Spagine della domenica 70

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spagine della domenica n°70 - 29 marzo 2015 - anno 3 n.0

Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri di Gianni Ferraris

Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri


spagine

L

La prescrizione è simbolo di una giustizia debole

Ops, son scaduti i termini

a domanda che il cittadino si pone è secca e chiara: può una giustizia lenta e incapace di giungere a conclusione di un iter giudiziario ritenersi giustizia? O non è più verosimilmente una giustizia debole o addirittura criminale, dal latino crimen (accusa o delitto)? Dalla controversia tra vicini per un muro di confine ai grandi processi per corruzione ai danni dello Stato la giustizia in Italia procede come una limaccia, che lascia dietro di sé la bava delle sue secrezioni. Impiega anni ed anni per portare a termine un processo, se pure ci riesce, a danno di tutti, a beneficio unico forse di chi nella vicenda ha torto. Questi, nel peggiore dei casi, si vede ridotta la pena; nel migliore, affrancata. E poiché un processo non può durare in eterno, ecco l’esigenza tecnica di porre un limite, oltre il quale il reato è prescritto, a volte si ribadisce il reato ma è prescritta la pena. La prescrizione entra così di fatto e di diritto come fattore determinante di giustizia o di ingiustizia. La sua importanza è decisiva. Se un inquisito colpevole riesce a tirarla per le lunghe, fino a far durare il processo al punto da far scattare la prescrizione, è premiato; chi ha subito il danno invece è penalizzato. Quando il penalizzato è lo Stato, allora penalizzati sono tutti i suoi cittadini, i quali sono chiamati direttamente, attraverso le tasse, a rimettere al loro posto i soldi che solo alcuni hanno sottratto. Ormai anche i più distratti cittadini questo lo hanno capito, perché, grazie a Dio, hanno avuto esempi su esempi in questi anni di processi andati in prescrizione. Si capisce allora perché in questi giorni il governo di Matteo Renzi è in fibrillazione. La Camera ha approvato nell’ambito della più ampia riforma della giustizia l’articolo che riguarda la durata dei tempi entro i quali il processo si conclude o scatta la prescrizione. Il problema è grave, gravissimo. Pur prendendo certi dati con le pinze, non si può

ragionevolmente preoccuparsi di fronte a cifre simili: novanta per cento di corruzione, sessanta miliardi di euro i costi. Quand’anche queste cifre fossero realisticamente dimezzate, costituirebbero uno sproposito nazionale. Il punto controverso riguarda la prescrizione per reati di corruzione. La maggioranza di governo è divisa. Mentre la componente Pd ha voluto allungare i tempi del processo a 21 anni, la componente del Ncd vorrebbe contenerli entro 15 e minaccia guerra in Senato, dove il decreto legge arriverà mercoledì prossimo 25 marzo. Tra le due componenti la prima sembrerebbe privilegiare il corso della giustizia perché gli concede tempi più lunghi per portare a compimento i processi, a danno degli imputati che si troverebbero con tempi più ravvicinati per poter beneficiare della prescrizione ed “evadere” dal processo. La seconda, invece, concedendo al corso della giustizia tempi più brevi, sembrerebbe privilegiare gli imputati. Esemplificazioni, si dirà; ma assai significative. Entrambe, in verità, si fondano su una valutazione negativa della giustizia medesima, che non riesce a concludere un iter giudiziario entro i termini di un periodo congruo. Essa perciò si lascia percepire come incapace di fare vera giustizia e come strumento a disposizione di ladri, truffatori, prepotenti, corrotti e corruttori. Se l’allungamento dei tempi e l’inasprimento delle pene possano veramente ridurre il gravissimo fenomeno della corruzione in Italia è un’altra materia sulla quale discutere. Il paese si augura di sì, anche se l’esperienza insegna che nessuno strumento è efficace se non è accompagnato dalla volontà di chi lo usa, da una volizione in azione. Dunque, lo strumento va bene; ma chi lo usa lo può esaltare nel bene o mortificarlo nel male. Oggi non c’è cittadino che non pensi che la giustizia serva solo a chi viola la legge e agli avvocati che lo assistono. La situazione è paradossale. Più torto

di Gigi Montonato uno pensa di avere e più confida nella giustizia, che comunque, se pure lo condanna, gli riconosce sconti di pena importanti. Più ragione uno pensa di avere e più dispera che la giustizia gliela possa riconoscere; e cerca, pur perdendo non poco del risarcimento che dovrebbe avere, di trovare un accordo con l’altra parte. Meglio un cattivo accordo – si dice – che una causa vinta. Il che la dice lunga sull’opinione che i cittadini hanno sulle concrete possibilità che la giustizia ha di far trionfare chi ha ragione e di condannare chi ha torto. La politica, che è fortemente interessata alla scadenza dei termini a causa di tanti suoi esponenti coinvolti in processi per reati di corruzione, sarebbe più giusto, per evidente conflitto di interessi, che cedesse alla magistratura il compito di stabilire la durata della prescrizione. Non lo fa non solo perché nessuno che abbia il potere di decidere lo cede agli altri; ma anche e soprattutto perché i magistrati non godono da noi di imparzialità, come dovrebbero godere se fossero veri sacerdoti del diritto e non aspiranti politici. 21 o 15 anni, si tratta comunque di periodi lunghissimi, sono inaccettabili in un paese moderno ed efficiente, sanciscono l’impotenza di quella che è la più importante delle garanzie del patto sociale. I cittadini hanno la necessità di credere nella giustizia, di recuperare la fiducia in lei. Ma i cittadini in Italia sono una cosa, i politici un’altra. Di destra o di sinistra i politici sono da ridere quando parlano di garanzie. Garanzie per chi? Per i cittadini normali, onesti, laboriosi no di certo; per i lazzaroni e i delinquenti certamente sì. Ma in un paese normale la politica dovrebbe stare con la gente onesta, non solo perché è la maggioranza ma anche perché è la più meritevole. In Italia, invece, sta con se stessa, che, pur minoranza, detiene le leve del comando e decide il da farsi. La politica, per dirla con Cicerone, che ormai nessuno più ricorda, in Italia è sempre pro domo sua.


LAGI USTI ZIASI AGIU STA

l’opinione

della domenica n°70 - 29 marzo 2015 - anno 3 n.0

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iamo soffocati dalle “giornate mondiali” ed “europee”. Giornata Europea della creatività, Giornata mondiale del libro, Giornata mondiale della poesia, Giornata mondiale della donna, Giornata monpensamenti diale del Teatro (quella appena trascorsa), ecc. ecc. Ma basta! Che noia, che barba, ma a cosa serve tanta deferenza... se non a consolarci? Esanimi! Nell'abbandono. E poi di nuovo a casa... come se non sentissimo il vuoto provato nei loculi dai velluti rossi delle piccionaie del teatro straripante. Il Paisiello ora dorme; certo, egli è silente da duecento anni! Antonio Zoretti


diario

spagine

della domenica n°70 - 29 marzo 2015 - anno 3 n.0

Lunedi

Basta sperare, Franco, amico mio! La ruota gira, il mondo è ben rotondo. La luna, invece, Cristo, è fatta a pera: chi spera campa a giorno e muore a sera. Le novità? Un anno senza canto, un anno di silenzi per capire!

Sperare, cantava Della Mea, l’Ivan che pensava (quanti eravamo a pensarlo?) che il rosso diventava giallo… Sperare, in cosa, in chi? Avevamo un’idea del mondo (forse l’avevamo) avevamo un’idea del futuro. L’America era quella della libertà di movimento e della guerra in Vietnam, l’est europeo era colorato di grigio nei nostri pensieri. E allora? Allora “viva Mao” si urlava, poi sapemmo e restammo allibiti, avevamo confuso la rivoluzione culturale con qualcosa di liberatorio, non già con un massacro. Allibiti rimanemmo, muti mai. Chi spera campa a giorno e muore a sera, come l’immortalità dei ragazzi che corrono sugli argini dei fiumi, sugli spalti dei fossati, sul filo di rasoio del loro incerto futuro mangiato, divorato dall’alta finanza che si colora di giallo e rosso e verde. Arrivano cinesi e comprano la Pirelli e il cucuzzro intero come fosse un appartementino in periferia. La FIAT già se n’era andata lontano, ha pure cambiato nome per cancellare quell’improbabile I (italiana).

Martedi Camminavo sul marcipiedi verso casa, mi affianca una bimba spingeva il suo passeggino con la bambola dentro, la mamma l’accompagnava, la bimba si ferma, guarda la mamma, punta il dito sulla bambolina e dice “guardala, si rilassa”. E io passo, sorrido e penso che se non cresce è meglio, se il tempo si ferma qualche decennio è meglio… Non si ferma il tempo però, è inesorabile guardare anni senza canti e senza gioie, con poche gioie e pochi canti. Intanto il Tg manda notizie sempre uguali a sé stesse, intanto là si sparano e ogni tanto ammazzano civili, a volte anche italiani e allora il primo ministro corre all’eroporto a raccogliere (accogliere?) le bare, ormai è routine. La bambola dorme serena e si rilassa, il rosso non è più giallo né arancione. I ragazzi sciamano per la città invece di stare a scuola, ne hanno diritto di rivendicare il loro non futuro e i loro anni “senza danno”. Più che studenti paiono reduci da una guerra che ancora deve esplodere, più che ragazzi sembrano bimbi con i capelli corti, con gli zaini, con le sigarette che

reso consuetudine negli utlimi vent’anni? E poi questa storia di comunicare via twitter somilgia a quei fidanzatini che si scambiano un kiss e pensano di aver fatto l’amore per una notte intera!

di Gianni Ferraris

stanno fumando e coi telefoni attaccati agli occhi. Perché ormai il telefono si guarda, non si ascolta più, al massimo ascoltano musica con le cuffiette. Pensieri liberi come farfalle, colorati… oddio proprio colorati non paiono. Rosarno è il paese in cui immigrati fanno l’economia. Loro sono gestiti dalle mafie della raccolta di arance, lavorano per pochi euro, sfruttati, tenuti in tende e in baracche, senza tutele. Loro hanno formato una squadra di calcio fatta interamente da immigrati, il “Koa Bosco Rosarno”. Partecipano al campionato di zona. Ad ogni partita vengono pesantemente insultati “negri di merda, andate a raccogliere arance” e via dicendo. I “civili” italioti si scagliano contro coloro che portano quattrini nei loro negozi, che raccolgono le loro arance, italioti? Mah! L’economia domina, sappiamo sappiamo… e le contraddizioni non si contano in questo invredibile vero che è diventata l’Italia. Roma, una sottosegretaria indagata per probabili porcate fatte quando era alla Regione Sardegna, viene attaccata da Alessandro Gassman su twitter : @GassmanGassman: “Sottosegretario intanto che chiarisce, lascia la poltrona pagata da noi? Grazie”. Lei pronta risponde: @Barracciu: “Chiarirò tutto a fondo. Lei intanto che impara fare attore, può evitare far pagare biglietto cinema per i suoi "film"? Grazie”

Noi siamo fortemente garantisti, nessuno è colpevole fino a che tutti i gradi di processo sono passati, però… però… però esiste (dovrebbe esistere) un’etica che dice a chi ricopre un ruolo pubblico di moderarsi. Alla signora Francesca Barracciu forse sfugge un dettaglio, se un cittadino comune ritiene che Gassman sia un pessimo attore non va a vedere i suoi film e non paga, se ha invece il sospetto (quando lo dice la magistratura) che un pubblico amministratore sia corrotto o abbia fatto porcate non ha nessun mezzo per difendersi, per bloccarne lo stipendo e le varie prebende. Solo una gaffe della Barracciu o un modo di pensare ed agire

Affannata pioggia che scende da stanotte e per tutto il giorno, sembra di essere a Macondo, quella raccontata da Marquez in quello che forse è il più grande romanzo del ‘900. Sembra, persò siamo solo a Lecce dove alcune strade con la pioggia doventano fiumiciattoli. Quanto basta perché il pedone (ahi l’incivile pedone che osa camminare ai tempi del motore) venga inondato da ogni auto che passa. Non importa, non fa nulla, noi si cammina rasi al muro e si mandano improperi a quello che guida forte telefonando.

Mercoledi Ed è cascato un aereo, 150 i morti. Mentre ne scrivo pare che un pilota fosse chiuso fuori dalla cabina di pilotaggi, l’altro non rispondeva ai richiami ed ha fatto schiantare l’aereo. Qualcuno dice suicidio, non nel suo bagno di casa, per carità, si è portato appresso un mare di persone. Altri dicono terrorismo. Mistero al momento. Fra i passeggeri 16 erano studenti tedeschi. Avevano vinto il viaggio con un sorteggio…

Non appena i giornali di ogni parte del mondo battevano la notizia che i piloti sono tedeschi, l’onorevole (?) Santanchè se ne usciva con questo tweet: “Che origini hanno i piloti dell’autobus caduto???”

Ora, qualcuno a lei vicino dovrebbe prendersene cura, sugli autobus ci sono gli autisti e non i piloti. Gli autobus non cadono (solitamente), a volte si schiantano. E se sapesse attendere prima di aprire quella boccuccia plasticosa si eviterebbe borgheziate. Ah, per inciso, la signora Santanchè percepisce stipendio da parlamentare proprio come quelli che lo meritano. E coleva comprarsi l’Unità intera, il giornale fondato da Gramsci. Totò lo direbbe : “ma mi faccia il piacere….”.

Rapina in un supermercato nel napoletano. Muore il figlio del proprietario che aveva insegutio i criminali. Arrestati, si scopre che sono due carabinieri che lavorano a Mestre e nel tempo libero rapinano a Napoli. Per par condicio, uno è napoletano, uno è veneto, Salvini non potrà che prenderne atto, i criminali stanno anche a nord. Giovedi…


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la riflessione

della domenica n°70 - 29 marzo 2015 - anno 3 n.0

La fine dell’olio d’oliva

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a lotta alla xylella fastidiosa ci obbliga a fare i conti con il linguaggio, con il significato delle parole nella nostra storia. Così nel vocabolario della nostra vita sociale di ogni giorno, con forza si afferma la parola: eradicazione come lotta alla xylella fastidiosa e quindi come strategia per la difesa dell’ulivo, che comincerà il 30 marzo nelle campagne di Oria. Non ci eravamo mai interessati a questa parola. Non ne avevamo mai sentito il suo bisogno, non esisteva nella cronaca dei giornali ed era assente dal nostro pensiero. La nostra storia passa attraverso le parole per trasformarsi in significati di vita. Così eradicare non significa semplicemente abbattere piante secolari, segnate con la croce rossa, ma molto di più: significa infatti intervenire nella storia e modificare l’identità di appartenenza del popolo alla sua terra. Eradicare vuol dire annullare l’Esistenza delle radici e cioè a partire dall’Essere. Avere radici significa Essere realtà nel tempo articolato nei cicli della cultura dei popoli nel rapporto con la loro terra. L’ulivo secolare è il Verbo che declina il suo Essere con la terra. Dalla città di Gerusalemme a tutte le città del Mediterraneo l’ulivo ha segnato nella storia il desiderio di conciliazione dell’uomo: l’ulivo ha accompagnato infatti l’uomo nella strada del pane ed in quella della fede. La storia del Mediterraneo vive per e con gli ulivi. Eradicare gli ulivi significa cambiare lacultura del Mediterraneo e ridurre in cenere i volti e i luoghi della terra che è sempre stata generosa verso chi le ha portato rispetto. Eradicare vuol dire proprio quindi non avere nessun rispetto, nessuna sensibilità, nessun riconoscimento verso una cultura secolare: il Salento e i suoi ulivi millenari che oggi sono un parco culturale nella storia del mare che vive della civiltà dei popoli lungo le sue sponde. Gli ulivi sono il senso e le emozioni del paesaggio che nel tempo si è trasformato in arte divenendo museo a cielo aperto.

“Nell’albero velato di generazioni d’in d’effimere stagioni circola una fragranza di tempo inviolato che satura le pause del tuo fiato d’una coscienza di perennità”

di Luigi Mangia

Girolamo Comi

L’ulivo per noi salentini è appartenenza, è storia al trapassato remoto è l’Essere forte e lontano nel tempo. È l’Essere di un popolo abituato a vivere nel sole umido e nei profumi della terra. L’ulivo è il nostro intelletto poetico che ci aiuta a resistere all’eradicazione, e, attraverso la poesia ci insegna a difendere le nostre radici. Eradicare vuol dire annullare la nostra vita e ridurre in cenere la nostra cultura e le nostre tradizioni. Italo Calvino sosteneva che: sugli scaffali dei supermercati nei prodotti in vendita c’è la storia degli agricoltori, la sapienza delle loro mani, il verde sotto il cielo dei prati. Eradicare allora vuol dire scrivere la parola fine ad un modello culturale ed iniziare uno nuovo: passare dall’olio d’oliva extravergine a quello di oliva ogm. Si parla da tempo e la xylella fastidiosa è l’opportunità migliore per realizzare questo passaggio: cioè sostituire gli ulivi secolari nel Salento con ulivi ogm resistenti alla malattia. Ora gli ulivi da ridurre in cenere sono più di un milione e valgono milioni di euro. Quali sono i soggetti interessati a questo grossissimo affare? Chi c’è dietro la peste dell’ulivo? Chi sono i soggetti interessati alla speculazione? Si conosce bene solo la dimensione del disastro degli ulivi da ridurre in cenere, il resto è buio totale. La confusione è così evidente che la magistratura sta svolgendo le sue indagini per chiarire le criticità e per dare risposta alle molte ombre. Per noi vale sempre l’impegno: giù le man dall’ulivo, la nostra terra nu se tocca e l’eradicazione è una soluzione sbagliata: vale lo stupro della nostra terra.


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luoghi

della domenica n°70 - 29 marzo 2015 - anno 3 n.0

Di un mantello rosso

e di Belloluogo

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edicata questa storia a Samuele Mancarella e Giovanni Passiatore (studenti di I e II liceo Classico Giovanni Paolo II di Lecce) che mi hanno fatto scoprire il rosso di un mantello. Non è per la storia di Belloluogo e della sua torre che sono venuta qui; io cerco il sussurro dell’ombra di Maria d’Enghien, quel particolare che sveli il suo silenzio, quella breccia pur se lieve che mi permetta di far diventare mia, anche mia, la sua solitudine. Ora mi perdo nel rosso del mantello di Maria la Maddalena; immobile tra la gente che giunge e mi s’accalca intorno, guardo; racchiusa qui, la “mia” storia, il “mio” sogno realizzato; qui, accanto a Samuele e Giovanni, riscopro la storia di donne innamorate, sorelle nella stessa sofferenza d’amore. Ho scelto la storia, fra le tante che Samuele e Giovanni mi raccontano. Ho scelto il mantello rosso di lei, la Maddalena che non si rassegna alla morte del suo Rabbunì, del suo “maestro buono” e continua a cercarlo e vorrebbe andare a Roma, sin da Cesare, a denunziare Pilato e continua a vagare, vagare e passano i secoli e i millenni e nell’ XI secolo è in Provenza o forse in Borgogna; una grotta accoglie lei, eremita, e il suo mantello rosso, la sua disperata nostalgia d’amore. Maria d’Enghien ha scelto lei e l’ha resa immortale nell’affresco della cappella sua, a Belloluogo; ai piedi del suo Rabbunì, del suo maestro buono, da secoli

di Giuliana Coppola

prega, racchiusa nel suo mantello rosso; da secoli, ormai, pregano accanto Maria di Magdala e Maria d’Enghien e la notte, quando luce ed ombra si confondono, loro, anche loro ombre leggere, respirano profumo di fiori di mandorlo. Perché è fiorito ancora il mandorlo, lui che, leggenda vuole, ha allietato i giorni di Maria d’Enghien. Brusio di voci, di giovani studenti ad accogliere visitatori della Torre del Parco. Mi affido a loro, a Samuele e Giovanni e inizio a realizzare il mio sogno che diventa concreto come rumore di passi sulle chianche; un sogno durato tanto, dal momento in cui Beniamino e Costantino Piemontese hanno iniziato a sfidare il mondo, perché il mondo s’accorgesse di Belloluogo, della Torre, del profumo della storia calpestata da dimenticanza, del silenzio di Maria d’Enghien. Grazie soprattutto a loro, grazie ai Piemontese, artisti nell’anima che hanno dato forza e voce a ruderi e pietre, oggi continua a parlare la storia ed oggi parla con voce di Giovanni e Samuele, giovani guide, speranza concreta d’un futuro diverso, che meraviglia questo futuro se continuerà ad avere il loro passo veloce e sicuro. Ingresso della Torre di Belloluogo, al di là del ponte restaurato, sospeso sul fossato… Il tronco d’un albero di fico protegge l’angolo della soglia. Ha scelto di nascere e crescere qui e qui gli ha permesso di continuare a vivere e a rifiorire anno dopo anno l’accurato, affettuoso, intelligente restauro di questo luogo pieno di fascino e di mistero. Sull’an-

golo di una soglia, in un abbraccio tra il finito dello spazio di una sala e l’infinito d’azzurro di cielo. “Dopotutto, gli alberi hanno quella capacità di sussurrare le storie: quelle delle loro radici, che risalgono la corteccia sino alle fronde. In questi racconti sono sedimentate le storie del paesaggio che li ospita e della gente che li ha frequentati: di quelle persone che vi sono transitate davanti e di quanti, all’ombra della loro chioma, hanno trovato ristoro per la propria anima e il proprio pensiero”. Guardo il tronco e le parole di Gabriele Rosato, racchiuse nel suo Cronache di un Raggio di Luna mi aiutano ad esprimere sensazioni; voce giovane anche la sua, come quelle di Samuele e Giovanni che continuano a raccontare di scale, di terrazzo sospeso sul fossato, di sale illuminate dal sole con lo sguardo rivolto all’infinito che sbuca e s’intrufola dovunque, della cappellina minuscola ed eccola la leggenda, quella scelta da Maria d’Enghien, per la sua Maria Maddalena venerata anche in Borgogna nell’ XI secolo; si dispiega davanti ai miei occhi la sequenza delle scene inserite entro cornici ornate a racemi; Maria Maddalena, i quattro evangelisti, il Cristo benedicente, i sette profeti raccontano silenzi. Il resto è raccontato da un mantello rosso scoperto grazie a Samuele e Giovanni; storie d’amore; leggende d’amore che ognuno può leggere con l’anima; Rabbunìe la sua Maddalena, Raimondo Orsini del Balzo e la sua Maria d’Enghien; c’è nell’aria profumo d’un mandorlo fiorito.


La Torre di Belloluogo in una litografia di V. Buia 1898


Sappiate che fingiamo

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scritture

della domenica n°70 - 29 marzo 2015 - anno 3 n.0

di Ilaria Seclì

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appiate che fingiamo. Fingiamo di capire le vostre parole. Fingiamo di accettare la vostra logica, i vostri meccanismi. Antefatti, tirocini, addestramenti. Fingiamo di capire che ciò che più conta è ciò che più conta per voi. Fingiamo. Esattori di tempo e vite. Di libertà. Dovevamo preservarci. A tutti i costi dovevamo preservarci, ma non ci siamo riusciti. Il mondo sposta anche i detriti più forti e pesanti. È fatto così, una frana senza grazia inelegante cieca insensata trascina e inghiotte tutto. Dovevamo preservarci. Dire subito che quelle parole non erano le nostre, quelle graduatorie per l’inferno, chiamate, nomi e numeri, numeri, nomi, deportazioni. Quei patti tra reggenti che fingono interesse per chi non avrà mai l’interesse di nessuno. Pedine pedine pedine, animali da trincea votati alla fine, fine per sfinimento. Lo sapevamo e ci siamo infilati interi, come per darci contezza e conferma dell’orribile del mondo, sue pratiche, sua attitudine a cooptare schiavi e schiavi, morti che camminano, creature sfinite da loop di soste, entrate e uscite infinite nei corridoi anemici, lividi, marci. Dove le partite sono già giocate, i risultati conosciuti prima del gioco, prima di ogni calcolo. Ho visto persone diventare animali commerciali.

Gladiatori in un affresco nella necropoli di Paestum

I deportati del terzo millennio, gli sradicati, appena arrivati per poco più di due soldi nelle nuove terre, ammazzano solitudine e smarrimento, comprando. Comprano. Le donne dell’est fumano e telefonano, gli animali commerciali comprano. Profumerie, le prime ad essere prese di mira. Salvo poi accorgersi, nemmeno dopo tanto e dopo aver pagato l’affitto, che soldi non te ne restano. Animali commerciali, tasche da svuotare per economie colonizzatrici. ‘Ntoni è vivo. ‘Ntoni parte sempre per la leva militare. E la barca affonda per quella legge che vuole vinti i vinti, coi loro comici lupini. Ancora, ancora. Prego, fate pure. In fondo, per un lavoro si fa questo e altro. L’affitto, nelle terre nuove, è altissimo, quasi inversamente proporzionale alla metratura. Nelle nuove terre 20 metri quadrati costano 700 e più euri. Nelle nuove terre. Expo2015 e mortifere sorti e progressive. Ma che vuoi, che vuoi farci, è questa la vita. Per sperare di restare devi frequentare corsi e storielle varie a suon di mila euri. Anche per l’iscrizione alla prova, ci entri o non ci entri, c’è un signor bollettino da 150 euri. Compilalo. Pagalo. È il mondo, bellezza. E le cose vanno così. Prendere o lasciare. Voi però sappiate che fingiamo. E dietro un sorriso, sappiate, vi malediciamo.


spagine

della domenica n°70 - 29 marzo 2015 - anno 3 n.0

L’abecedario di Gianluca Costantini e Non voglio vedermi vuoto non voglio che il vento ti porti via non voglio vederti vecchio voglio che vivi e vegeti vieni! non versarti rimani anche se io sono solo

Maira Marzioni

un vaso e tu un vanitoso vegetale. Voltati e vivi con me veglia sul mio ventre o piuttosto vai via o verde rimani zolla


l’osceno del villaggio

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L

della domenica n°70 - 29 marzo 2015 - anno 3 n.0

“Miserabili saltimbanchi, guitti degli ascolti, accattoni del consenso, non avete specchi in casa ai quali fare assaggiare la vostra saliva?”

La morte in diretta

a televisione si alimenta di sé stessa ed ha bisogno di procurare emozioni sempre più forti per catalizzare interesse e gradimento del pubblico, frammentati nei mille canali tv e web. L’avvento dei “reality show” ha segnato una nuova frontiera dell’intertainment. Da quel momento, è stata tutta una corsa al rialzo, o al ribasso, per guadagnare nuovo pubblico, non certo facile da imbecherare dopo avergli propinato di tutto. Mettere in vetrina le più sordide pulsioni degli svalvolati protagonisti dei reality si è rivelata una strategia vincente in termini di audience; puntare sulle più incontrollate reazioni dei mentecatti concorrenti, sulla loro ignoranza, le loro più inconfessabili perversioni, i tic nervosi, le paranoie, le manie ricorrenti, è stata la geniale trovata degli autori dei vari “Grande Fratello” (antesignano di tutti i reality), “L’isola dei famosi”, “La Fattoria”, “La Talpa”, “Pechino Express”, e via dicendo. E quando le persone comuni hanno smesso di fare audience, si è pensato di ricorrere ai “vip”, perché capaci di suscitare maggiore attrazione. Così, fuori il meccanico di Bitritto e la parrucchiera di Rapallo, e dentro i personaggi famosi, mediamente falliti o semi falliti, nelle loro carriere di cantanti, attori, presentatrici, showgirl, ormai usciti dal giro

Superbia - Enrico Ruggeri

e quindi in cerca di un rilancio. Reazioni isteriche, fobie, furibonde liti, parolacce, pugni e schiaffi, lanci di accuse infamanti e oggetti contundenti, hanno effettivamente catturato l’attenzione di un pubblico narcolettico ormai avvezzo alle più amene trivialità e castronerie mediatiche. Sottoposti a prove fisiche molto dure, i “morti di fama” hanno rivelato tutto il meglio, ossia il peggio, di se stessi. E lo share si è impennato. Anche alle prove di resistenza e alle sfide estreme però la televisione non è nuova. Pensiamo soltanto alla serie “Mai dire Banzai”, trasmessa fino a qualche anno fa da Italia 1, in cui venivano riportate immagini prese dalle trasmissioni giapponesi. Si trattava di giochi televisivi in cui i concorrenti, con un sadismo tutto nipponico, venivano sottoposti alle più brutali e disgustose prove fisiche. Il bello era vedere le loro facce normalmente inespressive contrarsi in un sorriso innaturale che mascherava il dolore lancinante che in quei momenti li strappava alla loro abituale catatonia. Concorrenti legati ad un elefante e trascinati in un percorso di sassi,fango e sterpaglia, oppure costretti a passare attraverso il fuoco, o fatti nuotare nella melma, semiaffogati in enormi vasche,fatti correre nudi in percorsi ad ostacoli sempre più pericolosi, costretti a limonare con viscidi animali, o ancora infilati dentro gabbie con belve feroci.

di Paolo Vincenti

Queste, solo alcune delle crudeltà dispensate da quello stupidario dei giochi giapponesi. Ma per fare un esempio attuale, potremmo citare “Lo show dei record”, su Canale Cinque, condotto dal pingue Gerry “signor Scotti!”. Crisi di nervi, malori, sesso esplicito: non c’è limite al “realismo” del reality. Mancava però la morte in diretta, che è alla fine arrivata in uno show francese girato in Argentina: “Dropped”. Due elicotteri, su cui erano i concorrenti, si alzano in volo e si scontrano fra di loro prendendo fuoco (Fonte: “Tv Sorrisi e Canzoni” del 21/03/2015). Dieci morti, tra cui tre celebri atleti: la campionessa olimpica di nuoto Camille Muffat, 25 anni, la velista Florence Arthaud, 57 anni, il pugile campione olimpico Alexis Vastine, 28 anni. Insieme agli altri concorrenti scomparsi, si erano avviati sorridenti verso la tragedia nei cieli argentini di Villa Castelli. Questa, l’ultima frontiera della barbarie televisiva, pronta ad essere rivenduta dalla tv francese TF1, come format di successo in tutto il mondo. Tuttavia, quella dei concorrenti di “Dropped” è stata una morte involontaria, causata da un incidente. Aspettiamo ora la morte consapevole e programmata, ovverosia il suicidio e l’omicidio intenzionale, allorquando un concorrente decida di farla finita, oppure di scannare un altro collega, in diretta tv.


pensamenti spagine

CRONACHE MARZIANE Ha ragione Matteo Richetti: “essere accusati di arroganza da D’Alema è come essere accusati di infedeltà da Casanova”. In effetti, l’esponente politico più antipatico della storia della sinistra italiana, alla convention della minoranza Pd che si è tenuta qualche giorno fa a Roma, si è permesso di accusare il Presidente del Consiglio, nonché Segretario del suo partito, Matteo Renzi, di essere arrogante. Un coro di commenti negativi lo ha sommerso, non solo da parte della maggioranza del Pd ma anche della stessa minoranza. A prendere le distanze da D’Alema e i suoi baffetti da sparviero sono stati finanche quegli esponenti politici che gli erano più vicini, come Cuperlo, Latorre, Velardi, Orfini (tutti prontamente saltati sul carro renziano del vincitore). Questi, senza troppi giri di parole, hanno rintuzzato il vecchio segretario “malpancista”, accusandolo di essere un farneticante, rancoroso, affetto da sindrome schizoide e paranoica, come riferisce l”Huffington Post. “Deve farsi curare”, ha detto Velardi; “D’Alema rinfaccia a Renzi quello che anni fa veniva rinfacciato a lui”, ha soggiunto Orfini; di "Guerra di guerriglia, simultaneamente dentro e fuori il partito, imboscate, resistenza e attacchi mirati”, ha parlato Rondolino. Tutti d’accordo nell’isolare D’Alema, ormai fuori dalla grazia di (PD)io. La verità è che ci sono sempre dei motivi personali dietro certe intemerate. A D’Alema non è andato giù il trattamento riservatogli dal leader rottamatore Renzi, che lo ha defenestrato, allontanandolo dalla politica attiva. Ma la sua battaglia personale contro il Presidente del Consiglio è anacronistica e perdente. Cosa può una vecchia 131 Mirafiori contro la nuova Cinquecento Fiat? Una scassata Lancia Dedra contro una nuova Audi A6? Una svitata Opel Corsa contro una nuova BMW 730? D’Alema è stato rottamato e dalla rottamazione non si torna. Ma il vecchio leone non ci sta e non si rende conto che il suo ruggito si è ormai affievolito in uno squittio. Purtroppo per certuni, uscire dalle scene, corrisponde non solo alla morte politica ma anche alla morte fisica. Più che normale quindi che cerchino di scongiurarla, procrastinarla sine die. È l’istinto di sopravvivenza, che ci farà sentire ancora a lungo il fastidioso brignao dell’ex Lider Massimo.

PORNO IN TV Dacché Rocco Siffredi è diventato un personaggio televisivo, grazie al suo recente successo nella trasmissione “L’isola dei famosi”, il porno in tv è stato definitivamente sdoganato. Bisogna riconoscere a Maurizio Costanzo il merito di essere stato il primo a portare sul piccolo schermo i divi dell’hard e a farne personaggi mediatici. Nel suo famoso salotto di Via

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Parioli, Costanzo ha ospitato spesso Rocco Siffredi, Franco Trentalance (anch’egli protagonista di un reality, “La Talpa”), Jessica Rizzo, e soprattutto Selen. Naturalmente in televisione vanno quelli che hanno qualcosa da dire, ché non tutti sono più che macchine perfette di resistenza, muscoli e coordinazione. Per esempio Selen, al secolo Luce Caponegro, qualcosa da dire aveva e la esponeva anche in maniera sintatticamente apprezzabile, tanto da meritare l’appellativo di intellettuale. Omar Galanti, Roberta Gemma hanno fatto diverse comparsate in tv e così pure Eva Henger, ospite quasi fissa nelle domeniche di Barbara D’Urso. Dalla televisione alla stampa e al web il passo è breve. Valentina Nappi, pornostar e pensatrice anticonformista, sta facendo molto parlare di sé, nei convegni dove viene ospitata, e in tv. La pornostar filosofa spopola sulla rete e ogni testata online la intervista. Recentemente la Nappi, lanciata da Rocco Siffredi, si è segnalata per una polemica con il giovane filosofo Diego Fusaro, sulle pagine di “Micromega”, dove entrambi scrivono. Intervistata da Lettera 43, la Nappi cita Bach (“L'amore è quel logos universale a cui allude la musica di Bach... Il vero amore è quindi qualcosa di profondamente ideale e razionale”) e Hobbes, affermando “La modernità politica si fonda su Hobbes ed è incompatibile con il comunitarismo. Se rinunci a Hobbes, rinunci all'Europa moderna. Lo stesso comunismo (per come lo intendo io: ateo, scientista, tecnocratico) è incompatibile con il comunitarismo”. Afferma inoltre di non essere un’intellettuale e di non fare soldi con il proprio corpo in quanto il concetto di “mercificazione del corpo” è logicamente mal posto: infatti, con questa espressione si intende il commercio degli organi, che non è certo quello che fa un’attrice porno. Alle definizioni del suo nemico Fusaro di “Sinistra dei costumi, destra del denaro”, risponde che si tratta di “una descrizione perfetta di un punto di vista comunitarista anti-moderno, fondamentalmente ostile alle battaglie per i diritti civili, la laicità, la libertà sessuale, e a quella che Marx chiamava «espropriazione degli espropriatori»”. Il male assoluto per lei è il fascismo, che oggi si chiama anticapitalismo, mentre il bene è lo sviluppo tecnologico, cioè i voli low cost, internet e l’Unione Europea. “Io spero”, dice su Affaritaliani.it, “di portare un po' di pornografia nei musei e nei convegni, come "ospite" da rispettare nella sua alterità e nelle sue peculiarità”. Su Repubblica on line, invece, elogia il capitalismo ma si dichiara una comunista. Insomma la Nappi ha le idee un po’ confuse e risulta troppo costruita nel suo tentativo, alla fine disarmante, di elaborare una ontologia della scopata. Siamo molto distanti dal grande Tinto Brass: “il culo è lo specchio dell’anima!”.

Valentina Nappi smetta di parlare difficile per saltellare sui media. E se proprio vuole essere un personaggio pubblico, può sempre fare la deputata di Forza Italia.

CRONACHE MARZIANE (RELOADED) Raffaele Fitto nella sua battaglia politica all’interno di Forza Italia, ha tutto da perdere. L’eurodeputato pugliese vorrebbe ripetere, a destra, il percorso virtuoso compiuto da Matteo Renzi a sinistra, tentando di emulare il Premier bischeraccio non solo nel modus operandi ma perfino nelle formule usate. Ha chiamato il proprio movimento “I Ricostruttori”: ma un po’ di fantasia i suoi spin doctors potrebbero averla! Il tentativo di Fitto potrebbe richiamare alcuni politici votati al martirio, come i jiiadisti islamici , ma di Tafazzi disposti a prendersi a randellate sulle palle non ce ne sono poi tanti. Fitto non si rende conto di non poter ripetere l’exploit di Renzi. Intanto li dividono le storie personali (la sua è più lunga e quindi più compromessa). Più di tutto, li divide la “Fortuna”, quella che, affermava Machiavelli nel “Principe”, serve insieme alla Virtù, ma soprattutto è donna e quindi “è necessario, volendola tener sotto, batterla, ed urtarla… E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno rispettivi, più feroci, e con più audacia la comandano”. Renzi, baciato in bocca dalla Fortuna, ha trovato sul suo cammino un partito, il Pd, praticamente lacerato e ai suoi minimi storici, e come avversario alle primarie, il segretario Bersani, uno che parla come il ragionier Filini di Fantozzi, “mi dichi, facci pure, mi dii”. Chi invece si trova davanti Fitto? Il sempiterno Berlusconi, dominus incontrastato del suo partito, un satrapo, un monarca, uno che, fino a qualche annetto fa, si riteneva “unto dal Signore”, come i sovrani taumaturghi inglesi e francesi i quali guarivano dalla scrofola. Da che cosa può guarire Fitto col suo tocco medico? Dalle pubalgie? Dalla sinusite? Dalla dissenteria? Berlusconi non lascerà il suo partito a qualcun altro (“Dopo di me il diluvio”). Meno che mai , in questa fase calante della sua pluridecennale carriera politica, in questo canto del cigno. Anzi, la consapevolezza di essere alla fine dell’ultimo round, se non oltre il tempo massimo, lo incattivisce ancor di più e, come un vero campione, non getta la spugna ma vuole essere scon-fitto sul campo. Solo quando il suo partito si polverizzerà del tutto, cioè verosimilmente nella prossima tornata elettorale, il Berlusconi suonato cadrà. Ma c’è ancora un po’ di tempo. Lu Raffele ,se non vuol creare solo l’ ennesimo partitino del 2, 3 per cento, deve farsene una ragione e, per il momento, riporre i suoi sogni di leadership.

di Paolo Vincenti


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Io e la civetta:

dall’alterità al rispetto

A

Verri e Nocera: il Salento come luogo di formazione

ncora un racconto sul Salento – sbuffa il critico accreditato. Sulla sua terra fertile di ulivi (che adesso non si comprende bene se per real necessità o per fatal virtù si vorrebbero eradicare) e carica di fichi dei quali oramai siamo sazi fino alla nausea. L’ennesimo, dopo la nouvelle vague inaugurata da autori come Antonio Errico e il compianto Rocco Aprile. Circa quaranta pagine e per raccontare cosa, poi? Il rapporto di un bambino con una civetta. Nossignori, questo non è materiale per antologie patinate, non varcherà mai la soglia di una casa editrice con una distribuzione regolare: è superato, retrò, manca il plot. Mi diverto a immaginare le pulci che un editore al passo con i tempi farebbe al racconto di Silvio Nocera intitolato Io e la civetta. Giusto quei matti del Fondo Verri potevano accudirlo e pubblicarlo per i tipi di Spagine. Gli stessi matti che, puntuali ogni domenica, rivendicano in rete uno spazio di confronto e scambio fra addetti ai lavori del mondo culturale e poeti outsider. Gli stessi che, di recente, hanno donato alle stampe un altro lavoro sommerso di Antonio Verri, La cultura dei Tao. Vi è, forse, affinità tra il racconto del Verri e quello del Nocera, poiché entrambi evocano attraverso il ricordo non solo una

Terra madre ancestrale (la Mar del Verri, infatti, non è soltanto una visionaria madre di famiglia che aspetta il ritorno del figlio perduto, ma è l’archetipo stesso di Cibele; s’identifica con quella terra che alcune popolazioni primitive – secondo quanto narrato da C. G. Jung – percuotono con un bastone di legno nella speranza di spremerne il fuoco, danzando al ritmo di una musica tribale – probabilmente equiparabile al tanto svilito ballo per la liberazione dal morso del ragno che De Martino aveva così ben studiato e descritto), non solo – dicevo – una Terra madre, bensì anche e soprattutto una disposizione del corpo e della mente – quasi uno stato di grazia che risponde al ricongiungimento con la Terra – ormai lontana nel tempo. Non si tratta di quel fenomeno letterario generalmente etichettato con il termine “panismo”, in quanto né per La cultura dei Tao, né per Io e la civetta, si può parlare di narratori alla disperata ricerca della fusione con l’Uno-Tutto della Natura sia per l’età anagrafica dei vissuti – Nocera e Verri ripercorrono con la memoria rispettivamente fanciullezza e adolescenza – sia perché non avrebbe senso per la cultura contadina raccontare qualcosa che, di fatto, non esiste o, meglio, che è indistinguibile. Il panismo letterario, per definizione, è indistinguibilità, afflato lirico in cui si stenta a riconoscere un io e un tu: ciò non accade nei racconti che stiamo analizzando nell’àmbito dei quali esistono personaggi che parlano e agiscono, sebbene

di Eliana Forcignanò

i loro contorni siano talvolta sfumati e, pertanto, più ricchi di mistero e fascino. La Mar del Verri trova la sua perfetta corrispondenza nella Nonna del Nocera: entrambe percorrono mediante la parola mitologemi popolari su cui hanno fondato la loro intera esistenza e qui è inevitabile porsi l’interrogativo che tutti i postmoderni si porrebbero, ossia se si possa fondare un’esistenza sul mito, un mito non solo narrato, ma rivissuto ogni qual volta lo si narri. E perché no? Verrebbe da chiedersi: i Greci potevano, anzi ne avevano bisogno come sostiene il Nietzsche de La nascita della tragedia dallo spirito della musica perché il mondo luminoso degli dèi olimpi sbarrava la strada all’ostilità di una forza sotterranea: il Fato. Ma erano i Greci – si potrebbe obiettare – non avevano il cellulare né il computer, però possedevano il senso di comunità, proprio come i loro posteri salentini dei primi anni Cinquanta, epoca di ambientazione dei due racconti. Analogamente, quello che appare nell’inconscio collettivo sotteso in questi racconti e così ben rappresentato dalla Mar del Verri e dalla Nonna del Nocera è non una forza benevola, ma oppositiva: nell’immaginazione delle due donne dimorano i Tao, questi spiriti maligni che rubano le anime, e le macare, le streghe compagne delle civette che di notte si cospargono la pelle di particolari unguenti per assomigliare agli occhi dei volatili. Le piante urticanti e velenose, come la cicuta sono, non a caso,


Dal pittore e poeta di Tuglie una profonda riflessione sull’amicizia dette “erbe del diavolo”, benché il diavolo sia un’entità, questa sì, indistinta non l’opposto ontologico e teologico di Dio, ma una sorta di afrore maligno che si coagula in mille spiriti popolanti un emisfero intermedio fra terra e cielo, fra veglia e sogno. Una differenza fra il Verri e il Nocera può intravedersi nel tentativo – a mio avviso ben riuscito – del Nocera di aprire un varco anche alla mitologia olimpica attraverso il personaggio di Titoro, vecchio saggio autodidatta che, nel racconto Io e la civetta, spiega al protagonista il comportamento del volatile intercalando episodi tratti dal patrimonio mitologico greco. Il Verri, invece, preferisce rivolgere l’attenzione esclusivamente alla mitologia salentina e scavare da perfetto etnologo nella concezione arcaica di cui si nutre la civiltà popolare. Abbiamo, però, detto in precedenza che il Verri e il Nocera indagano, attraverso i loro racconti, una disposizione del corpo e della mente che, per noi, è impossibile ritrovare: si tratta della disposizione alla scoperta, quella che i Greci rendevano con il verbo “euriskein” che, a ben riflettere, contiene in sé la radice eu il cui significato è “bene”. In questa febbre che pervade, nei due racconti, personaggio e narratore è insita l’attitudine all’osservazione e alla domanda, un atteggiamento, dunque, meramente filosofico, se è vero – come sostiene Aristotele – che il pensiero nasce dalla meraviglia. Il Verri osserva la Mar e la vita di un piccolo borgo di provincia, mentre il Nocera è sorpreso dal volo di una civetta e non si rassegna alla spiegazione semplicistica del padre: “Sarà un piccione”. No, non è un piccione, è una civetta che diventerà l’amica privilegiata del personaggio bambino già rotto alla fatica di trasportare dalla campagna al paese ceste cariche di fioroni a piedi sotto il sole cocente, ma il camminare e lo scoprire vanno insieme. Qui vi è tutta la differenza, teorizzata da Ivan Illich in quello stupendo Elogio della bicicletta, fra il trasporto e il transito: il secondo si avvale di quella che Illich definisce “l’energia metabolica umana”; il primo di altre fonti. L’energia umana lascia spazio all’osservazione, le altre fonti, sfortunatamente, non possono in quanto il loro obiettivo è l’abbattimento di tempi e costi: nessun posto per l’attitudine all’osservazione, al pensiero, alla scoperta. Il Verri osserva la Mar apparecchiare la tavola con le povere stoviglie comprate al mercato del paese. Il Nocera è catturato dalla sua civetta, ma trova ugualmente il tempo di descrivere la Nonna che, stanca,

“tira la carretta” e passa un dito d’olio d’oliva sui fioroni in maturazione per poi pungerli con un ago sull’ostiolo. Come non individuare in questi gesti un rituale che si compie non tanto in funzione della quotidianità, bensì a futura memoria: la Mar sa di essere osservata, la Nonna porta con sé il nipotino affinché veda e impari. Per i postmoderni è stato necessario un filosofo dello spessore di Hans Jonas per ricordare che il nostro agito avrà inevitabilmente determinate ricadute etiche ed ecologiche sul mondo in cui abiteranno le prossime generazioni, ma, considerando i disastri ambientali di cui siamo testimoni, la voce di Jonas si è persa nel deserto. Per carità! Rifuggo dalla retorica, tuttavia mi domando se la scoperta non implichi anche un estremo rispetto dell’oggetto che si sta scoprendo: Natura nisi non parendo vincitur (La natura non si vince se non obbedendole) – scriveva Bacone. Per il Verri la Mar è sacra pur nella sua perenne disperazione: diviene una figura tragica; il Nocera non osa toccare la civetta se non dopo aver preso confidenza con lei, dopo averle chiesto, avvicinandole gustose prede, una sorta di tacito permesso. Non è paura, ma rispetto: una condizione inalienabile per la scoperta. Concludo questa breve comparazione, sostenendo con rinnovato vigore che il Salento non possiede l’astrazione di un trito luogo letterario: nei due racconti, esso è precipuamente luogo geografico, fisico, ma anche luogo in cui si compie una vera e propria formazione. La cultura dei Tao e Io e la civetta possono sembrare narrazioni del ricordo, ma sono, invece, novelle di formazione, poiché in entrambi si assiste a un’evoluzione dell’Io narrante che, seppur recuperata nel ricordo, è tangibile come vera e propria crescita spirituale, là dove per spirituale non intendo nulla di religioso. O, forse, tutto? Dipende da cosa s’intende per religione.

I

Dalla letteratura alla vita: una riflessione sull’amicizia

o e la civetta – si è detto in precedenza – è il racconto di un’amicizia fra un bambino di sei anni e un rapace. Una storia vera, scritta con semplice maestria. Sarebbe quanto meno improprio considerare la civetta soltanto un pretesto, poiché essa incarna quel Tu del mondo naturale al quale l’uomo ora si accorda ora si oppone (ecco perché non si può assolutamente parlare di panismo per molti autori che raccontano la Terra salentina). La civetta del Nocera

è quel lato selvatico della Natura che, sovente, schiaccia l’uomo: non si tratta, infatti, di un animale domestico; non è un cane né un gatto, ma una civetta che divora le prede dilaniandole a brani con i suoi artigli. Il Nocera propone una lunga e interessante descrizione del mondo in cui il rapace si nutre e narra i suoi prudenti tentativi di avvicinamento mediante l’offerta di una preda: il cadavere di un pipistrello e piccoli pugni di lombrichi. Si nota, nell’atteggiamento di questo bambino, un quid di esperienza nel trattare con la natura che può derivare soltanto da una vita vissuta all’aperto e dalla saggezza dei suo diretti antenati. Parimenti, l’esperienza è accompagnata dalla curiosità: quando la civetta rigurgita una parte del suo pasto – com’è normale per i rapaci che si nutrono di grosse prede – il bambino seziona quelle palline di cibo con un rametto e, notando i resti di piccoli animali, giunge alla conclusione che la civetta è carnivora. Il suo modo di procedere, per esperienza diretta e induzione, lo accompagnerà durante tutto il racconto ed è degno del miglior atteggiamento scientifico. Tuttavia, non si deve dimenticare che Io e la civetta è anche una profonda riflessione sull’amicizia. Quell’amicizia che non nasce – come sosteneva Aristotele – fra uguali, bensì si sostanzia della differenza. Se l’animale domestico tende ad assumere le abitudini del padrone, la civetta, che si leva sul far del crepuscolo ed è persino più diffidente del gatto, non ha padroni per definizione. Fra il bambino e il rapace s’instaura, pertanto, un rapporto paritario che è il fondamento dell’amicizia. Qualche giorno fa, scrivevo che l’amicizia è un’eclissi perenne: con questo non intendevo dire che essa consistesse in un improvviso oscuramento, perché chi conosca il fenomeno dell’eclissi sa bene che non si tratta propriamente di un oscuramento, ma di un cambiamento delle condizioni di luce. Senza perderci in considerazioni astronomiche, potremmo dire che l’eclissi ingenera sempre stupore e, quando ritorna a splendere il sole dopo pochi minuti, qualcosa in noi si è smosso. In altre parole, è come se il fenomeno avesse prodotto un mutamento sorprendendoci fin dentro la comoda pigrizia della quotidianità. Ecco, l’amicizia svolge la stessa azione, ancor più se si genera fra esseri che non sono affini per indole: se è autentico, il sentimento d’amicizia è addirittura più rivoluzionario dell’amore, perché – come scrive Alberoni – l’amicizia è “una filigrana d’incontri” in cui, ogni volta, compare la possibilità di trovarsi cambiati e,


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saggio

della domenica n°70 - 29 marzo 2015 - anno 3 n.0 dunque, il trovarsi non è sempre un ri/trovarsi, nel senso di una costante che acquieta i nostri timori, bensì un ri/conoscersi, nel senso che agli amici è richiesto un vicendevole impegno per cogliere i mutamenti che l’esistenza e le vicende interiori ingenerano. Un impegno reciproco che dev’essere scevro da ogni idealizzazione: l’amore s’idealizza almeno nei primi tempi, l’amicizia si vive e questo viversi degli amici espone inevitabilmente al pericolo di rotture, di strappi che possono mai più ricucirsi. L’amore può anche diventare una piacevole abitudine accompagnata dalla pratica sessuale, ma un’amicizia che diventi abitudine, mancando l’elemento sessuale, è forse preoccupante, poiché significa che si è rinunciato a scoprire l’altro, ad amarlo anche per le sue inquietudini e per i momenti di debolezza. Mi torna alla mente un racconto biblico trasformato da Vittorio Alfieri in una tragedia: quello di Saul e David. Quando il re Saul era ammorbato dalle sue paure, gli viene consigliato di cercare un musicista capace di placare il suo animo in preda ai tormenti (si badi: la musica come elemento terapeutico è un’idea molto antica). Al suo cospetto viene, così, introdotto il giovane David, un pastore intelligente e coraggioso che Saul apprezza immediatamente. Nasce un’amicizia che, in lingua ebraica, è designata con il verbo “ahab” che significa anche “amare”. Saul è amico di David, lo ama per la sua purezza di cuore e per la lealtà che gli dimostra, ma i tormenti del sovrano prendono nuovamente il sopravvento e Saul è atterrito dall’idea che David, più giovane di lui e amato da Dio, possa usurpargli il trono d’Israele. L’amicizia, com’è noto, si tramuta in persecuzione che cesserà soltanto quando Saul morrà in guerra (morte invocata e cercata), ma, insieme a lui, perirà anche suo figlio Gionata che, intanto, si era legato di profonda amicizia a David. L’episodio riportato nella Bibbia induce a osservare quanto l’amicizia rappresenti un sentimento difficile da coltivare quando uno degli amici è ghermito da contrasti interiori. Occorre non poco coraggio per reggere all’emotività dilaniata di un amico che, pure, amiamo profondamente: non è cattiveria; è istinto di conservazione che si oppone a un investimento di energia dal quale usciremmo stanchi e avviliti, spesso senza aver risolto nulla. Poche amicizie reggono alle tempeste emotive. Si potrebbe obiettare, a questo punto, che anche l’amore è permeato dalla fragilità qualora venga meno l’equilibrio interiore

di uno dei due partner o di entrambi, eppure ribadisco che il dramma di un amore finito non è comparabile all’intima sofferenza che provoca la fine di un’amicizia. Un amore si può sostituire, non così per l’amico che è unico nel suo modo di rapportarsi a noi. Ricostruire un amore, grazie anche all’attrazione sessuale, è più facile che rimettere in piedi un’amicizia minata dalle incomprensioni. Nel riavvicinarci a un amico perduto, infatti, abbiamo sempre il timore di non essere accettati per quello che siamo divenuti e tolleriamo male il suo rifiuto. Quando il protagonista d’Io e la civetta perde la sua amica, il dolore è grande non perché si tratti di un bambino, bensì perché ha la consapevolezza che mai potrà sostituirla e che un pezzo della sua infanzia è andato via con lei. Perché gli amici rappresentano anche questo: epoche della nostra vita che vorremmo trattenere e che, invece, ci sfuggono. Non parlo qui necessariamente di epoche belle: accade – benché, lo si diceva prima, sia un fatto destrutturante e pochi abbiano desiderio di sentirsi all’improvviso destrutturati – che un amico ci stia accanto proprio nei momenti più difficili, tuttavia se, per qualche motivazione (forse per il logorio portato dalla prova), l’amicizia dopo s’interrompe, anche le difficoltà che abbiamo affrontato insieme ci appaiono colorate da una tinta meno fosca rispetto a quella del momento in cui le abbiamo vissute. Sembrano quasi preferibili al vuoto lasciato dall’amico che non ci è più accanto. Il vuoto è la grande differenza fra il rapporto d’amicizia e quello d’amore: un nuovo amore, se è davvero tale, colma il vuoto lasciato da quello precedente; una nuova amicizia, pur nella sua bellezza, non può colmare il vuoto rimasto per l’interruzione o la rottura di un precedente rapporto amicale. In altre parole, l’amicizia non è interscambiabile e, quando si sceglie di percorrere un pezzo di strada insieme, quel pezzo corrisponde all’incastro di un puzzle: nessun altro pezzo può sostituirlo, anche se si deve riconoscere che il puzzle è composto da molte tessere. È evidente che qui si parla di amicizie profonde, non di rapporti che nascono in superficie e si consumano nel giro di pochi mesi. Il carattere d’eclissi dell’amicizia risiede anche in questo: nella rarità dell’accadere e nell’unicità del tempo e dello spazio in cui si compie. Sento borbottare alle mie spalle che questa descrizione dell’amicizia è idealizzata, che, quando si rompe con un amico, la vita continua e non si può

certo naufragare nei ricordi. Non ho nulla da obiettare alla bontà del senso comune che muove queste critiche. È vero: di ricordi non si vive, ma se, dopo quarant’anni, Silvio Nocera racconta l’amicizia con una civetta nei minimi particolari, come se la vivesse nel preciso istante in cui si mette a scrivere, forse, qualche interrogativo dovremmo porcelo su quelle relazioni amicali che lasciano in noi un segno. E non importa che l’amicizia sia fra uomo e animale, perché, come si è detto in precedenza, qui non stiamo parlando di un animale domestico che richiede un padrone, ma di un rapporto alla pari, di un rapporto, dunque, che sarebbe potuto nascere anche fra due individui, sebbene radicalmente diversi l’uno dall’altro. Vi è amicizia solo tra affini – scrive non soltanto Aristotele –, invece il senso comune insiste sull’attrazione degli opposti. A mio avviso, le due tesi possono coesistere, purché nella relazione amicale, avvenga il ri/conoscimento: devono esistere un Io e un Tu, due entità distinte che comunicano e scambiano sullo stesso piano, altrimenti l’amicizia si tramuta in intima soggezione, in dolorosa dipendenza. L’amicizia non è fusione, è comunione, là dove la comunione, ancora una volta scevra da qualsiasi significato prettamente cattolico, è vicinanza, partecipazione, incontro, mai perdita d’identità e seppellimento di bisogni per compiacere chi ci sta accanto. In amore può anche sussistere un periodo di assoluta compiacenza dell’altro, soprattutto nelle prime fasi di costruzione del rapporto: è auspicabile che ciò non avvenga, ma accade. Un’amicizia che nasca sul presupposto della compiacenza, dal nascondimento delle proprie istanze, è destinata a finire presto. Per queste ragioni, sono pochi i veri amici e le amicizie che resistono al tempo e ai turbamenti.

C

Dell’Uomo, della Natura, della follia

oncludo questo microsaggio su Io e la civetta di Silvio Nocera, raccogliendo una sollecitazione venutami dall’amico Antonio Di Paola inerente al rapporto Uomo -Natura che, in precedenza, sono stati definiti un Io e un Tu. Di Paola sostiene, con gli ilozoisti, la profonda unitarietà dell’esistente. In altre parole, siamo tutti originati dallo stesso pneuma, pertanto, quando ci si riferisce all’Uomo e alla Natura, è fuorviante parlare di un Io e un Tu poiché l’Uomo è Natura, parte integrante di quel sistema cosmico che, sovente, l’Uomo stesso tende a di-


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Silvia Nocera con una civetta

menticare e distruggere. Le medesime tesi sono sostenute da Fritjof Capra in quello stupendo saggio intitolato Il Tao della fisica in cui è scritto chiaramente che l’osservatore, lo scienziato sono parte di quel mondo che si propongono di studiare e osservare. Non a caso, Capra pone in relazione le contemporanee tesi della fisica quantistica e dell’astrofisica con il pensiero orientale, riprendendo la sostanziale armonia che sussiste fra individuo e ambiente circostante. Sono pienamente d’accordo con le parole di Capra, benché il discorso che abbiamo svolto fin qui mirasse, più che all’esposizione di una visione scientifica e filosofica sul cosmo, ad illustrare il modo di pensare della civiltà contadina che, qualche generazione fa, abitava il Salento. Nel negare la presenza di una visione panica, non intendevo rifiutarla in assoluto, ma, più semplicemente, affermare che essa non è presente nella letteratura di Antonio Verri e Silvio Nocera, nell’àmbito delle quali si coglie chiaramente il dualismo fra Uomo e Natura pur nell’estremo rispetto che il primo ha della seconda. Quel rispetto che, come si è già detto, prelude alla scoperta. Quando un individuo o un nucleo umano è costantemente in lotta per la sopravvivenza – come accadeva alla famiglia del Nocera molto povera – l’armonia con la Natura, pur continuando a esistere, si declina inevitabilmente sulla strada del dialogo, in quanto l’individuo o il nucleo

umano chiedono alla Natura qualcosa che, nel caso specifico, è il sostentamento quotidiano. Da questa richiesta – che può anche non essere pacifica – si generano, nella narrazione, due istanze, due identità distinte che sono appunto Uomo e Natura: il primo agisce e chiede; la seconda dà o toglie. Viene alla mente quel Dialogo della Natura e di un islandese scritto da Leopardi, in cui lo scambio di battute fra Uomo e Natura è serrato e la Natura è persino tramutata in una deità crudele che non ha assolutamente a cuore la specie umana: ella non se ne cura, anzi le infligge ogni sorta di torture, perché, se anche tutti gli uomini perissero, la Natura continuerebbe a esistere. Non è certo questa la visione del Nocera, tuttavia, un’alterità fra quel bimbo di sei anni e la civetta esiste ed è innegabile: la civetta è amica del piccolo Silvio, però vi è sempre una sorta di pudore del bambino nell’accostarsi a lei. Ci sono, pertanto, un Io e un Tu e l’Io – ossia il bambino – obbedisce al Tu della Natura. Le posizioni possono essere anche rovesciate: l’Io della Natura si svela – attraverso la civetta – al Tu del bambino, però la condizione di alterità non muta. Ciò detto, non si può negare che la scienza moderna – da Bacone a Newton – sia stata posta in discussione dalla fisica contemporanea che si ricongiunge al pensiero e alla mistica orientali: ritorna in auge la teoria dell’Uno-Tutto e questo è, senza dubbio, un fatto positivo perché ammoni-

sce l’Uomo, precipuamente nella sua veste di scienziato, a non abusare della Natura, a non stuprarla. Ed è questo il messaggio con cui anche il narratore Silvio Nocera si congeda dai lettori, lasciandoci l’immagine di un bambino prima – e di un uomo poi – in cerca di una visione armoniosa del reale, in atteggiamento di accoglienza dell’alterità. Non è un caso che il Nocera, diventato infermiere nel vecchio Ospedale psichiatrico di Lecce, prima della chiusura, avesse stretto amicizia sincera con un pittore geniale come Edoardo De Candia: all’epoca, pochi riconoscevano il talento di quest’uomo e molti sembravano, invece, disposti ad affibbiargli l’etichetta di “malato mentale”. E qui si aprirebbe un’altra parentesi abissale sulla “malattia mentale” che ci limitiamo ad accennare sostenendo, con Basaglia, che la realtà è contraddizione e la follia, in quanto estremo opposto non della normalità (asfittica costruzione concettuale del tutto inesistente!), bensì dell’ordinario, è sostanzialmente contraddizione. Chi non accetta la follia non accetta la realtà. Bibliografia essenziale Alberoni F., L’amicizia, Garzanti, Milano 2002 Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 2000 Bacone F., Novum Organum, Olschki, Firenze 2011 Bouet-Dufeil E., L’amicizia questa accusata, Cittadella, Assisi 1971 Capra F., Il Tao della fisica, Adelphi, Milano 1982 Nocera S., Io e la civetta, Spagine, Lecce 2015 Verri A., La cultura dei Tao, Spagine, Lecce 2014

di Eliana Forcignanò


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Op.cit.

Giuseppe Macrì da L’ALBERO fascicolo primo 1949

op.cit.

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Non avrai altro segno all’infuori di me

Lettera aperta, piena di punti e con qualche spunto, a Giulia Gazza

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G

iulia, in principio era il punto? Secondo la Fisica, si. La teoria del Big Bang lo pone all’inizio. Lo chiama, singolarità iniziale. Tutto era contenuto in un punto di dimensioni ridottisime (i tuoi al confronto sono punti giganti), dentro il quale (semplifico) non si sa se valgono le leggi della fisica. (Non sono un tuttologo, mai sia; ti dico, però, che all’università ho fatto Fisica; che ho abbandonato post laurea). Per me è sorprendente che tu abbia tentato di fare arte con un solo segno. Con un alfabeto molto ridotto, vicino allo zero segnico (un monismo alfabetico che quasi sfiora l’analfabetismo). Un solo segno che, se pure accosta (col delirio del clone) sé stesso a sé stesso (come tu gli fai fare), rimane solo un punto. Nella città del barocco (cioè, dell’esplosione dei segni), il tuo è un bel coraggio. Siamo circondati dal barocco, e tu punteggi il vuoto di punti. Forse hai guardato troppi altari e i tuoi occhi, ubriachi di barocco, sono andati in cecità etilica. Quando la vista è tornata, ti sei voltata, lo sguardo fisso in un punto. IL PUNTO, UN READY MADE? Il tuo lavoro, quasi un grado zero dell’espressione, utilizza il punto, che non è estraneo all’esperienza. Non dico il punto della geometria (uno dei concetti primitivi); non dico il punto (che è anche un’onda) della fisica (le particelle elementari); non dico il punto dell’arte (non è fatta, la linea del disegno, di punti?); non dico il punto del ricamo (un tempo, una delle virtù del corredo delle abilità delle ragazze). No, indico il punto nella visione del cielo stellato. Le stelle, i punti che trapuntano il cielo, la notte. E come recitava una vecchia canzone (che riprende un’ipotesi della fisica): Noi siamo figli delle stelle. Che viste da lontano sono punti. Nel nostro universo i punti ci sono. E tu li usi. Il tuo lavoro è un readymade. Quasi. QUANTI SEGNI CI OCCORRONO? Per me è sorprendente che tu riesca a

di Massimo Grecuccio

fare dell’arte con un solo segno (facendo di questa pochezza virtù). A pensarci bene, però, tu di segni ne utilizzi due (come due sono i tuoi attrezzi, la penna e il foglio): il punto e lo spazio (in cui il punto è collocato). Il punto sembra solo, invece è in compagnia dello spazio vuoto. L’uno (il punto) e lo zero (lo spazio vuoto). Allora, le lettere con cui ti esprimi sono due. Il tuo lavoro, così, è sotteso da una logica binaria, la logica del bit (l’unità d’informazione). Il tuo lavoro, un lavoro eminentemente manuale (la mano la penna il foglio), un atto analogico, ci porta nel mantra della contemporaneità, il digitale (il tuo punto fatto a mano, tra l’altro, richiama il pixel). La tua azione manuale (analogica) in realtà è digitale.

TUTTO QUELLO CHE SI FA HA UN PREZZO? Il tuo lavoro, a me, sembra splendidamente gratuito (con una punta di ossessività, che non è in contraddizione con la pratica artistica, anzi). Hai disposto un punto sul piano (con delle regole che probabilmente non erano a priori, ma sono scaturite dalla scelta del punto-mattone e da prove con errori che hai capitalizzato), per replicarlo prima lungo un segmento (una sorta di lato), poi in una serie di segmenti paralleli, fino a disegnare (per punti) una specie di quadrato con due angoli (lungo lo stesso lato) smussati (cioè, aperti ai vertici). Questa è la tessera base. La mia descrizione, con un briciolo di ossessività tesa alla precisione verbale (molto più lenta di quella dell’occhio, ma non per questo da buttare), vuole dire che il tuo piano è un puzzle. Sul quale, una volta concluso, non si legge nessuna figura (in precedenza frantumata, ora ricomposta), ma solo si legge, la perfezione dell’incastro (che fa sparire le smussature), per realizzare la quale hai proceduto per contiguità (non per salti), via via dal primo quadrato all’ultimo (come documenta la serie di 36 quadri). Dal primo (il vuoto assoluto, nessuna tessera) all’ultimo (con l’intera superficie coperta da 35 tessere), il percorso (verso il

puzzle finito) è documentato da una serie progressiva di fasi (0 quadrati, 1 quadrato, 2 quadrati ... 35 quadrati) in cui si gioca la partita Vuoto versus Pieno. Le fasi evidenziano come il vantaggio iniziale del Vuoto via via si assottiglia fino a lasciare il campo alla conquista del territorio da parte del Pieno. Il vantaggio e lo svantaggio sono visivamente indicati da figure squadrate che si possono leggere (in contemporanea) in positivo (le porzioni con i punti) e/o in negativo (le porzioni vuote). O, viceversa. Quella di Pieno, poi, non è una vittoria. Piuttosto, è un pareggio (tutti i punti galleggiano nel vuoto). La serie è reservibile? Perché no? Così, col reverse, si passa dal Pieno al Vuoto. Dove risiede la gratuità? È nella proliferazione delle tessere durante il cammino, una costruzione effettuata con un criterio estetico puro (questa forma mi piace; o, preferisco questa forma a quest’altra); oppure, con un criterio dettato da necessità e caso (continuo di qua perché cosi non faccio salti). Quello che è rimasto (quello che tu hai esibito e che vediamo) è la registrazione di una partita. Non era l’unica. Altre possono darsi. Tutte ugualmente valide e con lo stesso risultato di parità. L’enorme numero di partite giocabili (credo: 35!, si legge 35-fattoriale, che significa 35x34x33x..x3x2x1) e la costanza del risultato dicono la gratuità del tuo gesto. La logica binaria del tuo gesto, nella partita, sottostà alla variabile tempo. È una logica binaria dinamica?

TUTTO QUELLO CHE SI FA HA UN VALORE? Per me, è sorprendente che si scelga di fare arte con un solo segno. Riuscendo a costruire (come fai tu) frasi visive con un alfabeto di due segni, il punto (il pieno) e il piano (il vuoto). Con una sintassi (il modo di combinare i punti) e una semantica (suggerita, per analogie, dal processo, cioè dalle regole interne alla costruzione che generano le forme). Il tuo lavoro di semplificazione rimanda a tuttle le operazioni analoghe. Mi fa venire in mente Flatlandia, dell’abate Edwin Ab-


della domenica n°70 - 29 marzo 2015 - anno 3 n.0

L’opera di Giulia Gazza (insieme alle opere di altri nove giovani artisti) è esposta (fino a mercoledì 8 aprile) a palazzo Vernazza – Castromediano (a Lecce) nell’ambito della mostra IPOTESI, curata da Lorenzo Madaro

bott Abbott. Lì, in quel mondo a due dimensioni, si potevano cogliere rimandi al nostro mondo tridimensionale (o, quadrimensionale). L’operazione di cercare collegamenti si può anche farla con il tuo “0/36”? Ancora. Il fatto che operi con i punti rende neutro il tuo fare? Non è massimo il coefficiente di neutralità per un linguaggio minimalista, e in bianco e nero, come il tuo? Un pregiudizio legato all’arte, come quella tua con i punti (arte astratta?), che è quasi un puro gioco, è che sia un tirarsi fuori dalla realtà. Un fuga, insomma (come, in poesia, parlare di rose). Può darsi. Se è una fuga, però, è una fuga che porta con sé, che tenta di preservare (che è già un grado zero dell’etica?) un nucleo minimo (solo quello che si è potuto portare, nient’altro). Il rischio (e la tentazione) maggiore per un’arte di tal genere, senza riferimenti evidenti alla realtà, è che diventi uno specchio (anche se non riflette).

foglio-universo) e l’ultimo quadrato è il trentaseiesimo. Il primo quadro è vuoto, il secondo contiene 1 quadrato (il modulo base), il terzo 2 quadrati etc. L’ultimo, il trentacinquesimo, è quello pieno di 35 quadrati. Il tuo modulo è fatto di 54 punti e 35 moduli riempiono lo spazio a disposizione. Facciamo qualche conto. Quanti punti nell’ultimo quadro? Basta fare: 54 x 35 = 1890. I punti dell’ultima stazione sono 1890. Ricapitoliamo. 54 i punti del modulo, 5 + 4 = 9. 36 i quadri, 3 + 6 = 9. 1890 i punti che riempiono lo spazio dato, 1 + 8 + 9 + 0 = 18 = 1 + 8 = 9. Per caso 9 (3 volte 3) è il tuo numero preferito? :) Piuttosto, il tuo modulo-quadrato sembra un quadrato, ma forse è un’illusione ottica. Intanto, 54 non è un quadrato perfetto (i quadrati perfetti sono quei numeri che esprimono aree di quadrati, come 1, 4, 9, 16 … e 54 non c’è tra di essi). Poi, come contare i punti sui lati? Due lati sembra abbiano 6 punti, e sugli altri due LA NUMEROLOGIA INDICA LA VIA Nel tuo lavoro è possibile scorgere un se ne contano 4, di punti. Non ci sono diagonali. Però, è possibile individuare 8 cenno di biografia? Intanto, si chiama “0/36” perché cominci segmenti di punti, che partono da vertici a contare dallo zero (lo spazio bianco del e sono interni al quadrato, costituiti da 9

punti. Di nuovo il 9! (Sai che ti dico, mi tengo l’illusione.)

Giulia, i tuoi punti non sono tutti perfettamente distanziati (mi piacciono le piccole imperfezioni che dicono la tensione verso il ben fatto; le sbavature sono la marca della tua spiccata individualità artistica). Tu dici “io” senza dire io. Questo, e la gratuità del tuo gesto (il gioco di una bambina profondamente assorta, o immersa, in quello che fa) rendono speciale, ai miei occhi, la tua arte. Un ricamo non fatto con filo e ago. Un ricamo fatto con la penna. Cara Giulia, continua a giocare. Massimo Grecuccio

Giulia Gazza studia pittura preso l’Accademia di Belle Arti di Lecce. Il suo gesto pittorico (dal titolo “0/36”) scandito in 36 stazioni, sembra indicare (per gradi) l’espansione, la proliferazione, il riempimento. E, anche (all’inverso), la contrazione, la sottrazione, lo svuotamento. Forme visive, geometricamente disciplinate e primitive (come il punto, la retta e il piano della Geometria Euclidea) Forme/contenitori?


Venerdì 3 aprile 2015, alle 20.30

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teatro

della domenica n°70 - 29 marzo 2015 - anno 3 n.0

“Passioni” La Cuspide Malva presenta al Fondo Verri

performance poetica liberamente tratta da testi di Mario Luzi e Giovanni Testori A cura di Manuela Mastria In scena: Iula Marzulli, Manuela Mastria Francesca Greco Adriana Polo Canti composti dal musicista Gaetano Fidanza

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a Cuspide Malva presenta al Fondo Verri, in prima assoluta, “Passioni” performance poetica liberamente tratta da testi di Mario Luzi e Giovanni Testori. Il tema religioso della Passione si fa laica litania, pianto silenzioso, intima invocazione. C’è un uomo piccolo, minuto, con una storia apparentemente semplice. Un uomo che porta sul costato i segni di un destino che va oltre l’umano. Sulla fronte le ferite di una scelta forse troppo difficile e coraggiosa. E’ il Cristo de La Passione del poeta Mario Luzi. Un uomo, appunto, che, in piedi sulla croce, confida una umanissima paura di morire: “Padre, non giudicarlo/ questo mio parlarti umano quasi delirante,/ accoglilo come un desiderio d’amore,/ non guardare alla sua insensatezza”. Accanto al figlio, la madre. Una madre, o meglio Maria, che con un coro di voci femminili, intesse un dialogo-interrogatorio carnale e umanissimo. E’ la madre di Testori, del suo Interrogatorio a Maria, una donna in carne ed ossa simile alle nostre madri. Corpo nel quale, purezza e ardore, finiscono con l’appartenere allo stesso ordine di sangue e di fiamme. A lei il coro, in una formula molto vicina all’oratorio, rivolge un interrogatorio accorato: “..ma tu se puoi,/ se troppo non chiediamo/(…) puoi a noi spiegare/ il senso del sigillo/ che disserri l’inesplicabile scrittura/ che ognuno ebbe nell’attimo della prima trafittura./ (…) Il senso dell’essere voluto, dell’essere deciso”. Umanissima la risposta di Maria: “quel disegno è scritto lì, nel nostro quotidiano dire sì”. Si consiglia la prenotazione. A spettacolo iniziato non sarà possibile l’ingresso Info: 389 1252739


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mmsarte

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ncora due immagini per il progetto Art-icoliamo Senza Barriere, dall'Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Cavallino-Castromediano (Lecce). Coinvolte le classi terze della scuola primaria dal-

l'esperta e promotrice del progetto Monica Marzano. Immagini e poesie raccontano esperienze dirette e indirette sul mondo della Solidarietà, dell'Amicizia, della Tollerenza e della Fratellanza mostrando un mondo in

cui è estremamente indispensabile abbattere ogni forma di barriera materiale e mentale che possa pregiudicare l'attuazione dei propositi civici e sociali alla base della convivenza e del buon vivere...

L

tezze, e non importa la nazionalità di un sorriso, nè che sia perfetto, l'importante è che sia sincero e accogliente...perchè è solo questa la vera bellezza di un sorriso. Michela ha voluto far sorridere, nel

suo luminoso disegno, una dolce bambina indiana d'America, come simbolo di una globalizzazione del sorriso vincente anche se la sua razza appartiene ad un popolo storicamente "perdente".

Noi sogniamo un mondo di sorrisi

a parola speciale scelta dagli alunni della III B della scuola primaria di Castromediano è "Sorriso". Per la piccola Annagiulia un sorriso può "Strappare" paure e incer-

P

er la piccola Alessandra il sorriso è gria... ma il prodigio più bello è l'assolutà sorrisi magici che volano in giro per il come una magia che trasforma il capacità di riuscire a rapire gli animi di tutti mondo in cerca del malumore per cambello in brutto, la tristezza in alle- i bambini. Alice ha voluto dare vita a dei biarlo in buonumore.


chimera

Il convento francescano di Lequile spagine

La mia meravigliosa

I

l Convento, luogo ideale d’incontri, di amicizia, di partecipazione. Luogo prediletto da noi fanciulli per i nostri giochi, per le scorrerie. Il ping pong e le botte fra noi. Botte e botte, fino a vedere il rosso d’incanto. Era il 1973. Noi ragazzini traversavamo la vita bambina con l’animo pregno di attese. Il gioco era l’antidoto potente contro la noia, l’incertezza, la melanconia. Vita vagabonda, errante come la luna. Una vita libera, spesa fra corse e rincorse, arrampicamenti su alberi di pigne, infinite partitelle di pallone, “spedizioni” per rubare la frutta ai contadini. E poi le “mazzate”. Facevamo a botte non per stabilire una scala gerarchica di dominio, come fanno i mafiosi, i politici, nelle loro truci e avvilenti arene. No, niente di tutto ciò. Noi facevamo a botte solo per amore, per vedere il rosso d’incanto. Quel rosso sangue, che era un collante di tante giovanissime esistenze. Libertà. Respiravamo libertà. Libertà nel grano dorato, nel papavero insanguinato, nei fiorellini di campo. Libertà nei nostri cuori rossi d’anguria, animati d’innocenti sentimenti. Quell’anno, Lucio Battisti intonava “Il mio canto libero”. E per l’etere si diffondeva una voce leggera, magica e di stupore. Il Convento dei frati minori di Lequile era una terra familiare, dava

accoglienza alle nostre fughe, ai pellegrini pensieri. Ci si incontrava volentieri per agognare e attendere il sogno. Una fanciulla, già da allora, danzava sul mio petto a ritmo vorticoso, con le sue tenere movenze lumeggiava il tempo. Illuminava il giorno. La mia meravigliosa chimera, che da sempre porto dentro, nel midollo, nel connettivo delle ossa. Nel sangue pulsa la mia chimera, scandisce frammenti di vita. E ancora oggi, in quest’età di mezzo, mi fa scorgere il rosso d’incanto. Chimera, chimera, degli istanti andati, irreversibilmente passati, chimera dei giorni persi, chimera del presente precario, chimera del futuro da disegnare a pastelli tenui. Quel 1973 fu un anno memorabile. Era maggio, il mese della Madonna, dell’incenso, delle rose che sbocciano improvvise nei giardini intricati dell’anima. Il maggio che preconizzava, finalmente, la chiusura della scuola elementare. E per l’aere si diffondevano effluvi di speranza. L’ardore, già da allora, ballava sulle fibre del mio cuore marezzato, mi scuoteva le membra. Noi fanciulli sapevamo comunicare con codici semplici e immediati. Sapevamo cullare intendimenti. Ricordo, sì ricordo, quel Convento dei frati francescani. Di quel Convento sento oggi un’eco che scorre, uno stormire di foglie. Aroma di venti, rapsodia di parole.

di Marcello Buttazzo

Cielo verde chiaro, glauche speranze di gioiose scorribande, frastuoni e ghirlande. Ricordo la mia infanzia drappeggiata di amaranti trifogli e mandaranci. Nel giardino dei limoni, San Francesco dall’alba vegliava i nostri giochi selvaggi. Rabescava l’anima una donna, infuocata dal sole della primavera, dell’imminente estate paesana. La libertà. Il senso di libertà, vezzeggiato al lume d’un’idea. La libertà che non s’addomestica, non si fa addomesticare, ma si coltiva pazientemente come fragile piantina. Ricordo i frati del Convento di Lequile: Corrado, Luigi, Guglielmo, Igino, Vincenzo, Rosario. In particolare, padre Rosario è stato una primaria figura di riferimento per noi ragazzi. Ci ha insegnato (come i bravi padri) il senso di realtà e quello del limite. La vicinanza al prossimo, il rispetto della diversità e dell’alterità, il culto della bellezza. Ci ha indicato la forza rivoluzionaria e laica del messaggio di Francesco, anima folle, stremata. C on la sua scassata Cinquecento bianca, ci portava in giro per il Salento. Noi ragazzini eravamo felici, gioiosi. Padre Rosario, a Lequile, nel Convento, ha dato l’avvio alla costruzione d’una pregiata biblioteca. Quanta nostalgia nel pensare a Rosario, che di questi tempi, a Sava, nel tarantino, continua a custodire e a propagare il significato più intimo di questa vita: l’amore.



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D

Dove di Francesco Pasca

el mio amico Ignazio, leggo: “al caro e prezioso Francesco Pasca. Una sorpresa. «Dove giocare con gente (S)conosciuta»”. Oggi la ESSE fra le tonde, nella sua e per me ritrovata dedica, è stata aggiunta per ricordare, per scrivereancora una volta di SINGLOSSIA e cucirla nel mondo stratificato e simultaneo della fantasia, per ottemperare alla grafica singlottica del suo Dove. Oggi quel Dove si affastella con altrettanti Dove, all’infinito dei numeri primi e, insieme ai tanti si percorre in: Dove osannare la fine dell’ignoto; Dove cercare Niusia; Dove far parlare Gilberte, Capellino, Lady Macbeth; Dove inabissarsi per Racconti patafisici e pantagruelici; Dove fare un buco e lasciarlo in eterno; Dove poter scrivere di America vista dalla stratosfera; Dove la tundra richiama i suoi motivi; Dove penzola e oscilla la Storia dell’Uovo d’Oro; Dove e per chi scalpitare gli zoccoli olandesi; Dove lasciarsi per Pensieri Minimi e Massimi Sistemi; Dove andare per racconti surreali. Sono tentato di travalicare le Sue certezze e porre, in alternativa altrettanti Dove il mio unico Dove. Dove trasformare in interrogativi. La Sua eco, del Dove, sta per diventareil Suo urlo: “Non c’è cosa peggiore che rimanere inoperosi”. Proprio lì, nei tanti Dove, in un capriccio da me interrogato. In quei tanti paradossi è e voglio porre la chiave di Ignazio.

Ignazio Apolloni, si è spento a Palermo, nella notte tra il 26 e il 27 febbraio 2015. Aveva 83 anni. Apolloni era nato a Palermo dove è ritornato, dopo una lunga permanenza a Torino, Roma, New York e Los Angeles. Memore di Berkeley e sulla scia del ’68 è stato fondatore, assieme

?!

Ricordo di Ignazio Apolloni scrittura

della domenica n°70 - 29 marzo 2015 - anno 3 n.0

È lì la Sua fantasia paradossale, quel che fa gravitare, fa da cinematografia muta e sostituisce il “lettering” digitale in Storie singlottiche. Oggi è facile far coincidere un interrogativo con un esclamativo, un dubbio con una certezza nel simultaneo.Ignazio avrebbe approvato. Ignazio avrebbe osannato la sua morte e l’avrebbe singlotticamente fatta coincidere con la sua vita di scrittore, di perenne paradossale inoperoso colpito da Ozio Simulato, da Operating System multitasking di un Dove e svolgere il diverse contemporaneo, il diverse dello e nello stesso tempo. Ignazio mi avrebbe permesso di osannare l’ignoto, il Suo ignoto, l’ancora da scoprire e soltanto noto in un Dove. E Allora? Dove cercare Niusia? Dove far parlare Gilberte, Capellino, Lady Macbeth? Dove inabissarsi per Racconti patafisici e pantagruelici? Dove fare un buco e lasciarlo in eterno? Dove poter scrivere di America vista dalla stratosfera? Dove la tundra richiama i suoi motivi? Dove penzola e oscilla la Storia dell’Uovo d’Oro? Dove e per chi scalpitare gli zoccoli olandesi? Dove lasciarsi per Pensieri Minimi e Massimi Sistemi? Dove andare per racconti surreali? Dove continuare a giocare con gente (S)conosciuta. Dove e Dov’è ora la metonimia tra Num e Samech che ci faccia combinare il mistero delle parole con le idee ed essere fra la Fatalità e il Dove?!

ad alcuni altri arrabbiati, del movimento politico-letterario denominato Antigruppo. Esauritasi quella fase ha dato vita, unitamente a Rossana Apicella, ad una feroce contestazione della poesia visiva in nome del lettering e della singlossia, producendo opere di tale genere come Lavoro

poetico su una locuzione avverbiale; Sketch poesie; Poesie Impossibili; Tra il dire e il mare c’è di mezzo la poesia: raggruppate poi nel volume Singlossie edito dalla Novecento nel 1997.


spagine mondo reggae

della domenica n°70 - + 29 marzo 2015 - anno 3 n.0

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La rub a dub band

ome nasce la Rub a Dub Band? Da un progetto del White Lion Studio nato dall’esperienza fatta con il cantante giamaicano Sydney Salmon ed al bassista Ainsworth Clarke “Bassie” che con la loro esperienza ci hanno insegnato, stimolato, incoraggiato ad aprire questo studio. Da qui la necessità di avere una band stabile per proseguire il nostro cammino. In Ethiopia l’incontro con Isiah Mentor ha portato alla nascita dei due singoli accompagnati dai video, parlateci di questi vostri lavori discografici. Sono nati prima da noi come riddim nuovi su cui lavorare poi quando li abbiamo proposti ad Isiah lui subito ha voluto scrivere i testi e cantarli. Perché la scelta di collaborare con Isiah Mentor? Non è stata proprio una scelta da parte di nessuno, è una conseguenza, è il destino, è Jah che ci ha fatto incontrare per questo lungo percorso da fare insieme, siamo contenti di questo e ringraziamo. Descrivete con tre aggettivi i vostri

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Spagine Fondo Verri Edizioni

di Alessandra Margiotta

due nuovi video Roots, rock e reggae. Quali sono i vostri artisti di riferimento? Difficile per noi fare delle differenze o dei nomi in particolare, ce ne sono tantissimi. La musica arriva alle persone in maniera diversa. Abbiamo ascoltato migliaia di canzoni ognuna può e deve darti qualcosa quindi penso che tutti quelli che fanno musica con il cuore e con l’anima sono i nostri riferimenti. Con quali artisti contemporanei vorreste fare un featuring? White Lion Studio è una famiglia che viaggia sui binari per Zion, ci saranno delle fermate dove ci sarà chi scende e chi sale ma il treno non si ferma mai. Questo è il nostro obiettivo, il nostro destino, sicuramente il rapporto e il percorso che abbiamo incominciato con Isiah sarà molto lungo. Perché la scelta della musica reggae? Non saprei.. non succede così.. non penso che uno scelga il genere che vuole suonare! Sono percorsi che ognuno fa sia di vita che musicali. Il Reggae è arrivato a noi con un messaggio, cioè quello della pace e dell’amore tra le persone.

Cosa ne pensate dell’attuale scena musicale italiana? Qui si potrebbe fare un discorso molto lungo ma non è il caso, posso dire che la scena musicale in generale è sempre molto attiva: ci sono gruppi che suonano molto bene e ci sono progetti molto belli. Penso che il problema sia tutto il resto che gira attorno alla musica e sono cose ben conosciute agli addetti ai lavori. Questo per noi è esattamente Babylon System che decide. Noi lottiamo ma come disse….HIM Finché ci sarà una razza superiore ed una inferiore ovunque ci sarà guerra…. Come è possibile contattarvi per conoscervi meglio? Il nostro sito è www.whitelion.it www.facebook.com/lion.white.927 www.facebook.com/isiah.mentor.9?fref=tl_fr_box &pnref=lhc.friends www.facebook.com/filippo.tonini.9?pnref=story

questi sono I nostri link. Aggiugerei il link al sito http://www.musicinblack.org/ gestito da te Alessandra e che ti ringraziamo per la promozione che fai per la musica Reggae in generale e per averci contattato. Big respect. Un grazie a Spagine per la pubblicazione di questa intervista.

Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Fondo Verri esce la domenica a cura di Mauro Marino è realizzato nella sede di Via Santa Maria del Paradiso, 8.a , Lecce come supplemento a L’Osservatore in Cammino iscritto al registro della Stampa del Tribunale di Lecce n.4 del 28 gennaio 2014 Spagine è stampato in fotocopia digitale a cura di Luca Laudisa Studio Fotografico San Cesario di Lecce Programma delle Attività Culturali della Regione Puglia 2015 Artigiana - La casa degli autori


Il barbiere di Santo

N

el lontano 1978, i vertici della banca in cui prestavo servizio mi affidarono la guida della filiale di Monza, città della Corona Ferrea e di Teodolinda, nonché capoluogo dell’opulento e dinamico comprensorio brianzolo. E, lì, tanto impegno, tanto lavoro, ma anche un notevole arricchimento professionale e relazionale e una serie di soddisfazioni. Restai in quella sede per oltre sei anni, sino a riuscire a guadagnarmi l’agognata nomina a dirigente, sia pure abbinata al trasferimento a Roma; dopo un biennio, dalla capitale feci ritorno a Milano, per infine spendere gli ultimi anni di servizio ancora una volta nella città eterna. *** A prendere il mio posto a Monza, fu designato Santo F., un collega di origini siciliane ma con precedenti esperienze lavorative in varie località della penisola e anche all’estero: sebbene avessi già sentito parlare di lui da qualche mio collaboratore, in effetti, lo conobbi personalmente giusto in occasione dello scambio di consegne. Un omone gioviale tra i quaranta e i cinquanta, alto, piazzato, capelli precocemente più bianchi che brizzolati, volto e carattere simpatici. Cedutogli il timone della filiale, dopo, per la verità, non ebbi molte occasioni d’incontrarlo, e ciò anche in sintonia con il mio metodo di tagliare nettamente i ponti, in sostanza non riattraversandoli mai, con gli ambienti di lavoro attraverso i quali passavo e che, a un certo punto, mi trovavo a dover lasciare per trasferimento in una sede diversa; in altri termini, mediante tale impostazione, mi prefiggevo di serbare gelosamente, dentro, le esperienze maturate qua e là, senza però interferire, nemmeno con semplici contatti, nel seguito operativo impresso dai miei successori. Trascorsero circa quattro anni, da Roma ero stato mandato a Milano e, quindi, facevo il pendolare da Monza, dove avevo comprato casa ed era rimasta la mia famiglia, quando anche Santo, che nel frattempo si era separato dalla moglie, concluse la sua permanenza nella città brianzola e fu trasferito pure lui a Milano. Ci trovammo, quindi, a lavorare nella medesima sede e ad essere compagni di viaggio in treno e in metropolitana. Ebbi così modo di conoscere di più il collega, il quale, poveretto, rimasto solo in

spagine

racconto

della domenica n°70 - 29 marzo 2015 - anno 3 n.0

casa e con tre figli in giovanissima età che facevano la spola tra lui e la loro mamma, doveva anche affrontare non lievi problematiche di carattere organizzativo, logistico e famigliare. Pertanto, non mi meravigliai quando, una mattina, mi chiese di metterlo in contatto con Angelita, la signora che da molti anni dava una mano a mia moglie: detto fatto, la preziosa collaboratrice prese a combattere non solo con Rocco, ma pure con Santo. Così, l’amico, con il quale avevo talvolta modo di incontrarmi ulteriormente durante i fine settimana giacché abitavamo a breve distanza, potette sostanzialmente mantenere le sue antiche abitudini, ivi comprese saltuarie brevi vacanze per battute di caccia nei paesi dell’est europeo ed eccezionalmente nel Messico. Sennonché, in mezzo a tutto questo, fulmine a cielo sereno, un giorno, mentre rientravamo insieme dal lavoro, Santo ebbe a confidarmi di aver improvvisamente scoperto un serio problema di salute, un tumore in fase avanzata al polmone, e di dover di conseguenza sottoporsi a un delicato intervento chirurgico per cercare di sconfiggere il male o, quantomeno, di metterci una pezza. Ricordo, anzi mi sono rimasti impressi nell’intimo, la forza d’animo e il senso di serenità con cui Santo m’informò di quella terribile tegola; da parte mia, sebbene non sia uno che si scioglie innanzi alle emozioni come neve al sole, solo ad apprendere la notizia ebbi l’impressione che una montagna mi precipitasse addosso. Arrivò presto la data del ricovero del collega al “Niguarda” per l’operazione e volli accompagnarlo; l’intervento ebbe luogo il 23 dicembre di una ventina e passa d’anni fa e quella sera, prima di far ritorno a casa, ripassai dall’ospedale per informarmi, dal figlio primogenito Alessandro, su come era andata. Seguì una vigilia di Natale dallo strano sapore e completamente diversa dal solito, in cui trascorsi la mattinata al lavoro, il pomeriggio e la cena in famiglia e, infine, la Messa di mezzanotte nel convento dei frati cappuccini, e però immerso in un’atmosfera triste, il pensiero fisso a Santo, in quel grande ospedale, da poco uscito da una sala operatoria. Al che, al primo risveglio del 25 dicembre, sbocco più naturale non poteva esserci se non la mia decisione di trascurare tutto e recarmi di buonora a Niguarda, dal collega.

di Rocco Boccadamo

Mi sembrò quello il fondamentale augurio da porgere. “Come sta papà?”, chiesi subito ad Alessandro. “Benino, anche se di tanto in tanto si lamenta un poco”, la sua risposta. Mi feci prestare e indossai la mascherina per entrare negli ambienti sterili e fui subito al capezzale di Santo. Mi sorrise, soprattutto si sforzò di farlo con gli occhi nel vedermi e sentendomi dire “Buon Natale”. Notai che gli era rimasta la barba lunga, ovviamente, di due giorni e, di fronte a ciò, per la prima volta, mi si accese una lampadina e mi offrii di radere il collega, non senza precisargli che non avevo mai fatto una roba del genere. Sul suo volto apparve una strana commistione fra ghigno preoccupato e sorriso, ma senza altre chiacchiere l’opera del barbiere iniziò e, in modo o nell’altro, andò a termine. Seguì qualche sprazzo di conversazione scherzosa e poi il commiato, un timbro indelebile su quella cartolina di Natale. Trascorse poco più di un anno dall’intervento, Santo in effetti, pur apparendo in condizioni discrete, non si riprese mai; le consuete, dolorose trafile delle terapie, le sofferenze, i dolori che per lunghi periodi lo costringevano a letto, appena qualche breve intervallo per rapidi soggiorni, auspicati rigeneranti, in montagna e qualche passeggiata fra due amici e colleghi vicini di casa. A stare accanto a Santo, in via permanente, arrivò da Giarre, alle falde dell’Etna, la vecchia madre, la signora Maria, della quale, in occasione delle visite all’amico, apprezzai subito le spiccate doti di premura, gentilezza ed amorevolezza, che solo una mamma vera riesce ad evidenziare. Purtroppo, le cose precipitarono in breve volgere di tempo e, in un freddo gennaio o febbraio, non rammento più esattamente, Santo arrivò sulla cima del suo calvario. Gli stetti vicino sino all’ultimo, in quella clinica privata dove chiuse gli occhi, nella fredda sala mortuaria, nella chiesa vicina alle nostre case per il congedo. Per sua volontà, Santo ritornò in polvere e toccò al suo primogenito Alessandro - il quale, nel frattempo, grazie anche alle mie vibrate insistenze, era stato assunto dalla banca – di far volare la piccola urna verso il cimitero di Giarre, affacciato sul mare, lasciando il mio amico a godersi la stagione che più amava, l’estate.


spagine

cose salentine

della domenica n°70 - 29 marzo 2015 - anno 3 n.0

N

el mio personale sentire, sin dalla lontana infanzia, questa ricorrenza ha esercitato sempre una grande fascinazione; in altri termini, l'ho considerata, attesa e vissuta alla stregua di autentica anteprima della Pasqua. Sul piano concreto, ripassando col pensiero una serie di specifiche usanze e consuetudini correlate all'evento - abitudini risalenti a stagioni antiche e tuttavia, ad onore del vero, almeno nei confini della località natia, in parte ancora oggi mantenute e rispettate - rivedo indistintamente la quasi totalità dei compaesani, di mestiere contadini e/o agricoltori, nell'atto di recidere dagli alberi d'ulivo, il giorno prima, cospicui fasci di rami, ricchi di tenere foglioline color verde argento, poi trasportati a casa, a spalle o sul manubrio di una bicicletta o su un carretto, con il preciso e irrinunciabile scopo di trasferirli, la mattina successiva, sul sagrato della chiesa parrocchiale per la benedizione e la processione comunitaria. Accanto al luogo sacro, veniva così a formarsi un suggestivo, grande è alto tappeto di rami, sigillo distintivo di un'intera popolazione. Dopo le anzidette celebrazioni, seguite in raccolto silenzio dagli astanti d’ogni età, i singoli fasci ritornavano, con naturale ordine, nelle mani dei rispettivi titolari e, immediatamente, avanti che scoccasse l'ora del pranzo, le “palme” erano collocate sui tetti delle case, oppure piantate nei campi, nei giardini e nelle aiuole dei cortili domestici, con convinte dedicazioni propiziatorie, soprattutto di buona salute e di fecondi raccolti agricoli. Al riguardo, atteso che il mio genitore aveva cessato il mestiere di contadino per assumere l'impiego presso l’anagrafe comunale, la mia diretta testimonianza passa attraverso il nitido ricordo delle prime “palme” donate e piantate dal nonno Co-

La Domenica delle Palme d'una volta, a Marittima

simo, classe 1879, e, successivamente, la sequenza della medesima operazione compiuta dallo zio Vitale e infine, da un po' d'anni a questa parte, dall'amico Toto, il quale è anche il prezioso e amorevole “badante” del mio gatto certosino, nei mesi in cui io e mia moglie non risiediamo alla “Pastorizza” di Marittima. A latere del rito fondamentale delle liturgie con i rami d'ulivo, quella domenica mattina se ne svolgeva un altro, basato su una materia prima differente, ossia dire le tenere foglioline pennate, tra il giallo e il verde, di palme da dattero. Erano poche, anzi pochissime, al paesello, le piante di tale specie, allignavano solamente in qualche giardino e campo delle poche famiglie benestanti, giacché la gente comune non si poteva permettere il lusso di coltivare, sui risicati terreni di proprietà, alberi che non dessero alcun frutto. Difatti, le palme da dattero venivano in auge e avevano il loro momento di gloria esclusivamente nel giorno delle Palme, quando, mediante le anzi richiamate foglioline, attentamente e abilmente ripiegate e incastrate a mano, si fabbricavano minuscoli “panierini”, che i più piccoli donavano alle loro mamme, i ragazzi alle compagne e i giovanotti alle fidanzate. Però, accanto ai “panierini”, arrivavano a far bella mostra alcune grandi realizzazioni artistiche ottenute con le medesime foglie, palme ad intreccio o altre raffigurazioni, per opera delle famiglie dei “signori” che disponevano di propri arbusti: ricordo particolarmente quelle del Maestro Don Peppino Margiotta e del Patrunu Giacomino. Nel contesto complessivo, vigeva anche l'abitudine di offrire una delle grandi “palme” artistiche in parola, in segno d’omaggio, all'Arciprete, il quale la teneva in mano e appoggiata sul petto durante la processione. Noi ragazzi, sistematicamente ogni anno, ci portavamo di buon’ora in una tenuta

agricola sulla via provinciale fra Diso e Ortelle, denominata “Lafiusca Bottazzi”, proprietà di un illustre scienziato, Filippo Bottazzi, nativo di Diso, che, però, viveva quasi sempre fuori, terreno che, accanto a una casa di villeggiatura ancora oggi esistente, comprendeva due rigogliose palme da dattero. Ci arrampicavamo lesti fra tronchi e rami, riuscendo, così, a far, ciascuno, una piccola incetta di foglioline pennate giallo verde, da destinare alla fabbricazione di “panierini”, magari poi venduti ai compagni in cambio di sparute lirette. Semplici e marginali digressioni da ragazzi a parte, la Domenica delle Palme d’un tempo aveva per fulcro la funzione di manifestare reciprocamente, in seno a familiari, parenti, amici e compaesani, gesti simbolici di rapporti pacifici, di buon vicinato e di comune e disinteressata solidarietà. Fuor di demagogia, come sarebbe bello se, pure adesso, si avvertisse ed esercitasse un'analoga spinta spontanea! Forse, in tal modo, tanti dei problemi e/o ambasce che ci circondano e assillano potrebbero essere, se non risolti, perlomeno attenuati. Da ultimo, ricollegandomi alle note preoccupazioni, legittime e forti, che corrono e angosciano con riferimento alla nota malattia o epidemia (Xilella) che sta colpendo i nostri ulivi salentini, pur consapevole delle gravi conseguenze che potrebbero derivarne sotto molti aspetti, mi sento però di non condividere e, anzi, di respingere l'idea, da qualcuno affacciata, che, nella ricorrenza delle Palme 2015, non si proceda alla tradizionale benedizione dei rami d’ulivo e ci si astenga dal concorrere ad addobbare con i medesimi, che sono un tratto distintivo della nostra identità storica, la piazza di San Pietro a Roma. di Rocco Boccadamo


copertina

spagine

celebrazioni

della domenica n°70 - 29 marzo 2015 - anno 3 n.0

Giovedì 2 aprile è la Giornata Mondiale dell’Autismo appuntamento a Lecce al Conservatorio Sant’Anna, alle 18.30

Io miglioro, ma voi quando?

G

iovedì 2 aprile è la Giornata Mondiale dell’Autismo istituita nel 2007 dall’ONU, dove si invitano tutti gli Stati membri ad adottare misure di sensibilizzazione, a tutti i livelli della società, per favorirne la diagnosi e l'intervento precoce. L'iniziativa Light it up blue, infatti, prevede una particolare illuminazione dei luoghi simbolo di molte città, proprio per sensibilizzare la popolazione sul problema dell'autismo, quindi il 2 Aprile illuminiamo di blu le nostre case e gli edifici pubblici, nella speranza di risvegliare le coscienze sulla tematica dell’autismo e di proiettare un fascio di luce nel buio del silenzio che avvolge tale patologia. A chi aderisce e accende una luce blu, viene chiesto di fotografare l’angolo illuminato per poi esporre sulla bacheca personale di facebook la foto scattata. La pubblicazione di ogni foto sarà la conferma d’aver aderito. Molte sono le attività e gli eventi della Giornata che contribuiscono ad aumentare e sviluppare le conoscenze sull'autismo Le Ali di Pandora organizzano un incontro aperto al pubblico, alle 18,30 nella sala conferenze dell'Ex Conservatorio di Sant'Anna, Michela Del Tinto e Teo Mollaian gestiranno l'incontro: “Tutti i colori dell'autismo”, perché come dice Teo: “le persone non possono essere cancellate perchè non sono delle matite” Michela Del Tinto è una madre che da anni combatte contro l'ignoranza e la disinformazione, spiega: “L'autismo non è mai il benvenuto in una famiglia. Quando si presenta, sconvolge ogni cellula delle esistenze a cui si accosta, nel momento in cui si rivela offre ad ogni nuovo amico una visione inaspettata delle cose e originali modalità per viverle. Nell'attimo stesso in cui si instaura questo rapporto, che come pochi altri sarà eterno, molta di questa convivenza dipenderà dalla personalità dei pro-

tagonisti. Conosco l'autismo da vicino e lo vivo molto intensamente perchè mio figlio è Autistico. Sono convinta che l'autismo sia una delle realtà che, più di tante altre, appartenga davvero a tutti con diversi livelli, ritengo inoltre che i genitori dei ragazzi autistici, anche se non hanno una diagnosi che lo certifica, abbiano in se stessi più di qualche scintilla autistica, senza esserne a conoscenza; sarebbe fruttuoso che di questo ne fossero consapevoli, perché esserne consci li faciliterebbe ad aiutare il proprio figlio ad esprimere al meglio le sue risorse e ad accettare i confini non come limite fine a se stesso, ma come caratteristica che se canalizzata può essere utilissima a lui e a tutta la società che lo circonda. L'autismo è visto dai più come un mostro da sconfiggere e non come una parte di universo ancora solo parzialmente esplorata, universo che andrebbe conosciuto, accettato e soprattutto accolto, è questa la motivazione che oggi mi spinge a parlarne e parlarne in maniera distesa e varia rispondendo in modo diretto e comprensibile alle domande che mi verranno rivolte. Gli autistici non sono solo bambini, ma giovani, adulti, anziani, uomini, donne, eterosessuali e omosessuali, che vivono ambienti diversi con mansioni diverse e questa popolazione non è tutta uguale, non presenta le stesse caratteristiche. Molte volte usciamo, viviamo, ci sposiamo, litighiamo, lavoriamo con autistici senza saperlo e a volte senza che loro stessi lo sappiano, perché non tutti gli autistici sono inavvicinabili, non tutti si chiudono, non tutti sono distaccati, anaffettivi, o vivono per conto loro in un mondo inaccessibile e non è assolutamente vero che non ci sono margini di miglioramento, non è vero che è impossibile interagire non facendo parte della loro sfera affettiva, anzi a volte sono loro a nutrire ambienti veramente squallidi, cinici, algidi, perdonando l'imperdonabile e riaccogliendo l'inaccettabile”.

Scrive Teo nel suo profilo fb: “Le persone non possono essere cancellate perchè non sono delle matite - ed ancora - con mia madre sono andato a vedere cosa significato la parola disabile e c'è scritto che la persona disabile è quella persona a cui mancano delle capacita fisiche o mentali. Quindi mia madre mi ha spiegato che la parola disabile è una parola che non è un insulto ma una parola che serve a ad informare gli altri che una persona ha bisogno di aiuto perchè gli mancano delle cose. Con mia madre ho capito che io posso essere considerato un disabile perchè mi mancano delle capacità ma mia madre mi ha spiegato che se mi mancano delle capacità non vuol dire che con l'impegno non posso raggiungerle il mio autismo oggi non è grave come quello che avevo da piccolo oggi ho raggiunto tante capacità che da piccolo non avevo quindi disabile ero prima e disabile un po' diverso sono oggi ma la gente deve capire che la parola disabile non è brutta. I disabili non devono essere tenuti fuori perchè altrimenti non possiamo migliorare. Ad esempio io sono autistico e ho difficoltà a comunicare ma ce la metto tutta ma anche se io scrivo (ma ho bisogno di tempo) anche se io parlo, anche se sono autonomo e so uscire, anche se sono come gli altri, gli altri continuano a trattarmi come se non fossi pronto a fare quello che fanno loro. Sono sempre io che scrivo e non ricevo mai un messaggio sulla bacheca o privato da quelli della mia età. Con me il sabato non esce nessuno. Sono andato ad una festa dopo 7 anni e poi, il disabile, nel senso brutto sarei io? No io sono disabile nel senso buono perchè io mi impegno e miglioro ogni giorno e voi? Almeno io ce la metto tutta a impegnarmi e migliorare voi credete di aver fatto tutto da soli? Anche voi siete stati aiutati ma ve lo siete dimenticato. per oggi è tutto saluto tutti autistici e non”.


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