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Gioia Perrone

Lettere lontanissime Poesie 2007 - 2008

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Gioia Perrone Lettere lontanissime Poesie 2007 - 2008 (Questa che pubblichiamo, contrassegnata dal numero 5.1 è la prima parte di una trilogia che avrà seguito nelle prossime uscite del “Magazino di poesia” di Spagine M.M.)

Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Culturale Fondo Verri di Lecce


Dopo l'ottobre 2008 quando uscì “Il ritorno dell'Ofisauro”, per i Voli di Icaro, le scritture che sono seguite sono state quasi tutte pubblicate e gettate nel web. Le ho raccolte lì dentro in modo da avere una visuale, un racconto leggibile, perchè il resoconto invece non si può fare, è impossibile. Tantomeno si può potare e purificare alcunché: che la scrittura purifichi è la più grande illusione, scrivere è macchiarsi di colpe. G.P.


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(‌) sai, queste cose che dico fanno parte di un lungo processo che dura da tempo in cui sto come una che prima di partire e andare via si ricorda all'ultimo momento di qualcosa che ha dimenticato, allora ritorna indietro e non prende piÚ il treno. CosÏ sono ancora qui quando la mia testa ha lasciato l'orbita da troppo tempo in una tensione continua e totale tra decisione di andare e sensazione di aver dimenticato qualcosa. (da una conversazione via mail, anno 2008)

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LETTERE LONTANISSIME (Ciò che sopravvive deve superare il dolore di non esser più riconosciuto. Il suono è il deposito. Il suono è l'augurio)

2007 - 2008

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Diagnosi provvisoria: L’alba vera e carboncina del vero sole qui non viene come niente una mattina. Suzanne Alle panchine dei giardini c’è Suzanne col suo cappello bianco: un poco di rughe soltanto sugli occhi ridenti gioca a spelacchiare un passerotto di passaggio e ogni tanto diventa pensierosa. Niente a che fare con la teofania di cui parlavano al convegno dei critici che poi fanno un verso tipo: cri-ti-cì, cri-ti-cì! Poi tutto si perde attraversando le stanze. Poi tutto ci ritorna riacceso e miope, come solo sa Dio. Scrivo per la donna dal largo cappello, per i ricordi gettonati lungo i banali tragitti per le palpebre fuse della notte sugli occhi di Suzanne.

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Tu bianco sciabecco verticale e gonfio che tagli il mare di lupi e pesci decidi scannamenti e favoline liete o letti di emicranie. Sul mio naso di fuco ondeggiante passi distratto come gatto guappo con ciglia erbose e cubitali mi dici gli accenni che riconosco al volo così che apro la mia bocca come un parato reggimento con reggi petti rosa sotto la divisa. * Mi hanno dato una bestiola nera a ritmo di passi, mai visto un balletto quando sono nata. Mi hanno dato una bestiola nera che si muova a tempo ogni volta a sera, che cresca dentro ad ogni primavera che consumi i tacchi tra intestino e milza che continui fino all’ultimo respiro che continui anche dopo che non continuo. * C’è una lunga valle nella mia caviglia che tu non hai visto perché vai di fretta se tu frenassi un poco il tuo cuore sentiresti pure cantare gli usignoli. * Pochissimi amici miei, di fiamma è il vostro suono che batte di gota in gota da un capo all’altro del volto Lettere lontanissime

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che è il vostro modo, mie sottili zattere azzurre. Basta un sorso e una sola parola il tempo di deglutire e vi conosco basta ancora meno per ricordarvi per avervi nella tasca nette e calde pupille vive! * Dentro il mio vestito hai trovato due biglie e un fiorino di carta e ti lamenti? sono quelle le misure perfette! * Senza dubbio parevo un alga bianca e senza vita un sogno, una salvietta caduta dalla nave così pressappoco e non c’erano santi che t’innamorasti del mio starmene ferma e sottile sotto la saliva solare. Come coccio museale, monile, come brocca abissale. * Io non sono pronta a morire io sono ignorante a morire e non meno sfuggente del guitto bianco di morticini tra corridoi silenziosi E non meno veloce del tuo cuore che si mangia sillabe intere. E non meno veloce dell’America quando sgancia l’Atomica. Io qui ho munizioni e non ho mani per questo tuo arrivare da soldato spagine

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per questo tuo avvenire senza chiedere e senza mani passa l’ottava ora e guardo i cuscini e la carta vuota e i souvenir dello scaffale e voglio non sia l’ora ora che non voglio andare. * Non lasciare che il mio viso si faccia di squama non lasciare ch’io diventi una cernia grigio perla, che mi dibatta in fronte, che ti occluda il sangue quando il sangue vuole andare vivo per le strade e il cuore pompare a ritmo e le mani lavorare e gli occhi guardare la linea del mio mento e scoprire l’altro firmamento boreale.

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Io questo capodanno è stata una liberazione un gioco di rivoluzione, tipo quello dalla periferia al centro che qualcuno ricorderà – non si vince e non si perde c’era una mitraglia di botti e di scintille e le gambe ferme e il coraggio di commozione dopo l’era glaciale. C’era un amore, anzi l’amore al limite del mare e sopra i polpastrelli e pois di grida a tratti dentro il reggipetto che è la parte più profonda della mia anima dove incroci di spade e nari fanno gran rumore e non per parate nuziali. Ho avvertito scricchiolii di vario tipo l’ultimo quasi ci inchiodava, mozzava lievi stregoni in aria come aeroplani di velinari portava la neve a cadere e il cuore al suo singhiozzo naturale. * L’ombrello era una macchia da niente smembrata del suo flebile osso di ferro sul marciapiede della tramontana l’ombrello pareva un uccello morto. spagine

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Ho un allegria smagliante, autoreggente tra un disegno tascabile e l’inconsistenza di Morte tra un tuo sorriso e l’ombra che ti scende a ghigliottina e mi taglia i capelli la mia piccola vita tra dita come cuoricino croccante ribatte palline da tennis sdrucite al sole di un rosso campo. Sei mio primogenito amore mio dente del cominciamento nemico buono del mio ego viola da Hollywood reciso, e marcito di mille giacinti pregato.

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Rosa su selciato Io sono figlia esatta di questa perdita di fuoco di questa miopia fratta. Infinitamente. Se avevo un’ idea (si porta forte e pianto sull’altare come sposa. Come mistica cosa d’ogni giorno). Se un altra vita se avessi avuto un altro stile una specie di reincarno: un uomo cane abbaiato un sorriso, un baffo, un brigantaggio, un guappo pelo collegato pronto all’azione un ISSA un CORRIAMO Se, io questa carne nella carne mia ho sentito il verso d’orango bianco attraverso un mattino stanco e battendo le porte ho detto –Parto!Se c’era questo che appena è detto mi spiego il contrappasso del mio sfocato passo rosa su selciato.

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Notturni E poi mi viene una piccola fitta alla testa, in un luogo dentro la testa che non so dire, ma molto dentro. Dura due secondi, passa. Poi niente. Intanto che passa ho il tempo di ridisegnarmi il contorno degli occhi, penso a quando ti guardo, a quanta dolcezza possono avere quando ti guardo, a cosa ha pensato lo sconosciuto sul motorino fermo davanti al negozio di lampadari mentre passavo e le cuffie mandavano “Parliamone” di Jannacci e pensavo a quanto sarebbe bello saperlo girare un film e andarselo poi a vedere al cinema, con le patatine e tutto, le compro sempre al cinema, è una questione di rito. E in questo film da girare metterci questa canzone qui, mentre il personaggio va, va e basta. Tutto gli succede, appena affianco, lungo la strada. E poi mentre passa, la fitta alla testa dico – due secondi e passa- penso alla morte. Certamente. Allora mi tengo stretta, come a una corda, come su un’altalena che va forte, come certe cose che senti da bambina, che fai nei giochi. Ti tieni più forte a questa altalena. Tremi e poi passa già, era solo una turbolenza. Applausi al pilota. Penso che devo andarci dal medico. Guardo i contraccettivi. Mi chiedo ogni volta “cosa mi contraccetto”, è una domanda chiara. Lettere lontanissime

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Mi rispondo in fretta. E poi guardo il don Chisciotte e poi penso ad una cosa che don Chisciotte non avrebbe mai pensato: che dovrei provare a scriverla la mia tesi di laurea, prima di girare il film, dico. /// (...) Ho in mano il numero 35. Raffigura il mio luogo, quello che ho deciso diventi il mio luogo, cinque metri di strada e un muro, come dire un corpo su cui fare esperienza. Il mio luogo ho preso ad abituarmi a vederlo soltanto in foto. Il posto vero, fisico, è un'altra cosa. É un posto che non esiste quando il sole tramonta, perché la mia pellicola non è così sensibile. Quello che vedo è una strada, due rettangoli imperfetti di porte, una serranda chiusa e l’ingresso della vecchia scuola elementare, con l’angolo del muro smangiato, e lo stesso muro bianco, ma sporco. Da sinistra - come quando si inizia a scrivere una lettera - entra nella visuale qualcuno, quasi sempre a passi svelti, tranne i vecchi. Loro non lo sanno, ma io li colpirò, non appena saranno nel mezzo tra la serranda e la scuola, o forse un po’ più in la, dipende da che tipi sono e dal mio indice, se non fa freddo. Li colpirò velocemente e non sentiranno do spagine

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lore, potranno uscire dalla foto, andare a trovare il figlio, a cambiare gli occhiali, ad incontrare l’amica, ma li terrò qui. O meglio terrò l’ombra nera che sfuma, che scrive tutto il loro passaggio prima che vadano. Chiunque essi siano, non hanno più faccia in questo posto 10x15 tra la serranda e la scuola. Nel numero 35 non si vede nessuno. I tempi lunghi a volte cancellano ogni traccia, bruciano la materia e lasciano un luogo da guardare a fondo, vuoto, e poi non più, perché pieno di possibili transiti, e il luogo si lascia guardare. Il mio occhio, fisso sulla sinistra, vuole che qualcuno arrivi, vuole colpire anche solo guardando, come dentro a un mirino, come a scattare con le palpebre. PLUK! Ma non viene nessuno. Le porte sole parlano di geometrie, spifferano che per un po’ non passerà nessuno, perché ci sono lunghi istanti in cui proprio nessuno passa. É come quando alla radio il microfono ronza aperto, ma non si accorge nessuno che sono in onda, e tardano a parlare. Ora passano qualcosa di moderno alla trasmissione, la tromba da sola che fa un jazz, sembra una strada lunga, che cammina e cammina, senza una meta e quasi sempre fino a una curiosa coincidenza, forse solo fino ai miei occhi che vogliono chiudersi e io resisto un poco, poi cedo, e la strada spa Lettere lontanissime

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risce, la tromba è una specie di sogno dove io cado e a pensarci bene, anch’io sparisco, con le ossa e tutto, divento grigia e odorosa, poi nera, poi sfumata mi sento di acqua e zucchero, e immobile e sospesa. Anche io tra le due porte. Come quelle colonne che segnano dove non so più nulla, e dove vanno le ombre, e dove tutto inizia. (...) Lo sai di questo affare consegnato a domicilio, di questo trattato di pace falsificato che è la giovinezza? Oh, si rompe tutto e presto. Ma qualcosa sorvola la pelle, la pellaccia reagisce, la cataratta si smaglia... non ne escono funi forti per l’arrembaggio, ne barbini schifosi che ruttano e insultano, non esce l’esercito, i pesci abissali, un piano aziendale completo. Vedi cosa viene da giù, dallo strappo strafatto del bulbo: un Azolla natante, una roba da naturalisti una piccola forma composta, con esile fusto, con esile esile fusto. (a Modena per Ilaria Seclì)

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Il cane C’è un cane quando torno la sera. Nero, grande, mi segue. Penso all’importanza di una città col porto, dove miasmi e gemiti sfrigolano insieme col nero dell’acqua, dove si va come ad un morto al sogno di salpare. Quando torno e il freddo punge le ciglia e mi rincresce di fare anche poca strada vorrei restare dove la terra ha ceduto e giacere piuttosto fino a domani. É un cane alto, zampe secche, la coda mozzata la pioggia minuta scende, la pioggia leggera e la spiaggia è lontana e di sale e ferma lì dove non vede, e la strada risplende. La strada è un isola di notte, un tondo, dove abitiamo io e il cane. Il cane ha fame, geme ma non come un cane, a tempo geme. Mi giro, lo guardo per capire, e non c’è niente da capire. La pioggia scende, respira tutta dopo l’uggia Lettere lontanissime

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e i lampi e i rombi che han dato i crampi al cielo. Arrivo a casa, mi sembra di morire per questo prendermi a quattrocchi: senti, ho fame, mi senti? E ora geme come un cane, flebilmente, e annusa l’asfalto vicino al mio piede. Io gli vedo appena gli occhi, spilli mossi orizzontali confondersi all’acqua della strada splendente. Ho nuove parole che mettono i brividi, buchi dove inciampare uno chalèt immaginario dove cominci una samba e gente si vede arrivare. (...) su me c’è una luce da infarto. rimani a mezzo. Tra ombra e agosto, che come un gesto ci fa girare.

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Il pedometro Il pedometro rileva cinquantunpassi obliqui dopo l’edicola attraverso la porta della cittĂ per un cornetto ripieno, dal posto dove mi trovo. Si vede la stessa roba sempre, gli stessi omini-vai e vieni tutti come niente a fare finta che niente succededa sempre. Di questa cittĂ conosco a memoria le caviglie, le guglie pigolanti di avvocate, i passerotti, i lavori pedonali e i lavori del filobus. Prenderemo anche i filobus. Passeremo senza traccia anche da dentro al filobus, da palo a palo davanti alle piccole rom ai fiorai, ai colorifici, alle telecomunicazioni alle sale da tè hi-teck ai bambini hard-core ai cani scalzi alle mamme in blue jeans. Dimenticheremo il discorso da dire a quello del giornale puliremo le scale piano piano, piano a piano lungo le tempie molli esposte ai finestrini, noi fortunati di una mattina, avremo visione chiara dei fantasmi Lettere lontanissime

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sentiremo frusciare le vesti sui polpacci, e gelati colare sui polsi delle fate natanti. Nuoteremo, sapremo farci fiato vedere la riva all’attraversamento, dimenticheremo il discorso, le bugie da dire il sorriso da comunione avremo da scartare un attimo buono nel lilla del letto mentre l’altro dorme e noi l’osserviamo dormire per i cali di pressione. Per i cali in genere. Un bugigattolo di imbrogli solari, disposti in pellicole da ritirare. So i parcheggi abusivi, Santacroce schizofrenica, i caffè sodomiti di fine sabato straziato, gli accenti tarantini i tuoi occhi spenti e poi accesi e poi accesi per le mie nocche di falena. Le cosce magre magre di notte. Le ingiurie di questa città uguale a questa città disuguale nell’amore che porta ai passi, ai sassi-doni del bianco e di alcuni stracci di stanze che sono a mia disperazione, di alcune strade doppio malto che intasano fegato e affini di storie di confini senza coraggio d’essere chiare come le prime vere estati spagine

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inverni chiusi dentro il mare. Le piccate ragazze di corso Vittorio Emanuele, come sono uguali ai palinsesti del prime-time. Non esiste la vita anallergica! Testata su pelle di angioli e belle ragazze allevate vacche del sole. Qui lo senti questo motore che come bacca tremula erompe e bagna mascelle. Qui le poesie si sprecano su come si può amarsi nel giorno, su come muore l’amore puro. Le vocali nella parola ferrovia tremano al fischio passato, non conoscono riparo, buco caldo talpe inette che mimano il volo. E io come loro, vedi, questa mano sussulta! Come piccolo sistema d’eliche! Non sapremo quale vino guasterà delicate digestioni di giorni se mai potremo dirci uniti in muscoli e giunture per essere pronti a gioire, perché la gioia non disperda ogni forza e ci sparpagli nel vento. Qui le curve delicate prendono a gonfiarsi di globi estranei prendono a fuoriuscire dirottate navi Lettere lontanissime

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e con molto dolore, immaginando diversi i destini. Lo sto già, di già facendo, lo sfacelo vecchio delle rondini su noi: ci inducono al cielo, vogliono calibrare la nostra resistenza al volo o forse avranno l’utopia delle corse e delle radici e sono prigioniere pure loro. C’è la rondine consueta che in trappola si aggira tra soffitto e teste nell’aula dei seminari e c’è quella che picchia e grida e lascia solo un suono lungo dentro e anche dopo aprile. Io attingo solo dall’infanzia che è come un sogno buono senza parole E tutto potevo vedere. Anche fin dentro le case delle formiche. * Mio cugino ha il pismeker nel cuore. (ho ricordato) ma c’è il peggio che in fondo è una notte che le zampine del cip sulle venose arboree fanno chitarre di dentro scordate, ingoiate scure fanno asfissiata di maggio, detonata fan scatola nera, fan culo. C’è il meno peggio di luglio, al finire che una risata sguazza alla pozza spagine

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del babbo morte a mollo nella sacca testa corridoio. Un chiacchiero e a guardare la luna si può ancora guardare la luna fuori e tutto il morto è immoto, immoto sembra una magia cogliona. Il peggio, ma peggio è il ritorno. Sbadigliare normalmente pensare che cala il sonno. * Pettirossa ammalannata sui rametti in mezzo ai bui in mezzo ai sterpi in mezzo ai matti specchi sterchi stretti in lui... Sporchi stretti in sterchi d’ora il poco, il quarto d’ora ancora che ci amiamo in mezzo ai sterpi pesti ai mesti curvi bui. * E pioveva da mattino a sera tutto allagato, tutto un ombrello spolpato di un euro e cinquanta dal vento e i capelli arricciati: ecchennesapevo allora del bussolotto e del lancio Di mille picchi al Cremlino al culmine del tuo capo tenero? Io non sapevo che ripararmi veloce al grondare, alla luce fiacca smodata di novembre Lettere lontanissime

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al tuo occhio vestito di niente la mia gelatina squagliava, rigava la guancia e svelava la scrima di lato l’antica capigliatura pacata – ed era tutto cenere e rosa adrenalinae pioveva da mattino a sera tutto allagato, sotto le grondaie a un passo dalle pozze dappertutto uno specchio che riflette ma è che noi, non siamo specchi. Ed è che noi in fondo poi, per un attimo abbiamo ascoltato la pioggia abbiamo guardato il cielo abbiam supposto che avrebbe spiovuto da lì a mezzora e invece tutto allagato. * La mia piccola malinconia non vale niente! niente le minutaglie uterine, le sensibili orme, e che voi, voi sappiate anche le inutili frattaglie riguardo al mio monte di Venere! Vorrei arrivare a cose tipo l’aria, la luce. Vorrei non scrivere più del cuore Vorrei essere solo piccoli punti, consonanti rotanti a falciare ogni storia che potrà venirti avanti o è che son già morta spagine

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prima di finire i canti. * E le mura sono presagi, quelle volte, ombre alcoliche fluttuano il sole è alluminio colato al risveglio. Ti ho abbracciato più forte, ma non ti ho detto del terrore di muoverci, anche un minimo: come basta un sibilo per svegliare i morti. * É partito l’aerostato nell’aria arancione si è allungato sulle creste come un Lazzaro miracolato bianco con le funi penzoloni è un sussurro gigante: Così ti ricordi - i nostri baciquando era un gioco di pura gravità si scherzava con la fisica si rideva con un niente! Cosa ne faccio ora delle mie poesie che non possono salvare dalla distanza? * La mia pelle è diversa, avevo linee che non ricordavo d’avere come letti di fiume senz’acqua, come strade sospese. Tutto è fermo eppure cammino intorno la città fuori corso, Lettere lontanissime

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fuori fuoco, tutto è fermo chiuso in piccole paure ferme dimmi da dove vengono le linee, dimmi dove sfociano cosa porteranno.

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L’ABOMINEVOLE PALLINA Tutto limpidamente poco chiaro, ed è così. Rimasti a lungo così a lungo nella stanza quadrata nella stanza di tutte le ore, dolcemente illuminate le scritture di bavosi cervelli, cose che non sono i pensieri ma inchiostri rappresentanti, fantasmi famosi di pensieri che fondamentalmente sono roba di respirare o da fare in sogno, semmai. Non roba di gustare, fare gesto con la mano, sesso, impallidire e cardiopalma. Naftalina e odore piacente e volere esperimentare nuovi tipi di alienazione. Così come le oltremodo soffici cose di compagnia abituale. Oh vascelli sottili sul fangoso Vero, vetro argentato, pulviscolo scovato: ho guardato nella luce del mattino (capisci di essere un pesce, solo di tipo polmonare, di vivere in un abisso, solo di tipo superficiale) è tutto immerso e sontuoso e a caso puoi essere scelto a caso nel caso tu voglia Lettere lontanissime

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(non importa tu voglia!) Non ti ho mai detto forse che letterature, colore d’occhi, astrazione allenamento lagunare, passo falso e cadere è alla fine dei giorni un cumulo di cose installate ad arte per non essere capite? Che poi non è importante anzi è già incombente l’abominevole stare l’abominevole riuscire a guardarsi, seppure lontani, tessere i fili... Oppure mangiare con la forchetta? Tieni presente prima di andare a lavoro, mettere in moto Tieni presente questo rumorino che ci viene alla mente, serve pure stare insieme, riunire, decifrare serve, ma non troppo. Tieni. Nel Cile del cielo, questo vile mangime d’aria questo riflesso moltiplicato di voce è un chiasso ma senti arrivare, venire, arrotondare, svanire il motivo familiare. Letterature, astrazioni, gelaterie abituali esercizi lagunari, di superficie arti marziali, dimmi che hai capito l’allegria di riflessi a sfondo criminale della nostra vita. spagine

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Mi commuovo. Della nostra vita. Mi ricommuovo. Che poi non è importante anzi è già incombente l’abominevole stare il rumorio, il rimbalzare facile della pallina. Una settimana dopo, il monitor non dava segni di vita. Aveva ripreso un pochino a sibilare e a dare segni ma poi tutto si era spento. I miei esercizi di parola mi davano strani effetti di paura nella solitudine della capsula, una paura vaga. (Stralcio) Voi mi dite –forza/grinta/sii sicura!- voi, oppure un’unica figura che vi rappresenti e dite –forza/su/fai la poeta!- voi, oppure un’unica figura che vi rassomigli e dite- stai scrivendo? E io che non so se faccio la cosa giusta, che chiedo venia e non mi vedo nella veste, se voi una veste mi date, se voi una spada mi porgete, dritta su per lo scaffale delle cose stampate, delle cose non più dette: la poeta nera d’etere, e poi di incensi piena e imbarazzata sempre e poi di storie orfana a tratti di parole sufficienti.

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Questa poesia deve cadere senza fare rumore! Questa poesia deve apparire inaspettatamente tra lo smalto rosicchiato se lo usate, tra matite colorate quando giocate coi vostri bambini tra le luci verdi di uno strip tease per comici il sorso di birra e le facce indaffarate di quelli che passano prima che la persona che vi preme possa iniziare il discorso serio. Questa poesia, soltanto nata così semplicemente, come un cappello che vola come dalle coste della Francia settentrionale, come un vestito che cade senza preamboli, infine, non si deve vantare! Non più di un giro su se stessi Non più di un giro su se stessi La vita finisce Questa poesia finisce Questa poesia piccola di immagine di cinema e di cose arrotondate dal vizio di arrotondare a togliere e a togliere fino al nudo vero, lasciando giusto un fronzolo un velo, l’ultimo velo Che preme vero sul nostro sesso da impazzire, di andare di notte a cercare ma... Questa poesia è finita spagine

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soltanto nata così semplicemente dalla tua bocca come un volo migratorio come un vestito che cade... Questa poesia che dite, voi oppure un’unica figura che vi rassomigli e dite-stai scrivendo? E io che chiedo venia e non mi vedo nella veste, se voi una veste mi date, se voi una spada mi porgete, questa questa poesia piccola, già finita detto in breve: vale solo se non s’avvale del diritto d’essere immortale.

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La neve è salata Gamberoni coi semi di sesamo altissima digeribilità. Fatto sta che mi sono imbucata in questo matrimonio vecchio stile per intenderci dove risuona a un tratto “Champagne” di Peppino di Capri. Sono stata a guardare. Ho sempre avuto un certo interesse naturalistico. Ieri notte lo sai che è caduta le neve? Per dio. Un’altra volta. Ho aperto la bocca è ho aspettato i fiocchi. La neve è salata.

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Il mio stomaco è caldo Il mio stomaco è caldo. Sotto la pioggia scimunita di questi giorni e le piante dei balconi e il grigio lungo viale messo al posto di dritti e antichi pini, maschi e verdi tra una birra e l’ipotesi di un nuovo progetto dove la parola “sociale” - dice Jek - ci sta sempre bene ogni 22 parole. Il mio stomaco è caldo. É tutto caldo e risuona bene sa di metallo qualcosa come il buco fossile di un pearcing alla lingua mai desiderato. Come questa nostalgia ossessiva del bianco che è sempre più raro e sempre più “non so cche” sfasciato sulla mia dislessia. Sognavo di fare l’astrofisica mentre nei giardini altrui sceglievo le pietre più calde per crogiolare la coda al sole e far luccicare la pancia. Ora faccio un lavoro educato. Nessuno ancora si comporta male con me. Alle zampine ho le solite scarpe, sempre più evanescenti, ma si cammina bene. Lettere lontanissime

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Il mio stomaco è caldo, ho una temperatura ideale, spettacolare, per accoglierti. E vorrei accoglierti come un verde che scoppia in un millimetro di carne buia quando un’idea geniale si diverte con le orecchie. Vorrei riascoltare mille volte l’idea geniale. Vorrei nello stesso istante sparire per sempre e non per debolezza, si capisce, ma per una banale questione di estetica. Il mio stomaco è davvero caldo, mi viene il buonumore e ho dimenticato persino la testa che fa male la neve che cade, ciao.

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COLPI (Canzone) Questa stanza non resiste non ce la può fare al buio il cuore si espande, diventa enorme diventa una cosa orrida. Questa stanza non resiste nemmeno ancora un poco: i colpi battono e tremo mentre temo che i tic stiano prendendo il sopravvento. Questa stanza è senza scampo senza più dosaggio, non vorrei ma le mie braccia dentro al cappotto lanciano misteriosi richiami. Questa stanza è felice. Non credi alle tue orecchie? Questa stanza è felice. Questa stanza è felice. Questa stanza non resiste nemmeno ancora un poco: i colpi battono e tremo mentre temo che i tic stiano prendendo il sopravvento. Il mio piccolo volto fuori controllo è ciò che ancora vedo quando chiudo gli occhi.. * Verso tutte le vedute di una immondizia Lettere lontanissime

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avventurosa, industrie tessili dolciumi furore tutto da un faro superbo slanciato lo sguardo al chiarore e ancora giocando a perturbarci le ore immaginando gli occhi blu elettrico della preda-amore (già, in verità, dileguata) crogiolando in ogni scatto movimento lieve ogni sua coda motile e sottile. Ci bastava il tocco di questa immaginazione di questa cosa già trascorsa per - che lampante: ardiamo nei fuochi delle ciminiere andiamo tra i fiori a vivere la pazzia del lombrico, dopo cento pianure stese, cascando alla meglio nemmeno un poco ci ravvediamo. Attraverso questa miopia posso vedere il firmamento moltiplicato. * Davanti al mare soli io e te mangiamo un panino siamo miti, un po’ infreddoliti poi più nessuno sulla scogliera, siamo lontani. I giorni sono appesi a caso, incerti Il cielo è una Mercedes cabrio che ci fa mangiare fumo. * spagine

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(‌) Lo sento che stai lottando per contenere calmo disprezzo e pesci tropicali (strabuzzano come gli occhi in fuori se intuisci un pericolo di mio allontanamento). Sei porto isola sommessa di luci per il mio organismo ancillare orologeria biologica di unica fattezza naturale se solo la notte non mi venisse quello strano svenire da capolavoro e il mio occhio non si oscurasse farei la forzuta sirena, farei la condottiera balcana in groppa a un asino viola. * Poi la mattina sono risanata, ho un filtro splendente a bloccare le invasioni apro la finestra. Guardo dentro al giallo. A un tratto mi sento ben accetta nella danza del pulviscolo impercettibile. La sera ho occhi di china i battiti si perdono dietro a tempi oscuri mastodontici pali, incroci, palazzi, pitbull che cagano cacche grosse e fumanti: sono cose che vedo Lettere lontanissime

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e nessuna mi sa raccontare, la sera non mi vuole come la sua favola preziosa, scritta sul muro della scuola non mi vuole come una poesia col cappotto io la sento arrivare ogni volta, posso toccare ogni strato e conosco a memoria l’odore di mani collo bianco, ma tutto è oscuro sotto gli alberi e come il suo fantasmello sottile, mi aggiro intorno, esterna ad ogni cosa. Poi cerco di provare la gioia: penso all’ornitorinco, al geco, al fenicottero. Tutti questi animali placano la distanza, aderiscono alla terra e al cielo non hanno spettri, masticano, vivono. Tutti questi animali - dico io non hanno a che fare con l’emicrania della mia specie, quando penso alle somiglianze genetiche, ai tasselli ripetuti in combinazioni infinite, perché i tuoi occhi, li vedo al semaforo quando mi lavano il vetro e non ho gli spiccioli e poi alle mostre d’arte contemporanea, le nocche delle mani, nocche uguali sperse per il mondo, si disvelano al circo, al mercato, negli alberghi di lusso e persino nei luoghi dell’occulto e nei sogni. spagine

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Non trovo che pezzi, nella sera che scende, e nemmeno una mascherina da notte per difendermi, nemmeno una figurina del Malindi, o dell’Amazzonia poi viene la mattina. La stagione fluisce dentro la bellezza ed eravamo senza pantofole pedali, direzione, patria concimata di luce che finisci a mare coi freni manomessi, che dici non siamo piĂš gli stessi ecco: allaccio la cintura e tremo come un bambina prima che parta la giostrina. * A volte hai il viso come un regime un sorriso curvo sfugge al cancello, ma è ancora pieno di bruma, di cose che non mi appartengono, bottino di piombo attraverso il ruscello.

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spagine - magazzino di poesia 05 Novembre 2013

Il Fondo Verri è in via Santa Maria del Paradiso 8.a a Lecce (cap 73100) telefono 0832-304522 fondoverri@tiscali.it Spagine è su issuu.com/mmmotus https://www.facebook.com/perspagine


Gioia Perrone è nata a San Pietro Vernotico il 9 giugno 1984 vive e lavora nel Salento

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