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Ilaria SeclĂŹ

Nel tempo

prima dei comandi

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Ilaria Seclì Nel tempo prima dei comandi

Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Culturale Fondo Verri di Lecce


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Nel tempo prima dei comandi

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Nel tempo prima dei comandi

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Se immagino i millenni a ritroso liberare i fossili tornare levigati e vergini, i paesi riemergere dall’acqua la terra azzerare i lego di cemento e plastica metropolitane treni parcheggi fabbriche se immagino uno zero un crollo un tempo prima dei comandi lo stop dei fumi degli scarichi se immagino l’inizio, quasi ti do un nome, deserto, ti scopro le pupille, crudo vagito tra ceneri di cose state

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Non per venuta L’abilità a riprendersi gli effetti personali svuotare case e poi riempirle, varcare soglie entrare e uscire dall’uscio, uscire/entrare portare i minimi resti di una storia e certi odori, incensi, candele, l’angelo di Laura. Altri, stranieri, cuciono trame di disagi nuovi. È vero, non ci sono più le mezze stagioni le chiavi seguono mappe di desideri morti infilate a toppe di meccanica sopravvivenza resta la parola ripudiata dai vocabolari ora postuma nella panchina del giorno data in eccesso e sconosciuta ai calendari

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Profezia Finiremo giocandoci a palla il mondo e quel resto che fu d’inciampo Rideremo di nomi e venti mari e boschi di cui fummo prigionieri quando avremo l’universo nel palmo le distanze e i continenti su cinque punte di mano, ogni bimbo canterà la verità sul mondo e sarà creduta la sua versione delle cose *** per esempio se ti dico che ritorna il nono mese da Monte Nero a Settembrini le animate solitudini e sfocato torna a testa bassa un comizio di paese un lenzuolo sbandierato sono, un popolato nulla, e un po’ ci credo, l’acqua è vecchia e il box nuovo, il viale l’ha ingoiato un rubinetto, strade nuove sotto i passi, l’abat-jour sul lato inverso meridiani e paralleli coi respiri che rinascono da scatole scocciate e poi riaperte - a che vale - chi teneva il numero dei pacchi stava inerme e niente è nuovo, ma quel rumore morso lo schianto lento appena sopra l’ombelico cosa dice cosa dice cosa dice spagine

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L'Intanto Voleva essere stagione, cosa ciclica becco puntuto sul tronco impronte di neve al cimitero di confine o suono delle cose vegetali tra chiome animate e brunite che burlano l'intanto che scende e chiude, si fa pozzo, poi annotta come il bosco, intero nella sua parola

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AMEN da qui, eterno novilunio, snodo senza fine di voci e vicoli fino ai versi che brandiscono le carni, non articolati suoni di preistorie, muri di pietra, limoni che nessuna curva inghiotte, file di formiche dei rosari ombre che la storia non copre perchè fatti non piagati orecchie e bocche di pomeriggi giallissimi mentre al buio un letargo di acqua e farina ricrea il mondo gemme di madri si affacciano come cose di vivi quando vivono, come lo schiudersi del frutto nelle decadi di maggio nelle primavere di una Gerusalemme data. Data e sacra ferita d'acqua delle nascite, dei vagiti, del darsi oltre come accade nei legni scuciti dall'istinto dei tarli o di conviviali fantasmi, quando tarli e fantasmi rovistano la storia, la ossidano, per farne chiusa di gloria, fatto eterno, nell' eterno che è delle immacolate pupille, del primo mare gettate nel per sempre, nel granello secchiello delle mattine celesti al numero primo, ai confini animati, al dove imperiale che è centro intatto, senza offesa, senza lontananze, spagine

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dato in sorte, destino civico, cielo dei cieli, tempo del non saputo, filo a piombo, Amen *** Le antenne dalla finestra sono le stesse ovunque e i nomi delle vie fatti lame a ogni incrocio chiavi alterne di memorie a nascondino, vi ho viste città vi ho camminate - ora fatemi passare i petali, le mappe, disonesto amore per il perso mentre viene vita nuova col bianco non ancora bianco e ancora esilio e ancora l’avvicinarmi a te per non averti, la conta di distanze certe, mala sutura tra questo e quello il tuo volere e il mio la forma che alla nuvola manca all’acqua alla vita è tutta qui in carne passi respiri insonnia

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U Černého orla Da qui scorre la Moldava pioggia che non bagna burattini oscillano a pochi euro fatti a mano gatti e gufi rispondono ai silenzi dell’impero i funerali dell’età del gioco. All’isola di Kampa mulino e giocoliere si passano l’acqua divertiti fino a che si fa il deserto attorno fumi e vapori gonfiano le altezze dal Cavallo Nero al Topo Grasso dai Due Soli all’Aquila D’Oro ore macabre di Venceslao danze cineree e statue di dubbia fissità coprono l’aria e cantano spezzano il cielo con metalli rossi ne fanno tavolo da gioco e da bagordo fino alle prime luci, al pane caldo ai passi di donna col suo scialle. Poi un tramestio alza l’aria tutti in corsa verso un chiodo per lo sguardo dei passanti ritornare muti, imbalsamati ritornare statue, burattini.

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Espanse parentele Ecco dov’è che vinci atto che forze non tracimano né luce. Se alito di morti mischi all’impronta di passanti ne fai toppa, pupilla dei due mondi lì di qua a spiare, e qui da loro canto che scoperchi addita casa statua più calda di una voce, quello che nascondi brilla espanse parentele che mai anello ha stretto al dito né nome imbalsamato *** Il mio amore ha radici d’acqua non ditegli che è disperso o annegato o incerti imprevedibili percorsi. Non dite. Nella sabbia battono le sue vene e i tronchi, non dite che non li trovate ha forza di tuono ma sono mani a migliaia aperte e le bocche spalancate al cielo. Non può un nome - non sfama né disseta è altro il destino e altrove nell´ogniccosa che respira bassa e muta l´ogni destino minuto e sovrano che qui ti porta, canto lontano che muove montagne e le porge alla tua guancia e porta il vento d´oro che bagnerà la bocca se accovacciato e muto il respiro gli sorprendi e la sua insonnia *** Nel tempo prima dei comandi

Ilaria Seclì


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qui giace nell’eden notturno reietto e caldo più che altrove -avaro vuoto benedetto- la donna di denari ora sono sette gli anni ora cinque tempo di battaglie al sorgere dei grani sia che la mantide orchidea gemella resta senza il fiore spendere parola senza il fiore ignorare ancora la signora venne ottobre venne primavera guarda ritornate le capriole gli occhi di ginestra i passi i fumi scorribande e masnadieri ora sono sette ora sono cinque chi ritorna torna e passa come cosa che resiste e passa. Cosa credono le mani e cosa il resto. Resto e aspetto, secco vento della madre figlio sconsacrato passa e scotenna di marmo l’acquazzone guarda guarda tutto uguale come prima come prima ritorna all’altro nome altra terra ti respira come freccia di tuo avo di tuo nomade destino chicco chiaro di merisi chicco acerbo acerbo questo mondo che tu sputi e t’inghiotti poi d’un tratto senza mai dimenticare il fischio il canto senza mai dimenticare frasi buone per il riso stretti sassi alla partenza fino al prossimo ritorno che non vedo. Poi t’inghiotti - e qui si contano 40 spezie per la notte in un’ a foresta nera *** bocche di fango e argilla genuflessi nasi il batacchio non arriva al bronzo spagine

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allora tirano scuoiano vocali e invocazioni malelingue e occhi storti serviti al diavolo al loro dio imprevedibile e barbaro per un baldacchino d'acciaio per quattro lire per un giardino di delizie avvelenate o falso e servo o umano contro umano specie che offende i ben nati, umane sorti non più brute che pure vi ostinate per la salita al calvario senza redenzione ma all'angolo scalpita lo zoccolo silvano in pelli di capra con erbe di provato effetto a rivoltare l'umana disfatta siderale *** ehi tu che non ci sei che riempi la grancassa del tempo l’ordine del giorno i promemoria i passi di madonna tra nicchia e binario che copri di mare e bianco la finestra sbavi l’attenti di ambulanze e campane ehi tu sentinella nel sonno e incudine di giorno scoperchiata bara all’imploro di una fine orfana comunione e conta di ore senza festa vanitosa roccia nel porco virus globale orsù dunque fatti spazio nell’orografia di spettri allitterati a secco. cieco mondo tutto smorto dove sei tu che non ci sei non chiusa palpebra né sazia, cartello perso tra nomi di città e il mio, un registro delle assenze. *** Poiché il frutto del tuo seno lo conosco poiché il frutto del tuo seno è muto non alzi la mano al mio saluto Nel tempo prima dei comandi

Ilaria Seclì


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sai sempre dove sono ma non chiami riempi i resti da buttare ma non dividi il pane casa scoperchiata che non fai restare mia insonnia che non mi dormi accanto differita tra presente e vita, esilio, apnea sedile vuoto accanto al mio qui qui tra quello che vedo della pioggia e quello che non cade, assente puntualissimo tra l’uno e l’altro civico, tra letti e calanchi bagagli spersi, chiavi, nulle proprietà. Poiché il frutto del tuo seno lo conosco museo del silenzio, sovrano del sottratto e poco resto, insinuato vuoto tra un disegno e l’altro, tra ciò che siamo e cosa diventiamo quando i bimbi se ne vanno e torna un vociare di sbeccati esordi ma non tornano i respiri né le mani. Poiché il frutto del tuo seno lo conosco non ti sfido e non ti odio, ancora aspetto.

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Ilaria SeclĂŹ


spagine - magazzino di poesia 11 Febbraio 2014

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Ilaria ScelÏ è nata a Ginevra, nel 1975. Vive e lavora tra Lecce, Parabita e Massafra dove insegna nella scuola primaria

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