spagine della domenica n°73 - 3 maggio 2015 - anno terzo
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri
spagine
della domenica n°73 - 3 maggio 2015 - anno terzo
L’Italia dell’inaugurazione ha expo-sto un’immagine di sé decisamente negativa
La prova dell’Expo
É
retorico, lo so; inutilmente retorico. Ma lo dico lo stesso. In un mondo di retorici, non esserlo è peccato di superbia. Non potevano chiamare l’apertura dell’Expo di Milano semplicemente apertura o inaugurazione? No, in mondovisione la Rai l’ha chiamata “Opening”, all’inglese. Nel 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri, l’Italia rinuncia alla sua lingua. Lo fa sistematicamente, anche quando potrebbe benissimo usare l’italiano usa l’inglese. Del resto il capo del governo da anni si fa chiamare Premier; l’attuale, poi, ha introdotto l’inglese anche nella quotidianità amministrativa e politica. Okay è il suo modo abituale di dire “bene”; se la sporcheggia, come in genere si dice per chi si compiace di apparire bravo a parlare nella lingua che si ritiene superiore. Poi, in verità, l’inglese lo parla male. Qualcuno potrebbe obiettare che ormai quando si vuole comunicare col mondo bisogna farlo con la lingua più conosciuta. Obiezione accolta. Ma poi eccoti l’italiotto Paolo Bonolis, mezzo comico e mezzo ignorante, esibirsi in sproloqui in tutte le lingue nell’ilarità di un pubblico che applaude senza sapere perché; ammiccare e alludere con la Clerici – un “padiglione da visitare”, la chiama – alle solite italianerie erotiche, che, grazie a Berlusconi, sono arrivate all’Artico e all’Antartico. Sarebbe costato molto chiamare dei giovani interpreti e salutare nelle seisette lingue più importanti e rappresentative del mondo? Sarebbe costato molto chiamare un presentatore più serio? L’Italia vestita a festa, insomma, non ha convinto. Soprattutto ha irritato quel modo tutto provinciale, di pessimo gusto, di autoelogiarsi addosso, che probabilmente nessuno meglio di Bonolis avrebbe saputo fare, con quella faccia un po’ così, come dice la canzone di Paolo Conte. Faccia da fesso, sissignori. Nessuno può dire, tanto meno in casa propria, di essere il più bello, il più
bravo, l’eccellenza del mondo. É una cosa insulsa, che fa vergognare quei pochi italiani che vorrebbero che fossero altri a riconoscer loro qualche merito. Ma ormai siamo scaduti nella rozzezza e nella cafonaggine più assolute. Pochi italiani, sì, come Giorgio Armani, per esempio, che negli stessi giorni ha fatto venire a Milano il meglio del mondo per ammirare l’Armani Silos, l’esposizione per i quarant’anni della sua casa di moda. Renzi, come al solito, per dichiarare ufficialmente aperta l’Expo, si è inventato il nemico per irriderlo e gonfiarsi. «I signori del non ce la farete sono serviti» ha detto, allargando le braccia, come a dire: ecco la prova che avete perso la scommessa. Finalmente si è capito il suo punto forte: l’ignoranza. Pensa che l’Italia non abbia mai combinato nulla di buono nel mondo finché non è arrivato lui. Ha chiesto e ottenuto – ormai quello che dice è legge – di cambiare per l’occasione perfino le parole dell’Inno di Mameli. Non più “siam pronti alla morte”, ma “siam pronti alla vita”. Geniale, alla faccia del bricolage! L’Italia dell’inaugurazione dell’Expo 2015 ha expo-sto negli stessi giorni un’immagine di sé decisamente negativa. Il “Corriere della Sera” del 30 aprile ha pubblicato il commiato del direttore Ferruccio de Bortoli. Ha detto senza mezzi termini che Matteo Renzi è «un giovane caudillo… un maleducato di talento… uno che disprezza le istituzioni e mal sopporta le critiche». E si augura che Mattarella non firmi l’Italicum, perché è una legge sbagliata. De Bortoli non l’ha detto, ma ha fatto capire che la sua sostituzione è stata voluta dal nuovo corso renziano. Non potevano rimandare ad altro momento la sostituzione? No, nell’Italia di Renzi tutto deve avere una funzione alla sua potenza, che tutti devono vedere e sapere. Cos’altro ha expo-sto l’Italia al mondo in questi giorni in cui tutti i riflettori sono puntati su di lei? Ecco, la puntuale manifestazione violenta dell’ultima sigla degli antagonisti dei centri sociali e di quella fauna politica europea che ormai
l’opinione
di Gigi Montonato
è a denominazione d’origine controllata: i “no expo”, i quali si sono subito attivati per attrarre l’attenzione del mondo. Venuti a mancare gli appuntamenti dei “G8”, dove si scatenavano in orge di devastazioni urbane, questi contrari a tutto e sempre non hanno fatto mancare all’Expo di Milano la loro presenza. Come altre volte, hanno devastato il centro urbano di Milano, assaltato banche, bruciato auto, negato a migliaia e migliaia di cittadini il diritto di circolare per la loro città. Pare che fossero cinquecento. La Polizia ne ha fermati sette. Che successo! Che magari dimostreranno pure che non c’entrano a niente. Renzi non ha voluto commentare quanto è accaduto, mentre come al solito sono state chieste le dimissioni del Ministro dell’Interno Alfano. In questo paese ormai ci sono cittadini che hanno più diritti di altri. É la democrazia, dice un Gianni Barbacetto compiaciuto a “Otto e mezzo” ad un Beppe Severgnini incazzato, che non sa a chi rivolgersi per fermare quelli che lui chiama gli “idioti neri”, “neri” – spiega – per il colore delle tute che indossano. Ora ci sono sei mesi di tempo per trasformare l’Expo in un successo vero, che da italiani ci auguriamo che si verifichi. Barbacetto, che ha scritto perfino un libro sui dubbi dell’Expo; dice che probabilmente alla fine della manifestazione mancherà un miliardo di euro di entrate e ci sarà uno spazio di circa un milione e duecentomila metri quadrati che non si sa che fine possa fare. É probabile che sotto il profilo finanziario ci saranno delle delusioni. Se ci saranno o non ci saranno non lo sapremo mai con certezza, perché la democrazia è bella anche per questo, che le verità sono sempre multiple. Ma, onestamente, pur non avendola ancora visitata realmente l’Expo, coi suoi padiglioni e i suoi contenuti tematici, per quanto abbiamo visto e sentito, pur con alcune non riuscite performance, è una grande espressione di civiltà, di arte, di gusto, una straordinaria prova di organizzazione, in tutto degna delle grandi prove del nostro Paese.
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della domenica n°73 - 3 maggio 2015 - anno terzo
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A corsivo
Per un tozzo di pane
lcune realtà, cui assisto quotidianamente, m’addolorano e allora mi domando come possono molti dei nostri politici (e non solo loro!) vivere nello sfarzo mentre tanti cristiani, con una dignità che lascia senza parole, tutti i santi giorni si mettono in fila per una pagnotta, un semplice tozzo di pane. Siamo tornati davvero al tempo di Cristo, ma non vedo “ il volto del Cristo” in quasi nessun uomo che ci amministra! Si perdono in chiacchiere i nostri gerenti, blaterando documenti pletorici tra gli scranni di camera senato consigli comunali e quant’altro, magnificandosi tra interviste e convegni mentre la gente fuori, nei luoghi più disparati, in coda, sotto pioggia freddo vento sole, attende un pezzo di pane per sé e, sempre più spesso, per i suoi bambini. Il colmo alloggia in noi stessi, cittadini di quest’Italia bislacca, che abbiamo votato e voluto questi capi su quelle poltrone di rosso velluto vestite! E mi tornano in mente le parole di Davide Lajolo nel suo libro “Veder l’erba dalla parte delle radici” quando scrive […] Collocavo accanto ai voti dei votanti quelli di milioni di cittadini che li avevano eletti. C’era certamente la schiera dei “beneficiati” quelli che vivevano ai margini della politica ma la maggioranza era fatta di cittadini che erano convinti di avere mandato a Roma, dove sta il potere, chi aveva il compito di difendere lealmente i loro interessi e migliorare le loro condizioni disagiate. […] Molti di quei rappresentanti del popolo quando s’alzavano nell’aula per pronunciare i loro discorsi facevano soltanto sfoggio di ipocrisia e demagogia. Pareva gareggiassero per sottolineare proprio l’opposto di quella che era la politica che portavano avanti nei fatti. […] Leggendo queste parole scritte dal Lajolo negli anni settanta, con amarezza m’accorgo che poco o quasi nulla è mutato
d’allora! La storia davvero si ripete e ancora oggi, tante persone perbene, votando i nostri politici hanno sperato nella loro onestà, nel loro saper essere “uomini- Redentori” nel cuore e nel profondo delle loro coscienze. Non ci siamo resi conto, purtroppo, che una volta occupata l’ambita poltrona, le coscienze “coscienziose” di tanti in cui avevamo creduto sarebbero, per incanto, sparite e li intenti prescelti divenire egoistici e frivoli e quei milioni di poveri cristi senza voce, ma “ voti a tempo opportuno”, dimenticati del tutto tra gli intrallazzi di un mondo che, abilmente, hanno saputo forgiare a loro mero vantaggio. E, continuando nella lettura del Lajolo […] Anche tra la folla dei personaggi balzacchiani scopri che l’umanità nel suo travaglio si trasforma anche se porta contemporaneamente dentro, come il sangue le sue tare. Anche nel Parlamento la molla dell’interesse, del denaro era visibile. Certi settori parevano messi a guardia dei privilegi. Essere onorevoli oltre lo stupido orgoglio che faceva sentire taluni anche più alti di statura appena varcavano le soglie di Montecitorio, per molti significava anche la scalata economica. Era un tarlo antico come il mondo e si accoppiava al cancro che origina tutte le malevoli conseguenze del gusto del potere.[…] Antico tarlo il potere che continua sempre ad insinuarsi nei cuori e nelle coscienze di chi, messo lì dai muti voti di tanti italiani, continua spavaldo a fare i suoi comodi infischiandosene di chi, là fuori, in coda sotto il freddo e la pioggia attende umilmente e paziente un pasto, una casa, nu stuezzu ti pane!
di Maria Grazia Presicce
Nei corsivi: Davide Lajolo in “Veder l’erba dalla parte delle radici” introduzione di a. Bevilacqua, premio Viareggio 1977, Rizzoli editore, Milano, aprile 1979, pag.204.
spagine
“
Il mio cuore soffocato sente quando viene l’alba, il dolore dei suoi amori e il sogno delle distanze. La luce di aurora porta i vivai di nostalgie e la tristezza senza occhi del midollo della mia anima. La gran tomba della notte solleva il suo velo nero per occultare col giorno l’immensa cima stellata”, canta Federico Garcia Lorca. L’alba. Viene l’alba, come una rosea promessa, come un soffio, come un bisbiglio. I tenui colori d’aurora sono fanciulli sospesi in aria a ricamare arabeschi di sogno. Il sogno. Quello solo sperato, tratteggiato, vagheggiato, che mai diventerà realtà effettiva. Ma il sogno, anche se non sarà mai carne viva e vibratile, deve essere vissuto a pieno coi nervi, col sangue che scorre nel midollo, con il desiderare dei sensi e della mente. Il sogno è un bimbo in fasce che va cullato, vezzeggiato, che ride e piange. È impetuoso cavallo al galoppo su virenti piane, è un maroso tempestoso d’amore, è gentile virgulto di primavera. La primavera, questa primavera, che lentamente procede coi suoi effluvi, con gli alberi fioriti che impazziscono d’iride, coi canti d’uccelletti che sono sonori e armonici come il violino di Dio. La primavera, soave, s’avanza. E porta danze imprevedute di fanciulle per le strade sterrate, che tante volte abbiamo percorso a piedi nudi coi ginocchi piagati. Strade malagevoli e ferite, di città, di campagna. Strade di nostalgie, di struggenti e celesti melanconie, di fragori di colpo esplosi a ridestarci. Sempre svegli traversiamo il tempo della primavera, stupefatti ci fermiamo a contemplare papaveri insanguinati, rossi d’anima. L’alba di primavera ci affascina coi suoi bagliori vivaci, dopo la lunga insostenibile notte. Dopo lo scuro opprimente, attendiamo come una liberazione, come una rivoluzione, i primi lucori compagni. Quando l’ansimante notte lascia il posto alla fiammeggiante aurora, comprendo che il giorno non può più aspettare. Esco per strada a mirare la piazza del paese che si fa bella. Sconfitto,
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pensamenti
La primavera
soave avanza
confido alla dolce brezza la mia antica pena. Disperdo parole al vento, perché desiderare un amore è parlare al vento. Ogni giorno, esco per strada. M’incammino passo passo negli incantati giardini di rose e gigli. Rapinoso pirata, cerco gli inquieti porti dei fascinosi turbamenti. Che tristezza, poi, al calar della sera stanca è l’attesa. Aspetto ancora smanioso che la pallida luna torni a rischiarare di false vane promesse l’immobile cerchio del pozzo. E, con l’anima in spalle, fuggo via verso la giovane alba. L’alba. Sempre si ritorna alle prime luci sorgive, che sono scaturigine d’ogni essenza, principio d’ogni principio. L’alba è promessa di battaglia, è barbaglio che ti prende, ti cattura e non ti lascia, ti porta con sé sulle ali del possibile. L’alba è un fiume che nasce, è linfa vitale, è ciò che c’è e mai passa. Ogni alba è viva nella memoria. È gioia bambina, che m’alluzza i ricordi. Un tempo, la interminabile notte coi suoi colori scuri aveva fretta di dileguarsi. Vanamente, attendevo sotto il portone di casa schiere di giovani fanciulle. E dicevo: “È tardi, devo svegliare l’alba, anche il gallo più non dorme”. Il cielo era buio ma consapevole dei bagliori del nuovo giorno. Pensavo: “Forse, bisogna andare, illudersi ancora
di Marcello Buttazzo
una volta d’esistere”. Pensavo: “Bisogna andare, procedere, percorrere i sempiterni cammini, illudersi d’esistere”. Razionalizzare questo tempo, pianificarlo. Oltrepassare gli affanni, le delusioni, le frustrazioni del reale, ed approdare in un porto quiete. Una stazione dove ognuno sia animato da slanci di cuore e sia pronto a vivere in comunione con l’altro da sé. L’alba, sovente, è sporcata dalla notte, che con truce mantiglia sconvolge i nostri entusiasmi migliori, li stravolge. Ciononostante, non ammainiamo le bandiere. Sempre coltiveremo boccioli d’incanto. Sempre sorprenderemo l’alba, come rinascita. Ancora oggi, io la respiro con commozione. Ancora oggi mi sveglio prestissimo, e l’aurora mi meraviglia, mi strabilia. I fantasmi, ormai riposti nei ripostigli della memoria, si sciolgono alla prima brezza e, baldanzoso, m’affaccio fuori a ritrovare tracce di me. Per le vie odo garbati schiamazzi, frammenti di parole, frasi di lavoratori che s’apprestano a partire per le solite mete. La piazza si veste d’un celeste chiaro, che definisce il cielo. C’è chi mi chiama e mi offre il caffè nel bar del risveglio. Sono contento d’essere vivo e di andare, mattiniero, incontro al mio destino.
A spagine
ncora parole e immagini dalla terza edizione del progetto Art-icoliamo Senza vincitore del Barriere, bando di concorso Guardo, Penso, Scrivo... Senza Barriere, indetto dall'Istituto Comprensivo Leo-
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mmsarte
nardo da Vinci di Cavallino-Castromediano. Il progetto è interamente finanziato dal Comune di Cavallino. Come nelle precedenti edizioni, sono coinvolte le classi terze della scuola primaria. Tutti i bambini guidati dall'esperta e promotrice del progetto Monica Marzano, tramite le loro immagini e poesie,
raccontano esperienze dirette e indirette sul mondo della Solidarietà, dell'Amicizia della Tollerenza e della Fratellanza narrando di un mondo in cui è estremamente indispensabile abbattere ogni forma di barriera materiale e mentale che possa pregiudicare l'attuazione di tali civici e sociali propositi.
ridere sempre in famiglia... E già, a volte basta un semplice sorriso d'incoraggiamento per allentare cumuli di tensioni o alleggerire giornate cupe di preoccupazioni che possono affliggere tutte le famiglie del mondo. Allora la comprensione sorridente di un nostro familiare addolcisce e smorza ogni amarezza! E dove si va a smaltire le
ansie familiari? Beh secondo la piccola Nicolle, in un fantastico parco, per assaporare il suono divertito e spensierato di tutti i bambini che giocano felici sotto gli sguardi dei loro genitori i quali, finalmente, possono trascorrere qualche ora di serena pace... E tutto questo grazie ad un sorriso usato al momento giusto!
paure"... E già perché il sorriso aperto e sincero è un girotondo di dentini scintillanti di felicità, pronti a illuminare i visi impauriti e straniti di tanti bambini spesso insicuri. Ma il sorriso è soprattutto un soffio di serenità sul mondo, ed è proprio que-
st'armonia che la piccola Viola ha voluto mettere in evidenza nel suo serafico disegno, in cui la natura appare sorridente e calma, sensazioni che si propagano in tutti gli animi di chi sa gurdare, ascoltare e vivere tale tranquillità.
La poesia libera sorrisi
E
torna il "Sorriso" come parola speciale, per i piccoli alunni della terza B della scuola primaria dell'Istituto Comprensivo Leonardo Da Vinci di Castromediano. In questo particolare caso la poesia libera del piccolo Michele è incentrata sull'importanza di saper sor-
L
a piccola Jael invece ha scelto la tecnica poetica dell'acrostico per descrivere il sorriso, e fra le sue bellissime definizioni, spiccano senz'altro: "orienta e protegge la gioia" e "spazza felice le
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L’impresa fa il valore
Il Museo Faggiano sulla prima del New York Times
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oh il caso. Vuoi mai che arrivi a Lecce un giornalista americano e si faccia un giretto nel centro storico? Non è che ci sia passato per caso, a Lecce occorre volerci venire, il finibus terrae è questo, un luogo dove non si passa di sfuggita. Da Brindisi si può prendere l’aereo o il traghetto per andare altrove, poi c’è il Salento leccese e la fine dell’Italia intera. Lecce e i suoi paesi ti accolgono con le loro chiese barocche, i palazzi baronali, tutti luoghi dignitosamente pieni di storia e storie da raccontare. Spesso palazzi antichi hanno mura sbrecciate o infissi pericolanti, ma mostrano una dignità e fierezza che raccontano fasti passati. Forse anche da qui, dalla consapevolezza di vedere arrivare solo chi sceglie di farlo, l’accoglienza leccese, il benvenuto che abbraccia lo straniero. Quindi il giornalista non era qui per caso, forse si aggirava nelle “giravolte” perdendosi, guardava i palazzi del centro storico leccese, fotografava, si scansava per evitare il traffico caotico delle viuzze e si faceva uno slalom fra le auto parcheggiate in Piazza Castromediano e nella prima parte di Piazza Sant’Oronzo, girava e rigirava per quei vicoletti pieni di vita, negozi di souvenir, pub, ristoranti, ancora auto parcheggiate, e arrivava, forse per caso, in un museo non/museo. Una casa privata che il proprietario voleva ristrutturare per farne forse una trattoria, ma che si è scoperta miniera del passato remoto leccese. Il Museo Faggiano, di cui ampiamente e bene disse Giovanna Falco in queste pagine nella sua veste di ricercatrice attenta e precisa, si trova in Via Ascanio Grandi, 56 ed è tenuto aperto dalla famiglia Faggiano. Vale la pena vederlo, chiamarlo museo forse può parere accessivo, è “solo” una casa che racconta storie antiche e meno vecchie, sovrapposizione di strati di epoche passate, come tutto il centro storico leccese si dimostra ad ogni incursione nelle sue viscere. Il Faggiano, come dice il giornalista: “…Trovò un mondo sotterraneo risalente a prima della nascita di Gesù: una tomba messapica, un granaio romano, una cappella francescana e anche incisioni dal Cavalieri Templari…” recuperò il recuperabile e la casa divenne museo. Interessante a questo punto è vedere come il proprietario, snobbato o guardato, se non con sospetto, quanto meno con sussiegoso distacco da molti leccesi, diventi uomo da prima pagina del New York Times e come la sua storia venga ripresa dalle TV di tutto il mondo, oltre che da migliaia di “mi piace” sulle pagine facebook, facendone, per un giorno almeno, il personaggio forse più nominato al mondo. L’interesse di quel giornalista americano potrebbe parlare, chissà se ascoltato, ai nervi scoperti delle amministrazioni locali, quelli dell’incuria, di un centro storico senza uno straccio di piano viabilità, quelli dell’ex caserma Massa sacrificata a divenire parcheggio sopra la sua antica chiesa, il suo
di Gianni Ferraris
convento, il suo cimitero. Ci fu un notissimo ex ministro della Repubblica italiana che disse “la cultura non si mangia”. Per chi ama il conoscere, l’affermazione equivale a dire “l’aspirina fa bene ma costa e non fa ingrassare, quindi lo Stato non la passa”. Ora, a prescindere dal fatto che la cultura è in sé un valore e che per lei si deve anche stanziare denaro, rimane evidente come questo giornalista dimostri quanto torto aveva quell’ex ministro, basta vedere la risonanza che ha avuto il suo pezzo nel mondo intero, e la ricaduta di turisti sarà inevitabile. Ora la domanda è sempre quella: rende più dignitosa la città di Lecce un parcheggio sull’ex Massa o la rivalutazione di quello che si è scoperto scavando per farlo? In questi giorni vediamo sciami di turisti girovagare per la città e vediamo l’ovale di Piazza Sant’Oronzo offrire loro pagodine che vendono “coglioni di mulo” e “palle del nonno”. Dignità, perbacco, il Santo guarda dalla colonna e forse si inalbera. L’idea di museo diffuso proprio non ha sede in questi vicoli? Trasformare una casa in museo è emblema di come uno sforzo anche minimo (di un privato ovviamente) può rendere grande, immensa una città che di suo è già immensa e grande. E forse proprio questa grandezza è una parte del problema, avere tutto questo patrimonio en plein air induce a darlo per scontato, valorizzare ed offrire ad un turismo attento tutto questo nel modo migliore, invece, potrebbe essere il valore aggiunto. Fare del centro storico patrimonio veramente comune, un salotto, non potrebbe essere un nuovo modo di concepire non solo il turismo, ma la vita stessa dei cittadini leccesi? Forse, chissà, con più attenzione collettiva forse anche gli imbecilli che scrivono sui muri antichi frasi senza senso starebbero più attenti. Mentre il museo Faggiano tornava a nuova vita, il teatro Apollo, dopo anni di impalcature che lo ricoprivano completamente, è stata semicoperto da una palizzata con bei disegni, certo, pur sempre un teatro rigorosamente con lavori in corso. E Santa Croce, dopo anni di lavori dichiarati finiti, è stata frettolosamente ricoperta di nuove impalcature per finire i lavori “finiti”. Ben sappiamo il mantra che recitano gli amministratori: “mancano i soldi”, “i governi nazionali tagliano i fondi”. E’ talmente infinita questa litania che ormai sembra far parte del gossip istituzionale. Comunque oggi Lecce ha l’onore di essere un poco più conosciuta a livello internazionale. Grazie al Sig. Faggiano questa volta. Una nota di colore, pare che i salentini leggano molto il New York Times. Il Faggiano dopo l’articolo ha avuto un’impennata di visite di cittadini leccesi. Ad averlo saputo prima andava a finire che con la giusta campagna stampa votavano anche da New York per Lecce Capitale di cultura!
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accade in città
Un’inscrizione e un angelo all’interno del Museo Faggiano Via Ascanio Grandi, 56 a Lecce - telefono 0832 300528 Orari di visita: 09:30–13:00, 16:00–20:00
I n s o n n i a
L
a notte scorre. Ancora un caffè e una sigaretta, poi forse si va a dormire. Passano auto rumorose sulla strada, la radio manda musica, i pensieri si affollano. Lascio andare le auto, la radio e i pensieri. Ricordi di viaggi, partenze e ritorni, anche se tornare non è mai possibile. Nulla sarà come l’hai lasciato, tutto è mutato. Anche i ricordi mutano col passare delle stagioni, si smussano spigoli. Forse, chissà, la notte aiuta ad emozionarsi pensando agli occhi di un bimbo, quello che guardava un tramonto e si stupiva. Ora chissà dove sta, chissà se ancora guarda i tramonti, e chissà se ancora si stupisce. Se viaggia sarà per sempre. Passano auto in strada, rivedo chiudendo gli occhi quel mare e quella luna piena. Accidenti, mai mettere a posto le foto quando non sei del giusto umore per farlo, va a finire che poi prendi un caffè in più se lo fai. Però ora che la notte è avanzata, rimane musica dolce in radio e nessun rumore in strada, sembra d’essere in campagna, è un peccato sprecare tutto questo dormendo. I telefoni sono spenti, alla buon’ora, è vero che nessuno chiama la notte, però è tranquillizzante sapere di non essere raggiungibile che dai tuoi pensieri (fantasmi?) notturni. “La notte arrivano solo pensieri tristi” mi diceva qualcuno. Mica è poi vero, a volte arrivano pensieri e basta, anche sorrisi. Sentivamo grilli e
Chopin quella notte, eravamo 5, forse sei. Neppure una ragazza! Erano le campagne del paese, eravamo belli allora, avevamo la certezza che l’avremmo cambiato questo mondo storto. Poi è passata la certezza. Anche Chopin è finito. Poi siamo invecchiati senza neppure rendercene conto, qualcuno se ne è andato, qualcuno non è mai tornato, ma si sa, è impossibile tornare! Ah l’ideologia che grande sciagura, più ci stai dentro più va a finire che ci credi e ti avviluppi nelle sue spire. Stupenda l’ideologia, soprattutto quando qualcuno che pensa di essere maturo (fieramente maturo) dice che è morta. Allora, ascoltando Chopin in campagna, avrei risposto che è chi è senza idee e speranze che muore. Solo allora? Mah! Chi è fieramente maturo va a finire che pensa che Renzi sia l’unico futuro possibile. Solo una persona triste arriva a tanto! Triste e, diciamolo, un pò bruttina, pallida. Lunga la notte stanotte. Vorrei essere di fronte al mare, camminare lentamente, sentirne il profumo… Strana notte questa lunga notte. Si beveva vino rosso, qualche canna di roba coltivata nell’orto, roba leggera che però dava l’idea della trasgressione. Peccato che poi sia arrivata altra roba e abbia ammazzato senza restituire neppure un sorriso. Non noi, noi no, noi proseguimmo ad ascoltare Chopin o De Andrè o Janis Joplin. Quel che capitava e che piaceva, finchè non arrivava qualcuno con un nuovo disco e diceva “ascolta questo, è bellissimo”, anche trovare lavoro era facile, allora, per que-
sto non ci si accontentava… Oggi invece che l’ideologia è morta, è finito anche il lavoro e quelli che sono maturi (fieramente maturi) sanno come va il mondo ed hanno tutte le ricette in tasca per cambiarlo. Anzi, per tenerlo com’è. In fondo loro, i fieramente maturi, hanno anche stipendi fieri, spesso fierissime pensioni. Cronopios e Fama… Grande Cortazar, quasi come Chopin che ti prende l’anima e la fa volare la notte (notturni, appunto). Che strano, mi viene in mente anche il verso di Cèsar Vallejo che Elsa Morante utilizzò come dedica per il suo immenso libro “La Storia”, e che diceva: “Por el analfabeto a quién escribo”. Nella notte in cui il Nepal, uno dei paesi più poveri al mondo, conta i morti ed è stato raso al suolo da un terremoto, mi vengono in mente cronopios, fama, el analfabeto… E quelli fieramente maturi. Macchè, mica finisco qui questa lunghissima giornata, ancora un caffè è rimasto nella caffettiera. Ancora una sigaretta. Ancora i silenzi della strada. Le cronache della settimana? Banali: la natura fa il suo corso e scatena terremoti, le persone fanno il loro corso molto spesso di imbecillità e scatenano guerre, la Grecia forse fallisce o forse no, dipende dagli umori dell’Europa. Il governo italiano spiana il parlamento e la democrazia come neppure un terremoto sa fare. Insomma, banalità nei confronti di una lunga notte. Tutto banale tranne la notizia più emozionante: lui e lei, vent'anni circa, camminavano tenendosi per mano. Au revoir. Gianni Ferraris
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Dare la voce
Romano Malaspina la voce del mitico Goldrake il protagonista dei cartoni animati “Atlas Ufo Robot” la voce di Hiroschi in “Geeg robot d’acciaio” e di tanti altri
di Paolo Vincenti
Romano Malaspina
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l’osceno del villaggio
“...ed ho sentito nel silenzio una voce dentro me e tornan vive troppe cose che credevo morte ormai…”
E
quando si riaccese la sala, Bela, attore di terz’ordine dell’Off Broadway, che saltuariamente si prestava anche al doppiaggio, si riparò istintivamente gli occhi accecati dalla luce intensa. Una stretta di mano con i colleghi doppiatori e con il tecnico del suono, e abbandonò lo studio, uscendo nel freddo pungente della notte americana. Appena fuori, iniziò a tossire violentemente. Aveva dovuto interrompere almeno dieci volte la registrazione a causa di quegli attacchi di tosse che aveva attribuito ad una improvvisa raffreddatura, ma che erano in realtà i sintomi di una tisi acuta ormai giunta allo stadio finale. Ogni volta, nel corso degli ultimi mesi, ripeteva la stessa storia, ai colleghi e a sé stesso: “accidenti a questo costipo che non vuole passare!”. Si fermò da Danny’s, il bar all’angolo della Maine Street, e ordinò un punch per riscaldarsi. Uscito dal bar, fra i colpi di tosse, nella notte stellata e cristallina, guardò il cielo e sospirò. Giunto nel suo vecchio stambugio, si ricordò che non aveva niente da mangiare. Pensò che il giorno dopo avrebbe chiesto al produttore del film un acconto sulla paga e, ancora vestito, andò a coricarsi su quel letto dalle assi malsicure e cigolanti. Così si addormentò e non si svegliò più. Questo raccontino mi è venuto di getto, dopo aver ascoltato in rete un’intervista a Romano Malaspina. Chi sia costui, si chiederanno molti. Per una generazione di ragazzi cresciuti fra gli anni Settanta e gli Ottanta, questo nome vuol dire molto. Infatti, a lui appartiene la voce del mitico Goldrake, ovvero il protagonista dei cartoni animati “Atlas Ufo Robot”, che spopolavano in quegli anni e che, grazie alle repliche e alle videocassette (oggi dvd), hanno avuto un successo televisivo lunghissimo. “Goldrake!!” “Lame di fuoco!” “Doppio maglio perforante!” Tutti ripetevamo le grida di battaglia dell’imbattibile robot. Nel mio racconto, ho dato al protagonista il nome di Bela, come omaggio a Bela Lugosi, un famoso attore del cinema horror
La voce del silenzio - Mina
degli anni Trenta, conosciuto soprattutto per la sua magistrale interpretazione di “Dracula” . La vita di Bela Lugosi divenne oggetto del film del 1994 “Ed Wood”, di Tim Burton, in cui Lugosi veniva interpretato da un superbo Martin Landau (che gli ultraquarantenni come me ricorderanno per il telefilm fantascientifico “Spazio 1999”, trasmesso dalla Rai tra fine anni Settanta e inizi anni Ottanta. Ma tornando a Malaspina, attore e doppiatore, di ascendenze aristocratiche toscane, e per questo conosciuto nell’ambiente come “il principe”, egli ha lavorato molto poco nel cinema ma in compenso, grazie alla sua voce profonda e originale, tantissimo nel doppiaggio. Malaspina (sua anche la voce di Hiroschi in “Geeg robot d’acciaio” e di tanti altri) è uno strano personaggio, sembra un marziano, un cavaliere errante, un gentiluomo d’altri tempi. L’intervista, che si trova in rete, mi ha colpito molto perché l’attore afferma senza giri di parole di essere un fallito: “ Sono strabiliato dell’affetto che mi dimostrano i fans di Goldrake. Io non ho combinato niente nella vita. Non riesco a capire come soltanto con la voce io sia riuscito a trasmettere tante emozioni. Ho doppiato molti film ma questa cosa di Goldrake è speciale, quando lo dico la gente si mette a piangere, quelli che erano i ragazzi di allora mi dimostrano un affetto smisurato… Io, che in fondo non ho sfondato, pur avendo fatto l’Accademia, né in teatro né nel cinema, ho trovato tanto amore nei quarantenni che mi mandano lettere piene di sentimenti positivi… Ci sono tanti doppiatori di talento, anche più bravi, ed io mi sono sempre chiesto come mai tanta venerazione sia riservata a me”. Poi l’attore, che vive a Roma, vicino Piazza del Popolo, parla chiaramente delle sue condizioni economiche e dice di pranzare insieme ai piccioni e ai gatti, facendo capire di versare nell’indigenza ma al tempo stesso di non richiedere né poter accettare l’aiuto della Caritas, un’associazione che detesta profondamente. “Alabarda spaziale!”, e ancora ritornano in mente i tormentoni goldrakiani. In un’altra intervista,
più recente, curata da Gerado Dicola, Giorgio Bassanelli Bisbal e Andrea Razza, si vede con un primo piano fisso l’attore Malspina che, seduto su una panca di legno in un ambiente scarno e disadorno, parla per tre ore, dico tre ore, in una prova di resistenza notevole, affiancato solo da Andrea Razza che ad un certo punto prende posto accanto a lui e lo coadiuva nell’intervento. Un filmato paranoide, ai limiti del claustrofobico, in cui Malaspina confessa di essere un solitario, di sentirsi un cavaliere d’altri tempi e di suscitare tante antipatie per il suo carattere certo difficile. “Io non ho sfondato” ripete come un mantra, “non ho combinato nulla di buono e vivo ai limiti della miseria, ma mi alimento di dignità ed orgoglio. Non ho sfondato, forse perché non sono bravo, per il mio brutto carattere o anche per motivazioni politiche”. In effetti, la sua biografia racconta che Malapsina fosse da più giovane un convinto nazionalista e militarista, insomma molto vicino al movimento della destra storica. Poi dice che un attore per fargli uno scherzo gli ha messo dello zucchero nel serbatoio della motocicletta e lui è caduto in terra rischiando di sfracellarsi. Malaspina se la prende anche con le fantomatiche mafie del doppiaggio italiano, “è squallido quello che avviene nel mondo del doppiaggio”, dice”, “un vero schifo”.
Ma ora, rapido cambio sequenza, si direbbe nel linguaggio cinematografico, lascio l’attore Malaspina e introduco un nuovo argomento. Ad unanime giudizio di pubblico e critica, uno dei più bei telefilm nella storia della televisione è “Happy Days”, serie di culto per intere generazioni in ogni angolo del mondo. Ogni tanto mi capita di vedere l’attore Henry Winkler, che interpretava il mitico Artur Fonzarelli, in qualche rapida apparizione, soprattutto nei film per la tv Usa degli ultimi anni. L’impressione che ne traggo non è splendida, in verità. Incanutito, ingrigito, ordinario, insomma un anonimo vecchietto, se non si conoscesse il suo sfolgorante passato. Nel senso che questo attore ha dato volto e corpo ad uno dei più amati, imitati e seguiti personaggi Segue nella pagina successiva
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televisivi di sempre: Fonzie, all’epoca, era per noi ragazzetti quasi un guru, certamente un punto di riferimento,un opinion leader, un venerabile, io mi scrivevo i suoi celebri aforismi sul diario di scuola. Voglio ricordare altri due telefilm, molto meno conosciuti ma che ho altrettanto amato nella mia adolescenza: “I ragazzi del sabato sera” e “I professionals”. Un recupero memoriale che graffia la gola, scuote nell’intimo e scoperchia emozioni rinchiuse nel paleobarattolo del tempo. “I ragazzi del sabato sera” venne trasmesso nei primi anni Ottanta da Canale 5 e poi da svariate tv locali. Il telefilm era degli anni Settanta e il protagonista assoluto, un giovanissimo John Travolta, che di lì a poco sarebbe diventato la star mondiale de “La febbre del sabato sera” . In effetti il titolo italiano del telefilm giocava proprio, evocandola, sulla fama del film. Vinni Barbarino, questo il nome del personaggio interpretato da Travolta, di chiare origini italiane, era un teppistello che frequentava una classe di teppistelli nella quale andava ad insegnare il grandioso professor Gobe Kaplan (lunghi bananoni e collettoni anni settanta), una sorta di precursore del Keapling de “L’attimo fuggente” e poi di molti altri insegnanti televisivi e cinematografici. Quella di kaplan era una classe speciale, composta da pessimi elementi di Brooklin, disadattati, un po’ svitati, con nessunissima voglia di studiare, i quali si inventavano qualsiasi cosa pur di movimentare la monotonia della lezione. Indimenticabili le sigle de telefilm: quella iniziale, veloce e immediata, e quella finale, la più bella, un romantico lentaccio rock .
L’altra serie di cui ero innamorato è “I professionals”, un poliziesco inglese girato sempre negli anni Settanta. I protagonisti, Body e Doyle, davvero dei duri, psicologicamente e atleticamente preparati a missioni difficili, cinici, scafati, spietati all’occorrenza. Il loro era un corpo speciale, il C5, composto da super poliziotti che si occupavano di casi gravi come il terrorismo internazionale. Insomma, il controcanto molto british agli americani “Starsky e Hutch” che negli stessi anni impazzavano sugli schermi tv. Ma se questi ultimi erano mielosi, buonisti, e piacevano al mondo gay, Body e Doyle erano invece molto “maschi”, rudi quanto basta e col fascino degli scavezzacollo. Ho ripensato a questo telefilm, trasmesso all’epoca da Rai 3, qualche tempo fa apprendendo della prematura morte di Lewis Collins, l’attore che interpretava Body, dei due colleghi, il mio preferito. Anche di questa serie una menzione speciale per la sigla: stratosferica! Aggiungo un’altra serie tv degli anni Ot-
tanta che ebbe un’enorme fortuna: “Dallas”. Di questo telefilm, io amavo in particolare il cattivone, JR Ewing, tanto farabutto quanto seducente (il fascino del diabolico), tanto spietato quanto attraente. JR era interpretato da Larry Hagman, un ottimo performer , anche lui scomparso prematuramente l’anno scorso. Tre serie molto diverse: una sit com con protagonista un teen idol come Travolta, un poliziesco tutto azione adatto ad un pubblico giovane, e uno sceneggiato, come si diceva allora, precursore delle odierne soap operas, indicato per un pubblico maturo, preferibilmente femminile. Eppure io seguivo tutti e tre. Personalità multipla? Altro che “Memoria totale”, di Philip k. Dick! (ricordate il film “Atto di forza” , tratto dal romanzo?). Se un analista dovesse aprire la mia testa, vedrebbe volar via tanti piccoli me, come nella “Golconda” di Magritte. Ma non è il mio personale dedalo di identità il centro di questo pezzo.
E ritorniamo al tema iniziale: il doppiaggio. Sì, perché tutti e quattro i personaggi testé citati sono accomunati dalla loro voce italiana: per Fonzi, Vinni Barbarino, Body e JR, il medesimo doppiatore, cioè Antonio Colonnello. Il suo nome è nel mio ricordo legato strettamente a quello dei personaggi televisivi doppiati. Non saprei immaginare, e credo nessuno in Italia, Fonzie con un’altra voce, nei suoi caratteristici “uau!” e prolungati “heiii!”. Ho letto in rete un’intervista a Colonnello in cui il celebre doppiatore, che ha dato la voce a tanti altri noti attori cinematografici, parla dei suoi colleghi di lavoro, del rapporto con gli attori che doppiava, in particolare con Larry Hagman, e dice “Io ho sempre tentato di lavorare in quel senso di essere un po’ camaleontico. A seconda dell’impatto emotivo che avevo con il viso, cercavo un colore, una tonalità, delle risonanze vocali che non fossero sempre quelle stereotipate mie; e qualche volta ci sono riuscito perché sfido chiunque a dire che, per fare due esempi lampanti, Fonzie e J.R. hanno la stessa voce. Non è così, assolutamente, hanno due voci differenti. La voce vuol dire anche trovare dei risuonatori, cosa non sempre facile. Ho sempre tentato di cambiare voce. Bruno Ganz ne "L'inganno" di Schlöndorff ha una voce che non reputavo di avere, eppure l’ho trovata. Non è così facile doppiare come si pensa, che uno va al leggio ha dei fogli adattati, no, c’è tutto un processo di osmosi, di avvicinamento, di spersonalizzazione che rende la professione seria quando c’è il tempo per poterlo fare. Oggi dubito che i tempi di riflessione siano quelli di una volta, non ci sono più. É un grande galoppare verso la trasforma-
zione, nei tempi più rapidi”. E alla domanda: “Chi sono i doppiatori che lei oggi reputa essere i migliori?”, Colonnello risponde: “Tra i giovani Luca Ward, lo trovo molto bravo… e per quanto riguarda le donne non c’è realmente una che mi abbia colpito particolarmente. Mentre tra i senior non mi dispiace un caratterista della CDC, Renato Mori: è la voce di Morgan Freeman e di tanti altri ed è bravo. Tra i senior apprezzo anche Sergio Fiorentini, voce di Gene Hackman”. Non so se Colonnello abbia fatto parte di quelle che Malaspina chiama le mafie del doppiaggio. Provo un poco di compassione per la voce di Goldrake. La Legge Bacchelli stabilisce che personalità illustri del nostro paese, soprattutto artisti, che versino in stato di indigenza possano avere un contributo al loro sostentamento. Ma se uno, come Malaspina, non ha preso riconoscimenti, non ne ha nemmeno diritto e questa è una buffa e beffarda sorte. Comunque, un mondo affascinante, quello dei doppiatori, che sono in genere professionisti che hanno fatto studi specifici e si dedicano esclusivamente a questa attività. A volte degli attori si prestano a doppiare, ma si tratta di casi meno frequenti. Oltre al timbro e al colore, quando amiamo doppiatori come Colonnello (scomparso nel 2005, all’età di 67 anni), riconosciamo e apprezziamo quella che Roland Barthes definisce “la grana della voce”. Al netto delle accuse di Malaspina, per la nobile arte del doppiaggio l’ Italia è famosa nel mondo ed essa si tramanda di padre in figlio e per questo esistono delle famiglie storiche. Vi è certo una grossa barriera nella traduzione dalla lingua originale. Per questo, fondamentale diventa il lavoro dei dialoghisti; una cattiva traduzione penalizza anche un film di ottimo livello, così come una buona traduzione ne migliora uno scadente. Ma come sempre vi sono delle eccezioni. La traduzione, che è comunque opera di adattamento, deve tenere conto dello spirito dell’opera originale ma al tempo stesso rispettare un sincronismo perfetto e il labiale. È come tradurre in letteratura: grandi romanzi e poesie sono stati snaturati da traduzioni poco calzanti o esse stesse poetiche, e invece esaltati da traduzioni eccellenti. Che i doppiatori italiani siano considerati i più bravi del mondo, non mi sorprende perché il teatro occidentale è nato in Grecia, si è diffuso a Roma e da qui irradiato in tutta l’Europa. La voce ha delle potenzialità enormi e lega insieme volti e personaggi cari alla memoria. Paolo Vincenti
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l’osceno del villaggio
Per Fonzi, Vinni Barbarino, Body e JR, il medesimo doppiatore, cioè Antonio Colonnello
Romano Malaspina
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Un caffè con Max
I
l cielo plumbeo di marzo è uno sfondo di cui farei volentieri a meno, ma è ciò che mi riserva questa mattinata leccese e mi devo accontentare. “Mentre fuori impazza il temporale, sto attento per le scale ché si può scivolare, … mentre fuori impazza il temporale, umani ed animali perfettamente uguali… Nina che danzi su una stella fra nuvole di pioggia e piene di umidità…” (Il temporale Ormai da noi piove sempre. L’ Apulia sitibonda” di cui parlano le fonti storiche è solo un’immagine letteraria, la nostra regione non è più siticulosa come diceva Orazio, anche se rimane lo schifoso scrirocco, atabulus, come lo definiva lo scrittore latino, perche portava la malaria. Il calpestio dei pedoni sull’antico basolato fra il Palazzo dei Celestini e la Chiesa di Santa Croce mi accompagna mentre mi dirigo al luogo del mio appuntamento. Gente che va, gente che viene, tutti in marcia verso il giorno che inghiotte ansie e stress, rancori e umiliazioni, successi e fallimenti. Il presidente di un’associazione ambientalista, megafono in una mano e volantini illustrativi nell’altra, tiene una improvvisata conferenza su fantomatici disastri ambientali, destando gli “evviva” di uno sparuto drappello di entusiasti e i cenni di consenso di due giapponesi in bicicletta protesi ad immortalare col loro telefonino qualsiasi infinitesimale byte di vita si muova sotto il cielo. Ma io ho dimenticato qualcosa in macchina e, smozzicando imprecazioni, sono costretto a ritornare indietro per prenderla. Attraverso la Villa Comunale. Passo in mezzo ai viali alberati, con un’espressione ordinaria, feriale, tipica di un giorno infrasettimanale. Fra i busti di Sigismondo Castromediano e Giuseppe Libertini, Cosimo De Giorgi e Leonardo Prato, due giovani seduti su una panchina si baciano appassionatamente, i due anziani di fronte a loro li guardano bonari, e sembra la scena di una pubblicità dei baci Perugina. Il mio amico cantautore Max Vigneri mi aspetta in una bar di Piazza Sant’Oronzo. È già al secondo caffè. Il berretto di lana calato sulla testa per paura dei reumatismi, dice. “Ho ascoltato il cd, Max”, lo informo, “bello! Davvero” “Caffè Buda”, è il suo cd di esordio, uscito un paio di anni fa per Edizioni Musicali Città Futura Lecce. Testi e musiche di Max Vigneri (Piazza Indipendenza), che non è un neofita, sebbene sia arrivato a pubblicare abbastanza tardi. Ma tardi, poi, per cosa, mi vien da chiedermi. Per lo star system? Per il successo planetario? O solo per “imbarcare” meglio e di più a fine serata? Il fattore anagrafico non può essere una discriminante, un li-
di Paolo Vincenti
mite, quando un artista ha qualcosa da dire e sa come dirlo. Può esserlo, forse, se si sogna di conquistare il grande pubblico, di entrare nei circuiti importanti, ma queste ambizioni appartengono alle boy band, ai cantanti da talent show, non ad uno come Vigneri, perso dietro ai suoi sigari e ai reumatismi. Max canta dappertutto, ovunque lo chiamino. Quello che mi colpisce nel suo album è il perfetto mix fra musica e versi, nel senso che entrambi sono bilanciati e ben sostenuti dall’arrangiamento, curato da Andrea Neglia. La sua voce, calda e graffiante, di primo acchito può ricordare quella di Paolo Conte, questo almeno è l’accostamento che a tutti vien fatto di portare quando lo si ascolta. Ciò potrebbe riguardare le parti basse, per una certa pastosità del suo timbro, ma non di sicuro le parti alte, gli acuti. Anzi, ad un ascolto meno superficiale, si capisce che di Paolo Conte la voce di Max ha ben poco: è sì abbastanza arrochita, ma non così gracchiante come se avesse ingoiato un rospo, gratta, ma non ha la carta vetrata nella gola come l’avvocato astigiano. Secondo me invece, è molto più simile a quella di Mimmo Locasciulli, glielo dico e Max sorride. È un artista interessante, sospeso fra la scuola del cantautorato italiano e lo swing, con notevoli e riconoscibili influenze jazz e blues. Ha esperienza e un bagaglio di vita vissuta, come chi ha superato da un pezzo gli “anta”, e questo si riflette nella sua produzione. Nell’angolo dell’Anfiteatro Romano, due ragazzetti, sculture viventi di tatoo e piercing, intrecciano i loro nomi ad un lucchetto che appendono alla colonna degli innamorati e la voce melodiosa di Tito Schipa dal Bar Alvino vola nella Piazza Sant’Oronzo, in una mattinata pallida ed emaciata, che trasmette l’idea di giorni banali, non vissuti. La canzone “Quante storie” parla del diavoletto da cui è posseduto il musicista, mentre “Marta ha 10 anni” è una delicata composizione dedicata alla figlia, che supera brillantemente la prova melassa, poiché il rischio del retorico, quando si scrive una canzone del genere, è più che concreto. In “E’ quasi l’alba, un uomo ritorna a casa inseguito dai ricordi e dai rimorsi di una vita strascinata, come i suoi passi lenti sull’asfalto del nuovo giorno. “Sai Max, se proprio dovessi fare un accostamento, perché qualcuno me lo chiedesse nel recensire il tuo disco…”. “Come? Hai detto disco?”, sussulta, mentre gira lo zucchero nel caffè. “Scusa, volevo dire cd (“dal vinile all’mp3, ne abbiamo viste di rivoluzioni io e te”, canta Renato Zero), insomma se proprio mi si chiedesse
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“Suggestioni un po’ crepuscolari / delle sedie misto-vimini In un caldo, estivo, pomeriggio / di un barocco sud” Max Vigneri
di dare un riferimento al panorama musicale nazionale, farei il nome di Jimmy Villotti, che conosciamo in due, tre in Italia, credo”. “Il chitarrista di Francesco Guccini e di Paolo Conte”, mi viene incontro Max, “Invento splendori d’autunno, La crema”, e inizia a snocciolare alcuni titoli di Villotti. “Ma come, lo conosci?”, gli domando strabiliato, e subito mi rendo conto di aver così boriosamente sopravvalutato le mie competenze musicali. I due brani più belli del disco sono “Caffè Buda” e “El Cid”. Il primo brano, che è poi il pezzo portante del lavoro, fotografa la movida, cioè lo struscio tipico di una grande città i cui avventori “Martoriavano granite fredde Inespressivi e snob”e ancora “Percussioni sopra marciapiedi di tacchi da 15/ nella seta si perdevano gli sguardi inebetiti e atonici / donne afone da logorroici temi / su inquietanti amenita’”. In effetti, il caffè Buda, caro alla memoria dei leccesi più anziani, era un bar che si trovava proprio al centro di piazza Sant’Oronzo, dove è oggi la sede della banca Monte dei Paschi di Siena. Ma si tratta anche di un topos letterario: il Caffè Buda per Max corrisponde a quello che il Roxy Bar rappresenta per Vasco Rossi, il Mocambo per Paolo Conte, il Bar Mario per Ligabue, un punto in cui si incontrano personaggi, storie e vicende, un luogo fisico ma anche dell’anima, come il “Castello dei destini incrociati” di Calvino. “El Cid” si ispira alla figura dell’epico condottiero spagnolo,Rodrigo Díaz de Vivar, protagonista dei cantari del 1100 durante il periodo della Reconquista spagnola, ma quello di Vigneri è “un cavaliere errante … Conquistador di amazzoni di poca fede disfattiste e conflittuali biforcute e cerebrali al limite del countdown”. In questo brano, Max canta di “fuochi pirotecnici
autori
Ecco il Caffè Buda in Piazza Sant’Oronzo sul lato di via Vito Fazzi in foto dell'archivio di Filippo Montanari
e scintille e linee maginot”. Quello che mi piace di più di Max Vigneri è che non assomiglia a nessun altro del panorama musicale salentino, in cui impera la riproposizione della tradizione musicale nostrana nel segno della pizzica. Max non fa folk revival, non infarcisce le sue canzoni con suoni tarantati o dialettismi, i suoi testi sono scritti in un italiano corretto ed essenziale; un lessico, il suo, non ricchissimo ma denso, evocativo, come i suoi “manichini di Cocò Chanel” e le sue “storie di patetici pierrot”. Le sue radici salentine sono forti e tradite, nel parlato, dal forte accento leccese, intrecciate alle sue note swingeggianti, mescolate alle sue “gocce di adriatico e malvasia”, ma la sua appartenenza geografica non viene sbandierata nel cd; Lecce ed il Salento non sono mai citate nelle canzoni e, a mio avviso, è questo è il punto di rottura, l’originalità di questo chansonnier un po’ sornione, ad un tempo svagato e puntuto, giocoso e engagé. I testi sono minimalisti, ma le atmosfere sembrano quelle alcoliche di un night in una notte piovosa con i vetri che si appannano e il ghiaccio che si squaglia nei tumbler, il fumo che sale lento disegnando bizzarri ghirigori nell’aria opaca. Interessanti anche “Comprati un sogno” e “L’abbandono”. È già pronto e sarà a breve pubblicato, il suo secondo cd che, a giudicare dalle nuove canzoni che ho ascoltato e che si trovano in rete sul canale youtube, sarà ancora più convincente. “Vado Max, gli impegni mi chiamano e fra poco inizia a piovere”. “Ci vediamo in giro, vieni a trovarmi per ascoltarmi dal vivo”, mi saluta, invitandomi ad una delle prossime date in qualche locale perduto nella nostra provincia infinita e mutevole. La musica non finirà mai. A presto, Max Vigneri.
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S
i può didascalizzare la poesia o altra opera d’arte, ipotizzando cosa passasse per la mente al poeta o all’artista nell’attimo creativo? Penso proprio di no. Presentazioni o prefazioni, perciò, raus! weg! Altro discorso è la lettura critica, la recensione; in questo caso corre l’obbligo di chiedersi un po’ di cose, con tutti i rischi dell’azzardo ma con tutti i diritti di farlo. Il poeta è cieco. Il poeta non ha età, non ha sesso. Il poeta va per conto suo e chi lo incontra è altrettanto libero di non avere occhi, di non avere anni, di non avere sesso, di andare per conto suo. Chi incontra un poeta non deve chiedergli nulla. Ogni risposta potrebbe essere una deminutio o una falsatio. Alla poesia più e meglio si addice il flusso di memoria o il flusso di coscienza, che tanta letteratura del Novecento hanno caratterizzato. Se così è, come faccio io dall’esterno a sapere cosa gli è saltato in mente? Qualcosa gli è saltato, non c’è dubbio; ma cosa? Ipotesi, va bene! Chi legge Giulia Licci e le sue dotte ed estroverse poesie se ne convince, anche se lei stessa cede ad improbabili prefazioni didascalizzanti. Professoressa di lettere e lettrice instancabile, ha di tanto in tanto come fulgurazioni, lampi di genio. Ed ecco che poeti e scrittori della nostra e delle altrui letterature le tornano in mente col loro portato emotivo, sentimentale, etico e problematico. Essi si materializzano nella sua scrittura breve, epigrammatica, ludica, ironica, coi suoi diminutivi e vezzeggiativi
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poesia
In libertà
La raccolta di versi di Giulia Licci
ipocoristicamente infantili. Con l’ultima plaquette In libertà (GR edizioni, 2015) è la volta di Marinetti, il discusso teorico dell’ancor più discusso futurismo. E’ una poesia, che leggo in un momento di estrema esemplificazione critica. Dati oggettivi: cinque brevi diseguali lasse per un totale di ventinove ottonari liberi; parola-chiave «libertà» che ricorre tre volte; nomi propri: Mosca, Marinetti, Luna, Samantha. Poi basta, il resto è di chi legge. Per la lettura non c’è reato che tenga: niente codice penale, niente reato di diffamazione, di calunnia, di qualsivoglia dolo. La poesia è un frutto in un campo di nessuno. Ognuno se lo può cogliere e gustare, con la buccia e senza. Io la vedo così: la sfida di Marinetti e del futurismo a distanza di un secolo si può dire vinta e Samantha Cristoforetti, la scienziata italiana che da mesi è in orbita nello spazio, essendone continuatrice, lo sancisce. E’ un inno alla libertà in ogni parola, in lessico e in concetto: «aperti cieli», «nuovi / timbri e suoni», «sulla Luna / giurò lui di andarvi primo», «velocissimi all’assalto», «nuova poesia», «nuovi metri», «immensità spaziali». Quanti altri in Italia hanno reso un simile omaggio a Marinetti in così pochi versi? Il merito di questa sfida è del poeta, che vide un secolo fa quello che ancora non c’era; o meglio quello che gli altri non vedevano e non sentivano. Gli altri vedevano altro, quello che magari c’era nel chiacchiericcio profano delle polemiche quotidiane. Giulia Licci, come Marinetti, non può vedere la banale e profana rivincita delle donne sui misogini futuristi; vede, ancora una volta da poeta, quello
Ad illustrare una fotografia dell’astronauta italiana Samantha Cristoforetti
che altri non vedono: l’inebriarsi nelle «immensità spaziali» al di là del fatto tecnico, galleggiare nel cosmo, la rivincita dell’uomo sul “folle volo” di Ulisse. Se un azzardo motivale può essere tentato nella inseminazione poetica della Licci è l’aver visto la Samantha ‘giocare’ nell’astronave, volteggiare divertita in capriole, sorridente, leggera in una dimensione quasi onirica, con quella tuta piena di simboli, di colori. La Samantha deve essere apparsa alla Licci una bambina trasportata dal vento, come un aquilone che ogni tanto va in picchiata; l’immagine poetico-evocativa di un quadro di Chagall. Deve essersi divertita un mondo, la Licci, a vederla; deve essersi identificata. Ed ecco, l’accensione poetica, irriconducibile a didascalia. Oggi la Licci è la voce poetica più originale del Salento, priva com’è di accenti oleografici di maniere salentine, bodiniane o turistico-folkloriche: bianco di calce, muretti a secco, coroncine di peperoni, pendole di pomodori. È come se dentro di lei fosse rimasto intatto lo spirito sorridente e divertito di una bambina, alle prese coi suoi giocattoli, nelle atmosfere di un mondo non ancora raggiunto e violato dalle adultità. Nei suoi versi ricorrono certo problematiche attuali, ma sono stemperate e ricondotte ad una visione ‘oltre’, memoriale solo per necessità raziocinante di chi legge, per raggiungere una dimensione di gioia e d’incanto di un tempo in cui forse ognuno di noi vorrebbe tornare o semplicemente sentirsi, ma non sa come. Gigi Montonato
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Lettera aperta ad Antonio Zoretti
Perchè scrivi, se non ci credi?
A
ntonio, intriso di letteratura fino al midollo, chissà quanti romanzi hai letto, e ne hai scritto uno (Viaggio al termine della corsa, Spagine Fondo Verri edizioni, 2015) in quattordici stazioni, in cui, senza rispettare le unità di personaggio di tempo di luogo, hai messo in campo un arsenale retorico da mercatino letterario delle pulci, col fine di conquistare la bella-paesana e vedere così realizzata, più che scritta, la favola che proietta il futuro nel passato, il ciabattino con la brava ragazza di campagna, e vissero felici e contenti, no all’arte, sì ai minuti mestieri, sì ai piccoli piaceri, immersi e persi persi nell’oblio. Antonio, barone di Münchausen, avessi almeno una folta capigliatura, sì da fornire, per tirarti fuori, valido appiglio alle tue mani da intellettuale per scelta disorganico, che scrittura la tua, sorvegliata e nauseante con deliberata intenzione, stile no, lo stile è dei produttivi, che andatura con un di più, ad un tempo, di ironia e di non senso, che passo di grottesco naturale nella grande discarica dei referti, scarti già all’origine e ora, in degrado avanzato per reciproco contatto, ne raccatti qui uno e là un altro, per poi, con questi luoghi letterari residuali, scaduti e maleolezzanti, imbastire il racconto non tragico della via crucis di un cristo nel campo dell’arte, che dopo le prediche contro la schiavitù del lavoro salariato, che dopo le bestemmie contro la volontà di fare alcunché, non è degno di essere
di Massimo Grecuccio
L’immagine di copertina del libro di Antonio Zoretti edito da Spagine Bozza di progetto per un monumento di Dario Bernardini, Vanessa Pontremoli e Giulia Zanardi www.alleronabridge.net
crocefisso ma se la spassa con le Muse. gere il filo né un Minotauro che possa divorarlo, Teseo che rischia la labirintite, Antonio, dispositivo seriale che bac- finché non entrano in scena Afrodite, chetta i costumi, sismografo ultrasensi- l’anima sorella o la sorella anima, e le bile che registra le scosse minime che Muse, tutte, le testimonial della bellezza non hanno per epicentro né il giusto né il svanente, ahi romantico, le badanti del vero né il bello, col tuo passo divertito e mondo gravemente malato, ahi reazionairriverente tra le parole lasci dietro di te rio, Antonio, tu col flauto magico hai suomiriadi di brandelli autobiografici, trasfi- nato un de profundis che da Trieste e gurati, con cognizione di causa, sub spe- Genova, e la Sicilia, e la West Coast, e cie lacerti di letteratura di bassa lega, l’Adriatico, e i Balcani, e Praga, e Londra, maschere grottesche che coprono il arriva a Lecce e da qui, dopo quattordici pianto e raffreddano, diluendoli in calem- stazioni al mare di Tricase, approdo terbours, i moti dell’anima, in vero intrisa del mine della corsa. dolore, che tu sminuisci con litoti, di perdite che hanno lasciato rilievi evidenti di Antonio, che poi chiamare romanzo quello che hai scritto ce ne vuole, antirocicatrici, cui prodest? manzo nemmeno, che tu hai provato a Antonio, l’invettiva attraverso la lente de- trattare le parole come le note, tentando formante dell’autobiografia allucinata di accordi con accostamenti suggeriti dalla un’anima che ha attraversato, con una lateralità, che il racconto fa saltare, svipunta di romanticismo, le paludi tristi dei colare, infossare, riemergere, senza almarxismi, il miraggio dell’equità sociale cuno ossequio alle buone maniere virato nelle assemblee di condominio e letterarie, screanzato che non sei altro, nei teatri parrocchiali delle democrazie non dovevi scrivere, musica avresti domonoteiste che officiano messa solo al vuto comporre e suonare, avresti dovuto capitale finanziario, di un’anima che si è scrivere in musica, se solo avessi impaimmersa pure, con la zavorra del reazio- rato a farlo, la musica, che entra nel reale nario, negli acquari delle attività artistiche senza bisogno di bussare, attraverso la e culturali, torbidi di euforia di vaniloqui, porta da cui il senso non passa, sinfonie, le performance e le mostre tipo Architetti rapsodie, fughe, motivi che restituiscono in mostra, da cui l’anima è emersa ma- senza verbo quei fantasmi dell’anima sticando le bontà, si fa per dire, dei buf- chiamati moti, i colori e le temperature e i suoni via via sbiadenti del tempo che fet. fugge nostro malgrado, disseminando Antonio, tu col flauto magico, obblighi il tracce ai quattro venti, imperativo cerlettore che vuole seguirti fino in fondo a carle e vano seguirle, solo rimane un entrare nel labirinto della tua prosa che vago profumo, Blues n°5, da annusare ha la consistenza delle spire di un’ana- inalando forte forte. conda, Teseo senza né un’Arianna a por-
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della domenica n°73 - 3 maggio 2015 - anno terzo
musica
“Sirene, vetri, urla e paparelle” dalla Calabria per raccontare Milano
Tensione
Intervista ad Alessio Calivi
“
Intimo, crudo, irriverente”, così Alessio Calivi, giovane artista calabrese, descrive il suo primo disco. Fin da piccolo la sua predisposizione naturale al canto poi lo studio della musica a Milano. In questa intervista l’artista racconta la nascita del suo lavoro discografico ‘Sirene, vetri, urla e paperelle’. Come è nata la tua passione per questo genere musicale? La mia passione per questo genere è nata frequentando persone che lo ascoltavano già. All'epoca andavano di moda tra gli amici i Six minute war madness, i Sonic Youth, i Ritmo tribale, e tanti altri. Io sono nato con i Litfiba, ricordo, e poi via via tutta una serie di gruppi e generi diversi tra loro. Sono sempre stato un divoratore di musica. “Storia stonata” è il singolo che ha anticipato l’uscita del disco, perché la scelta di questo brano? Storia stonata perché è il pezzo che, me-
e distensione
Alessio Calivi
lodicamente e come contenuto testuale, si presta di più come singolo. E’ stata una scelta condivisa sia da me che dalla Manitalab, la mia etichetta. “Chitarre distorte, suoni duri e complessi sono le armi e l’armatura per affrontare il mondo fuori dall’uscio…”. La musica è la tua arma per difenderti dalle difficoltà che ti circondano? Diciamo che con la musica cerco di raccontare queste situazioni e forse sì in un certo modo anche affrontarle ed esorcizzarle. La scelta delle cadenze melodiche è strettamente legata al testo e viceversa, proprio per creare degli stati di tensione e distensione. Questi li si può ritrovare anche all'interno dello stesso brano, non c'è un vero e proprio schema da seguire comunque… “Sirene, vetri, urla e paperelle”, perché questo nome al tuo album? Il titolo dell'album nasce dall'associazione che ho fatto con il luogo nel quale mi trovavo nel periodo in cui lo scrivevo. Precisamente la Martesana a Milano. Ho cercato di rievocare le mie giornate, le
di Alessandra Margiotta
notti, e tutte le situazioni vissute con delle parole specifiche. Le sirene in lontananza della città, i vetri di bottiglie rotte, le urla notturne e della Milano reietta e le paperelle del naviglio. Descrivi il tuo disco con tre aggettivi Intimo, crudo, irriverente. Racconta una tua esperienza musicale positiva ed una negativa. Ho sempre cercato di prendere il meglio dalle persone con cui ho suonato e dall'esperienze musicali che ho avuto. Porto con me momenti davvero intensi che mi hanno aiutato ad essere, nel bene e nel male, quello che sono. Di momenti brutti nella musica non ne ricordo anche perché la mia voglia di superarli è sempre stata così tanta da farmeli scordare. Sei in tour? Lascia qualche data dove sarà possibile venire ad ascoltarti e lascia anche i tuoi contatti. Partiremo dopo un periodo intenso di prove il 24 Maggio da Milano dal Ligera. Tenetevi aggiornati seguendomi su Facebook Alessio Calivi FB.
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della domenica n°73 - 3 maggio 2015 - anno terzo
musica
Foto di gruppo per la band
La chirurgia etica e il caro Signor K
U
n uomo seduto al bar, il solito amaro, l'ennesimo. É il signor K, l'uomo in ogni noi, a cui La Chirurgia Etica parla in versi, in musica e immagini. Una band che racconta con giovane freschezza, ma altrettanta riflessiva profondità, le indecisioni della vita; racconta le vite, senza mai cadere nel banale, scavando nell' unicità del comune, sperimentando in un genere musicale (l'indie-rock) che permette contaminazioni e personalizzazioni efficaci se azzardate da chi, come in questo caso, non si improvvisa, ma sa fare, vuole crescere e sa cosa vuole. Cinque giovanissimi, due chitarre, un basso, una tastiera, affascinanti percussioni, incantevole voce e carismatici volti. Petit Papillon interpreta alla perfezione con la voce di un diamante graffiato i
di Silvia Dongiovanni
testi scritti da ChristiAne Effe... la filosofia, l'interrogarsi, il conoscersi, il raccontarsi in una canzone. Ogni musicista ha un'anima speciale, regala esperienza, umiltà, amore per Euterpe, vivacità, introspezione rivelata. E dopo il primo singolo "ti sei poi abituato alla fine", cresce l'attesa per "caro signor K", una lettera a quell'uomo vittima dell'indecisione, immobile, passivo, di cui ci parlava Kierkegaard. I ragazzi annunciano l'imminente uscita di note, parole e immagini, in un videoclip realizzato da Luca Melcarne e Antonio Cavallo (regista e direttore della fotografia di "The Heel"). Con musicare moderno e raffinato, fresco e impegnato, sincero e ricercato, La Chirurgia Etica denuncia il "bello" fasullo di una società che ci vuole tutti RIfatti a sua immagine e somiglianza, abbracciando invece una Bellezza onesta, una Bellezza Etica.
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C’era una volta una gatta
della domenica n°73 - 3 maggio 2015 - anno terzo
animali
di Rocco Boccadamo
C
’era una volta una gatta... Si può scrivere, per così dire, con anima, riferendosi semplicemente a un batuffolo nero? Mi sono innamorato subito, sin dall’istante in cui, dalle mani carezzevoli di chi – due mesi prima – l’aveva vista nascere, è scivolata in braccio a me. Il capino piegato verso l’alto, gli occhietti - vivi, simpatici e straripanti espressività e simpatia – immobili a puntare il mio sguardo. Un approccio, insomma, intessuto di stupefacente immediatezza e sfociato, senza preliminari, in amicizia e giocosa compagnia. Cascate di fusa, corse chilometriche nel giardino rincorrendo pigne, agguati, maldestri e d’improbabile esito, tesi a minuscole farfalle che parevano svolazzarle intorno a bella posta. E poi, lunghe sequenze di buffi saltelli di gioia, a lato o a ritroso con la schiena arcuata, temerarie arrampicate sui rami, anche alti, quasi volesse esibire la sua prestante agilità e bravura, non soltanto a me, ma pure ai miei famigliari. Due mesi d’intensa allegria e d’emozionante complicità. Purtroppo, in un meriggio verso il tramonto, avevamo appena finito di giocare in giardino, s’approssimava il crepuscolo e spuntavano le prime stelle, rimirate, talvolta, insieme, quando
lei, spinta da innata curiosità, ha voluto portarsi sulla strada: lì, lo sfrecciare di un’auto, una piccola ma cupa botta e…niente più. Ho assistito impotente, ed è stata dura, tanto quanto non riesco a spiegare. Era arrivata da lontano nella frescura della mia casetta al mare, cosicché ho scelto di condurla lontano, ancora una volta in braccio, adagiandola a dormire su una naturale lettiera ricavata all’interno d’un muretto a secco di un’isolata campagna. Un sito esclusivo, dove i soffi del vento cullano i suoi sonni, intanto che le è dato di percepire anche lo sciabordio delle onde che s’infrangono, quando lievi, quando forti, appena più giù. Di nuovo, la domanda iniziale: si può scrivere avendo per oggetto un batuffolo nero, un’adorabile gattina che ha attraversato la volta delle umane emozioni con luce intensa e, perciò, lasciando un segno indelebile, così come fanno le astrali meteore? Se la risposta potrà essere sì, sarà grande la gratificazione interiore per chi scrive. Ad ogni modo, grazie piccola micia, che hai segnato anzitempo, con un’improvvisa e tragica capriola sul nero manto d’asfalto, il compimento delle tue stagioni.
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della domenica n°73 - 3 maggio 2015 - anno terzo
l’arte di costruire la città
Il “caso” Corigliano
I
l restauro architettonico di un bene pubblico può passare oggi anche attraverso le pagine di uno dei più noti social forum del momento. In questi ultimi giorni web e redazioni sono state, è il caso di dire, bombardate da una valanga di commenti negativi su quanto sta accadendo nel cortile del castello di Corigliano d'Otranto dove sono in corso restauri.
Facciamo un passo indietro soffermandoci su fatti e protagonisti. Il 19 aprile scorso Dario Melissano lancia sul web un video in cui si vedono le grosse tubature dell'impianto antincendio distribuirsi sul muri dell'antico castello con criteri giudicati da molti in modo tutt'altro che favorevole in sostanza, si potrebbe anche dire, poco rispettosa del passato illustre di quel monumento storico. Gli altri soggetti chiamati in gioco sono: l'amministrazione comunale di Corigliano d'Otranto guidata da Ada Fiore; i due progettisti che da un documento segnalato dalla consigliera comunale di maggioranza Emanuela Costantini, sembrerebbero essere l'Ing. Giuseppe Negro e l'arch. Teresa Tubito; la Soprintendenza ai Beni Architettonici con sede a Lecce A proposito di quest'ultima andrebbe aggiunto per completezza che l'incaricata a seguire i restauri architettonici nella città di Corigliano (e quindi anche quelli del castello) sarebbe l'architetto Michela Catalano (in soprintendenza non ci sono omonimi). Il condizionale in questo caso è d'obbligo perché il Soprintendente Francesco Canestrini non ci ha indicato il nome dell'architetto che per conto della Soprintendenza segue i lavori del castello; d'altro canto però, lo stesso Melissano ci mette al corrente che per un altro caso (legato alla piantumazione di alberi nel fossato della stessa fortezza) solo qualche mese fa fu “l'arch. Catalano” ad intervenire. Perché (ed è la domanda di tutti) sono stati realizzati lavori in un
modo giudicato sul web così tanto negativamente? Chi li ha voluti e autorizzati? Una risposta potrebbe arrivare da due pagine - segnalate dalla consigliera Emanuela Costantini il 21 aprile scorso sempre sullo stesso social forum - dove si legge: “Ovviamente quanto previsto in progetto e quanto finora realizzato, è pienamente conforme ai pareri preventivi rilasciati dalle competenti Soprintendenze e del Corpo Provinciale dei VV.FF di Lecce”. Questo documento, indirizzato all'assessore ai Lavori Pubblici del Comune di Corigliano, sembrerebbe chiarire molte cose incluso il fatto che qualcuno stia pensando già di rivolgersi alla Procura della Repubblica.
Dario Melissano è l'autore del video che ha fatto saltare sulla sedia molte, moltissime persone che ancora oggi dimostrano il loro dissenso per quanto sta accadendo nel cortile del castello di Corigliano: un impianto antincendio che con i suoi tubi invade forse troppo energicamente le mura storiche dell'edificio. Non è nuovo a segnalazioni di questo tipo Melissano il quale dice: “Nel dicembre 2014, uscendo da casa, ho visto dei signori piantare dei cipressi nel fossato del castello. Mi hanno spiegato che la piantumazione degli alberi rientrava in un progetto chiamato il giardino della Resilienza. Il sindaco, Ada Fiore, pochi giorni dopo, ha risposto alle mie perplessità in merito ai cipressi, e ha definito il progetto valido ed opportuno.” La storia non è finita qui: “Il giorno dopo – continua Melissano - ho chiamato Lecce. Ho parlato con la dottoressa Catalano, la quale mi ha chiarito che non avrebbe mai dato il parere positivo, senza prima visionare il progetto, infatti, dopo qualche giorno, la dottoressa, insieme ai carabinieri di Corigliano, hanno obbligato l’ingegnere comunale, Nicola Dimitri, ad ordinare l’espianto dei 27 cipressi, il tutto con un'indagine sulla vicenda.” Dopo solo quattro mesi da questo primo fatto Melissano entra nel
di Fabio A. Grasso
cortile del castello e gira l'ormai famoso video. “Dopo la pubblicazione del video – conclude il giovane- ho ricontattato la dottoressa Catalano per due volte tramite email, e non ho avuto risposte. Oggi, 27 aprile 2015, alle 10:00, ho chiamato in ufficio, ed era impegnata tutto il giorno riunione!” Per quanto riguarda le riprese realizzate da Dario Melissano quest’ultimo racconta: “Ada Fiore, il giorno della fiera di san Giorgio, mi dice "ma lo sai che non potevi stare nel castello! " ribatto "era aperto e c'era la lista di opposizione che scattava la foto ufficiale del gruppo" lei risponde "nemmeno loro. E’ un cantiere e si è soggetti a denuncia per esservi entrati". E’ utile dire che si è provato a contattare il sindaco di Corigliano d’ Otranto, Ada Fiore, per sapere la sua versione dei fatti ma la stessa ha deciso di non rispondere. Sulla questione dell'impianto antincendio nel cortile del castello di Corigliano un ruolo determinante e decisivo è svolto dalla Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le Province di Lecce, Brindisi e Taranto. In genere il territorio è suddiviso ed assegnato ad un funzionario interno alla stessa Soprintendenza. Solo qualche mese fa era stata destinata alla direzione di questa Soprintendenza la Dott.ssa Anna Imponente la quale dopo essere venuta a Lecce, ha rinunciato in favore di altra sede. Il responsabile ad interim oggi è l'architetto Francesco Canestrini. La sua risposta in merito al caso Corigliano è stata la seguente: “Stiamo facendo i necessari accertamenti su quanto autorizzato. In seguito ad apposito urgente sopralluogo si chiariranno le questioni e si prenderanno le decisioni in merito”. Questo solo qualche giorno fa. Adesso il documento segnalato dalla consigliera comunale di Corigliano apre se non nuove ipotesi di certo molte domande fra le quali una in particolare: chi ha approvato in Soprintendenza quanto realizzato?
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della domenica n°71 - 19 aprile 2015 - anno 3 n.0
teatro
...libera tutti
L’8 e il 9 maggio al Teatro Comunale di Novoli l’anteprima di Opera Nazionale Combattenti, spettacolo di Principio Attivo Teatro “ispirato” all’atto mancante de “I giganti della montagna” di Luigi Pirandello
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I giganti della montagna è un dramma incompiuto di Luigi Pirandello. Fu steso intorno al 1933, anche se a quanto pare il pezzo era stato concepito, in forma embrionale, negli anni venti. Il primo atto aveva un titolo a sé: I fantasmi. Pubblicato in alcune riviste (Dramma; La Nuova Antologia), fu rappresentato per la prima volta a Firenze, il 5 giugno 1937. Il secondo atto fu dato alle stampe dalla rivista Quadrante. L’opera rimase incompiuta a causa della morte del drammaturgo, avvenuta nel 1936. Il terzo atto, l’ultimo, non fu mai scritto, anche se il figlio di Pirandello, Stefano, ne tentò una ricostruzione: a quanto pare, il padre gliene avrebbe rivelata la struttura. L’opera venne rappresentata in varie versioni: famose furono anche le rappresentazioni di Giorgio Strehler, di gran prestigio anche a livello internazionale (per esempio a Düsseldorf nel 1958). La piéce narra la vicenda di un gruppo di disadattati che trovano rifugio in una villa chiamata La Scalogna e incontrano una compagnia di attori in procinto di mettere in piedi la rappresentazione di un pezzo teatrale, La favola del figlio cambiato dello stesso Pirandello. Viene quindi richiamato il principio di teatro nel teatro usato da Pirandello in pezzi come Sei personaggi in cerca d’autore” * * * Si legge nelle note di regia dello spettacolo che andrà in scena al Teatro Comunale di Novoli l’8 e il 9 maggio prodotto da Principio Attivo Teatro su una drammaturgia di Valentina Diana per la regia di Giuseppe Semeraro: “Opera Nazionale Combattenti è un eteronimo di Principio Attivo Teatro. Ci siamo presi la sana libertà di prendere un testo classico come I giganti della montagna e riscriverne la parte incompiuta. Siamo partiti dalle parole di Pirandello agonizzante mentre descrive a suo fi-
glio la parte finale del dramma e a queste parole ci siamo attenuti in maniera fedele. Ne è venuta fuori una incosciente opera teatrale che dal teatro nel teatro pirandelliano ambisce ironicamente a fare teatro per il teatro, l’arte per l’arte. Come se questi desolati attori vogliano assumersi l’infausto compito di fare un massaggio cardiaco al teatro morente. Quando l’ironia ha la lama affilata basta un niente a toccare la tragedia”. In scena una compagnia di anziani o variamente disadattati, fuori dal tempo, fuori tempo, in qualche modo anacronistici, di un anacronismo che non è collocabile nel tempo cronologico ma che piuttosto rappresenta l’estraneità alla modernità, alla contemporaneità. Una compagnia che non èal passo con i tempi, che non si ènéintegrata nécollocata. La compagnia si presenta con il nome Opera Nazionale Combattenti, un nome che rimanda a una legione dismessa di una qualche guerra patria ormai finita e dimenticata, un gruppo di ex combattenti fuori contesto, inutili e disonorati, a cui nessun rispetto èpiùriservato. Una legione fantasma, che si aggira con un
corpo morente in spalla, quello della Contessa Ilse, e làdove trova un teatro, lo occupa e prende in ostaggio il pubblico, costringendolo a sottostare alle regole stabilite da loro, che consistono nel privare temporaneamente (per il tempo dello spettacolo) il pubblico di alcune libertà (Non potrete togliervi le scarpe. Non potrete esprimervi in alcun modo. Non potrete parlare. Non potrete cantare. Non potrete fare acquisti. Non potrete disinvestire titoli. Non potrete licenziare néassumere. Non potrete concepire figli…) La rappresentazione ha inizio e segue le indicazioni idealmente dettate da Pirandello in punto di morte. La compagnia si presenta ai Giganti, i quali però non sono interessati alla rappresentazione, la comprano per farne dono al popolo. Il popolo festeggia un matrimonio e mangia e beve in piazza. Nonostante non vi sia alcun interesse nei confronti dello spettacolo la contessa decide di non rinunciare alla rappresentazione (Ilse: Finalmente le parole del Poeta toccheranno il cuore della gente e ne innalzeranno lo spirito!) Entra in scena a proprio rischio e pericolo. Ne sortisce la tragedia. Ilse non verràuccisa fisicamente (come Pirandello prevedeva) ma viene costretta dal pubblico a interrompere il monologo iniziale e a raccontare barzellette. Ne uscirà distrutta, definitivamente devastata nella mente, come una specie di Ofelia in preda alla pazzia. Alla fine della rappresentazione la compagnia “libera il pubblico” e riprende il proprio viaggio-missione. * * * In scena Leone Marco Bartolo, Dario Cadei, Carla Guido, Otto Marco Mercante, Cristina Mileti, Giuseppe Semeraro. Bande sonore e musiche a cura di Leone Marco Bartolo. La voce fuori campo è di Silvia Lodi. Alle luci: Fabrizio Pugliese. Le scene e trucco sono di Bianca Maria Sitzia.