Spagine poesia saggi 02 maledetti salentini di rossano astremo

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Rossano Astremo Maledetti Salentini Passeggiate critiche tra i sentieri poetici dei maledetti salentini

Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Culturale Fondo Verri di Lecce a cura di Mauro Marino


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Maledetti Salentini Passeggiate critiche tra i sentieri poetici dei maledetti salentini

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Il presente testo offre una selezione di articoli e saggi critici, che ho pubblicato su quotidiani, riviste e blog negli ultimi anni, riguardanti l’analisi delle vite e delle opere dei principali poeti salentini del ‘900, Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, Salvatore Toma, Antonio Verri e Claudia Ruggeri. Buona lettura! R.A.

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Bodini e le struggenti inchieste Poesia, struggenti inchieste sulla verità dell’essere, scegliemmo la tua scorciatoia. Non ci ha portati lontano, no davvero. Sì, qualche volta l’ebbrezza d’essere vicini a qualcosa ma in che rari momenti e a che prezzo d’insofferenze, di rotture d’ogni più delicata trama d’affetti! Vittorio Bodini, luglio 1967 Ad esclusione di “Quarta Generazione”, antologia curata da Piero Chiara e Luciano Erba sulla giovane poesia, pubblicata da Magenta Editrice nel 1954, di Vittorio Bodini non c’è traccia nelle principali antologie di riferimento sulla poesia contemporanea. Dall’antologia curata da Edoardo Sanguineti, pubblicata da Einaudi nel 1969, a quella di Pier Vincenzo Mengaldo, che risale al 1978, quando uscì nella prestigiosa collana de I Meridiani della Mondadori, sino ad arrivare alla più recente, frutto del lavoro di selezione di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, da pochi mesi apparsa arricchita nella collana Classici Moderni della Mondadori, di Bodini neanche l’ombra. Vittorio Bodini, nato a Bari nel 1914, ma di famiglia e formazione leccese, Maledetti Salentini

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Su Vittorio Bodini

ha pubblicato in vita “La luna dei Borboni” (Edizioni della Meridiana, Milano, 1952), “Dopo la luna” (Edizioni Salvatore Sciascia, Caltanisetta-Roma, 1956), “La luna dei Borboni e altre poesie/1945-1961” (Mondadori, Milano, 1962) e “Metamor” (All’insegna del Pesce D’Oro, Scheiwiller, Milano, 1967). Postume sono le raccolte “Poesie/1939-1970” (Mondadori, Milano, 1972), e la completa “Tutte le poesie”, uscita nel 1983 con Mondadori, curata da Oreste Macrì, molte copie della quale vennero mandate al macero, sino alla ripubblicazione della stessa nell’aprile del 1997 da parte della casa editrice salentina Besa. Le poesie di Bodini sono state organizzate da Oreste Macrì secondo un criterio temporale e così appaiono nell'opera omnia da lui curata: a) Poesie edite in vita: La luna dei Borboni e altre poesie (Foglie di tabacco, Altri versi, La luna dei Borboni, Dopo la luna, Via De Angelis, Serie Stazzemese, Appendice) e Metamor; b) Raccolte inedite in vita (Inediti 1954-1961, Zeta 1962-69, La civiltà industriale o poesie ovali 1966-1970, Collage 1969-70); c) Appunti di poesie, residue e sparse (Firenze 1939-40, Lecce 1949-44, Dallo “Zibaldone leccese”, Roma 1944-46, Spagna-Roma-Spagna 1946-1949, LecceBari 1949-1960, Roma-Versilia 1969-70); d) Appendice (Poesie futuriste 1932-33). Sì, perché quella di Vittorio Bodini, è una poesia che passa attraverso tutte le esperienze artistiche novecentesche, dal futurismo all’ermetismo, dal barocco ispanico al surrealismo, dallo spagine

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sperimentalismo tecnologico e industriale all’informale, restando immune e costante nella sua soluzione umana, resistenziale e civile. Bodini esordisce come poeta futurista all’interno della rivista “La voce del Salento”, diretta dal nonno Pietro Marti. A questo periodo si fa risalire un testo poco equivocabile dal titolo A F.T.Martinetti: “Torrente instancabile di Fede Futurista / che Incalzi incendiando ariacquamareterra / al tuo liquido soffio-fuoco crepitanti / d’ammirazione sino ad esasperare se stesse / di passionalità buontempona (VITTORIO BODINI, Tutte le poesie, Besa, Nardò, 1997, p. 219)”. La fede futurista del giovane Bodini è frutto del suo odio lancinante per l’immobilismo genetico che egli attribuisce agli abitanti della sua terra, al quale sostituisce il dinamismo della teoria futurista. Su “Vecchio e Nuovo”, mensile futurista di quegli anni, con il quale Bodini collabora attivamente, scrive un Manifesto ai Pugliesi della Provincia nel quale si legge: “Storicamente vivete come ai tempi dei Borboni. Invece di guardare in uno slancio d’amore meccanico veloce bramoso di possesso in direzione di Sole – Acciaio – Domani, preferite riposarvi d’un lavoro che non fate all’ombra della Magna Grecia, o del periodo Bizantino, o secolo del Dominio Normanno, o francese o spagnolo. Da quasi un secolo i vostri orizzonti sono tutti retrospettivi, ebbene!: dovete riconquistare il tempo perduto (…) Siete piatti e lisci come la vostra regione (ENNIO BONEA, Comi, Bodini, PaMaledetti Salentini

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gano. Proposte di lettura, Manni, Lecce 1998, p. 113)”. Bodini abbandona Lecce e, dopo una permanenza a Roma, si trasferisce a Firenze, dove si laurea in Filosofia, con una tesi sulla Teoria dell’incivilimento in G.G. Romagnosi. A Firenze l’attrazione per gli ermetici e la frequentazione del caffè “Giubbe Rosse”, dove conosce Montale, Luzi, Bo, Landolfi, Bigongiari e Parrochi. Di questo periodo il testo Annotazione, prima di dormire: “Dentro la stanza al buio, quando insonni / galleggian gli occhi a fiore delle tenebre / e mortifica il cuore l’indolenza, / passo intorno al mio corpo le mie braccia / ed ascolto stupito il sangue scorrere / di un essere a me ignoto che à un respiro / così simile al mio (VITTORIO BODINI, op. cit., p. 151)”. L’ermetismo bodiniano, però, va considerato come fase di transizione del suo percorso poetico. Bodini, è vero, si immerge nella poetica della poesia pura, della letteratura intesa come vita, secondo il teorema enunciato da Carlo Bo nel 1938, ma fa propria solamente la lezione linguistica, non ritenendo possibile per un poeta eludere con indifferenza la realtà. Dal 1940 al 1944 Bodini torna a Lecce, nella quale, tra le altre cose, dirige, assieme ad Oreste Macrì, la terza pagina di “Vedetta Mediterranea”, settimanale della federazione fascista di Lecce, nel quale, grazie all’impegno dei due afascisti intellettuali salentini, compaiono testi di Vasco Pratolini, Piero Bigongiari, Vittorio Sereni, Leonardo Sinisgalli e Alfonso Gatto. Nel 1944 Bodini accetta di trasferirsi a Roma dispagine

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venendo il segretario particolare di Meuccio Ruini, segretario generale del partito “Democrazia del lavoro”, sino ad un momento cruciale del suo percorso poetico, ovvero il suo trasferimento a Madrid nel 1946. Dopo sei mesi come lettore d’italiano all’Università, Bodini si adatta a fare vari lavori e, soprattutto, s’impadronisce della lingua, della letteratura, della tradizione spagnola che egli vede riflesse nel barocco salentino. Scrive Ennio Bonea al riguardo: “Bodini aveva compreso, nella esperienza fatta da Firenze in poi, dopo aver acquisito e superata la lezione ermetica della poesia “pura”, che il poeta, l’intellettuale non poteva non essere indifferente, ermeticamente, alla realtà storico-sociale del proprio tempo; ma assorbì la lezione del neo-realismo senza impegnarsi nella militanza e, dopo l’esperienza degli anni ispanosalentini, orientò al gongorismo estetico e formale la istintiva tendenza al barocco e innestò, sulla naturale avversione per la poesia cantata, melodica, l’artifizio iperbolico e l’incuria per la coerenza logica nelle immagini scattate “automaticamente”, come nei poeti spagnoli della “Generazione del ventisette” che egli chiamò surrealisti (ENNIO BONEA, op. cit., p. 97)”. La “Generazione del ventisette” comprende il gruppo di poeti che, a tre secoli dalla morte di Gòngora (1561-1627), si era costituito a Madrid in occasione della messa celebrativa del tricentenario della morte, fissata attraverso la rivista “Carmen” dai poeti Gerardo Diego, Pedro Salinas, DàMaledetti Salentini

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maso Alonso, Federico Garcia Lorca e Rafael Alberti. Essi rivalutano il poeta secentesco per la sua tecnica versificatoria, il suo preziosismo metaforico, rafforzato da un costante uso dell’ellissi e dell’iperbole. I poeti surrealisti spagnoli saranno tradotti da Bodini per Einaudi in un volume pubblicato nel 1963. Bodini, inoltre, è stato il traduttore del “Teatro” di Lorca (Einaudi, 1952), del “Don Chisciotte” di Cervantes (Einaudi, 1957), dei “Sonetti amorosi e morali” di Quevedo (Einaudi, 1965), di “Degli Angeli” di Alberti (Einadudi, 1965), delle “Poesie” di Solinas (Lerici, 1958), del “Ricasso” di Aleixandre (Scheiwiller, 1962) e di “Il Poeta nella strada” ancora di Alberti (Mondadori, 1969). L’esperienza spagnola rappresenta il momento cruciale nella crescita poetica di Bodini. Scrive Oreste Macrì: “Rammento il suo assillo e quasi disperazione per la civiltà magico-rurale e culta barocca (aristocratica ed ecclesiastica) spente o cachettiche e patologiche di Lecce e del Salento, da Santa Croce ai tarantolati. Consentiva, ma era irritato alle interpretazioni logiche e sociologiche del folclore locale, con tutta la stima che aveva per De Martino. Odiava Lecce ma di un odio gelosissimo, filiale, esclusivo. In Spagna gli si esemplarizzò un folclore (in senso lato) vivo e vegeto, non solo nella poesia tradizionale ma nei costumi, feste, giochi, linguaggio quotidiano, pur in quel deserto postbellcio. Naturale e fatale il trasferimento del ricco e fresco modello al proprio miserabile e morto Saspagine

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lento, che subì una sorta di metaforizzazione e sublimazione ispanica come reazione (sincronica) a una Spagna salentinizzata (VITTORIO BODINI, op. cit., p. 30)”. Una volta tornato nella sua terra gli si palesa in tutta la sua atrocità il vero Salento degli anni Cinquanta, caratterizzato da estrema povertà, ai limiti della sopravvivenza. Il risultato creativo è rappresentato da una poesia ricca di immagini e di suggestioni, ermeticamente oscura in alcuni punti, con forti ed inevitabili influenze spagnoleggianti, ma legata ad un luogo ben preciso, il Sud del Sud, lanciato ad inseguire i treni del progresso, ancorato alla tradizione. È il momento di “La luna dei Borboni” (1952): “La luna dei Borboni / col suo viso sfregiato tornerà / sulle case di tufo, sui balconi. / Sbigottiranno il gufo delle Scalze / e i gerani – la pianta dei cornuti -, / e noi, quieti fantasmi, discorreremo / dell’unità d’Italia. // Un cavallo sorcino / camminerà a ritroso sulla pianura (VITTORIO BODINI, op. cit., p. 68)”. O ancora: “Qui non vorrei morire dove vivere / mi tocca, mio paese, / così sgradito da doverti amare; / lento piano dove la luce pare / di carne cruda / e il nespolo va e viene fra noi e l’inverno (VITTORIO BODINI, op. cit., pag. 70)”. Sono gli anni anche della militanza critica della rivista letteraria “L’esperienza poetica”, ideata nel 1954, in collaborazione con Luciano De Rosa, nella quale appaiono versi di Rocco Scotellaro, Leonardo Sinisgalli, Giorgio Caproni, Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto, LuMaledetti Salentini

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ciano Erba, Raffaele Carrieri, Bartolo Cattafi. Ecco come spiega lo stesso Bodini la nascita della rivista: “Passeggiavo con Luciano De Rosa accanto a palazzi e chiese barocche su cui si dibattevano gli ultimi angeli della nostra vita: o che almeno si spacciavano per tali, e sognavamo una rivista non più grande di un francobollo, su cui dare sfogo a un piccolo tesoro di riflessioni e argomenti che svolgevamo in un gesto o una mezza frase, completandoli a mente di tutti i discorsi e le sfumature che avevamo bisogno di fare (VITTORIO BODINI, La cospirazione provinciale, in “L’esperienza poetica”, n. 5-6, genn.-giu. 1955, p.1)”. “L’esperienza poetica” esce sino al settembre del 1956, dando vita ad undici numeri e, soprattutto, suscitando le attenzioni degli addetti ai lavori. Gianni Scalia, recensendola nel 1955 su “Officina” afferma: “L’esperienza poetica, intanto, ci è vicina con la sicura volontà di un discorso insieme libero e impegnativo sulla letteratura, con uno sforzo importante di organizzazione critica e poesia in contemporaneità di esigenze, in coerenza mentale; con un equilibrio difficile e prezioso, anche se a volte insidiato da una misura di estetismo morale e sentimentale di cui si dovrà liberarsi. Per tutto questo la sua presenza è opportuna e ci aiuta a comprendere, senza disordine o eclettismo culturale, la realtà letteraria contemporanea (SILVERIO TOMEO, La prodigiosa finzione, Gino Bleve editore, p. 54)”. E il riferimento alla rivista spagine

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“Officina” non è casuale. Per Bodini la crisi che travaglia la poesia degli anni Cinquanta ha origine nel linguaggio che ha fatto divergere la sua storia da quella degli uomini. La poesia anteriore alla fine della seconda guerra mondiale si è creata un codice linguistico volutamente impenetrabile. La proposta di Bodini, teorizzata in “L’esperienza poetica”, riguarda il totale sovvertimento dei canoni obbligati che hanno caratterizzato il fare poetico, con un profondo intervento sull’abito linguistico che prevede il recupero di tutte le coordinate poetiche, dal sentimento al fantastico, dal reale al magico, escluse nella codificazione del sistema lirico ermetico. Bodini, che come poeta si è formato nell’ambito della scuola ermetica, superandone moduli e temi, indica la nuova via nella sperimentazione. Anche Pasolini, su “Officina”, nel tentativo di delineare gli elementi iterativi della poesia prodotta dopo il 1950 per isolare nuclei non riconducibili alle due definizioni di post-ermetismo e di neorealismo, parla di “tendenze” che “spesso si presentano mescolate (PIER PAOLO PASOLINI, Il neo-sperimentalismo, in “Officina”, 5, febbr.1956, p. 169)” alle quali affibbia l’etichetta di neo-sperimentale. Scrive Armida Marasco, giovane studiosa meridionale scomparsa prematuramente: “Pasolini, Bodini e tanti altri giovani intellettuali di quegli anni, erano il prodotto di una generazione inquieta che aveva subito tensioni profondissime, scatenate da processi di Maledetti Salentini

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smagliature capillari avvenute nel tessuto sociale e quindi obbligata alla riformulazione di nuovi ideologie dalle quali far emergere un nuovo assetto sociale e culturale (ARMIDA MARASCO (a cura di), L’esperienza poetica (1954-1956), Congedo, Galatina, 1980, p. XXIX)”. L’inquietudine in poesia per Bodini si manifesta nell’osare sperimentando. Del 1956 è la raccolta di versi “Dopo la luna”, nella quale Bodini prosegue la linea intrapresa nella precedente raccolta “La luna dei Borboni”, con un’attenzione maggiore nei confronti del paesaggio umano che abita il suo Sud: “Siamo nati dicendo “a priori” nel fondo / delle case, senza neanche confessare / la sorpresa di un pianto nuovo, / e ci è destinato rimpiangere / fin le cose che abbiamo / qui, vicino, come fossero / miglia e miglia remote (VITTORIO BODINI, op. cit., p. 82)”. Inoltre, costante e ossessiva è la comparsa della luna come oggetto poetico da cantare: “Chiudi le mani a pugno / o luna sull’asfalto; / lasciaci indovinare dove hai nascosto / la moneta d’oro ( VITTORIO BODINI, op. cit. p.81)”. La presenza della luna è in tutte le raccolte e le età di Bodini, con un inevitabile riecheggiamento della luna cantata dal Leopardi: “È luna bambina, luna lumaca, è conchiglia lunare, è luna dei Borboni col ghigno sfigurato, ha i capelli corti ed è ghiotta d’angurie, è amica dell’allodola, nel sole di maggio è mezzaluna pigra (SILVERIO TOMEO, op. cit., p. 25)”. La ritroviamo già in “Foglie di tabacco”, spagine

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silloge poetica che raccoglie testi che vanno dal 1945 al 1947 (“Ma tu, luna, le incognite finestre/ illumini del Nord, / mentre noi qui parliamo, / nel fondo di quest’esule provincia / ove di te solo la nuca appare (VITTORIO BODINI, op. cit., p. 64)”) e la ritroviamo oltre vent’anni dopo, in un testo dal titolo Per un volo nei pressi della luna del 1968 (“Vedi la luna rider della luna (…) / Vedi la perfezione dei congegni spaziali / con cui i figli dei profeti / ruban ruote di scorta al sogno / Vedi la guerra partorire guerre / la luna calva e grigia / le bare che si nutrono in anticipo dei pensieri dei vivi (VITTORIO BODINI, op. cit., p. 132)”). Si è fatto cenno ad un testo di Bodini del 1968. Gli anni Sessanta, appunto, gli anni nei quali Bodini abbandona definitivamente il suo Salento. Nel 1961 Bodini fugge da Lecce per recarsi a Roma e questa volta definitivamente. Nel 1967 pubblicata la raccolta “Metamor” che comprende le poesie scritte tra il 1962 e il 1966. “Metamor” si apre con una nota di inquietudine e tristezza in Conosco appena le mani: “Ma gli anni? Dove son gli anni, / e tutti i libri che ho letto? (…) / Tutto nella memoria / cade a pezzi, sprofonda / senza rumore / nelle botole dei morti (VITTORIO BODINI, op. cit., p. 101)”. Bodini ripercorre con un sentimento di nostalgico rimpianto il passato e le esperienze vissute, ricercandone il senso. Bodini sembra quasi cominciare ad accettare la “civiltà industriale” che verrà cantata nelle “La civiltà industriale o poesie ovali” pubblicate dopo la Maledetti Salentini

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sua morte: “presi nelle spire del boom ne gustiamo anche noi / gli alti palazzi e le piante nane / piume serpenti chiomati sotterfugi intimi (VITTORIO BODINI, op. cit., p.101)”. Ma nei versi di Bodini non c’è mai resa. Emerge piuttosto un atteggiamento ironico tramite il quale mostrare poeticamente le piaghe di tempo presente che non condivide. L’itinerario della poesia bodoniana parte dalla civiltà contadina, con le raccolte “La luna dei Borboni” e “Dopo la luna” e si conclude con “La civiltà industriale o poesie ovali”. Un tragitto che potrebbe apparire incoerente. Scrive Bonea: “Nel cammino, però, restò legato sempre alla concretezza dell’esistere e raccolse dalle situazioni-circostanze contingenti il dato da tradurre simbolicamente, come Duchamp sapeva estrarlo da un materiale degradato, una ruota vecchia di bicicletta ad esempio, in segno artistico (ENNIO BONEA, op. cit., p. 114)”. Sei mesi prima della morte, nel giugno del 1970, Bodini scrive la poesia Rapporto del consumo industriale, con un titolo da relazione confindustriale, ennesima testimonianza della capacità del poeta di osare e sperimentare senza appartenere a nessuna militanza avanguardistica: “Dov’eran anfiteatri d’uve dizionari d’ombre / si alzano nidi di plastica di cemento di calcoli di gettata / e tra pungoli e gemiti di notti senza fiori / il numero nemico della bellezza / coordina coiti prolifici che assicurano all’industria / un più grande mercato di consuma spagine

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tori (VITTORIO BODINI, op. cit., p. 138)”. ed ecco l’insegnamento ultimo che Bodini ci lascia: attraverso lo strumento della poesia, “struggente inchiesta sulla verità dell’essere”, il poeta salentino afferma il concetto che l’uomo, sui campi o nelle officine, è sempre vittima di soprusi e oppressioni. Un messaggio pessimistico, senza però essere arrendevole, e che, a oltre trent’anni dalla scomparsa del poeta, avvenuta nel dicembre del 1970, continua ad essere profondamente attuale. Pubblicato in Nuovi Argomenti Numero 32 (ottobre-dicembre 2005)

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Vittorio Pagano nell’analisi di Nicola Carducci Non avrete di me che la domanda più subdola della morte, il mio verso che gioca con la morte la mia tresca di morte per mistero, ed è certa una gloria dell’opaca lapide in cui diventerò scrittura cabala di me stesso Vittorio Pagano, da Morte per mistero, “Il Critone”, 1963 Proiettandosi nell’occhio delle vedute critiche di Nicola Carducci diviene meno complicato scontrarsi con alcune delle personalità più irresolute del panorama scritturale salentino. A Nicola Carducci si deve una delle letture più attente della poetica sperimentale dello scrittore di Caprarica Antonio Verri. Allo stesso Carducci si deve una lucida e attenta analisi dell’opera stratificata del dimenticato poeta leccese Vittorio Pagano, grazie ad un testo dal titolo Vittorio Pagano, l’intellettuale e il poeta, edito dalla casa editrice leccese Pensa Multimedia. Chi è Nicola Carducci? La cosa interessante è che non appartiene a quel nucleo accademico impettito e monocolore al quale sono legati i successi critici di Girolamo Comi e Vittorio Bodini. Carducci ha insegnato Lettere italiane e latine nel Liceo classico “G.Palmieri” di Lecce sino al luglio 1990. Ha collaborato e collaMaledetti Salentini

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bora alle pagine culturali di vari giornali, anche di area nazionale, e a riviste letterarie. Ha compilato voci su dantisti dal Cinque al Novecento per l’Enciclopedia Dantesca e su Autori moderni e contemporanei per l’Enciclopedia di scienze e Arti, diretta da Antonino Pagliaro (Fabbri Editori). Ha pubblicato saggi su Giaime Pintor (1965) e su Francesco Antonio Astore (1987), l’indagine critica su Gli intellettuali e l’ideologia americana nell’Italia letteraria degli anni trenta (1973), una monografia su Francesco Jovine (1977-1986), l’ampia raccolta Tra letteratura e ideologia: ricognizioni critiche (1999), una Storia intellettuale di Carlo Levi (1999) e l’articolato intervento investigativo su L’utopia letteraria dell’umanesimo perenne (2003). Della sua scrittura critica ciò che emerge è l’impianto razionale tramite il quale riesce a penetrare negli ispidi ingranaggi di molta poesia “oscura”, dispiegandone i velati significati attraverso un linguaggio dotto, ma mai criptico, immelmato di citazioni, senza, però, mai suscitare cattivi odori. Nella rilettura dell’opera di Vittorio Pagano, in prosa e in versi, Carducci mira a ridiscutere e approfondire i nuclei critici più controversi del minimale discorso esegetico tenuto su di essa, soffermandosi su alcuni nuclei concettuali: la natura dell’ermetismo del poeta Pagano, da Carducci, inteso in chiave psicologica e non meramente letteraria; il suo blaterato maledettismo, inteso non comemo dus vivendi et cogitandi, ma quale compospagine

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nente poetica fra le altre; la ragione ideologica alla base dell’ intensa attività traduttoria dal francese di Pagano; il rapporto teoria estetica e creatività nella coscienza operativa del poeta; il nesso dialettico tra irrequietezza esistenziale e sua sublimazione artisitica; l’interferenza dell’impegno etico-politico dell’intellettuale, esplicito o sotteso, nella ragione letteraria della poesia; l’ingerenza del pensiero riflesso nella genesi emotiva della espressività. Dell’analisi condotta da Carducci risalta un profilo più compiuto e verace, pur nella sua contraddittoria complessità, del Pagano intellettuale non allineato e poeta incisivo. L’operazione di Carducci, d’altro canto, non può essere considerata esaustiva, se si pensa che di Pagano non si ha una edizione critica di tutta la sua produzione poetica, ricordiamo, uscita per intero con le edizioni de “Il Critone”. A completare il testo di Carducci un’appendice con quattro poemetti inediti di Pagano di matrice biblica, Scena per Betsabea, Numero per Giuseppe, Anabasi a Maria e Notizia di Lazzaro. Pubblicato in Musicaos.it - aprile 2005

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Salvatore Toma ed Einaudi, rinasce un amore Dopo la raccolta delle firme, partita da Maglie, ma diffusasi in altri paesi e città del Salento e d’Italia, “Il Canzoniere della Morte” di Salvatore Toma è stato ristampato dalla casa editrice torinese dell’Einaudi. Salvatore Toma, nato a Maglie nel 1951, è morto all’età di trentasei anni nel 1987, a causa di problemi d’alcolismo. Toma è stato uno dei principali esponenti, assieme ad Antonio Verri, dell’avanguardia poetica salentina cominciata alla fine degli anni ’70 e protrattasi per tutto il decennio successivo. Da ragazzo aveva frequentato il liceo classico “Capece”, ma senza completare il ciclo di studi. Ben sei sono statele raccolte di poesia pubblicate tra il 1970 e il 1983: “Poesie”, “Ad esempio una vacanza”, “Poesie scelte”, “Un anno in sospeso”, “Ancora un anno” e “Forse ci siamo”. La fama di Salvatore Toma, però, ha ricevuto una sorta di consacrazione dal lavoro di Maria Corti, notissima filologa, che nel 1999 curò per Einaudi, appunto, la raccolta postuma “Il Canzoniere della Morte”. Il titolo richiama alla mente la costante presenza nell’autore si un pensiero, di un’ossessione, di un proposito: il suicidio come mezzo per squarciare le ombre e ricongiungersi con l’eterno. Toma, però, non si suicidò, come la Corti ha affermato nell’introduzione alla raccolta, preferì piuttosto lasciarsi morire, per ché voleva provare quel brivido della sfida Maledetti Salentini

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alla morte. L’interessante operazione culturale, in grado di estendere la conoscenza della poesia dello scrittore magliese oltre i confini salentini, si scontra con i limiti di una logica editoriale che ha messo fuori catalogo il testo, poco tempo dopo la sua pubblicazione. Eppure i testi poetici dell’Einaudi escono con una tiratura minima di tremila copie, raggiungendo le cinquemila copie quando a pubblicare sono autori come Alda Merini, Patrizia Valduga, Cesare Viviani. Risulta improbabile che uno scrittore sconosciuto al resto d’Italia potesse avere venduto un simile numero di copie. Il mistero s’infittisce. Le librerie, nonostante le richieste, non ricevono più dalle catene distributrici il testo. Chi è riuscito ad acquistare il libro subito dopo la sua pubblicazione può ritenersi un privilegiato. Si cerca di correre ai ripari. Una delle case editrici più interessanti del territorio, la Manni, chiede all’Einaudi la possibilità di acquistare i diritti del libro, accontentando così, le pressanti richieste di un numero cospicuo di lettori. L’Einaudi non accetta tale richiesta. Nel corso del 2003 parte da Maglie, paese natale dello scrittore, una raccolta di firme da presentare alla casa editrice torinese, volta alla richiesta della ripubblicazione di “Il Canzoniere della Morte”. La raccolta di firme si espande a macchia d’olio, toccando vari centri del Salento, ma raggiungendo altre zone d’Italia. A Como, un nucleo di intellettuali, capeggiati dal giornalista Pietro Berra, allievo di Maria spagine

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Corti, si batte per la “causa Toma”, raccogliendo un numero non indifferente di adesioni. L’Einaudi non poteva non rispondere a questa piccola sollevazione popolare che da Maglie attraversava l’intera penisola per raggiungere Como. Il resto della storia è nota. L’Einaudi ha ripubblicato “Il Canzoniere della Morte”. Le ragioni del ritiro del testo dal catalogo ufficiale della casa editrice restano oscure, c’è chi afferma che il testo sia stato stampato in una tiratura limitata, poiché l’Einaudi non si aspettava un simile successo, o addirittura che un tot di copie in magazzino siano state mandata al macero. Non sarebbe una novità per i poeti salentini, anche molte copie della raccolta di Vittorio Bodini uscita per Mondadori sono improvvisamente scomparse dai magazzini della casa editrice. Al di là di tutte le dietrologie fumose dell’editoria nazionale, ciò che ora importa è essersi impossessati nuovamente di una delle perle poetiche del ‘900 letterario salentino. Diventa necessario, a questo punto, portare il testo alla conoscenza di un pubblico di lettori più ampio. La città di Maglie ha vinto la sua battaglia. I versi di Salvatore Toma continueranno ad echeggiare nelle nostre menti e i suoi testi a brillare nelle nostre librerie. Apparso in Nuovo Quotidiano di Puglia 22 luglio 2005

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Il libro migliore di Salvatore Toma Sono passati vent’anni dalla morte di Salvatore Toma, poeta pugliese (di Maglie, paese della provincia di Lecce) morto tragicamente all’età di 36 anni nel 1987. Toma ha ottenuta una discreta celebrità postuma, grazie all’interessamento di Maria Corti, che curò il “Canzoniere della morte”, una sorta di best of, pubblicato da Einaudi nel 1999. Molti dei testi più validi presenti nella raccolta curata dalla Corti appartengono ad un volume, “Ancora un anno”, uscito una prima volta nel 1981, edito da Capone, ed ora ripubblicato dallo stesso editore, in occasione del ventennale della morte del poeta. Presenti in questo volume gli elementi topici della poetica di Toma, l’esaltazione della natura, contro le immani catastrofi dell’umanità, la continua lotta tra reale e sogno e il dialogo ossessivo tra vita e morte, dove quest’ultima non rappresenta la naturale conclusione della vita, ma la sua esaltazione, “una sorta di energia reattiva che fa coagulare e filtrare la vita nell’alambicco dell’esistenza”, come scritto da Donato Valli nell’introduzione al testo: “a creare progettare ed approvare / la propria morte ci vuol coraggio! / ci vuole il tempo / che a voi fa paura. / Farsi fuori è un modo di vivere / finalmente a modo proprio / a modo vero”. Toma, in vita, non ebbe rapporti semplici con l’editoria che contava. Tutte le sue raccolte, infatti, sono state pubblicate da piccoli edispagine

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Su Salvatore Toma

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tori. Scrive Maurizio Nocera, nella pagina di presentazione di questa nuova edizione di “Ancora un anno”: “La silloge “Ancora un anno” fu per Toma uno dei suoi libri dal percorso più difficile. Non si trovava modo di farlo pubblicare. Venne rifiutato praticamente da tutti gli editori ai quali Totò lo inviò. Per di più ci fu qualcuno, come ad esempio Maurizio Cucchi, all’epoca responsabile della collana poetica della Mondatori che non solo lo osteggiò ma trovò modo di rispondere al poeta in modo alquanto sgarbato”. Toma è stato un poeta discontinuo. Alternava poesie di grande valore immaginifico, pure perle liriche, a testi poco efficaci. Siamo certi che il rifiuto di Cucchi sia legato a logiche estetiche e non “territoriali”. Ciò che è vero è che Maria Corti dovette far passare per suicida per riuscire a pubblicarlo postumo da Einaudi. Venne, invece, stroncato da una cirrosi epatica: “Anche da morto / io sarò un ribelle / uno strano tipo / giacché non c’è altro modo / oltre la morte / di curare i rimorsi i dispiaceri / la noia dei soprusi / le bruttezze le violenze / i capogiri della vita. / Mi sentirò bene anche da morto / e puro e semplice e ribelle”. Apparso in Nuovo Quotidiano di Puglia 2 giugno 2007

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Antonio Verri: Postmodern/Postmortem o le ragioni di una scelta Introduzione Antonio Verri, autore difficile, magmatico, barocco, costruttore di una sintassi volteggiante, inclusiva, generativa, mai lineare, mai scontata, mai semplicistica, sempre ricercata, analizzata, sino allo sfinimento, sino alla consunzione delle possibilità linguistiche esistenti, amante del neologismo sfinterico, ossia organico, per la necessità vitale di costruire un mondo possibile alternativo, fatto di grafemi, fonemi, lessemi (parti minimi della struttura linguistica) dotati di una loro autonomia nel testo, in grado di produrre, nel consueto percorso di lettura orizzontale, semantiche diverse, polisemie arabesche, attraenti, perverse. Credo che ci sia della perversione nella scrittura di Antonio Verri, perversione non nell’atto della ricezione del testo da parte dei lettori, ma nel gesto produttivo dell’opera. Verri è perverso perché, amante carnale della parola, la spoglia e la denuda, l’accarezza per poi implorarla, la fotte e poi la bacia, per arrivare poi alla totale immersione nel progetto infinito, impossibile, ma per la stessa ragione attraente, indeclinabile: lavorare al Declaro, progetto editoriale in grado di raccogliere tutte i suoni, le suggestioni, le armonie, le storture dell’esistere in un unico libro. Maledetti Salentini

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Su Antonio Verri

Il progetto mefistofelico del mondo in un libro. Questo vuole essere un breve viaggio nella scrittura perversa (per le ragioni sopra indicate) dell’autore che ha smosso le acque stantie della letteratura salentina nel corso di quasi un ventennio, a partire dalla fine degli anni ’70, per arrivare al 1993, anno della morte dello scrittore. Antonio Verri ha saputo ridare linfa ad un clima culturale che versava ancora lacrime sulla tomba di Vittorio Bodini, spentosi nel 1970. Verri ha preso per mano una generazione e l’ha condotta verso le contorte strade della sperimentazione letteraria, raggiungendo degli esiti sorprendenti, ma criticamente irrisolti. Perché parlare di Verri oggi, a oltre dieci anni dalla sua morte, è parlare di un insieme di meccanismi nascosti che vogliono elidere la figura dello stesso scrittore. L’elisione non va vista necessariamente come volontà, ma come conseguenza che nasce dall’indifferenza della critica nei confronti di Verri. La critica alla quale faccio riferimento è quella accademica, quella formatasi nell’ateneo salentino, quella di docenti e ricercatori che ha garantito la sopravvivenza testuale del cattolicesimo in versi di Girolamo Comi, del surrealismo di matrice iberica di Vittorio Bodini e, in parte, del simbolismo colto, intarsiato in struttura strofiche appartenenti alla tradizione, di Vittorio Pagano. Per gli autori che hanno operato alla fine spagine

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Su Antonio Verri

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degli anni ’70 e per tutto il decennio successivo, nessuno ha mosso una penna, o, almeno nessuno ha costruito un progetto organico di ricerca. Salvatore Toma, scrittore di Maglie, stroncato dalla sua dipendenza dall’alcol nel 1987, all’età di 36 anni, ha dovuto attendere dopo la morte la sua consacrazione artistica, grazie al lavoro di Maria Corti, la quale ha curato la pubblicazione del “Canzoniere della morte”, uscito nella preziosa collezione bianca dell’Einaudi. Per Antonio Verri, ripeto, poco o nulla è stato fatto nell’ambito della ricerca. Si sono susseguite operazioni editoriali, curate da amici di vita, volte a tenere desto il ricordo dello scrittore, a non attecchirlo definitivamente, ma quella di Verri è una scrittura difficile, che ha bisogno di un apparato esegetico e filologico costante, e che nessuno, a oltre dieci anni dalla morte, ha avuto il coraggio di intraprendere. La critica militante, quella che si muove nei binari fascinosi e contorte dei quotidiani, delle riviste, delle pubblicazione a tiratura limitata di brevi saggi, non è stata a guardare, ma non possiamo ritenerci soddisfatti, questo non può bastare. Le ragioni di questa scelta, di questo breve viaggio nella scrittura di Antonio Verri, sono provocatorie, ossia, vogliono mettere in subbuglio le certezze del mondo accademico nostrano, farlo vacillare mostrando la forza primigenia dello scrittore più originale del Novecento letterario salentino. Maledetti Salentini

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1. Biografia letteraria ad uso e consumo dei neofiti Antonio Verri è nato nel febbraio del 1949 ed è scomparso prematuramente il 9 maggio 1993, a causa di un incidente stradale. Ha vissuto gran parte della sua vita a Caprarica di Lecce, paesino abitato da poche migliaia di anime, centro propulsore dell’infinita potenzialità creativa dello scrittore. Negli anni che vanno dal 1977 al 1993 Verri ha dato vita ad una produzione spropositata di progetti letterari, sul quale ci soffermeremo per comprendere le caratteristiche fondamentali della sua vita artistica. Ha fondato e diretto le riviste Caffè Greco (1979-1981), Pensionante de’ Saraceni (1982-1986), Quotidiano dei Poeti (1989-1992, dal maggio 1991 si interseca con un’altra testata, Ballyhoo-Quotidiano di comunicazione), ripubblicato nel 2003 dall’Associazione Culturale Ernesto de Martino. Ha organizzato due edizioni di una mostra mercato di poesia pugliese, Al banco di Caffè Greco. Ha allestito un dramma radiofonico alla Rai di Bari, ha dato vita ad una prima mostra/lettura su Joyce e Queneau e ad una seconda Scrap, gioco scrittura con scarti tipografici. Ha aderito al Movimento Genetico di Francesco Saverio Dòdaro, ha collaborato con Sudpuglia(1986-1993) e diretto On Board (1990) e Titivillus (19911992), che dal settembre 1992 diventerà di altri. Ha curato tutte le attività legate al Centro Culturale Pensionante de’ Saraceni. Inolspagine

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tre, ha curato le collane I quaderni del Pensionante (1983-1987), Spagine. Scrittura Infinita (1991), Compact Type. Nuova Narrativa (1990), Diapositive. Scritture per gli schermi (1990), Mail Fiction (1991),con la collaborazione di F.S.Dòdaro, Abitudini. Cartelle d’autore (1988-1990), con Maurizio Nocera e I Mascheroni (1990-1992). Tra queste operazioni editoriali un cenno particolare merita Ballyhoo – Quotidiano di comunicazione. Il Quotidiano, stampato a Maglie, la mattina veniva diffuso nelle più importanti città italiane, con un marchingegno di trasporti inventato dallo stesso Verri, attraverso una serie di collaboratori strategici nei capoluoghi di regione. Questa rappresenta una delle più grandi performance a cui dà vita Verri, che per ben dodici giorni riesce a mantenere in piedi, facendo parlare di questa sua impresa non solo la stampa locale, ma anche quella nazionale. Altra operazione culturale degna di interesse, sopra non citata, è Ballyhoo-Letterature (Declaro), del 1992, una sorta di brogliaccio composto, stampato, fotocopiato, disegnato da Verri assieme a Mauro Marino e Maurizio Nocera. Il lavoro redazionale viene svolto a Lecce, presso il teatro Astragali, pubblicato in 200 esemplari. Verri riesce ad inserire in questo brogliaccio tutto l’elenco dei suoi amici artisti, in tutto 163. Ciò che emerge da questo elenco di riviste, collane e operazioni infinite è che per quindici anni il monopolio della cultura underground è passata dalle mani di AnMaledetti Salentini

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tonio Verri, il quale si è circondato di una serie di artisti il cui sostegno era fondamentale, Antonio Errico, Fabio Tolledi, Francesco Saverio Dòdaro, Cosimo Colazzo, Salvatore Colazzo, Maurizio Nocera, Fernando Bevilacqua. Ciò che probabilmente mancava era il confronto, la discussione redazionale, il dibattito teorico, la stesura di manifesti, l’elaborazione di una poetica, quello che determina la creazione di un’avanguardia. Non si può quindi parlare di avanguardia letteraria per la generazione di scrittori formatasi nel Salento negli anni Ottanta, ma non per ragioni legate ad incapacità di Verri e compagni, ma perché il contesto storico-culturale non era lo stesso di quello che ha dato vita, per esempio, al Gruppo 63. Ecco cosa scrive Umberto Eco nelle Postille a Il nome della rosa: “Arriva il momento che l’avanguardia (il moderno) non può più andare oltre, perché ha ormai prodotto un metalinguaggio che parla dei suoi impossibili testi (l’arte concettuale). La risposta postmoderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato”. Si è citato Eco perché da qui bisogna partire per comprendere la letteratura di Antonio Verri. Verri è autore perfettamente inquadrato nel filone del postmodernismo letterario italiano, quello visto con sospetto dalla nostra critica accademica, che ha avuto negli anni ottanta i spagine

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suoi elementi migliori, e Verri è autore anni ottanta, tra cui Umberto Eco, l’ultimo Italo Calvino, Antonio Tabucchi, Pier Vittorio Tondelli e Vincenzo Consolo (autore amato oltremodo dallo scrittore di Caprarica). Quando si parla di letteratura postmoderna si fa riferimento a quella letteratura che fa della citazione, dei giochi intertestuali, del pastiche linguistico e stilistico i suoi elementi fondanti, ossia a quella letteratura che considera il patrimonio letterario e culturale in genere patrimonio al quale attingere senza remore. Verri è autore postmoderno perché la sua scrittura più dirompente, quella per intenderci che parte con La Betissa (1987), per poi continuare con I trofei della città di Guisnes (1988), Il naviglio innocente (1990), e conclusasi con il postumo Bucherer l’orologiaio (1995), dialoga continuamente con gli autori amati dallo scrittore di Caprarica, a partire da Vittorio Bodini, Salvatore Toma e il pittore Edoardo De Candia, sino ad arrivare ad Elio Vittorini, Carlo Emilio Gadda, Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Samuel Beckett, Walter Benjamin, John Cage, e soprattutto i “suoi” James Joyce e Raymond Queneau (solo per rimanere nell’ambito delle citazioni, ricordiamo che Stefan è il protagonista di quasi tutti i testi di Verri e Stefan è personaggio joyciano dell’Ulisse, o ancora Ulipo è il nome del gatto presente ne Il naviglio innocente e Oulipò è l’officina di letteratura potenziale fondata da Queneau, ma si continuerà in seguito). Senza la conoscenza e l’amore per questi auMaledetti Salentini

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tori, Queneau in primis, Verri non avrebbe raggiunto gli esiti brillanti, poetici ed originali della sua scrittura e non avrebbe osato sfidare le leggi della letteratura sognando di scrivere il libro infinito, il Declaro appunto, il suo mondo fatto di parole. 2. L’esordio poetico di Verri, un surreale neocrepuscolarismo Tra le operazioni culturali effettuate dopo la scomparsa di Antonio L. Verri, la più interessante, a mio parere, è stata la ripubblicazione di Il pane sotto la neve, nel maggio 2003, curata da Maurizio Nocera, ad opera della casa editrice Kurumuny, diretta da Luigi Chiriatti, a vent’anni di distanza dalla prima uscita del testo con la casa editrice dello stesso Verri, Il pensionante de’ Saraceni. Il pane sotto la neve raccoglie testi poetici scritti da Verri negli anni che vanno dal 1977 al 1982, anni di grande difficoltà per il Mezzogiorno e per il Salento, a causa della loro condizione di profonda emarginazione economica e sociale. Verri, nei suoi versi, cerca un recupero del passato, un rigoroso recupero delle sue radici, come dimostra la prima lirica, dedicata a Carmelo Bene, dove lo scrittore ci offre una Otranto che genera meraviglia: Otranto ha gustosissimi grumi di neve un lungo discorrere della memoria vuota silenzio invernale della mia mano bianca di turco spolpato. spagine

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Poi la silloge continua con i testi appartenenti alla sezione Stefan, alter ego di Verri di matrice joyciana, che lo accompagnerà per tutta la sua esistenza creativa (con testi scritti nel biennio 1981-1982), dove al recupero di un passato storico si accosta la ricerca di una dimensione individuale da far riemergere. Esiste in questa prima sezione del testo una particolare ebbrezza ed un piacere dell’enumerazione (necessaria per ricostruire analiticamente il suo passato) che lega Verri alla tradizione sperimentale di autori dalla grande perizia tecnica del nostro Novecento (basti pensare al correlativo oggettivo di T.S.Eliot). Ci sono testi dal grande impatto emotivo, come (per Roberta a Bologna) e (per Franco Gelli), e c’è anche l’energia e il furore poetico dell’indimenticabile Fate fogli di poesia, poeti, il testo che più rappresenta la tenacia del Verri scrittore, la sua ferrea volontà di non arrendersi di fronte a nessun potere intenzionato a fermare la sua azione creativa: Spedite fogli di poesia, poeti dateli in cambio di poche lire insultate il damerino, l’accademico borioso la distinzione delle sue idee la sua lunga morte, fatevi dare un teatro, un qualcosa raccontateci le cose più idiote svestitevi, ubriacatevi, pisciate all’angolo del locale combinate poi anche un manifesto cannibale nell’oscurità. Maledetti Salentini

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Ma non è quello del Fate fogli di poesia, poeti il tono dominante del testo, poiché ne Il pane sotto la neve Antonio L. Verri è soprattutto meditativo, nostalgico, chiuso in se stesso, come dimostra la seconda sezione Micisca! (testi del 1980-1981) e come dimostrano questi versi: Ecco. Adesso riposo nelle urne a vetro nel mare avvolto nel manto del diniego con gli occhi ormai lune vuote perdute senza terra. Ad avvalorare questa tesi di un Verri a tratti neocrepuscolare, come il Giudici di La vita in versi, è la quarta sezione del testo, dopo le sette poesie di Dov’è Samarcanda, che dà, inoltre, il titolo alla raccolta, Il pane sotto la neve appunto, con un poema di 110 versi dedicati a Vittorio Bodini. Ad accomunare Verri e Bodini è quella profonda riflessione nata dal rapporto conflittuale con la propria terra “così amata da doverla odiare”, è quell’intima convinzione che la ricerca di una propria condizione di serenità va cercata oltre i propri confini che sembrano a volte strazianti e opprimenti: Sto con te, lo sai, e col tuo vecchio cuore di contadina ma cerco, e devo cercare ancora madre, continuamente modi nuovi o parole di sangue. Tu, se vuoi, pensa pure a linguette di rosso pomodoro o ai tuoi rossi tramonti di giovane sposa. spagine

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Proprio questa dimensione della ricerca su se stesso, che un Antonio L. Verri ancora giovane compie lungo le liriche di Il pane sotto la neve, rende questo testo una dei migliori libri di poesia del Novecento salentino, assieme alla Luna dei Borboni di Vittorio Bodini, ad Ancora un anno di Salvatore Toma (alcune liriche poi confluite nell’antologia einaudiana Canzoniere della morte) e al folle e divino poemetto Inferno minore della poetessa Claudia Ruggeri, morta suicida all’età di 29 anni, nell’ottobre 1996, pubblicato per intero nel numero 39-40 del dicembre 1996 dell’Incantiere, giornale di poesia a cura di Walter Vergallo e Arrigo Colombo. 3. Il fabbricante d’armonia, sfidare la storia per raccontarsi poeticamente Dopo Il pane sotto la neve, anche Il fabbricante d’armonia: Antonio Galateo, pubblicato nel 1985 con la Erreci di Maglie, è stato anch’esso ripubblicato dalla casa editrice Kurumuny nel 2004. Il testo in questione era stato parzialmente utilizzato da Verri, poiché trasmesso dalla Rai di Bari nei mesi di aprile e maggio del 1985, con un adattamento di Antonio De Carlo e la regia di Giandomenico Vaccari. In seguito, Antonio Verri riprese quel testo, lo ripropose, lo ampliò, attraverso l’aggiunta di monologhi e molte varianti. Il fabbricante d’armonia ha come figura centrale quella dello studioso salentino del ‘500 Maledetti Salentini

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Antonio De Ferraris, detto il Galateo, perché originario di Galatone. La storia del Galateo, della sua cacciata da Napoli, poiché accusato di essere stato amico dei Saraceni ad Otranto, la crisi dello stesso studioso, il suo ritorno in patria dopo la permanenza a Bari nella corte della duchessa Isabella d’Aragona Sforza, in realtà rappresentano tutti espedienti tramite i quali lo scrittore vuol mettere a nudo se stesso, la sua fragilità, a tratti, la sua disperazione. E lo fa attraverso il gioco intellettualistico del ritrovamento nel 1980, da parte di due eruditi, Cesare ed Alberto, di manoscritti in un convento di Martano, autografi di Mauro Cassoni (personaggio realmente esistito, profondo conoscitore della lingua e della tradizioni grecaniche salentine, morto a Lecce nel 1952) che riguardano Antonio De Ferrariis e ne narrano, alla luce delle sue opere, un probabile momento della sua travagliata esistenza. Dietro questa costruzione, degna delle migliori menti del postmoderno italiano, basti pensare ai giochi intertestuali presenti nei romanzi di Umberto Eco e Antonio Tabucchi, emerge una personale visione verriana del massacro otrantino del 1480: “Dietro questo tipo di accuse non c’è mai accusatore, il volto di uno, il corpo di uno. Dietro queste accuse trovi sempre la retorica più banale, una violenza sottile, indistinta, una crudeltà così ben studiata da fare di te l’uomo più meschino e corrotto che ci possa essere… È ver, sono stato con i Turchi in Otranto. Ma che vuol dire? Spesso sedevo al loro taspagine

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volo, affascinato dalle loro storie di donne, dai loro costumi, dai loro racconti, dalla loro stessa mezzaluna… Quanto sanno che proprio i Tur chi hanno fatto di tutto per non attaccare Otranto? Quanti riescono a capire quali tortuose promesse di una vita di altri regni hanno spinto gli Otrantini, che amavano la vita, alla voluttà del martirio, allo sprofondare nel nulla!”. Scrive Nicola Carducci su Il fabbricante d’armonia: “ La ripubblicazione di questo testo è stata promossa dall’Istituto Diego Carpitella e curata da un comitato scientifico composta da Aldo Bello, Luigi Chiriatti, Eugenio Imbriani, Maurizio Nocera e Sergio Torsello. La costituzione di un comitato scientifico potrà aiutare la diffusione capillare dell’opera di Verri? Ciò che è certo è che sarà necessario migliorare il lavoro di correzione delle bozze, poiché Il fabbricante d’armonia è pieno di refusi e errori d’impaginazione, non presenti nella prima edizione del 1985, e fondamentale sarà avere una distribuzione nazionale dei suoi testi, senza i quali Verri continuerà ad essere un autore di nicchia. 4. Da La cultura dei tao a La Betissa, l’adesione al femminile nella maturità scritturale di Verri A Il fabbricante d’armonia segue un piccolo testo, La cultura dei tao. Si tratta di una introduzione ad una mostra sulla cultura maMaledetti Salentini

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teriale della civiltà cittadina curata da Antonio Verri per conto di un istituto regionale pugliese. Scrive Fabio Tolledi sul terzo numero del periodico di Vertigine, interamente dedicato ad Antonio Verri: “L’apertura de La cultura dei tao (quasi da omaggio leopardiano, “era ancora luna chiara di gennaio, giovane luna”) vive uno slittamento linguistico immediato dove il parlante sembra richiamare una identità femminile: “Voi figli uscivate coi pantaloni gonfi di fichi secchi”. Nelle righe successive è chiaro che la madre parla, la madre è il cuore che pulsa. “La madre. La mar. Sussulto genetico”. Il testo si inserisce nello stesso periodo in cui Verri aderisce al gruppo di arte genetica di Francesco Saverio Dòdaro. Anche il gusto linguistico richiama Dòdaro, la radice semantica del materno è insomma qualcosa di forte che segna un passaggio alla maturità linguistica e poetica di Antonio Verri. Maturità che segna un passaggio anche da un punto di vista contenutistico, di slittamento dal segno del padre ne Il pane sotto la neve e ne Il fabbricante d’armonia ad una totale adesione al materno e al femminile”. L’adesione al materno per Verri rappresenta la voglia di oltrepassare le forme chiuse della letteratura dei “padri”, rappresenta il tentativo di violentare l’immacolata forma chiusa del dire passatista, introducendo il passo “sovversivo” della sua scrittura poetica, il taglio “rivoluzionario” della sua progettualità stilistica onnivora. La Betissa, storia composita dell’uomo dei curli spagine

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e di una grassa signora è un testo poetico uscito nel marzo 1987 all’interno della rassegna trimestrale della Banca Popolare Sud Puglia. Rispetto alle precedenti opere ciò che emerge con ostinata evidenza è la volontà dell’autore di fare della sua scrittura un calderone dalle immense proporzioni simboliche. L’abbandono del gioco metonimico e sintagmatico rappresenta il tendere dell’autore verso uno slancio scritturale metaforico, paradigmatico, profondamente e inequivocabilmente poetico. La Betissa è un testo costituito da diciotto capitoli. Esiste una microstoria che diviene esile filo conduttore del testo, quella del tentativo da parte di una delle voci narranti di costruire un trabiccolo in grado di proiettarsi verso il cielo. Il trabiccolo di La Betissa altro non è che il tentativo di Verri dello scrittore di dominare lo strumento linguistico dentro il quale molto spesso si immerge, senza riuscire a dominarlo. Per Verri le parole sono ossessione incontenibile, sono orgasmo dal quale trarre infinito piacere, sono codice astratto nel quale insinuarsi per dare un senso alla struttura dell’esistere. Il capitolo quindicesimo di La Betissa, la lettera di Alessandro alla madre, rappresenta uno dei punti più alti e più significati della scrittura di Antonio Verri: “Come già sai, anche se ti sei chiesta sempre il perché, io continuo a scrivere, continuo a cercare parole che dicano, che facciano fede ai diversi e a volte a strani momenti della mia vita, che molti dicono poveri. Coi risultati non Maledetti Salentini

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ci siamo, ma questo non vuol dire. Il più delle volte le parole che affibbio alle cose non reggono (che mi stia assalendo quel solito tremore, quel solito magone?), pare, ti dicevo, non abbiano le parole appigli di nessun genere, e come niente – come fosse la cosa più naturale del mondo – mi restano in mano. Me le ritrovo a mucchio – pensa con quale mia sorpresa – nelle palme congiunte: Oddio un tempo, col vigore che avevo, le buttavo in aria, aspettandomi, a terra toccata, di assistere e di gustare una di quelle meraviglie che solo il caso sa così bene tornire. Se il magico risultato non veniva, le ributtavo e così via”. Una sorta di chiara manifestazione del rapporto dell’autore con il caotico vorticare del linguaggio, prima della scrittura prosastica che per l’autore di Caprarica non rappresenta l’abbandono della poesia, ma la sua accettazione totale e onnicomprensiva. 5. La trilogia finale: spingere la prosa liricamente nel magma indistinto del linguaggio, dissolvendo l’intreccio Alla tripartizione classica dei generi, epos-lirica-dramma, Roman Jakobson attribuisce, all’interno del suo testo Poetica e poesia. Questioni di teoria e analisi testuali, delle differenze distintive. Nella poesia domina la prima persona (lo), nel dramma la seconda persona (Tu), nell’epica e, proiettato nella contemporaneità, nella narrativa la terza persona (Egli). spagine

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La scrittura di Antonio Verri è una corsa progressiva verso l’appropriarsi del dominio epico/narrativo di matrice sperimentale. Da Il pane sotto la neve, (dove domina l’io lirico del poeta), passando per Il fabbricante d’armonia (il tu mimetico teatrale postmoderno la fa da padrone), sino ad arrivare a I trofei della città di Guisnes, con il quale Verri dà inizio a quel percorso lirico-prosastico (all’io della poesia si alterna l’egli oggettuale di fatti narrati racchiusi in una matrice poematica). Ci sono testi dalla rara bellezza, pagine incantate e sublimi che il peso insolente del tempo sbiadisce e, senza possibilità di replica, consuma. Uno di questi è I trofei della città di Guisnes che, all’interno della produzione dello scrittore di Caprarica, rappresenta l’opera più complessa e sofferta, il testo che segna la definitiva maturazione artistica, dopo la già pregevole prova di La Betissa. Questo testo verrà ripubblicato nel corso del 2005 dalla casa editrice calabrese Abramo, all’interno di una collana dedicata ai testi fuori catalogo. Segno aggiuntivo di un ritorno lento, ma progressivo, verso la scrittura di Verri. I tempi sembrano essere maturi. Ecco cosa scrive Salvatore Colazzo: “Se fino a qualche tempo prima egli, fragile e grazioso grillo, si trastullava e fremeva coi concetti slegati, senza nesso e significato, prendeva contatto con eccentrici autori di opere sul limite difficilmente discernibile che separa l’arte dalla follia, dopo un lungo pazientare, con i Trofei Antonio Verri riesce a trasformare in scritMaledetti Salentini

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tura, tersa e musicalissima, i suoi giochi, e a mettere opportunamente a frutto le sue insolite frequentazioni. Il suo grande stupore comincia a dar copro ad una grande utopia. Difficile e lunga è la via che porta a gemere ogni volta in una nuova fiaba. Ma lungo essa – mi sembra – a partire da i Trofei s’incamminerà Antonio Verri. Con questo testo approda ad un raccontare che è anche ripensare a come un testo nasce e si costituisce – sta l’autore infatti come guardone che adocchia la scrittura -, in un’epoca in cui si è perduta la fede nella narratività tradizionale e l’intellettuale che non voglia accettare la logica dell’industria culturale è costretto ad una solitudine stringente. Immenso è il vuoto e noi siamo costretti alla forma colossa. Per un narratore, per quanto sappia trattenere il respiro, sono troppe le crepe, le ferite: in lui la parola tende a moltiplicarsi ancora –“echi. Echi, solo echi”-, diventa concrezione che cresce e si autoalimenta, spurgo forse…” (Salvatore Colazzo, Titivillus, giugno 1993). Per Antonio Verri scopo fondamentale della sua esistenza e del suo ruolo di scrittore è quello di creare un libro che in grado di contenere l’intero Mondo, un libro infinito, fatto di parole meravigliose, splendenti, in continuo accumulo, in continuo divenire, attraverso un’azione di lavoro sul linguaggio quasi scientifica, mai sconclusionata, fortemente sentita. Il culmine della sua operazione sublime sul linguaggio si ottiene con questo romanzo, i Trofei appunto, l’opera più corposa spagine

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di Verri, nella quale l’esplosione irrefrenabile della sua creatività linguistica si manifesta in tutto il suo potenziale, che può rappresentare a tutti gli effetti un metaromanzo, un romanzo che interroga le logiche del farsi e del costruirsi di un mondo possibile, con motivi che si presentano, scompaiono, si ripresentano, con valenza semantica accentuata. Un tessuto linguistico caratterizzato dall’iterazione, dai parallelismi, da regolarità ritmiche e ciclicità di significati. Ma, entrando nel testo, di cosa parla I trofei della città di Guisnes? Scrive a proposito Nicola Carducci nell’Annuario Liceo Ginnasio “Giuseppe Palmieri” del gennaio 1997: “La fabula ne I trofei è quasi inesistente, offre appena qualche filo che si fatica ad afferrare: è l’avventura di un io, di uno scrivitore, che, tra mille raggiri e assalti e agguati, e sempre ritrovandosi al punto di partenza come un cavaliere antico si affanna, con sovrano distacco, nel tentativo di dare una forma, sia pure cangiante, all’informe esistenza ( e “la forma costa cara”, soleva ripetere Valery), di supporre un ordine, anche soltanto verbale, al caos della città degli uomini, di rinvenire un senso se pur illusorio, nel garbuglio del sordo e monotono succedersi delle opere e dei giorni”. L’opera è costruita attraverso un succedersi di funambolici giochi linguistici volti alla determinazione di un ordine logico-testuale in grado di contrapporsi al disordine irrazionale del reale. L’essenza concettuale del testo va ritrovata nel continuo scacco al quale è sottoposto Maledetti Salentini

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l’ordigno linguistico che, puntualmente, implode all’interno della struttura romanzesca generando quel senso di fragilità che sembra aleggiare tra le pagine. Considerate questa parte del testo: “Vogliono maturare. Cercano comprensione. Il liscio involucro non consente appigli e non è difficile trovare vili fonemi e minutissime frasi arroganti che navigano come in una nebbia, oppure sbandate parole che come in un sogno ad altre si aggrappano, suoni affidando al caso e insolenti significati… E poi parole disperate per aver perso la meta, e parole incerte, sfinite, a volte piagnucolanti, che il tondo guscio respinge mentre freneticamente cercano confini: parole che non hanno mai avuto valore o che hanno perso valore, hanno perso autorità, hanno perso peso: come si crucciano! A loro è vietata ogni penetrazione, non hanno più quasi coscienza, anche se a volte godono in piena libertà, nel sonno e nella nebbia godono, e nel flusso all’insù godono, spinte chissà da quale vento, boriose, scaltre, giovanili”. Ci troviamo di fronte ad un punto significativo della poetica di Verri, poiché il franamento della parola nel nulla dei significati è, basti pensare a Wittgenstein, il fallimento del proprio pensiero e, conseguentemente, della propria visione del mondo. L’irrazionalità che avvolge la struttura testuale de I trofei è quello stesso senso di smarrimento che lo scrittore percepisce osservando e scrutando il mondo nel quale vive. Le mirabili ed ardue spagine

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imprese che hanno accompagnato Verri nel corso della sua esistenza, sino all’impossibile tentativo di mettere le mani al libro assoluto, il Declaro, il libro fatto di infinito parole, sono sforzi volti alla strenua ricerca di un senso esistenziale al quale aggrapparsi, per non nuotare nel mare impetuoso degli interrogativi di fronte ai quali la vita ti pone. A seguire Verri pubblica nel 1990 Il naviglio innocente, stampato con la casa editrice Erreci di Maglie. Ne Il naviglio innocente si abbandonano alcune forzature linguistico-sperimentali di I trofei, presentando una totalità lirica che rappresenta uno dei punti più alti della sua scrittura. Scrive Antonio Errico nella postfazione al testo: “È il naufragio. Ora il narratore è parola, non altro che parola tra le tante, molte altre parole. Avrebbe voluto parlare di sé il narratore, raccontarsi, dire del pane sotto la neve ancora, dire di Sciaffusa ancora, ancora della madre, dei fabbricanti di armonia, di zacchinette, della morte che somiglia a storie profumate, di ansie, di candori. Con questo carico era partita la sua nave. Per questo disertava. Ma Stefan ha un declaro per la testa, libro di libri, di parole e basta, un declaro che pretende il sacrificio, la scancellazione di qualsiasi cosa. E allora il corpo viene invaso da parole; più le parole crescono e più il corpo si ritrae, diventa l’ombra di una mano sopra il foglio. In principio è il brusìo. Poi il brusìo si fa parola, le parole si riproducono per partenogenesi, si accumulano, si associano, cercando cadenze, l’espressione Maledetti Salentini

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diventa sovrabbondante, straniata, surreale, artificiosa, tesa verso la variazione rivitalizzante. Il significato è affidato al caso. Non determinato dal caso ma affidato ad esso, il che vuol dire che ad una operazione di desemantizzazione della parola ne segue una di risemantizzazione nell’ambito del costrutto e in relazione al ritmo che del costrutto costituisce l’elemento regolatore. Il ritmo è condizione essenziale in questa narrazione: genera immagini, scandisce sequenze, è portatore di senso, è di per sé espressione. Il caso è il ritmo, dunque, e il ritmo è un caso che pretende il controllo anche del respiro”. In questo processo di svelamento di nuovi percorsi di senso che Verri attribuisce ai suoi costrutti linguistici un ruolo di primo piano assume il riutilizzo di scritture altrui. Tutta la scrittura di Verri è disseminata di scritture altre. Infatti, ne Il naviglio si legge: “Bobo un giorno su di un muro di Guisnes, lui che ha sempre amato il lenocinio, l’ardito artificio, le seduzioni numeriche, allettato dai sempre più insensati e microscopici chip, un giorno su di un muro di Guisnes mi fece trovare un messaggio: cerca nel gioco – era questo il messaggio – ti è necessario un elenco di parole antenne. E ancora: Evviva il munifico plagio. Oh”. Poi il postumo Bucherer l’orologiaio, uscito grazie alla Banca Popolare Pugliese nel 1995, curato da Aldo Bello e Antonio Errico, con il quale si conclude il viaggio esplosivo di Verri attorno le folli potenzialità del linguaggio. Verri continua lo strenuo, a tratti insospagine

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stenibile lavoro di ricerca nel mare magnum della scrittura, iniziato con La Betissa (1987), I trofei della città di Guisnes (1988), Il naviglio innocente (1990). In Bucherer l’orologiaio l’immaginazione di Verri è al culmine esplosivo della sua lirica limpidezza, raggiungendo esiti di estrema bellezza nella descrizione di Zurigo: “Questa terra da fine del mondo, di grandi alghe giganti, di grandi passaggi deserti, Zurigo incontro di correnti… Zurigo mi dà l’idea di questo corpo enorme e di una valle di ciliegi e di una valle di alberi di carta…Zurigo è sonora, assurda, verticale. La sommità di lucente, duttile stagno, la base di molle argilla. È una città policroma, un mischio di lingue”. Zurigo rappresenta il punto fermo nella circolarità della narrazione verriana, contesto all’interno del quale si afferma fiera e rigogliosa l’immaginazione dirompente e la divagazione surreale del testo. Sembra che Verri non riesca mai a contenersi nel limitato spazio della pagina, le sua scrittura sembra essere frutto di un sussurro volto all’oltrepassamento di ogni confine narrativo. A Verri non interessa l’intreccio, non interessa la costruzione di una storia con tutti gli orpelli necessari alla sua esistenza, ma adora la sublimazione nata dall’accumulo di parole, dal ciclico ripetere che genera delizia, stupore, meraviglia, aperture al cuore di difficile saturazione: “Un corpo. Un corpo magnifico, sontuoso, insistente, indicibile, postuloso, tondo (anche se senza un netto profilo), mostruoso, inalterabile, incessabile, un bizzarro Maledetti Salentini

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mascherone, un nodo, un Grande nodo, un grande corpo traballante, un accumulo, forse solo metà della voce, forse un rospo immobile, forse l’Oggetto Poetico, la Grande Smorfia, lo Scafo Regale che al vasto mare si abbandona… Bucherer che sembra un ombrello. Intrappolato – per effetto del suo cercare – in una bolla di lava mentre cerca di bere dal suo specchio di luce che tutto può. La sua isola. La sua isola immensa. Così sonora. Il suo legno. La sua grana. Il suo brusio. Il suo acquario…”. Leggendo Bucherer l’orologiaio si avverte la maturazione stilistica che Verri ha raggiunto, eliminando alcune eccedenze cervellotiche presenti nei Trofei e dando vita ad un meccanismo narrativo che genera sospensione, ammaliante ed incantevole: “Una spallata all’angelo colossale, al canceroso, che si muove con ripugnanza, con eleganza, rimescolando, arrischiando, una spallata all’angelo disarmonico stravaccato sulla intera Niederdorf, all’angelo che una campana di vetro preserva, stolido, fastidioso, madornale, non attaccato da feci, urine, da zagaglie, da febbri, da limiti, da occasioni, da virus, da appetiti, figura che cavalca sui polsini di una camicia, che soffia in questa gassenzimmer, nei canaloni, sul fiume, nelle pesti, ingombrante, intatto, estraneo, titanico, diseguale…”. Con queste parole si conclude il romanzo e si conclude anche il percorso creativo di una delle figure più suggestive del panorama letterario italiano, sicuramente la più suggestiva del Saspagine

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lento letterario, che ha vissuto la sua esistenza con l’angelico ed impossibile sogno di chiudere il Mondo dentro un libro. Pubblicato in Incroci, numero 11 (gennaio-giugno 2005)

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Antonio Verri Un classico in cerca di pubblico Vidi per la prima volta la barba di Antonio Verri appesa – in fotocopia di non eccellente risoluzione - ovunque tra i corridoi della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Lecce. Era il febbraio del 2002. Io ero uno studente in Lettere. Da lì a poco mi sarei laureato con una tesi sulla Beat Generation. Da qualche mese distribuivo gratuitamente in tutta Lecce, assieme a due miei amici, Paolo e Vito, un foglio autoprodotto di poesie. Si chiamava “Ariosto 219”. Su quella fotocopia c’era scritto che, presso il Teatro Astragali di via Candido, si sarebbe svolto un reading tratto dagli scritti di quest’uomo barbuto e dallo sguardo perduto – in quella foto scattata dal sua caro amico Fernando Bevilacqua – chissà dove. No, non sapevo nulla di Antonio Verri prima del 2002. Mi recai assieme a miei amici poeti, tutti poco più che ventenni, nello spazio teatrale diretto da Fabio Tolledi e, in quelle poche ore in cui silente assistetti a diverse letture, mi s’aprì osceno e per sempre il mondo biografico e poetico di Verri. Di quella sera, a distanza di oltre un decennio, messa in piedi dai suoi amici più cari per celebrare il suo compleanno, a quasi dieci anni dalla scomparsa, avvenuta il 9 maggio del 1993, ricordo l’emozione di uomini e donne che sul piccolo palco del teatro si succedevano alternando a ricordi personali relativi al loro vissuto con Verri, passaggi dei suoi testi spagine

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migliori. Ricordo Antonio Errico, Mauro Marino, Piero Rapanà, Maurizio Nocera, Ferndando Bevilacqua e lo stesso Tolledi. Ricordo letture tratte da “Il naviglio innocente”, “I trofei della città di Guisnes”, “Bucherer l’orologiaio”, “La Betissa” e lo stupendo manifesto poetico di “Fate fogli di poesia”, tratto da “Il pane sotto la neve”. Ascoltando quelle parole che in piena travolgevano la mia attenzione compresi che di quel Verri tutto avrei voluto sapere. E subito. L’indomani mi recai presso la biblioteca centrale dell’Ateneo leccese e, compiendo una facile ricerca, vidi che di tutte le sue opere vi era una copia e quelle copie presto divennero mie, entrando con forza nel suo mondo poetico e narrativo e non uscendone mai più. Antonio Verri è stato per la giovane generazione di letterati salentini, a partire dalla fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80, una sorta di faro, punto di riferimento, catalizzatore di energie, bussola che indirizzava azioni e riflessioni. Verri era un uomo dalle mille amicizie, dai molteplici interessi, instancabile costruttore di progetti, percorsi e azioni, il quale poneva lo stesso massimalismo – il tutto dentro – nella sua idea di mondo possibile, nella sua costruzione letteraria insonne e mai doma. Riprendendo un mio intervento scritto nel 2005 e pubblicato sulla rivista “Incroci”, diretta da Raffaele Nigro e Lino Angiuli, mi pare tuttora valida l’idea secondo cui “per Verri scopo fondamentale della sua esistenza e del suo ruolo di scrittore è quello di Maledetti Salentini

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creare un libro che in grado di contenere l’intero Mondo, un libro infinito, fatto di parole meravigliose, splendenti, in continuo accumulo, in continuo divenire, attraverso un’azione di lavoro sul linguaggio quasi scientifica, mai sconclusionata, fortemente sentita”. La sua idea di scrittura era titanica, molossa, tendente all’infinito. Cosa vuol dire avere come obiettivo dare vita ad un libro in grado di contenere tutto il mondo, se non agire nella consapevolezza della sconfitta? La migliore letteratura prodotta da Verri nasce da questa crasi: da un lato la sua voglia di assoluto, dall’altro lato il prodotto finito del suo tentativo altissimo. Eppure le pagine che ci ha lasciato sono poesie e prose che resistono al tritacarne del tempo. Verri è già classico, come solo Bodini, nel Salento letterario del Novecento, perché le sue pagine continuano ad affascinare un ampio pubblico di appassionati lettori. Qui, però, s’apre l’ultimo rivolo di questo mio intervento. Quel pubblico dovrebbe divenire sempre più nutrito, ma lo scoglio sul quale frana l’acqua del suo flusso è dettato da ragioni squisitamente editoriali. In vita Verri pubblicò sempre con piccolissimi editori le sue opere. Dopo la sua morte, grazie all’azione generosa dei suoi amici, le sue opere sono state ripubblicate sempre da piccoli e battaglieri editori, ma questo non ha permesso al suo genio – consentitemi questo termine per una volta – di avere gli allori che merita. Il passaparola non basta laddove la reperibilità degli scritti spagine

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è assente. Cosa possiamo fare per arginare il suo oblio, che sopraggiungerà imperioso qualora le sue parole scritte smetteranno di significare poiché rese mute da una assenza di pubblico? Pubblicato su Il Paese Nuovo, 31 gennaio 2013

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Per non dimenticare Claudia Ruggeri, sposa barocca del suo inferno minore Otto anni sono passati dal “folle volo” che ha portato via per sempre una delle voci più originali della poesia salentina del Novecento. Claudia Ruggeri, morta suicida all’età di 29 anni, lanciandosi nel vuoto dal balcone della sua casa leccese, è autrice di un unico poemetto edito, Inferno minore, pubblicato per intero sul numero 39-40 del dicembre 1996 del giornale di poesia “L’Incantiere”, diretto da Walter Vergallo, di un poema inedito Le pagine del travaso e di altre poesie mai pubblicate. A distanza di molti anni, l’interessamento alla poesia della Ruggeri da parte di alcuni critici che operano a Roma, Mario Desiati, redattore di Nuovi Argomenti, Andrea Cortellessa e Mauro Martini, collaboratori di Alias, allegato culturale del Manifesto, è una nota che lascia uno spiraglio per una sua necessaria rivalutazione critica. Non si può negare un certo rammarico per il disinteresse della critica accademica nostrana, la quale non è ancora andata oltre gli studi relativi a Vittorio Bodini, che è morto nel 1970, ma negli ultimi trent’anni di buona scrittura sotto le nostre spesse lenti ne è passata (Salvatore Toma, Antonio Verri e la stessa Ruggeri, appunto). Una laconica giustificazione può attribuirsi alla complessità della poesia di Claudia Ruggeri. Ha scritto Desiati, in un sua riflessione critica sulla poetessa leccese: “Claudia Ruggeri scriveva divi Maledetti Salentini

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namente. La sua poesia ricca di arrovellamenti lessicali, di figure estreme (il matto in primis), è una piccola epifania postmoderna, dove echeggia una semantica inconsueta che mischia parole di origine trobadorica, iperletteraria, dialettale, straniera, aulica, ma anche quotidiana. Claudia Ruggeri ha inventato una sorta di nuovo barocco, ma senza la sua decadenza.” Eccone, allora, un breve assaggio, tratto dall’Inferno minore, poemetto dedicato a Franco Fortini, poeta stimato dalla Ruggeri, ma lontano anni luce dalla poesia neobarocca della stessa: “cavami da le piume gli insulti lo sfrenìo / la velocità indifferenziata che era danza / o salto, che ormai non muove semplicemente / mi rende probabile; la memoria finta da usare / come un nome, questa memoria insomma divina / indifferente di un calcio e di ossa, di un debole / dèmone mosso a pena a cerchio (leggero leggero / lo spirito ragazzino, e ciò sottile sottile / indistinto, destinato): Dedico a Te questa morte / padula – ché sei l’Arteficiere - ; impiegane / la festa, se pure alza l’Avverso, lo cattura”. Questo è il lamento dell’Uccello colpito, uno dei lamenti che strutturano l’Inferno minore, un poetare tutto sciolto dagli schemi il suo, opera folgorante nella sua novità, che richiede una particolare attenzione da parte del lettore, ma che ammalia, s’inarca, t’imprigiona nella sua spirale di sensi “forti”, folgoranti anche nelle sue proiezioni profetiche: “Del Traghettatore: e volli / il “folle volo” cieca sicura tutta / Volli la fine spagine

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delle streghe volli // Il chiarore di chi ha gettato gli arnesi / Di memoria di chi sfilò il suo manto / poggiò per sempre il Libro…” Questo testo è tratto dalla plaquette poetica SalentoPoesia ’95. Per chi volesse leggere l’Inferno minore, è disponibile una copia dell’Incantiere che tutto lo contiene nell’emeroteca dell’ateneo leccese. Un primo approccio con la sua poesia, sicuro che in un prossimo futuro sentiremo degnamente parlare della scrittura accecante di Claudia Ruggeri. Articolo apparso su Nuovo Quotidiano di Puglia, 25 ottobre 2004

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Su Claudia Ruggeri

Ecco “Inferno minore” di Claudia Ruggeri Dopo tanti anni di silenzio, di disinteresse della critica accademica e militante, è da poco stato pubblicato “Inferno minore”, raccolta di gran parte del materiale scritto in vita da Claudia Ruggeri, poetessa morta suicida nel 1996 all´età di 29 anni. Il libro è edito dalla peQuod e curato da Mario Desiati. La vena creativa della Ruggeri raggiunge gli esiti migliori in un periodo, il decennio a cavallo tra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, nel quale la poesia ha esaurito le spinte propulsive di molta avanguardia e la sperimentazione non possiede più forti connotazioni ideologiche, ma diventa terreno fertile di plagi, citazioni, giochi intertestuali. In piena temperie postmoderna, appunto. Da qui il continuo dialogo della Ruggeri con Dante Alighieri, Guido Cavalcanti, Jacopone da Todi, Gabriele D´Annunzio, Umbro Saba, Dino Campana e Carmelo Bene. Inoltre, Claudia Ruggeri era un’eccezionale lettrice, capace di performance fuori dal comune. La sua poesia colta e passionale si riversava spesso in reading memorabili di cui oggi resta qualche rara registrazione. L’esordio pubblico di Claudia Ruggeri fu durante una lettura alla Festa dell’Unità di Lecce del 1985 davanti a un basito Dario Bellezza, uno degli scrittori più vicini all’autrice per spirito anarchico e sostanza corporea del verso. Il libro raccoglie testi che vanno dal 1982 al 1996: spagine

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poesie del tutto inedite o apparsa su riviste letterarie di poco conto. La presente pubblicazione rende giusto merito all’originalità di una poetessa che non va dimenticata. Pubblicato su Booksblog.it, 29 gennaio 2007

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“Canto senza voce” Versi inediti di Claudia Ruggeri “Canto senza voce”, questo il titolo del libro che raccoglie testi inediti di Claudia Ruggeri, la poetessa leccese morta suicida nell’ottobre del 1996. Il libro edito dall’associazione Terra d’Ulivi presenta in allegato un documentario sulla Ruggeri, diretto da Elio Scarciglia, in cui, attraverso le testimonianze della madre Maria Teresa del Zingaro, dei critici Enzo Mansueto e Sergio Rotino e dei poeti Giampiero Neri e Guido Oldani, tra gli altri, si offre una chiave inedita della personalità complessa della scrittrice. Claudia Ruggeri subì sia in vita che dopo la morte il disinteresse quasi assoluto della critica accademica e militante. Fu Mario Desiati che in numero della rivista mondadoriana Nuovi Argomenti, nel 2005, dedicò un lungo intervento sulla poetica di Claudia, dal titolo “La ragazza dal cappello rosso”, e ripubblicò parte del suo poema migliore, “Inferno minore”, apparso agli inizi degli anni ’90 frammentato su diversi numeri della rivista poetica leccese “L’Incantiere”. Lo stesso Desiati curò l’edizione del 2007, pubblicata da peQuod, di “Inferno minore” in cui è presente la produzione migliore della Ruggeri, quella comprendente i testi scritti nel decennio a cavallo tra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta. Non solo il poema “Inferno minore”, ma anche il magmatico e furisoso Pagine del travaso, scritto poco prima della morte. Fu lo stesso Desiati spagine

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Su Claudia Ruggeri

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a scrivere : “Claudia Ruggeri scriveva divinamente. La sua poesia ricca di arrovellamenti lessicali, di figure estreme, è una piccola epifania postmoderna, dove echeggia una semantica inconsueta che mischia parole di origine trobadorica, iperletteraria, dialettale, straniera, aulica, ma anche quotidiana. Claudia Ruggeri ha inventato una sorta di nuovo barocco, ma senza la sua decadenza”. E grazie alla riproposizione dei suoi testi, dopo un decennio di silenzio, e al culto che ne è seguito con l’apprezzamento di un numero sempre crescente di lettori, della poesia della Ruggeri si continua a parlare. Non solo. “Canto senza voce” è un nuovo tassello del cursus editoriale postumo della poetessa di Lecce. Il libro, curato da Esther Basile e Angela Schiavone, raccoglie testi presenti in agende, taccuini, fogli sparsi, giunti a noi grazie alla volontà della madre, Maria Teresa. Tutti senza datazione. Le curatrici hanno diviso il testo in sei sezioni tematiche. Quello che risulta ad una lettura delle poesie presenti è che tutte appaiono precedenti alla composizione di “Inferno minore”. Rispetto alla complessità stilistica, alla ricercatezza lessicale, alla rappresentazione coesa di una visione radicale del mondo presente nel suo poema più conosciuto, qui ci troviamo ad un livello meno esplosivo, più contenuto, piano, ma pur sempre altamente originale. Dialogo con il divino, ricerca d’amore, abbandoni, bui laceranti, luci abbacinanti, corpo contro natura, solitudine, morte invasiva, temi che puntellano le pagine Maledetti Salentini

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Su Claudia Ruggeri

di questo libro e invadono l’immaginario caustico e colto della Ruggeri. La scelta di pubblicare questo materiale prezioso con una piccola casa editrice è un rischio. Dinanzi alla forza di questi poeti è necessario che si mettano in piedi operazioni editoriali di respiro nazionale. A ciò s’aggiunge anche che una maggiore cura nella redazione del testo avrebbe giovato alla lettura. Molti i refusi presenti. Un piccolo neo per un’operazione che merita di certo la più ampia diffusione. Pubblicato su Nuovo Quotidiano di Puglia, 22 giugno 2013

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Su Claudia Ruggeri

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Il Fondo Verri è in via Santa Maria del Paradiso 8.a a Lecce (cap 73100) telefono 0832-304522 fondoverri@tiscali.it Spagine è su issuu.com/mmmotus https://www.facebook.com/perspagine


Passeggiate critiche tra i sentieri poetici dei maledetti salentini Su VittorioBobini da pagina 7 Su Vittorio Pagano da pagina 21 Su Salvatore Toma da pagina 25 Su Antonio Verri da pagina 31 Su Claudua Ruggeri da pagina 63

Rossano Astremo è nato nel 1979 a Grottaglie, in provincia di Taranto. Vive e lavora a Roma.

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