loro caselle si deve andare avanti o fermarsi quando il destino ce lo impone e alla fine Tutti arriveremo ognuno con i suoi tempi.
Agli artisti invitati: Maria Grazia Anglano, Roberto Bergamo, Paola Bitelli, Daniela Cecere, Mario Calcagnile, Michela Del Tinto - Teo Mollaian, Lucy Ghionna, Maurizio Martina, Francesco Pasca, Adriano Pasquali, Maria Grazia Presicce, Enza Santoro, GianFranca Saracino, Carla Sello, Monica Taveri si uniscono gli allievi dell'Accademia di Belle Arti di Lecce della sezione di Decorazione contemporanea, seguiti dalla docente Lucia Ghionna: Serena Alvarenz, Domenico Arces, Marco Carone,
Maria Cesena, Antonella D'Amelio, Ilenia Epifani, Francesca Esposito, Rehana Giurda, Vanessa Greco, Shi Hongbo, Monia Luggeri, Lucia Macrì, Alessandro Maggiulli, Alessandra Mariano, Elisabetta Merico, Marika Ninno, Francesca Nutricato, Eleonora Rampino, Francesco Romanelli, Francesca Scrascia, Maria Silvia Specchia, Silvia Sparro, Salvatore Turco, Maria Antonietta Tutino, Gloria Zara, Valentina Zocco. Il giOCArtista non sarebbe stato completo senza la presenza dei bambini, la Ludoteca “Lo Spazio di Lilli”ha lavorato con i piccoli ospiti alla realizzazione di alcune tessere.
La mostra si aprirà con il video di Claudia Ingrosso “Tutto si può”, liberamente ispirato alla fiaba di Gianni Rodari “Il giovane gambero”, racconterà la tenacia di chi vive una quotidianità “diversa” esercitando abilità a noi sconosciute.
Nei giorni 26-27-28 marzo, dalle ore 18.00, si apre al pubblico un laboratorio gratuito per la realizzazione dei segnalini con l'uso di materiale di recupero; l'intento è sia creare sinergia tra gli artisti e i partecipanti al laboratorio ma anche occasione per confrontarsi sulle tematiche trattate. Il 2 aprile, alle ore 18,30, in occasione della giornata mondiale dedicata all'Autismo incontro/confronto sul tema: “Tutti i colori dell'Autismo”, a cura di Michela Del Tinto.
copertina
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fotografia
della domenica n°68 - 15 marzo 2015 - anno 3 n.0
Dal 21 marzo al 5 aprile 2015 la galleria ScaramuzzaArte Contemporanea in via Libertini 70, a Lecce ospita le fotografie di Bruno Barillari Il vernissage, con le bollicine di champagne Bruno Paillard, sabato 21 marzo, alle 19. La presentazione sarà a cura del critico d’arte Toti Carpentieri e di Roberto Mutti direttore di Kairòs magazine
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.OBJ” il titolo emblematico rimanda alle iniziali del termine oggetto, (dal lat. mediev. obiectum, neutro sostantivato di obiectus, part. pass. diobicĕre) che, per definizione, significa «porre innanzi»; propr. «ciò che è posto innanzi (al pensiero o alla vista)». È uno sguardo poetico quello di Bruno Barillari che, per questo progetto espositivo, ha scelto il fascino della pellicola in bianco e nero, quasi dimenticata nell’era digitale e la magia che avviene nella camera oscura. Nelle inquadrature sono finiti gli oggetti, spesso disseminati negli angoli più nascosti delle nostre case e delle nostre vite, spiega lo stesso fotografo: “gli oggetti si ripongono davanti ai nostri occhi e ai nostri pensieri e quando li guardiamo con l’anima o li tocchiamo con la pelle ci trasmettono quantità sufficienti di emozioni da farci crescere in un istante o rimanere bambini per tutta la vita”. Gli oggetti fotografati da Bruno Barillari si animano dietro il mirino della sua fotocamera per raccontare nuove storie, sfogliando tra le pagine di ricordi condivisibili perché è questo ciò che accade quando l’immagine diventa poesia: l’oggetto ritratto nella completezza della sua forma diventa, attingendo dalla terminologia linguistica, significante e significato. Idea, talvolta sogno. Il pensiero va oltre ciò che vede. E ci si ritrova dentro le emozioni, le forme e
si comprende il valore della bellezza. E sentiamo che tutto questo appartiene anche un po’ a noi. Così l’accostamento di tre semplici chiavi rimanda al concetto di famiglia come gli ingranaggi di un meccanismo, rintracciato tra gli oggetti conservati “da un padre, figlio a sua volta di chi era cresciuto nell’officina del nonno”, diventano metafora della vita stessa che gira come su ruote dentate incastrando situazioni che si ripetono all’infinito. Gioie e dolori, attese e sogni… di generazione in generazione. Una rosa tra le pieghe di un foglio accartocciato rinvia ai petali di rosa che c’è capitato, almeno una volta, di racchiudere tra le pagine di un libro insieme al pensiero più intimo esegreto. Una biglia in bilico, l’ombra di una sedia ottenuta piegando la gabbietta ferma tappo di una bottiglia di spumante o ancora una lumaca con la sua conchiglia fatta di spago perché il filo dei ricordi serve a tessere i giorni della nostra vita. In fondo potremmo mai fare a meno dei ricordi? Come asseriva Italo Calvino “la vita è un insieme d’avvenimenti di cui l’ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto l’insieme, non perché conti di più dei precedenti ma perché inclusi in una vita gli avvenimenti si dispongono in un ordine che non è cronologico, ma risponde a un’architettura interna”. Un’architettura costruita sulle immagini, magari di oggetti, che ci aiutano a non dimenticare. Il punto prima delle lettere OBJ è quasi un
rimando all’estensione jpg, che solitamente indica un file di immagine, ma non è il caso delle foto in mostra che sono state realizzate in analogico. E, novità assoluta, la stampa delle foto che è stata realizzata da Andrea Mosso (fotografo nonché fondatore dell’associazione CAMERA OSCURA e docente di tecniche antiche presso l’Isci di Roma) mediante la tecnica di stampa AMOS, da lui brevettata e presentata da poco in Italia. Una tecnica che consiste nel trasferimento chimico degli inchiostri da una matrice ottenuta digitalmente su un nuovo supporto, in questo caso un pannello di legno preparato con specifici intonaci. Un procedimento caratterizzato dall’artigianalità di una fase del suo processo e il posizionamento manuale della matrice rende la stampa unica e irripetibile. Il catalogo, pubblicato in tiratura limitata per i tipi de Il Raggio Verde edizioni, è impreziosito dai testi di Toti Carpentierie di Roberto Mutti.
Bruno Barillari nasce a Galatina, Lecce il 3 aprile del 1973. Eredita la passione per la fotografia insieme ad una Rolleiflex biottica GX 2,8 nel 1987. A pochi esami dalla laurea in Economia e Commercio a Parma si diploma invece, nel 1997, all’Istituto Italiano di Fotografia di Milano “preferendo lavorare con la luce che vivere di riflesso…” Dedica il tempo libero alla ricerca, nell’accezione pura del termine. Odiando le etichette, soprattutto nel suo settore, ama considerarsi semplicemente un uomo che scatta fotografie. Tra le ultime esposizioni lo scorso novembre ha esposto a Parigi nell’ambito del fotofever al Carrouseldu Louvre. Le sue foto sono pubblicate dalle più prestigiose riviste tra le quali Vogue, AD, Sposabella, Dove, Times e quotidiani tra cui il Corriere della Sera, La Gazzetta del Mezzogiorno, Il Sole 24 Ore.