Spagine della domenica 71

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spagine della domenica n°71 - 19 aprile 2015 - anno 3 n.0

Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri

Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri


spagine

C

Lo strano caso del democratico Renzi Matteo

hiedo scusa per la personalizzazione dell’ouverture di questo domenicale di “Spagine”. Come i due-tre che mi conoscono sanno, io non sono democratico per vocazione, lo sono per mestiere. Dovendo vivere in un paese democratico, ho dovuto imparare il mestiere del democratico; come s’impara la lingua del paese in cui per costrizione o per scelta si vive. Per questo credo di avere più titoli per parlare di comportamenti democratici rispetto ai democratici per vocazione. Qualcuno si chiederà: che differenza c’è tra un democratico per vocazione e un democratico per mestiere? Che il democratico per vocazione qualche volta se ne dimentica, il democratico per mestiere no. Ecco un esempio. Spesso a scuola, dove insegnavo, mi rifiutavo di mettermi il distintivo “Sofri innocente” su invito di tanti colleghi iperdemocratici per vocazione, i quali entravano in classe così bardati. Io no, perché il mio mestiere di democratico mi suggeriva di non farlo nell’ipotesi che ci fosse in classe anche uno solo che per convinzioni personali o di famiglia fosse di altro avviso. Chiuso il discorso personale, con l’augurio di essermi spiegato.

E veniamo a Bomba. Assistiamo da più di un anno ad uno scontro all’interno del Partito democratico tra Matteo Renzi, segretario nazionale e capo del governo, ma soprattutto capo di una compagnia di bulli & pupe, da una parte, che ha la maggioranza nel partito, e una minoranza che finora pur tra mugugni e insofferenze ha garantito il sostegno a tutta la compagnia, qualche volta col torcicollo e con la ghigliottina del voto di fiducia. Questa minoranza – lungi da me dal dire quanto vale sul piano della serietà e della democraticità – chiede soltanto di condividere le

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l’opinione

scelte governative, soprattutto quelle strategiche come la legge elettorale. Come tutti sanno questa legge fu concepita all’interno del famigerato Patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, oggi schierato contro. Essa contiene dei punti preoccupanti per la democrazia: premio di maggioranza al partito e non allo schieramento, un premio sproporzionato di 340 deputati su 630; i capi lista nominati e non votati dagli elettori, ed altri meno clamorosi ma non meno gravi punti, autentici abusi, come la possibilità di un leader di candidarsi in più circoscrizioni in modo da gestire poi la nomina di qualche altro bullo e di qualche altra pupa di suo piacimento. Se si considera l’abolizione – per così dire – del Senato, che resta ma non è più eletto dal popolo, il quadro che viene fuori è di un governo che ha la preminenza forte sul parlamento, ridotto alla sola Camera, di un uomo che ha la preminenza sul governo e di un governo fatto, come si diceva, di bulli & pupe.

A me, democratico per mestiere, sembra che questa democrazia, se paragonata ad un vaso, sia alquanto svuotata. Di recente (mercoledì sera, 15 aprile) l’assemblea dei parlamentari Pd ha registrato un dissenso consistente, novanta, un terzo circa, non sono d’accordo con la legge elettorale che si vorrebbe approvare e dopo aver chiesto di poter apportare qualche aggiustamento, avendone ricevuto un netto rifiuto dal capo compagnia, ha abbandonato l’assemblea minacciando che non avrebbe votato la legge in parlamento.

Preoccupato Renzi? Nient’affatto. Come già altre volte è accaduto, metterà il voto di fiducia e tutti si adegueranno per non far cadere il governo e andare a nuove elezioni. E’ democratico questo modo di comportarsi? Non so, anzi dovrei saperlo, perché basta

di Gigi Montonato

scorrere la storia politica prerenziana per trovare illuminanti esempi. Nella cosiddetta prima repubblica, quando il capo del governo non aveva la maggioranza in parlamento, in seguito alla defezione di una componente alleata o di alcuni membri del suo stesso partito (i franchi tiratori), semplicemente si dimetteva. Prendeva atto cioè che non c’era più la maggioranza e che non poteva più governare, a prescindere dal dato tecnico pur importante e decisivo. La storia della prima repubblica, ma anche della seconda, è piena di casi simili. Prodi nel 2008 e Berlusconi nel 2011 sono gli ultimi importanti casi di premier dimessisi per non avere più la maggioranza. Anzi, addirittura Berlusconi si dimise senza essere stato sfiduciato dal parlamento. Lo stesso Letta si dimise nel febbraio del 2014 dopo la sfiducia della direzione nazionale del suo partito. Qui ora, con Renzi, siamo in presenza di un gruppo consistente di parlamentari che fanno parte della maggioranza di governo, fra cui il capogruppo alla Camera, i quali chiedono semplicemente di “condividere” la legge che si vuole approvare. E, invece, che accade? Accade che Renzi si rifiuta di trovare un sia pur piccolo accordo e invece di dimettersi lui, come dovrebbe, si dimette il capogruppo Pazienza. Se la legge elettorale, detta “Italicum”, passerà col voto di fiducia, rischiamo di avere una legge che, a prescindere dai suoi contenuti di merito, è condivisa e sostenuta da una minoranza parlamentare, formata da una parte del Pd e dal Nuovo centro destra; contro una parte del Pd, Sel, Forza Italia, Movimento 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia. Francamente siamo al paradossale. Pur mettendo da parte toni catastrofici e visioni apocalittiche di dittature, non si può non considerare l’assurdità della situazione. Di fatto una mino-


ranza impone una legge ad una maggioranza che la supera in numero di parlamentari e la surclassa in numero di soggetti politici. Vogliamo tenere conto che la folla di parlamentari Pd è frutto del premio di maggioranza e non di corrispondenza proporzionale ai voti ricevuti? Che Renzi è capo del governo senza che nessuno lo abbia votato?

T

pensamenti

ranne il vostro terapeuta (se ne avete uno), che lo fa per lavoro, vi capita spesso di incontrare persone realmente in ascolto e capaci di stare in silenzio per tutto il tempo che vi occorre per dire di voi? Oppure fate esperienza di corpi e sguardi in attesa

xxxxx

Che è capo del governo solo perché ha vinto le primarie del suo partito, che, come tutti sanno, sono un’autentica porcheria? Se non vogliamo tener conto di tutto questo, teniamoci pure un capo di governo che purga e un parlamento di purgati.

Ego ergo sum

fremente e solo finalizzata a raccontare le proprie storie, come se la vostra sia solo occasione per loro di prendere respiro e poi continuare il loro racconto? Ego (ergo) Sum. Tutto ciò mi lascia un grande senso di solitudine. Mata Hari Selenica


A

spagine

l cospetto di epocali migrazioni, noi cittadini con l’animo dimesso ci chiediamo: è giusto allargare le maglie dei messaggi di carità e di misericordia, fino ad estenderli ad ampie sfere della comunità, in modo che essi diventino gesti concreti di azione politica, religiosa, umana? Ed ancora: è legittimo e moralmente accettabile l’atteggiamento di chi sostiene di essere in comunione con l’altro da sé e, al contempo, poi vorrebbe innalzare invereconde frontiere e steccati disumani? A questi quesiti risponde, su Avvenire di domenica 29 marzo, il direttore Marco Tarquinio: “Arrendersi a paure, calcoli, irreligiosità e a grettezza, chiudendo le porte in faccia alle persone che subiscono persecuzioni o che fuggono da una mortificante miseria non è giusto, mai. Basta che guardiamo in faccia l’uomo o la donna o il bambino che sta scampando alla morte o che porta i segni della miseria e della fame”. Effettivamente, è così. La misericordia non è una “bandierina” di buonismo ostentato, ma è una pregnante manifestazione inerente all’umano sentire. Gli uomini in fuga non sono numeri da “enucleare” in fredde statistiche, ma sono storie vivide, sono radici sradicate. Il vero scandalo di questa società contemporanea non è la povertà, eventualmente gestibile, ma l’indigenza assoluta, che colpisce vaste fasce. La Siria brucia, è squassata, profughi si muovono dalla Libia, dal Libano, dalla Giordania, dall’Iraq. Il direttore Tarquinio, giustamente in controtendenza con certe vulgate xenofobe, scrive che “se questi fratelli di umanità li pensiamo a uno a uno, famiglia per famiglia, sentiamo che è doveroso salvarli”. Papa Francesco ci incoraggia a respirare e a vivere questo tempo conflittuale e contraddittorio come tempo di svolta. L’impegno programmatico della politica mondiale dovrebbe essere quello di costruire condizioni di pace, di giustizia, di libertà, cominciando magari a porre fine alle piattaforme rapinose di spoliazione dei Paesi a Sud del mondo. Gli spostamenti dei popoli migranti, in un truce stagione di guerre ferine e di persecuzioni etniche, sono di fatto ineludibili. Il mare nostro è traversato quotidianamente da carrette fatiscenti cariche di esseri umani, che chiedono solo ristoro e un civile trattamento. Le politiche popolazionistiche sono un aspetto primario delle agende dei governi democratici. Esse devono essere affrontate de visu, con intraprendenza, coraggio, pragmatismo. Il governo Renzi si prodiga, nonostante le croniche e colpevoli indecisioni

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contemporanea

Noi, nel tempo

della svolta

Lequile, Convento dei Frati Minori, particolare di un affresco

dell’Europa delle banche e dell’alta finanza, per tentare di facilitare l’approdo dei disperati sulle nostre coste. Chi, invece, è da sempre arroccato nel suo inespugnabile fortino nazionalprovincialistico, propalando una propaganda xenofoba e parzialmente razzistica, è la Lega Nord del prode Salvini. Le sue diffuse campagne contro i clandestini ed anche contro i rom sono anacronistiche. Addirittura, importanti esponenti del Carroccio si meravigliano finanche della missione umanitaria della nostra Chiesa cattolica. La cultura dei valorosi della Padania, da sempre, mira a diffondere il “civile decoro”, ad edificare città “pulite” e dignitose”. Siamo stanchi della demagogia dei Salvini e dei Borghezio, alfieri del fittizio ordine, che scriteriatamente conducono una caccia grossa al rom, al “disadattato”, all’extracomunitario, in nome del “vincente” rigorismo. La Chiesa cattolica dell’accoglienza, che poggia le basi su una radicata dottrina sociale, non ha mai accettato passivamente la politica immigratoria, voluta soprattutto dalla Lega Nord, nei passati governi Berlusconi. Come poteva la Chiesa non ripudiare l’anticristiano “reato di clandestinità” e gli orripilanti respingimenti dei migranti in mare? Un Cristo clandestino e pelle-

di Marcello Buttazzo

grino, anima errante, sofferente ed escluso, batte e ribatte nel cuore di tanti uomini. Gesù fu un uomo che ramingo se ne andò per il mondo, perseguitato dalla pervicacia, dalla violenza e dall’ottusità del pensiero dominante. La Chiesa cattolica, che è madre, sa spalancare le braccia, sa diventare sangue, sa stringere forte gli ultimi della terra. Qualche politico del nostro Paese vorrebbe chiudere con la forza le frontiere. Ma i flussi dei popoli mai si fermeranno. Non ha alcun senso antropologico formulare leggi restrittive, mortificanti e frustranti. Sull’immigrazione le normative devono essere necessariamente blande, sempre aperte all’inclusione. Il mescolamento e lo stesso meticciato sono ormai realtà in atto. Quanto bieco populismo lascia il tempo che trova? È fuori registro. Non è, forse, senza fiato, senza storia, la politica che s’accanisce contro il clandestino o contro il rom, contro gli anelli deboli del sistema? La povertà è davvero una “vergogna”, una “minaccia”, un “insulto”? E se cominciassimo ad amarci intimamente, magari tentando di perdonarci tutta la nostra vita, che resta comunque clandestina?


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diario politico

Lo Stato islamico, gli “errori” dell’Occidente e l’altra “modernità”

di Giuseppe Spedicato

Lo Stato islamico viene da tutti rappresentato come la più grande minaccia per il mondo intero. Sgozza gli occidentali, perseguita i cristiani e le altre minoranze religiose. Ci dicono ancora, che non abbiamo alternative, dobbiamo reagire, dobbiamo armare le milizie curde e bombardare le loro basi in Iraq ed in Siria. Questo nuovo nemico ci inquieta anche perché sembra venuto dal nulla, ma non è così, ha tanti padri anche se nessuno di questi lo vuole riconoscere come figlio. Lo Stato islamico è il logico riultato di tante politiche e di tanti errori, che hanno provocato la destabilizzazione del Medio Oriente e non certo per promuovere la pace e la democrazia in quest’area. Non poche volte chi sollecita iniziative militari contro questa grave minaccia, nel recente passato ha lavorato non poco per alimentarla. È da decenni che si utilizzano i movimenti islamisti per combattere i nemici comuni degli USA, dei Paesi del Golfo Persico e di altri paesi islamici e non. Sono stati utilizzati per indebolire, a volte annientare, le forze progressiste in molti paesi arabi e per combattere l’Unione Sovietica in Afhanistan. In questi ultimi anni in Siria si è utilizzata la stessa strategia, si sono armati gruppi islamisti per fare la guerra al regime siriano. Non dimenichiamo che l’Inghilterra per molti anni ha offerto ospitalità ad esponenti di primo piano dei movimenti islamisti. Ben prima dell’attentato alle “torri gemelle” un diplomatico marocchino mi confidò che quando la polizia marocchina era vicina alla cattura di qualche capo islamista, questo fuggiva in Inghilterra e oltre a non averne l’estradizione, costui nella sua nuova residenza continuava indisturbato a fare il suo lavoro. Mi disse ancora: “In Europa presterete attenzione a questi movimenti criminali solo quando inizieranno ad uccidere degli occidentali; le nostre morti non fanno notizia”. Così è stato.

Lo Stato islamico è anche il risultato delle devastanti imprese militari in Iraq ed in Afghanistan. Tutto ciò ha partorito dei “mostri” come Al qaida e lo Stato islamico, che forse sono sfuggiti ad ogni controllo e si muovono con proprie forze e con una propria strategia. Fatto sta che lo Stato islamico opera in Siria, Iraq ed ora anche in Algeria. La Siria e l’Algeria sono paesi che da molti anni hanno legami privilegiati con la Russia e l’Iraq è un paese che forse stava per abbandonare la forzata alleanza con gli USA. Inoltre, entrambi i paesi, soprattutto Siria ed Iraq, anche se abitati soprattutto da popolazioni islamiche, sino ad un recente passato si potevano considerare laici.

Ma mentre tutti parlano e scrivono della questione Stato islamico, molto poco dibattuto è un altro pericolo: il clima di odio che si sta alimentando nei paesi arabi contro l’Occidente. Questo odio, sapientemente veicolato, rischia di trasformare la religione islamica in islamismo. Ovvero in una nuova religione, vuota di valori religiosi (a partire dalla misericordia) e culturali, e molto poco disponibile al dialogo. O per dirla in altro modo gli sforzi fatti per globalizzare ogni cosa, per omologare ogni cosa, nei paesi islamici, arabi in particolare, stanno producendo una “modernità” differente da quella sperata. Si rifiuta la “modernità” occidentale creandone una nuova partendo dalle proprie radici culturali, ma anche modificandole adottando sempre di più quelle wahabbite. In Afghanistan i talebani sono arrivati a distruggere le statue del Budda con l’intento di modificare la storia remota del loro paese, dove tutto deve essere riferito alla loro interpretazione dell’Islam. Ciò vuol dire che sarà sempre più difficile costruire una vera politica mediterranea, sempre più difficile creare un’intesa tra le due sponde del Mediterraneo, sempre più difficile il dialogo tra i popoli arabi e quelli europei. Vale a dire che si consoliderà lo status quo. I popoli continueranno ad odiarsi e le rispettive élites continueranno a fare affari sulla pelle dei rispettivi popoli e come tutti sappiamo uno degli affari più redditizi è quello del traffico delle armi. Per far meglio comprendere di cosa si sta parlando, riportiamo quanto riferito da Giorgio Beretta, esperto dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere di Brescia, intervistato da Giustino Di Domenico: «Il Medio Oriente è la zona nel mondo verso cui – secondo l’autorevole istituto di ricerca svedese SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) – è diretta la maggior parte di sistemi militari: nell’ultimo decennio ne sono stati inviati per oltre 51 miliardi di dollari, che rappresentano più del 20 per cento di tutti i trasferimenti mondiali di armamenti. Un quinto di tutti i sistemi militari venduti nel mondo va quindi a finire proprio in Medio Oriente». Aggiunge ancora: «Detto in breve, chi più di altri sta armando il Medio Oriente non è qualche strano “Paese canaglia”, ma le maggiori potenze occidentali e, tra queste, anche i paesi dell’Unione europea: sommandoli, infatti i trasferimenti di armamenti da tutti i Paesi dell’Ue verso il Medio Oriente superano i 15 miliardi di dollari». http://www.cittanuova.it/c/438733/Perch_Usa_e_Unione_europea_vendono_armi_ai_Paesi_del_Medio_Oriente.html),


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cronachette

“Lettore, chi serve il declaro è preso da una incredibile, ridicola spietatezza: non vorrebbe lasciar dietro briciole, lische, residui. Per altro è spossato”

Di un naviglio

innocente V

Antonio Verri, Il naviglio innocente

di Ilaria Seclì

Candelette, porte, pinna nobilis, Vladivostok ovvero spacciatori di tranquillità nella città dei lecci

ede? Sono queste le candelette per le diesel. Quelle per la benzina si chiamano candele. Tra un'ora può passare a riprenderla. Ok. Dentro le mura i passi vanno soli. Centrifugato ai piedi di porta San Biagio e di quella burlona geniale e anarchica del Naviglio innocente. Innocente, non nuoce e apre mondi. Non vale portarsi un libro, il libro si apre camminando, declara mappe umane. Restituzioni, testimonianze vive, tracce, echi. Il libro ha passi, voci, saluti, sedie aggiunte al tavolino di un bar. La tela opera senza tregua, affamata di inizi e prosegui, intreccio famelico di cose andate e presenti. Ecco. Ecco Maurizio Nocera col dottore bibliofilo suo pari. Invitano a sedermi. Gettano le reti immediatamente, pescatori abilissimi, a proprio agio con acqua e tesori marini. Inchiostro di seppia e rosa. E sì che altrettanto velocemente emergono pesci di ogni taglia, vivi, brillanti. Guizzano come schegge d' argento al sole. Ecco una creatura marina grossa e pregiata. Il tipo di origini slave a 60 anni si congeda da moglie e figlio, parte in Africa con la lambretta. Ritornato da poco a Sud, prepara i motori della sua compagna a due ruote per la volta di Vladivostok. Stefano Medvedich. Il dottore dice che è un matto a rischiare tanto. Maurizio dovrebbe dissuaderlo: non lo farà. Maurizio porta con sé da sempre un rosario di perle geografiche che sgrana con facilità infantile mentre parla, ride, beve un rosso, canta, balla. Con lui si muove uno sciame birichino e scintillante

di nomi di città, aneddoti, passaggi, aerei. Inesorabilmente pagine. Un mondo che per lui si riduce a firmamento disegnato nella camera di bimbo. È tutto sotto il suo sguardo, domina la sfera ricamata di nomi e oceani, capitali e fiumi. È uomo di viaggio. Senza ostacoli ha viaggiato. Fede di compagno. Fede rossa. Fede di parola. Parlano di edizioni lussuose del Galateo, si rimbalzano nomi, ricordi. Pingpong di secoli e città, scrittori, continenti, pagine e pagine, edizioni. Costellazioni di vite vive. Orbita e egida di ideali e entusiasmi mai assopiti. Amicizia e letteratura, poesia e vita. Tavolate sotto il porticato della storia. - In quel tempo Gallipoli era un porto importante, ci venivano signori e mercanti dalle Americhe, dall'Inghilterra, dall’est. Venivano per il cotone, per il bisso... - Bisso? - Sì bisso, la bava di origine animale che la Pinna nobilis secerne. La cozza penna, in pratica... Poi dal bisso alla mussola mentre dardeggiano cielo e mare di Gallipoli e venti biblici e bizantini spingono le porte del bar, agitano gli alberi di quel placido giardino medievale della città dei lecci. Ci siamo. Primavera e rondini. - Maurizio, eravamo ricchi, avevamo tante risorse. Oggi, invece. Gli ulivi, per esempio. Che accadrà secondo te. – Accadrà che passerà anche questo. Alcuni dei miei si sono un po' ammaccati. Ma li curo coi metodi dei vecchi contadini. Calce, rame. - Ho paura che il dio denaro farà soccombere la poesia millenaria di questa terra. Mi prende la mano Maurizio, entra in un sentimento preciso, lo zumma, lo guarda

in faccia, proprio quello, e sorride – Ilaria, la poesia vincerà sempre, sempre! Ricordatelo e stai tranquilla.

È buono il centrifugato: zenzero, carota, mela e kiwi, l'ha offerto il dottore. Ti devo dare il libro su Neruda! Sì, sì! A presto

Un'ora è passata ma continuo. Mi godo la speranza insufflata con forza. Ci voglio credere. Ci credo. Chiesa di San Matteo. Bianco, celeste, sostanze astratte e palpabile materia. Silenziosi i turisti sorridono. Se la prendono intera la pace di questi vicoli santi. Lo dice il viso, spiaggia senza crepe e larga, linda. Marcello ripara le moto d'epoca in piazzetta Epulione, accanto alla casetta di Giulietta corteggiata da mesi. - La vuoi vedere? Ho le chiavi... Dopo facciamo un giro tra Guzzi e lambrette, fotografie, trofei, coppe. - Lavoravo al Monopolio di stato, riparavo le macchine. Avrei continuato a lavorarci ancora, ho sempre amato il mio lavoro. Ritorno. Prendo l'auto. Poi Vinicio racconta la sua storia sommessa, flebile e colossale, tormentata. Itaca e i padri. La comunità, la famiglia, le cuccuvascie. Sue taurinerie. Torno dal padre. In mezzo la campagna. Fulgida, accecante. Perturba la sua bellezza colorata di primavera. Raggruma insieme tutti i punti cardinali. Ogni voce, fatto, parabola, ellisse. Nel nome del creato. Nel nome di natura, suo compasso. Il centro e l'assoluto. Nel cerchio perfetto. Sì, è vero. La poesia vince sempre. Sto tranquilla.


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L’abecedario di Gianluca Costantini e A zonzo con un zavorra zoppicante di ouzo zigzagava zorba zigzagava zoppicante Zorba Z o r b a... Zzzz... La sua zolla di zagare e zefiro vento lo zigomo al sole

Maira Marzioni

su un mare svariato di zirconi...

Nella zucca zingara di zorba un intero ziggurat Zorba zerbino di Zeus A zonzo senza zolla senza Amore


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Un giorno

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l’osceno del villaggio

di ordinaria follia

I

n fila all’Inps per una pratica contributiva. Molta gente in attesa. C’è uno che, seduto accanto a me, impaziente, batte rumorosamente il piede per terra e quel picchiettio distoglie la mia concentrazione e mi fa scollare la faccia dal giornale nella cui lettura sono immerso. C’è la sfitinzia che da quando sono entrato parla ininterrottamente delle sue cose al telefonino, noncurante del rischio concreto di essere sgozzata da un momento all’altro. C’è quello in piedi che conciona di tasse e malgoverno davanti ad una piccola platea distratta ed ha un tono di voce così alto che sembra abbia inghiottito un megafono. La telecamera a circuito chiuso dell’ufficio intanto riprende tutto. Mi vedo nel monitor e concepisco per un attimo la singolare fantasia di essere un altro e di potere guardarmi dall’esterno, dall’alto o dal basso. Sul giornale leggo dell’intensificazione dei controlli e delle misure di sicurezza in Francia in seguito agli attentati di Parigi e alla strage al giornale Charlie Hebdo. Ben presto Parigi supererà Londra che detiene il primato di città più video sorvegliata d’Europa . Ma anche qui in Italia non si scherza quanto ad invasione della privacy dei cittadini, sebbene la sicurezza sia un nodo centrale e un’esigenza molto avvertita da tutti. Mi viene in mente quella canzone di Jovanotti, “Io danzo”, che dice: “Ci ascoltano al telefono. Ci guardano i satelliti. Ci intasano nel traffico. Controllano gli artisti. Ci rubano le password. Ci frugano nel bancomat. Ci irradiano. Ci scannerizzano. Ci perquisiscono”. Un omone butterato e dalla voluminosa zazzera, con evidenti difficoltà a deambulare per via dell’obesità, non mi

di Paolo Vincenti

stacca gli occhi di dosso. Cosa avrà da guardare? Sbircio la telecamera e poi il monitor per verificare se sono ancora presente in carne ed ossa o se mi sono liquefatto come piombo fuso, dissolto come fantasma d’inverno. La telecamera fa tutto il giro e poi arriva di nuovo a me. Sono ancora qui, nel mio giaccone e nelle mie scarpe, la borsa di pelle appoggiata a terra fra le gambe. Ad un certo punto fa il suo ingresso un uomo alto ed emaciato con il collo e il braccio ingessati, reduce forse da un incidente stradale. Lancia delle imprecazioni a mezza bocca alla sala affollata e all’aria davvero pestilenziale che adesso la satura. Non bada a staccare il numerino ma, appena alcuni avventori escono da quel lungo budello che è il corridoio, vi si infila prontamente, alla volta degli uffici, con una faccia tosta che al confronto l’acciaio Inox sembra il burro Granarolo. Come dire, “il fine giustifica i mezzi, ma il rozzo non se ne frega nemmeno”. Intanto il mio vicino di posto batte sempre più nervosamente il piede in terra e io raccolgo gli ultimi avanzi di concentrazione per mantenermi calmo e non urlare. Leggo sul giornale della cosiddetta mafia romana e ritorna il tema delle intercettazioni telefoniche. Quando ho letto o ascoltato per la prima volta i dialoghi fra il boss Carminati, il presidente delle cooperative romane Buzzi, ed altri esponenti della cricca, sono restato sbigottito e ho pensato che si trattasse di uno scherzo, che stessero girando le scene dell’ultimo film di Tomas Milian, “Il ritorno del Monnezza” , o al più che si trattasse di una finzione a vantaggio dell’”Arena” di Massimo Giletti. Perché, suvvia, non è possibile che questi lestofanti non sapessero di essere intercettati, se davvero possiedono la caratura

criminale che vien loro attribuita. Ricordo che con alcuni amici che sono in politica, pur non avendo nulla da temere di legalmente rilevante, non si parla mai al telefonino, e anche quando ci si incontra di persona si utilizza il linguaggio dei segni per paura delle intercettazioni ambientali. Chiunque sia in politica o rivesta qualche carica ufficiale sa di essere sorvegliato da parte delle forze dell’ordine. E i mafiosi de noantri pianificavano bellamente al telefono le loro ardimentose azioni criminali? Mah! Ho un amico che non comunica per telefono alla moglie nemmeno quanto ha speso al supermercato, per paura di ritrovarsi la Guardia di Finanza in casa. Adesso una signora di età avanzata sta cincischiando che gli uffici pubblici sono pieni di parassiti che paghiamo noi, proprio noi, e che è una vergogna l’andazzo in certi posti. L’oca giuliva al telefonino continua a starnazzare dei fatti propri. La tensione si fa palpabile, si potrebbe tagliare col coltello. Ma nessuno invita la signorina ad andare affanculo fuori dalla porta? Dovrò farlo io? Mi trattengo e tiro un lungo respiro. Ora le mie gambe fremono incontrollate e iniziano a danzare un nevrotico tip tap. Quando sembra che il mondo mi stia cadendo addosso, sul display si illumina magicamente il mio numero: 43. Tocca a me entrare. Mi detergo la fronte imperlata da due gocce vagabonde di sudore, riconnetto le sinapsi obnubilate dalle esalazioni nocive dell’umanità derelitta che affolla la sala d’attesa, prendo la borsa di pelle marrone che era stretta fra le gambe e raggiungo l’ufficio preposto all’evasione della mia pratica. Assolto il mio tributo quotidiano alla follia metropolitana, esco finalmente fuori all’aria fresca, che inalo a pieni polmoni.


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l’osceno del villaggio

Dice “scusa, scusa senti / potrei passare avanti la fila è lunga ed io non posso aspettare Dico “prego, prego, faccia / lo so, una giornataccia a pioggia, il traffico e le scadenze del mese” “diamoci del tu” mi dice lei / “io mi chiamo Samantha”/ Io le do la mano e intanto penso “madonna, quanta!”/

Samantha – Daniele Silvestri


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“Dio salvi…” Ma Chi? Fatelo da voi il chi salvare, ma non rivolgetevi a Dio né per i Re, né per la Poesia

di Francesco Pasca

S

i assiste ve lo assicuro. Assisto anch’io al teatrino del quotidiano poetico, lo dico e ne scrivo e, di quell’insufflato e anche del continuamente dico che, dello e nello starci non mi rassegno con metodica ed uguale passione sulle rotte telematiche dei social cinguettanti o nei più e nei meno di un farsi soffiare dentro per un altrettanto e qualsivoglia social book. Confesso, non sono adattabile o adottabile, sono piuttosto instabile in un farsi infondere o lontano da un lasciarsi ispirare, non mi faccio insinuare dai polmoni di un asfittico. (Ma sarò stato sufficientemente dedito nel verbo al transitivo o sono tuttora nell’errore di esser stato condotto, intransitivamente in errore, con un meritato “insufflarmi”?) Nell’assurdo è il difficile distinguo fra un minimo e un massimo, fra il fare e il disfare, fra lo scrivere e il parlare. Il problema così come da me posto è solo di chi ci crede o di chi ci prova per farmelo, ma solo se lo preferite, credere? Il tentativo può chiudersi in una secca risposta? Invece, a pensarci me ne dispiace, eccome, e non è nell’unico breve dell’enunciare di un minimo o di un massimo o in quel ch’è sopra o sotto, ma come lo starci e chiudersi per intero, sia nell’esser sopra o sotto o, se credete, solo nell’intento del farmelo apparire. Ma per e dell’l’insufflo?

Ad illustrare un particolare da Antonello da Messina, “Salvator Mundi”, 1475 ca. - Olio su tavola. Londra, National Gallery

Nell’iniziare a contarlo occorre l’Uno o il Due? Pensate, pensate, pensate. Io così, proprio così, fra l’Uno e Due, vado in confusione, voi no? Credete forse di storcere il naso e cavarvela? Grossomodo, dai confezionatori delle mistificazioni imbastite con la scrittura detta di poesia, occorre uscire per quel fumo e, chi lo crede, non ha scampo. Pertanto, dall’Uno lasciate che inizino i mangiatori di parole, poi a quest’ultimi si aggiungano pure gli onnivori lettori. Dal Due, ad iniziare, mi spiace, non ci siamo tutti. Dal Tre invece v’è chi crede e s’illude di sfuggire a queste semplici regole d’accomodamento domestico e poietico, al dubbio del chi non ha scampo. Un-Due-Tre e, per il Tre, parrebbe l’iniziare. Sorge il dubbio che non è solo l’attribuzione di una semplice conta, né l’essere fra quel ch’è certezza, ma l’ennesimo rovello dialettico. Riconduciamoci all’insufflo, al teatrino del quotidiano poetico. Il concetto è nell’appena enunciato del e nel breve del Tre, è nella e dell'ipocrisia parlata, è del e nell’atto di una contraddizione del non dire e del non poter dire: Basta! Quel che genera e sostanzia la conseguenza dell’Uno e la probabile continuazione del Tre ch’è l’iniziare. Tutto È da verificare solo il perché s’adegua al tutto, alla circostanza.

Mi hanno detto: Un bravo maestro per allontanare da sé il dubbio di un’ipocrisia può dirci: «Ascoltate quello che dico, ma non insufflate né fatene esempio di quel che, normalmente, faccio e, se non riuscite a star zitti, ch’è l’equivalente dello “scrivere”, sappiate “tacere”.» Continuando, scorrendo per il ricordo del maestro: «Del Due ch’è prosieguo dell’Uno cosa ne facciamo?» Trovarsi con questa interrogazione è il giacere nella pratica del solo dire e del non fare nonché dinanzi all’insufflo di un’ipocrisia con l’avvertire l’inspiro di un bilico, della propria finzione o del o nel mostrarsi dispiaciuto, commosso e quant’altro conviene per non distrarre la mente poetica: «veramente … forse… vedrei di… bello, bello, bello …» (così è che m’insufflo intransitivamente) Comunque, è facile trovarsi in quella contraddizione. Lo assicuro, avviene ed è da questa affermazione che scaturisce sempre l’esigenza del: “Dio Salvi ... etc …” Nell’indugio è dar luogo e al contempo e senza far trapelare vanto alcuno, è lasciare all'ipocrisia silenziosa il sottile divenire con la più sofisticata delle sostituzioni, quella della sottilissima e nascosta affabulazione e dimenticando e sottintendendo e alludendo e comunque lasciando a tutti che i verbi diventino intransitivi. Suvvia, mai farli divenire transitivi anche


spagine se già lo sono. Lo so è scomodo. Nell’indugio sottintendo che, può anche accadere che altri l’avvertano quel transitare. Persino il Nostro Poeta che canta e vanta lodi di bontà e d'amore può cadervi in quell’intenzione, sebbene a lui è remota e, fra un transitivo e l’intransitivo può scatenare, cioè, destare, con l'altrui ammirazione, quel sottile distinguo che si chiama dissimulazione da un’ipocrisia. È poetico simulare. È poetico in virtù o in sentimenti o in quel che non v’è attinenza con la realtà e che porta ad ingannare, a lusingare in nome del: «Dio salvi…» Qui l’arte più raffinata è dell’ipocrita poesia. Il dubbio in me è che, dal momento che ne scrivo, possa anch’io essere caduto nell’insufflo e che mi accomuni a quanti scrivono sui “muri” delle loro e nostre anime: "Io odio i falsi ", "Io odio le ipocrisie", “io odio le simulazioni IN e per L’OUT di poesie”. Per questo motivo inizio dal Due, perché non ho certezza d’inizio e simulo il probabile Tre ch’è per altro inizio. La mia scrittura sta per concludere e si avvia e diventa la più qualunquistica delle affermazioni e, di questi tempi, mi pare fatta solo per far bisticcio in una categoria detta: “generale”. Per non agitare un mare ch’è magnum e dare opportunità ad un canale d’esser di puro scolo, ch’è di parole, v’è il mio decantare nel Tre e da non dare e da non concedere per l’iniziare. Ma ri/torniamo al teatrino poetico, al soccorso iperventilato ch’è del: "bello, bello, bello, così bello che, rinuncio a comprendere.” Veramente, il mio soccorrere è un po’ dopo il bello, deve cioè essere il fotogramma che si verifica come un evento clamoroso, un “Booom” da fumetto. In breve, mi racconto e da intransitivo do la mia contraddizione". D’accordo, la non rinuncia imprevista ferisce e fiorisce nella mia non menzogna. D’accordo, quando, insomma, il comportamento e i sentimenti sfuggono alla comprensione la chiamiamo apertamente ipocrisia consapevole e ne indichiamo l'incoerenza voluta tra parole dette e valori semantici enunciati, spesso tacitamente e mai esplicitamente, nel “Uff! Puff! Pop! Gulp! Snap!” D’accordo, l’idea espressa nel Due è anch’essa contraddittoria e non sostituisce il vero che finge, è solo il dimenticare drammaturgico del consapevole come

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scritture

nell’antica Grecia, come l’Ypokrites ch’era l’Attore. Ancora più d’accordo se, quella drammaturgia così grossolana è oggi spesso risultato dei profondi moti interiori. Ma, vi è una colpa nel NeoAttore? In fondo l’Attore non è solo il Teatrante, è il sé Protagonista, è l’Ombra che fa parte di noi o che è e diventa la Cosa che la necessita e la perseguita. Anche su questo siamo d’accordo? (Omissis) Ma s’è manifestazione proiettata di un’opportuna e se tentiamo di eliminarla dobbiamo azzerarne necessariamente la luce per non farla apparire come scoria di un sé? (Omissis) Con l’Ombra, ch’è meglio del Due, è lasciare tutto in attesa di un far diventare improvvisa la manifestazione di una causa nel distruggere. Suvvia attendiamo, diverrà prima o poi la nostra ombra morale. Ecco l’auto inganno, il ricorrere, ecco come prelevare un parametro altrettanto contraddittorio in una cosiddetta improvvisa modestia. Certamente? La modestia è l’altro sé, è il convenzionale, il modo dichiarato di un anticorpo ombra capace di scatenare l’ipocrisia in orgoglio. Così, come dichiarava Giovanni Papini. Ma, cosa sarà mai la modestia nell’insufflo se non una falsa modestia? Ma, per uno come me che assiste al teatrino della Poesia la voce che insegue è: facciamo “mica” le pulci sulla Parola, sulla Poesia? Come possiamo dichiarare lo stato di un falso quando per il gioco delle antinomie potrebbe essere anche vera o appartenere ad una forma raffinata di vanità dettata dalla proiezione di un’ombra di verità oppure trovarsi in un’altra menzogna abilmente camuffata da un inizio di Uno e il dichiarato di un Tre? (Qui l’insufflo è lunghissimo, da apnea) Per Concludere “citiamo” Aristotele. Aristotele afferma che la modestia assomiglia più ad una sofferenza che non ad una qualità, è come voler scacciare da sé l’ombra. La sofferenza, quindi, parrebbe modestia sincera al pari della stessa modesta ipocrisia e ne diventa il suicidio della stessa parola e del suo fare. Per concludere citiamo anche Rousseau. Anche Jan Jacques Rousseau affermava che la modestia comincia con la conoscenza del proprio male. Ma, per tornare al più sottile distinguo,

nell’essere d’accordo termino col Tre, con l’ennesima citazione. George Bernard Shaw la cui visione, come sinora scritto è nella drammaturgia mi ha consegnato: «L'ipocrisia è l'omaggio che la verità rende all'errore.» Non so se questa affermazione gli rese quell’omaggio, l’insufflo con l’assegnazione del premio Nobel del 1925. La motivazione allora fu: «Per il suo lavoro intriso di idealismo ed umanità, la cui satira stimolante è spesso infusa di una poetica di singolare bellezza». Suppongo fosse riferita esclusivamente alla sua eccezionale pratica drammaturgica. Lo spero. Lo fu sicuramente?! Sì!? No!? Boh! Ma, se fu omaggiato anche per la sua altalenante condizione politica, mi giungono faticosamente poetiche le affermazioni negli aneddoti su “George”. Mi sorge il dubbio che, i teatrini poetici furono solo le sue affermazioni. Come lo furono le dettate e le ritenute necessità, ad esempio dettare: “… lo sterminio di persone inutili alla società come i ‘pigri e gli invalidi’. Aggiungo (poetici).” George come ogni Tre mi lascia comunque nel dubbio di un insufflo. Nell’appello lanciato ai chimici, ad esempio sprona per sollecitarli all'invenzione di un gas pietoso in grado di uccidere senza far soffrire ‘gli inutili e gli invalidi. Qui il Due è più ipocrita e più vanitosamente sincero di un Tre. Qui del Due è fatto l’Uno e, di quell’Uno, la condizione psicologica può essere dettata dall’individuo solo se portato a giustificare il suo comportamento, poi divenuto Nobel. Qui del Tre è il perché ed è il dovuto per cause ambientali a lui estranee. In buona sostanza, l’attribuire un’azione e renderla partecipe agli altri con un altrettanto omaggio poetico è e diventa, come in precedenza dichiarato per bocca di George, «L'ipocrisia è l'omaggio che la verità rende all'errore.» Non resta che continuare ad essere ipocriti e, se volete, anche non tanto modesti purché nell’errore. Oggi che ne scrivo la differenza sappiate ch’è su: “in qualità di (omissis)” o “in veste di (omissis)” Fate voi, ma non credetevi né Jan Jacques, né George, né Aristotelici seguaci di una sofferenza. Nell’assurdo salvatevi dai gas pietosi insieme ai Re e alla Vostra Poesia. Rispettosamente, BOOOM!


spagine

E

E l’alba?

Da Manni nella collana “Occasioni” una raccolta di versi di Marcello Buttazzo

l’alba? Chiede il poeta, a chi forse può dare risposta. L’alba! Rapida e radiosa nel cielo d’Oriente, autentico incanto d’immenso splendore; ammanta di luce la nostra terra e le altre ad essa accanto. E sempre ci avvolge col suo tenero canto fugace. Sempre presente per ritrovare il modo di restare in vena per l’amore che viene, per l’amore che va. La poesia di Marcello forse è il modello della bellezza! Come gli orpelli delle vesti e l’antica forma di un magico splendore. Tutto riluce nella poesia, le donne del coro invocate tacciono, e tutti noi siam pronti ad ascoltarle in pace. Le basi su cui i versi di Marcello poggiamo provengono da un’antica tradizione orale, ove la dottrina della bellezza era associata ad una riflessione sull’arte. Essa ci è tramandata da poeti come Omero ed Esiodo, e poi dai frammenti dei presocratici. In questi testi, la bellezza comporta alcuni caratteri che rimangono determinanti per tutta la tradizione successiva: essa è, per esempio, “luminosità” e splendore del sensibile (così, in Omero, sono belle le armi degli eroi perché sono ornate e rilucenti; è bella la luce del sole e della luna, e bello è l’uomo dall’occhio splendente); e d’altro canto, specialmente a partire dai pitagorici, la bellezza è simmetria e proporzione; e ancora, come attesta il potere che Afrodite, dea della bellezza, esercita sull’uomo (per esempio in Esiodo), bellezza è forza di persuasione, capacità di attrarre ma anche di “ingannare” (un tema vivissimo nel sofista Gorgia). Proprio quest’ultimo carattere del bello costituisce la base di uno dei pochi nessi espliciti fra arte e bellezza che sia riconosciuto nel pensiero arcaico: la poesia, infatti, condivide con la bellezza la forza di persuadere (così in Pindaro, “Nemea” VII, 20-22). La dolcezza della poesia fa di essa una fonte di piacere, e per il potere che esercita sull’animo la poesia appare come un dono degli dei (Omero, “Iliade”, II, 484 sgg.).

di Antonio Zoretti

dine delle cose, ma in quello dell’evento: ciò che, essendo sempre, non è mai.

[…] Orsù, dalle Muse dunque iniziamo, che a Giove inneggiando rallegran l’eccelsa mente in Olimpo, e dicon le cose che furono e sono e saranno, con le parole espresse, e dal labbro delle dive la voce faticante scorre soave. […] (Teogonia di Esiodo, vv. 36-40)

E’ così per Marcello l’azione della parola, essa esige dunque uno svuotamento, e solo allora una originarietà ti visita, sei visitato. Per questo vuoto, in questo spazio creato, è data l’azione salvatrice dell’arte, l’azione poetica che Marcello reclama per non lasciare la poesia ai corvi della mera cultura intellettualistica e “negativa”, cioè proprio a quel nichilismo del mondo dello spettacolo trionfante e trionfato, che Marcello Buttazzo, assieme ad altri, respinge. Egli recupera la poesia come canto, come mezzo di trasmissione che fu prevalentemente orale, scrittura ed essenza diffusa attraverso pubbliche esecuzioni; qualcosa di più antico di ogni passato e di più nuovo di ogni futuro.

[…] E la tua voce che incantava i passanti per strada, ineffabile canto delle centomila sirene. La nostra terra un Eden vagheggiato. Come era vivo il tuo corpo, il tuo viso. E poi Così piange una donna, prostrata sul corpo dello sposo, ogni notte caduto davanti ai suoi uomini per proteggere dal giorno funesto le vie popolate di gente. i figli e le città. E lei che l’ha visto dibattersi e morire E in piazza, in ogni pietra attorno a lui riversa acute le sue grida… (Omero, Odissea 8, 523 sgg.) la tua orma, il tuo passo.

Marcello sembra quasi evocare le Muse, l’eco della loro voce, come ancestrali figure che illuminano l’alba natale. La voce chiama nella nostalgia dell’eco dell’assenza… Un ricordo del prenatale; nostalgia di qualcosa che fu. In questo senso, Marcello evoca l’originario e l’arcaico, con ritmo e pulsione musicale, che è il corpo stesso della parola. E’, a suo modo, un eco e un segno del ritorno. Esso incarna una nostalgia del ritorno, l’eco di una poesia già ascoltata un tempo che non è nel tempo, in un dove senza alcun dove. In breve, in quella origine che non c’è e non è stata mai, poiché non è nell’or-

(Marcello Buttazzo)

Noi non sappiamo come andranno a finire le cose, ma sappiamo come sono cominciate. La creazione è cosa buona e giusta. Questo sigillo di bontà e giustizia resta nonostante tutte le cattiverie di cui l’uomo è stato, è e sarà capace. Questa è la speranza radicata in Marcello Buttazzo, il bene e l’amore non arriverà domani, ci accompagna sin dalla prima alba.


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poesia

Dedicato a Marcello e al respiro lirico della “sua” alba

Nell’abbraccio della poesia

E l’alba?” Arriverà l’alba, ma certo che arriverà; ad un patto, però; che ognuno porti con sé i versi di Marcello Buttazzo e portarli con sé, significa avere accanto la sua ultima (in ordine di tempo) creatura poetica, posarla sul comodino, portarla a passeggio tra le strade, presentarla agli amici che amano la poesia e anche a coloro che non la amano. Impareranno ad amarla, la poesia, perché le liriche di Marcello sono l’alba che s’ affaccia nel cielo ogni mattino e non si può non aspettare e non desiderare che alba appaia. E non si può non aspettare, non desiderare un abbraccio. Ecco, i versi di Marcello sono un continuo, incessante, struggente abbraccio poetico “in una divinazione / di stelle bianche”. Quasi a conferma di quello che intuivo ad una prima lettura, mi son messa a contare gli enjambements, il legame tra verso e verso e ho perso subito il conto, immersa nell’abbraccio di stelle bianche, tra urli di gabbiano, “ melodia / di cicale pazze e canterine”, voci di onde sonore e piogge improvvise e rintocchi di campane nella piazza e poi, d’un tratto,

“un’eco lontana / di ninnananne”. Dondola Federico “su una altalena di luna” e mi commuovo, mi perdo, dondolo, mi fermo e respiro. Non conto più, sospendo per un attimo la lettura. Mi godo, nell’anima, questa eco di ninnananne e questo dondolio lieve d’una altalena di luna. Il vento o le nuvole a spingerla, chissà. Ora riprendo a leggere e vorrei consolare questa “pena d’amore” e so già che non è possibile. Si è raggrumata nei versi, lei è grumo di sillabe, lei “sbrecciata paura/e sfrangiata malinconia”, lei è tutto, lei è anche un “petalo di vermiglia/ speranza” racchiuso ancora nell’abbraccio d’un verso che si aggrappa all’altro per non lasciarlo mai solo. E’ questo “petalo di vermiglia speranza” che mi fa cercare ancora nelle pagine di“E l’alba?”, questa opera essenziale di Marcello Buttazzo. “E l’alba?” già, e l’alba c’è, sempre; presente anche e soprattutto nei pensieri delle notti insonni; ed è metafora e simbolo d’una donna – la donna – che è tenebra ed è luce, è realtà ed è sogno, è illusione e delusione, è respiro e singhiozzo, lacrima e sorriso, è il sapore dolceamaro della vita, si mescola nei colori della natura; lei è tutto, arcobaleno, papavero, gaggia, albero del pepe, pro-

fumo d’ aranceto, rosa e gelsomino,\manciata di stelle rubate, rosso di melagrana. Lei è l’alba ed è la vita e se il suo pensiero non c’è, non c’è Marcello e non c’è la sua poesia; come Beatrice per Dante, come Laura per Petrarca, come la Musa e il suo poeta,come Psiche ed Eros, come, come “ pensiero oltre la notte / e cibo degli dei”. Ecco, è cibo degli dei, la poesia, ma è cibo degli uomini, deve e può diventarlo, se ancora non lo è, “ per irrorare un fiume di gialli giacinti”, per aiutare a sognare, a sperare, ad immaginare. Decido; prendo con me il libro di Marcello e lo riporto a spasso con me nel sole; ho voglia che coloro che amano e coloro che non amano la poesia sappiano che i versi di questo poeta sono davvero “pane domenicale / sospiro su una contrada di periferia / l’eterno ritorno / un respiro di luna / la magica storia di Sole / ragazza di viola con gli occhi fondi di luna”. Vanno “ oltre le miserie / di questo tempo / presente”. Incoraggiano a vivere donando, per il domani, il domani di Marcello e di tutti “il fiore dell’aurora / e una crisalide / di ali primordiali”. di Giuliana Coppola


Quasi niente spagine

F

di Massimo Grecuccio

forme rette da regole, da equilibri, da limiti, e poco distanti dalla base di partenza (nell’alveo della base di partenza). Forme Ogni nostra percezione è fede, nel senso che afferma (pratiche) nello stesso tempo del presente e ancestrali. più di quanto a rigore non sappiamo, dato che l’oggetto è inesauribile e le nostre cognizioni limitate. NELLA RASSEGNA PRIMA VISIONE / 01

Cinque sono le opere che esponi nella Galleria Foresta. Quasi Maurice Merleau-Ponty superficie, Quasi superficie / Leva, Quasi niente / ago, al livello zero. Quasi niente, al livello meno uno. Quasi superficie / 4 rancesco, c’è una continuità evidente tra i tuoi aghi, mai visti sotto, sopra, al livello più uno (al quale è impelavori presentati a Palazzo Vernazza-Castro- dito l’accesso). Rispetto a Palazzo Vernazza ci sono due mamediano (nell’ambito della mostra Ipotesi, 21 nufatti in più, l’ago e la piastrella (un aumento dei gradi di marzo / 8 aprile 2015, a cura di Lorenzo Ma- stratificazione tecnica?). daro), e i lavori che tu hai allestito alla Galleria Passo in rassegna le cinque opere, e indico di ognuna un Francesco Foresta, esposizione che hai rac- aspetto per me saliente e probante. colto sotto il titolo Quasi niente (Prima visione / 01, 10 aprile / In Quasi superficie e Quasi superficie / Leva (le due opere che 26 aprile, a cura di Lorenzo Madaro). Intanto, a rimarcare la sono passate da Ipotesi a Prima visione / 01) gli oggetti vencontinuità, due opere della precedente esposizione, Quasi su- gono sollevati non di molto dal piano di appoggio. perficie e Quasi superficie / Leva, sono trasmigrate da palazzo In Quasi niente / ago, un ago è incastrato e nascosto tra una Vernazza alla Galleria Foresta. Anche l’avverbio quasi segna trave e una vetrina dello spazio espositivo. la continuità. Quasi superficie / 4 aghi, mai visti sotto, è collocata sopra un pavimento vitreo e trasparente (questa opera si può osservare UN PUZZLE INCOMPLETO solo da sotto, così che gli aghi di cui parla il titolo non si veC’è, nelle tue realizzazioni, quasi un rifiuto. Il rifiuto di mostrare dono). Gli aghi sono (dovrebbero essere?) poggiati su alcune alcunchè di forte, di compiutamente forte. Il rifiuto di indicare ceramiche (quattro), del tipo di quelle utilizzate per la pavimenun senso sovrano, un senso Re Sole. Non c’è più un senso tazione di ambienti. Più della disposizione degli aghi sulle piache abbaglia. Non c’è più bisogno di un senso che abbaglia? strelle (in orizzontale o in verticale?), credo che sia importante Questa è una domanda che mi suscitano i tuoi lavori (questa indicare il poco spessore che li separa dal suolo. Inoltre, non domanda credo che abbia un lato che confina con l’Etica). credo che le piastrelle debbano considerarsi un semplice supLa detronizzazione del Re Senso, la attui programmatica- porto. In ogni caso, le piastrelle si elevano di poco. mente con la costruzione (per passi) di quasi un alfabeto di In Quasi niente, un filo è teso verticalmente tra l’anello al cenprocedimenti visivi. Un alfabeto di forme che sono come dei tro della volta e un ago infilzato (alla lettera) nel pavimento (in tasselli, delle tessere. Forme che, considerate insieme, sono una fuga). L’ago non tocca il suolo, lo infilza. Questa installacariche di più di quello che lascia intravedere il gesto della di- zione è completata da un altoparlante, che può riprodurre (opsposizione singolare nello spazio. pure no) un file sonoro. Il file restituisce (in loop) una versione apocrifa (è di Hemingway) del Paternoster (Sia fatto il tuo NELLA RASSEGNA IPOTESI nulla) recitata da un uomo (tuo padre). Nei tuoi gesti, quelli che ho potuto vedere, i materiali di partenza sono poco variati (sono quasi dei ready made). È una NATURA E ARTIFICIO tua caratteristica (un tuo stile) quella di caricare, con interventi Nei tuoi procedimenti, non c’è certezza alcuna della ricerca di minimi, di nuovi significati gli oggetti (anche di risulta) che uti- un’essenza. C’è, invece, un processo che cerca, in luogo dellizzi. l’essenza, delle essenze (nello stesso tempo volatili e dureA Palazzo Vernazza, le assi di legno (listelle, travi a sezione voli). Il processo si attua mediante la costruzione di dispositivi quadrata di spessore variabile) sono accostate, con un retorici in cui si confrontano sia qualità sensibili (per esempio: estremo a terra e l’altro di poco dalla terra innalzato (tramite fragile / duro), sia modalità dispositive (per esempio: stabile / un sostegno di legno o di vetro). Lì hai mostrato, per esempio, instabile). Gli oggetti sono sollevati (se pure di poco) dal piano delle cornici quadrate che racchiudono fili di spago (paralleli a di appoggio. I gradi di stratificazione tecnica di questi oggetti trame più e meno fitte), un quadrato fatto di liste lignee acco- non sono molti (soprattutto se utilizziamo come termine di pastate, una grande cornice (Quasi superficie) con un lato che ragone un feticcio del nostro tempo, lo smartphone). Il sollepoggia sul suolo e quello opposto sollevato da due vetri, una vamento, i gradi di stratificazione tecnica, i rimandi alle leva con fulcro, braccio e contrappesi (Quasi superficie / Leva). memorie, le allusioni simboliche degli oggetti esposti, tutto inI materiali (le assi di legno, il vetro, lo spago) hanno subìto in- dica (implica) un intervento (una volontà) dell’uomo. Gli oggetti terventi che li hanno staccati dalla natura di un grado o poco hanno acquisito e incorporato un plusvalore. Un surplus che è più. L’invito è di considerarli nella loro stratificazione poco l’effetto di un fare con finalità. Che può essere riferito sia alla spessa di tecnologia. Stratificazione che trascina con sé pra- pratica artistica (a partire dal ready made e poco oltre, cioè lì tiche che sono anch’esse vicine al livello zero (il livello del vicino), sia a pratiche extrartistiche (le pratiche non meccanizsuolo, della terra anche nella sua accezione di humus). zate del lavoro agricolo?). In ognuno dei due ambiti (artistico L’esposizione suggerisce una tensione verso la ricerca di


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Seconda lettera aperta, con raggiera, a Francesco Romanelli

ed extrartistico) le pratiche sono primarie, vicine (quasi) allo L’ago, questo minuscolo oggetto di metallo appuntito, così castato di natura. Rispetto al quale, comunque, si è attuato un rico di rimandi simbolici (un’intenzionalità direzionata?). L’ago, distacco (irreversibile?). il piccolo scettro appuntito del senso detronizzato. E le ceramiche, dei piedistalli molto bassi. QUASI NULLA, QUASI UN AUTORITRATTO L’ago, alla Galleria Foresta, si declina in tre installazioni. Credo che la tua esposizione (pienamente site-specific), dal liIn Quasi niente (installazione collocata al piano meno uno), vello meno uno al livello più uno, contenga un’idea di evolul’ago, legato a un filo che parte da un anello al centro della zione. Prima, ora, dopo sono le fasi a cui la tua azione (fatta volta, si conficca nel suolo (come l’aratro nella terra?). di cinque gesti) allude (così, è anche in gioco la variabile In Quasi niente / ago (installazione collocata al piano zero), un tempo, che introduce la durata). Il passato (in confronto col ago è incastrato e nascosto tra una trave e una vetrina dello padre simbolico e non solo biologico), il presente (il lavoro arspazio espositivo. Dall’esterno, solo una visione non distratta tistico?), il futuro (un’atto di fede?). Le tre fasi convivono, coe(che guarda la punta della trave di legno che tocca il vetro) può sistono simbolicamente, nella dimensione spirituale di una distinguerlo. Dall’interno, bisogna quasi sporgersi sull’estremo persona (tu). sollevato della trave per vedere il piccolo ago, stretto tra il Francesco, Quasi nulla (alla fine di questa disamina ne sono legno e il vetro (tra l’opaco e il trasparente). quasi convinto) è un autoritratto. Che, come gli autoritratti In Quasi superficie / 4 aghi, mai visti sotto, sopra (installazione che catturano, è anche uno specchio per lo spettatore (raccollocata al piano più uno) gli aghi non li vediamo. Il titolo ci conti di te e anche di noi). suggerisce che gli aghi sono sul lato per noi invisibile delle ceramiche (piastrelle) che vediamo da sotto. Questo è certo: non Non abbandonare il cammino. Continua. li vediamo (chiedi allo spettatore un atto di fede).


La traccia d’acqua

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itinerari

Ritorno a Frigole, incontro ravvicinato con l’Idume

distanza di due anni e sospinto da un irrefrenabile campanellino interiore, in questa soleggiata ma fredda è ventosa mattina d'aprile, decido di ritornare a Frigole, aggraziata - e, forse, poco apprezzata rispetto ai meriti della sua cornice naturale - marina leccese. Tengo bene a mente, al punto che mi si ripropone quasi familiare, l'impatto con il viale d'accesso al piccolo nucleo abitativo, contraddistinto, sui lati, da lussureggianti e svettanti piante sempreverdi; pochissime le persone in giro, caratterizzate da movimenti pacati, come se vivessero in un atmosfera da siesta. Ma è assolutamente fugace la sbirciatina a quel mondo d'altri tempi da parte del visitatore curioso, la sua metà ponendosi precisa e determinata: il porticciolo della località. Indubbiamente bello si rivela il nuovo approccio con i soliti battelli da pesca ormeggiati lungo il molo, tutti ricoperti, all'interno, da inanimati mucchi di reti. Sennonché, merito o colpa della tramontana vivace, al di sopra e nei paraggi delle barche non si scorge anima viva, nemmeno l'ombra, tanto per citare, del giovane e gioviale lavoratore del mare Samuele, incontrato in occasione della precedente puntata a Frigole. Sarà giacché al largo tira aria di burrasca o per via, come accennato prima, della temperatura niente affatto primaverile e, invece, nella media del nostro pieno inverno, il luogo in questione è presidiato unicamente dal più assoluto silenzio

di Rocco Boccadamo

umano, rotto dai sibili di Eolo e dallo scivolare rapido e spumeggiante delle onde increspate, sino al loro infrangersi a ridosso dell’arenile e dei massi che proteggono il molo e le altre superfici di terraferma. In un simile contesto, a me non resta che indirizzare una sorta di dialogo ideale alla distesa d'acqua, nella sua accattivante tonalità tra il verde e l'azzurro, con lo sguardo e la mente protesi soprattutto in direzione dell'orizzonte. E, passare in rassegna volti, vicende, episodi inanellatisi, nel tempo, sullo scenario del mare di casa nostra, giustappunto il Canale d'Otranto che ho di fronte: sequenze cruciali della trama, gommoni e altri mezzi di fortuna carichi di clandestini disperati o di trafficanti, purtroppo con una serie di correlati naufragi e sacrifici di vite umane. Un pensiero, dedicato con animo più sereno, anche per i popoli dell’altra parte del Canale, specie per le genti del Paese delle Aquile, una nazione, come è noto, già alle prese con decenni di buia dittatura e ora in promettente fase di sviluppo su modello democratico ad impronta occidentale. Riconducendo la mente e lo sguardo alla terraferma e al porticciolo, mi piace accarezzare in particolare uno dei natanti attaccati al molo, quello portante il nome di battesimo di “Santa Maria Goretti”, la giovanissima Vergine dell'Agro Pontino, venerata, a quanto appreso, anche in seno alla comunità di Frigole.

sosta e, tuttavia, non mi sento abbastanza appagato per ritornare tout court in città. Fortunatamente, un lampo mi si accende dentro, da un pezzo vado coltivando il proposito di vedere e conoscere la foce del fiume Idume, piccolo, e in qualche modo anche misterioso, corso d'acqua che scorre sotto l'abitato di Lecce, in lento movimento verso l'Adriatico, emergendo alla luce del sole poche centinaia di metri prima della distesa salata, in un luogo non molto distante da Frigole, precisamente all'altezza del cosiddetto bacino di Torre Chianca, altra marina del capoluogo del Salento ubicata appena più a nord.

Ecco alcune brevi note di geografia fisica e di carattere storico. Il fiume Idume taglia il centro di Lecce, facendo capolino nei sotterranei di diversi antichi palazzi nobiliari, come quello degli Adorno, fatto costruire dal genovese Gabriele Adorno intorno al 1568. Si dice che, in periodi andati, una famiglia ebrea dimorante nel citato palazzo usasse purificarsi proprio all'interno della falda acquifera posizionata nel corrispondente sottosuolo. Il passaggio del fiume è testimoniato anche da iscrizioni sulle antiche pietre dell'edificio. Si tratta di uno dei corsi d'acqua più importanti del Salento e la zona che circonda il suo bacino, definita “Le macchie dei Rizzi”, offre uno spettacolo naturale davvero suggestivo. Colori brillanti della Dopo di che, il vivace vento di tramon- vegetazione uniti al profumo intenso tana non incoraggia più di tanto la mia delle ginestre, incredibile trasparenza


dell'acqua soprattutto in primavera. Così la righe descrittive. Riprendendo invece i ritmi dell’odierna mattina d'aprile, è automatico il proseguimento in auto, da Frigole, in una definita direzione, ci vuole poco per arrivare, la tramontana seguita a soffiare, anche nella nuova meta regna la solitudine, salvo una donna, accompagnata da cagnolino, che sfida le raffiche per il suo, evidentemente irrinunciabile, footing. A me basta un gesto con la mano da parte della predetta signora e mi trovo sul greto, su una delle sponde dell’Idume, intorno piccoli e bassi canneti, il rio serpeg-

L’immagine è tratta dal sito http://www.parconaturaleidume.it/ un documentario a cielo aperto

gia dolcemente fra le distese di terra rossa, le acque, posso confermarlo, appaiono di eccezionale lucentezza e cristalline, un quadro d'insieme, seppure in miniatura, che sembra irreale. La visione mi suscita dentro una ridda di riflessioni e pensieri, del genere più svariato, che si affastellano in copiosità, ma la reazione dominante e prevalente è quella di accostare questo modesto tratto fluviale della terra natia alle visioni di ruscelli e fiumi con cui mi è stato dato, in passato, di familiarizzare a latitudini ben diverse, ai piedi di montagne o fra boschi e pinete.

Rivedo e sento ancora accanto tali immagini naturali di anni lontani, nel loro ruolo di testimoni di momenti pieni e, insieme, spensierati e leggeri del ragazzo di ieri. Al presente, insieme e in unisono con lui, in aggiunta a mare, vela, fiumi, montagne e ricordi, scorrono altre stazioni (non stagioni) della vita. Vita che, però, sia come sia, continua o meglio - volere, sempre volere, fortissimamente volere, riprendendo Vittorio Alfieri - deve continuare.


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C

della domenica n°71 - 19 aprile 2015 - anno 3 n.0

Intervista a Mimmo Crudo

musica

Dalle nuvole all’onda

iao Mimmo, da componente storico de ‘Il parto delle nuvole pesanti’ ad OndAnomala. Raccontaci il tuo percorso artistico. Sono un “musicante” come molti della scena indipendente, poca accademia e tanto suonare! Dopo i primi gruppi e in particolare gli “Uvistra” che è stata, insieme a Francesca la mia prima rock band, ho suonato con diverse formazioni fino all’incontro con il Parto nel 1995. Da rockettaro mi intrigava la contaminazione e lo stridore tra musica elettrica e acustica. Il folk mi era in parte estraneo e credo di avere portato nella band proprio l’influenza del rock mediterraneo. Crescere come bassista mi ha spinto verso i diversi generi e tecniche ma sempre con approccio “naif”! Questo è stato un bene per l’approccio istintivo e originale ma è stato un male per le lacune teorico/tecniche che mi sono trascinato, inoltre ho speso molto tempo sui libri di arte e sociologia, infatti ho chiuso la mia lunga carriera universitaria con una tesi di sociologia delle arti sui Mutoid… Come è nata la tua passione per la musica? Gli ascolti di tutto il rock anni ’70 e ’80 sono stati fondamentali ed ho seguito la scia anche nelle svolte new wave che sono seguite, mescolando nel mio gusto le influenze dark e punk. L’ascolto dei grandi musicisti mi ha avvicinato al jazz elettrico, ho sempre cercato di “mimare” le tecniche ma sempre in modo istintivo…da autodidatta. Non voglio esaltare l’assenza dello studio musicale, semplicemente è stato così! A 13 anni ho avuto in regalo una chitarra classica, verso i 15 anni ho cambiato le mie frequentazioni ed ho conosciuto un gruppetto a cui mancava il bassista. Da quel momento non ho più smesso di amare questo strumento pur continuando a suonare la chitarra soprattutto per le invenzioni! Con questi ragazzi avrei continuato per anni a suonare per lo più cover rock fino a quando con Kecco Salerno ho cominciando a inventare quello che con gli Uvistra definivamo Rock Mediterraneo. Eravamo un trio con batteria elettronica, poi tirammo dentro la sorella di Kecco, Francesca (Lady U), lei amava scrivere ma soprattutto amava il palco, era spigliata e originale. In seguito si unirono a noi Saverio e Carlo Cefaly e per qualche anno ci sentimmo un gruppo vero. Ricordo bene tra i primi concerti a nord quello di Bologna perché suonammo nella Sala Borse, aprimmo la serata e facemmo scintille! Poi in Tenax a Firenze…poi la dispersione della band! OndAnomala è il tuo nuovo progetto musicale. Perché questo nome e quali sono le particolarità? OndAnomala perché volevamo sottolineare l’anomalia del fare musica in Italia e soprattutto del nostro fare musica, lasciando intatto il gioco senza prendersi troppo sul serio! Forse per difendersi da una convenzione che non ha mai dato il giusto

di Alessandra Margiotta

peso alla musica…e col senno di oggi, alla cultura in generale! Il mio stesso percorso insieme al Parto era anomalo e le intenzioni artistiche e umane che volevamo praticare volevano essere anomale, ripescando negli istinti sonorità passate di moda e testi un po’ dark che guardano all’angoscia cosmica, nelle crisi individuali e all’utopia!! Quanto è stato ‘doloroso’ il distacco dallo storico gruppo ‘Il parto delle nuvole pesanti’ di cui ne facevi parte? E’ stato un distacco lento, quindi in parte indolore! Un po’ alla volta non sentivo più mia la direzione presa dal gruppo negli ultimi anni e visto che gli impegni di gruppo non mi lasciavano il tempo e la concentrazione per attivare progetti paralleli, ho ritenuto di dovere liberare il mio tempo e il mio modo di fare gruppo e fare musica. Il tuo progetto ha vinto la finale di ‘Musica contro le mafie’, un grande traguardo raggiunto… Siamo felici del risultato! ‘Salta Anita’ ci piace molto per la storia che racconta e per la felice contaminazione con il folk. ‘Musica contro le mafie’ è una manifestazione seria, la mafia ha influito negativamente nella nostra terra e nella nostra vita e ci sembra fondamentale agitare ogni mezzo per rivoluzionare il fenomeno nella direzione di una cultura anti-mafiosa! Ma il premio ci permette anche di avere la stampa e la distribuzione del nostro primo disco con MK Records e collaborare con l’etichetta per la promozione del progetto. Come è nato l’incontro artistico con la voce di Lady U? Come dicevo prima, ho conosciuto Francesca intorno ai 14 anni ed è poi diventata la cantante della mia prima vera band e quindi si può dire che siamo cresciuti insieme. Quando ho cominciato a suonare più seriamente con il Parto, ho sempre cercato di coinvolgerla fino a quando, nei primi anni ’90, abbiamo ricomposto gli Uvistra per una “seconda vita” della band e da lì Francesca ha ricominciato a cantare fino alla naturale scelta di chiamarla in questa nuova avventura. Dove è possibile trovare informazioni su OndAnomala? OndAnomala è giovane! Principalmente informiamo attraverso le nostre pagine in rete.Stiamo lavorando per l’uscita del disco a settembre 2015, abbiamo già fatto qualche concerto e ora continueremo a lavorare sullo spettacolo per creare sempre più feeling con i bravi musicisti che abbiamo la fortuna di avere nella band! Abbiamo in programma di fare le registrazioni audio/video di un concerto a Bologna proprio per far vedere e sentire OndAnomala live. Il resto è nel futuro. www.facebook.com/pages/Ondanomala-MimmoCrudo-Lady-U/626822274046115 www.facebook.com/mimmocrudo www.facebook.com/crudo4battute. www.youtube.com/channel/UCHCq-jfAhVgFTxNMuRQIVxg https://soundcloud.com/mimmocrudo-partonuvolep https://twitter.com/mimmocrudo


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della domenica n°71 - 19 aprile 2015 - anno 3 n.0

Una donna del Medioevo

È

libri

Un libro su Maria D’Enghien da Rossella Barletta per il Grifo raro che ci si accorga al primo sguardo. Il senso della prospettiva ha i suoi tempi e vita propria che coltiva secondo catalogazioni con l'etichetta sul dorso. Vuole chiamare le cose per nome e portarle a spasso quando la luce del giorno è calda ed inequivocabile e quando la polvere si mette a gocciolare sulla punta delle scarpe. È il modo migliore per dare una bella strigliata ai panni delle convenzioni e se c'è qualcuno che non ne conviene, la ragione della ritrosia va ricercata nella scarsa sintonizzazione sul climax che rende il vuoto ed il pieno spazi a tutti gli effetti, con uguale dignità e strumenti a disposizione per vivacizzare la scacchiera polverosa più in basso. Perché a ben guardare, la vera domanda sui fatti che si animano all'interno della loro cornice è cosa una dialettica di interscambio spaziale porti alla luce, e come queste informazioni possano essere interpretate dopo essersi lasciati alle spalle il rumore sordo ed energizzante del mucchietto di intonaco che fuma ancora ai nostri piedi. Quello che sentiamo, una spiegazione che la spunta sulla razionalità con la naturalezza di tutto ciò che irrompe dai pori della pelle, è la ragione semplice e immediata dell'istinto che forma lo specchio dal quale possiamo guardare il passato intrecciarsi al presente, il nuovo portare alla luce il vecchio modellando l'azione su un lavoro di cesello, le ragioni di un mondo lontano prendere la scorciatoia della narrazione storica presentandosi agli occhi del lettore-osservatore con la densa imparzialità del cassetto aperto di una scrivania. Possiamo guardarci dentro. Trarre infine le nostre conclusioni ampliando la prospettiva di quel pezzetto di mondo che scopre se stesso nel tessuto storico-leggendario del saggio Maria D'Enghien. Donna del Medioevo (2015, Edizioni Grifo) di Rossella Barletta.

di Daniela Estrafallaces

Intorno al personaggio di Maria D'Enghien esiste una vasta bibliografia, consultata dall'autrice per dar corpo ad un nuovo testo e ad un tessuto narrativo che si costruisce sulla rilettura critica e sulla buona calibratura della tensione leggendaria e del racconto storico, che fanno dell'opera uno strumento dialogico immediato che non si fossilizza sull'esclusività della ricostruzione, prediligendo di tratteggiare l'esistenza del personaggio secondo dinamiche sociali e private che lasciano spazio anche alla fonte immaginifica. Conosciamo così Maria D'Enghien, contessa di Lecce, principessa di Taranto e regina di Napoli vissuta tra il 1367 e il 1446, attraverso momenti di vita privata e pubblica, matrimoni e guerre di conquista e difesa, idiosincrasie e ricapitolazioni a favore delle necessità di governo. L'autrice descrive la personalità di Maria come il riflesso di un mondo sfaccettato che filtra attraverso la narrazione ed il suo costrutto snello ed essenziale, modellato sull'impianto del racconto verticale in cui il senso di ascesa è dominante non solo nella ricostruzione degli spazi intimi della vita di Maria D'Enghien (basti pensare alla torre di Belloluogo, quasi un limbo nella sua funzione di luogo rigenerativo dei momenti di pace della principessa) e nel rapporto di equilibri delicati nel corso dei due matrimoni (con Raimondello Orsini del Balzo e con Ladislao di Durazzo) ma anche nel caos primordiale della vita pubblica e nella diversificazione del ruolo nel teatro complesso del regno di Napoli con le dinamiche socio politiche in continua evoluzione che portano con sé l'impronta del cambiamento. L'idea di verticalità narrativa, ben sviluppata dall'autrice, raggiunge il culmine lirico nella descrizione degli affreschi della chiesa di Santa Caterina d'Alessandria in Galatina, in cui l'iconografia diviene trade d'union fra passato e presente, proiezione della realtà nei suoi aspetti di idealizzazione, veridicità storica e leggenda in un viaggio libero dai freni inibitori del tempo.


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agenda - arte

NEEA.BROS per “Special guest” di FabrìKa, oggi domenica 19 aprile 2015 alle 20.30

Visione vietata ad un pubblico adulto

H

24 FabriKa domenica 19 aprile alle ore 20.30 nell'ambito della rassegna Special Guest propone “Visione vietata ad unpubblico adulto” - installazioni ed happening a cura di NEEA.BROS nella sede di H24 FabrìKa in Vico Dietro Spedale Pellegrini, 29/a- Lecce. Così scrive il critico e curatore d'arte Rosanna Gesualdo nella sua presentazione: “-VISIONE VIETATA AD UN PUBBLICO ADULTO- è un progetto firmato Neea.Bros al secolo Andrea Mariano e Simone Corvaglia, entrambi artisti salentini con lo spiccato obbiettivo di traslarci

al di là dei confini di un provincialismo spesso colpevole di chiusura. Il progetto ideato appositamente per lo spazio di H24 FabriKa pone l'attenzione e si interroga sulle probabili riflessioni di un bambino all'interno di uno spazio espositivo. Un bambino a cui i Neea riconoscono una statura intellettuale inversamente proporzionale all'altezza fisica. Un atto tutt'altro che ingenuo che intende nella sua provocazione visualizzare le dinamiche correlate alle capacità cognitive dell'infanzia. Le opere, tutte create appositamente per l’evento, avranno come filo conduttore uno spirito ludico-riflessivo tipico del mondo infantile considerato come momento di autenticità e possibilità creativa pura ed incorrotta slegata da logiche ri-

gide e limitanti. H24 FabriKa si trasformerà in un openspace interattivo dove il fruitore coinvolto in un effetto domino, sarà condotto dagli artisti stessi in una sorta di flusso di coscienza collettivo. Oggetti bidimensionali esposti all'altezza di circa cinquanta cm da terra,musica di fondo, illuminazione studiata appositamente e l'invasione del genio creativo di questi due giovani artisti ricreeranno la sensazione costante nelle operazioni NEEA.BROS di uno spazio vivo e vitale all’interno del quale nulla è definitivo e inflessibile e tutto può ancora accadere”. La mostra sarà visitabile fino al 24 aprile.


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agenda - fondo verri

Incontro con Rino Bianco al Fondo Verri giovedì 23 aprile, dalle 19.00

“Silvio Nocera,

la Grotta delle Veneri e le altre”

iovedì 23 aprile 2015, alle 19.00, al Fondo Verri, incontro con Rino Bianco sul tema “Silvio Nocera, la grotta delle Veneri e le altre”. Silvio Nocera artista e poeta, nelle campagne tra Tuglie e Parabita, nella sua contrada Monaci, è stato alle perenne ricerca dei suoi antenati, che avevano abitato in epoche remote quelle contrade lasciando testimonianze della loro esistenza e del loro sapere nella grotta delle Veneri, grotta di leggende da cui era attratto fin da bambino. La sua passione per la profonda caverna esplode quando Antonio Mario Radmilli e

Spagine Fondo Verri Edizioni

Giuliano Cremonesi dell’Università di Pisa, che avevano messo in piedi da poco l’insegnamento di Paletnologia (archeologia preistorica) presso l’Università di Lecce, iniziano nel 1966 le ricerche all’interno della grotta dopo la scoperta nel 1965 delle due famose statuette in osso: le cosidette “Veneri”. Le importanti scoperte archeologiche, in particolare i ciottoli incisi e la doppia sepoltura di Homo sapiens, infiammarono Silvio Nocera di passione per la sua grotta e il paesaggio di pietra di contrada Monaci. La “sua” grotta divenne un “libro di pietra”, che l’artista prese a sfogliare per leggere i messaggi arrivati a lui e alla comunità dalla lontana preistoria. Poi la grande delusione. Silvio Nocerà sco-

pre che tutti i materiali raccolti nella campagna di scavo sarebbero stati trasferiti per motivi di studio a Pisa e dice “Io non condivido che quel tesoro trovato qui nel basso Salento sia portato a Pisa… E i politici che sono stati votati dal popolo salentino che fanno?”. Domande legittime cui nel corso dell’incontro con Rino Bianco si cercheranno delle risposte: per la Grotta delle Veneri ma anche per tante altre grotte, altrettanti simboli della storia del basso Salento ma ancor più dimenticate, “libri di pietra” dalle pagine ormai scompaginate o strappate, i cui materiali sopravvissuti o dispersi sono estranei anche ai salentini di oggi.

Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Fondo Verri esce la domenica a cura di Mauro Marino è realizzato nella sede di Via Santa Maria del Paradiso, 8.a , Lecce come supplemento a L’Osservatore in Cammino iscritto al registro della Stampa del Tribunale di Lecce n.4 del 28 gennaio 2014 Spagine è stampato in fotocopia digitale a cura di Luca Laudisa Studio Fotografico San Cesario di Lecce Programma delle Attività Culturali della Regione Puglia 2015 Artigiana - La casa degli autori


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della domenica n°71 - 19 aprile 2015 - anno 3 n.0

l’appuntamento

L’oliveto pubblico di San Cassiano ospita la festa della liberazione

S

abato 25 aprile l’oliveto pubblico di San Cassiano (località “Le rene”) ospiterà la prima edizione del “25 aprile ai Paduli”, evento dedicata alla terra e alla libertà, che pone al centro dell'attenzione il tema del valore ambientale e della condivisione. L'intera giornata (a partire dalle 10 del mattino) sarà dedicata a una festa campestre, tra laboratori, degustazioni e passeggiate. E dal pomeriggio lo spazio musicale aperto, che ospiterà una serie di musicisti che prenderanno parte all'evento. Nel contesto difficilissimo che il territorio salentino si trova a vivere, dovuto all’emergenza del disseccamento degli olivi, l’oliveto pubblico di San Cassiano, luogo emblematico per le attività che animano il Parco Agricolo dei Paduli, diventa quindi la location di un evento che celebra la “multifunzionalità” agricola, che associa l’agricoltura alla cultura, per una fruizione multidisciplinare e rispettosa dell’ambiente circostante, delle campagne e dei piccoli centri abitati, strumento imprescindibile per combattere incuria e abbandono, utile a stimolare un presidio continuo e consapevole sul territorio. Tra alberi di olivo riconvertiti ad agricol-

tura sostenibile di qualità, una casetta rurale recuperata con i principi della bioedilizia ed esperimenti di land art, “25 aprile ai Paduli” è una festa popolare che celebra la gioia della socialità e della condivisione.

Cassiano, sita tra un bosco di lecci ed il Punto Panoramico, da dove è possibile ammirare la vastità dell'area olivetata dei Paduli. Il percorso prosegue verso una vora naturale, attraversa sentieri delimitati da canali, ed arriva in uno degli uliveti secolari dell'agro di Scorrano, caratterizzato da alberi dalla bellezza ammaliante per maestosità e forma. Attraverso ulivi, querce e pajare, l'itinerario arriva nell'Uliveto Pubblico, caratterizzato da suggestivi esempi di Land Art. Durata percorso 3 ore circa. Lunghezza percorso 17/20 km circa. Difficoltà bassa. Durante il percorso sono previste delle soste per il racconto dei luoghi Ore 11 Laboratorio di aquiloni Ore 11 Laboratorio vestimi.

Associata alla fase conclusiva del progetto “Gli sposi degli alberi” (Vestimi#2), iniziato alle Manifatture Knos nel mese di marzo, l’evento lascia spazio alla spontaneità dei partecipanti che, dalla mattina all’imbrunire potranno partecipare a laboratori, visite guidate, degustazioni enogastronomiche e esibizioni musicali. L’evento è promosso dall’associazione Lua (Laboratorio Urbano Aperto) nell’ambito del progetto Gap, il territorio come Galleria d'arte partecipata (Fondazione con il Sud), in collaborazione con “Abitare i Paduli”, Regione Puglia, Unione dei Stand permanente di degustazione dell'olio Comuni delle Terre di Mezzo. Ingresso gratuito. Ore 13 Degustazione ricettario a base di erbe spontanee e prodotti a km0 a base PROGRAMMA DELLA GIORNATA Lab gusto Mattina Apertura “braceria”. ore 10 Escursione in bici “Itinerario tra vore, canali ed ulivi secoPomeriggio lari”. Ore 10 - Raduno presso il Laboratorio Ore 16 - Inizio spettacoli musicali – esiMobilità, via della Vittoria n°151, S.Cas- bizioni libere da parte di artisti che hanno dato adesione la progetto. siano (Le). L'itinerario passa da Porta Parco di San Ore 18 - Sfilata progetto vestimi


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