Periodico di informazione culturale del Fondo Verri
Ottobre 2017
Spagine
Omaggio a Edoardo De Candia
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Edoardo era un fuorilegge, cosĂŹ libero da non poter essere altro che un pazzo. Edoardo era un visionario ossessionato dai colori. Edoardo era un poeta bastardo prigioniero di un corpo desiderante e, forse, non desiderato.
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Per caso e per fortuna
L’
di Rosella Simone
ho sempre trovato un bel nome: Edoardo De Candia. Profuma di Mediterraneo, di olivo, di mirto. Il nome di un re, quando la terra costruiva i suoi miti e le sue leggi. Ma Edoardo era un fuorilegge, così libero da non poter essere altro che un pazzo. Edoardo era un visionario ossessionato dai colori. Edoardo era un poeta bastardo prigioniero di un corpo desiderante e, forse, non desiderato. Un corpo che metteva a nudo, esibito, ostentato con innocenza totale. Le sue rime erano le immagini del mondo tracciate con linee semplici e sicure.
Un tratto di blu il mare, il segno di verde un albero, quattro steli con petali in un vaso venduti per una bottiglia di vino o diecimila lire. Ma erano pittura vera. Perché Edoardo De Candia è un artista. L’ho conosciuto per caso o per fortuna una primavera di dieci anni fa. L’ho conosciuto per due giorni e l’ho ricordato per sempre. Perché le persone come Edoardo hanno questa qualità speciale: di vivere. Ricordo che ero venuta a Lecce per raggiungere quello che allora era mio marito che in questa bella città era venuto per tenere un incontro all’Università.
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“Ero curiosa e forse un po’ spaventata da tutte quelle passioni concentrate in un essere solo”
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Ero venuta anche per conoscere Piero Fumarola, oggi spero un amico. Ora come allora un uomo prepotente e generoso, appassionato del sapere come mezzo di comunicazione anche aggressiva, ma comunicazione sempre, con gli altri. O meglio, con il prossimo non omologato. Devo a lui l’aver conosciuto Edoardo. L’ho visto anche con i suoi occhi, amanti. Piero voleva farci conoscere tutto quello che c’era di bello nella sua città: monumenti, bar, cibi, persone. Ricordo la casa di Piero, bella e antica, un porto di mare per vagabondi intellettuali, per giovani arrabbiati, per narratori ubriaconi, per prigionieri in libertà provvisoria. Gente affamata di vita, di parole, di baldoria, di saggezza, di canti. E cantavamo, ubriachi di essere. C’era Agrippino, re delle evasioni tutte fallite, c’era Giorgio appena uscito di prigione, e già pronto per rientrarci così travolto
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com’è dal furore di vivere. Belle ragazze dagli occhi orientali che parlavano con il caldo accento del sud e studiavano russo. Studenti ancora con la voglia di imparare e marxisti anarchici con l’utopia di una rivoluzione giusta. Qualche amore che nasceva e qualcuno che finiva per sempre. Il mio ad esempio. E poi in giro a scoprire tra le pieghe della città chi e cosa c’era di vivo.
Mi pare che da Edoardo siamo andati in tre. Piero, Giuliano e io. Abitava in casa della sorella, al pianoterra di una casetta a due livelli. La signora che ci ha aperto era magra e muta. Ci ha indicato la stanza e si è ritirata a nascondersi in altri luoghi più probi che non l’antro di Edoardo. Sapevo che avrei incontrato un pittore, un pazzo, un poeta. Ero curiosa e forse un po’ spaventata da tutte quelle passioni concentrate in un essere solo.
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Non mi stupivo che fosse stato più volte in manicomio, le visioni hanno un prezzo e si pagano sempre. A volte col dolore, a volte col carcere, altre col manicomio, altre ancora col silenzio. Edoardo aveva messo insieme tutto. La “bestia” misteriosa se ne stava sdraiata su un lettuccio appoggiato in un angolo perfettamente nudo e perfettamente abbronzato. La faccia dell’indiano antico con i segni del tempo scavati dal sole in rughe profonde, lunghi capelli bianchi e diritti e una bocca grande e sensuale. Tutt’intorno quadri e colori in un ordine rigoroso e trasandato. Se ne stava sdraiato sul letto appoggiato su un gomito, sembrava maestoso come un console romano sul triclinio, accogliente senza compiacersi della nostra ammirazione. Perché non si poteva fare a meno di ammirarlo così fiero e pacato e così nudo ed inerme.
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Ero curiosa di quell’omone spoglio come un bambino, continuavo a fare domande e domande. Stupidamente credendo di poter cogliere così il significato di una vita. Lui rispondeva a tutto con condiscendenza e gentilezza. Parlava in modo difficile da capire, a volte farfugliando, altre senza alcun intoppo, muovendo delicatamente la sua grande mano, mani da omone, sulla sua pelle morbida e dorata da idolo pagano. Raccontava del tempo in cui era partito da Lecce per Parigi a fare l’arte e la bohème. Dei grandi artisti che ci aveva incontrato, dei quadri che aveva dipinto e poi il ritorno. Senza spiegare il perché di quell’andare e di quel tornare, se non che i suoi quadri di allora li aveva bruciati tutti in un rogo che li cancellasse e forse li purificasse.
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Aveva le foto di quei quadri che, vero o falso che fosse, comunque voleva considerare morti, nettati dal fuoco. Erano dipinti di un erotismo potente, esagerato. Una ridondanza di sessi esposti: cazzi eretti e fighe divoranti, che segnavano la sua ossessione ma anche la sua arte. Poi ci mostrò la sua foto, di quando era partito per la città dei pittori che aveva vent’anni. Ed era un ragazzone magro, con il viso dagli zigomi alti e i riccioli e le labbra grandi. E le mani, quelle grosse mani nodose che allora, forse, erano sensibili e vibranti nascoste a pugno nelle tasche. Poi si era inginocchiato per terra, aveva tirato fuori grossi fogli di carta e si era messo a dipingere. Se volevamo potevamo comprare un souvenir dell’artista. Nessuna pretesa, solo era la cosa giusta da fare, non era questione di soldi ma di un baratto tra noi alla pari. Ce l’ho ancora, un enorme vaso di fio-
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rellini blu su campo rosso e uno sfondo di pennellate blu e bianche. È sempre venuto con me nelle case che ho cambiato. Poi siamo usciti, lui si è infilato un paio di calzoncini corti e una maglietta e siamo andati per le strade come all’avventura. Lui ci precedeva, maestoso. Passammo per due atelier di pittori locali. Questi lo invitavano ad entrare e sorridevano di lui, ma si capiva che facevano finta perché Edoardo li spaventava. Li spaventava per la sua originalità, quella che loro, pur tentando e ritentando, non avrebbero mai potuto possedere. Loro dipingevano la natura, o altri maestri del passato. Loro erano imitatori, Edoardo era unico. Loro sorridevano di lui, del pazzo barbone pittore per non dover fare i conti con se stessi. Pittori di nulla, o al massimo pittori di corte, della piccola corte dei borghesi di Lecce. Edoardo invece dipingeva per se e forse, per l’eternità.
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“Ci mostrò la sua foto, di quando era partito per la città dei pittori che aveva vent’anni. Ed era un ragazzone magro, con il viso dagli zigomi alti e i riccioli e le labbra grandi”
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“Noi, rivoluzionari traditi dalla rivoluzione e da noi stessi, siamo rimasti nudi, persino dei nostri sogni” «Edoardo, dai dipingi qualcosa!», insistevano e alla fine Edoardo si era messo al cavalletto, aveva intinto il pennello nel blu e aveva tracciato i suoi soliti tre fiori blu. Aveva intascato le diecimila ed era uscito, distratto e regale. Poi al bar “elegante” per un altro bicchiere. Non ricordo se al cameriere non andava l’abbigliamento di Edoardo o se semplicemente non gradisse Edoardo. Ero ubriaca di parole più ancora che di vino, ma che non lo volevano far sedere lo ricordo. Credo che Piero e Giuliano avessero uno sguardo così omicida da fermare cani da guardia anche più solerti del cameriere-del-più-bel-bar-di-Lecce. E Edoardo si è seduto con noi e abbiamo parlato e riso forte, sguaiati tanto per farci notare ancora un po’ di più. Poi cosa è successo non ricordo più. Ricordo però, e come potrei dimenticarla, la notte. Avevamo mangiato assieme chissà dove, solo che all’una Edoardo aveva dichiarato senza appello che aveva un appuntamento. Se ne andava. Ma separarci, ormai, era impossibile. E poi era una notte di stelle. Lo abbiamo seguito sino a una via costellata di piccoli alberi, forse aranci selvatici.
C’era un baracchino aperto di quelli: un panino e una birra. Edoardo ha ordinato un panino con carne di cavallo e una Peroni. L’uomo del baracchino non aveva neanche aspettato l’ordinazione, si capiva che era una consuetudine consolidata. Panino in una mano, bottiglia dall’altra Edoardo si era avviato lungo il viale sino a una casa con le scale esterne. Tre scalini che separavano l’ingresso padronale dal marciapiede. Sdraiato sul granito c’era un omino piccolo piccolo avvolto dentro un cappottone scuro, i capelli nascosti sotto un berrettone di lana che gli faceva sembrare il viso minuto come quello di un bambino. «Il mio amico», ci ha spiegato Edoardo. Noi ci siamo fermati qualche passo indietro, ci sembrava indiscreto intrufolarci in quella amicizia devota e rara. Non mi pare che si dicessero parole, la loro era una relazione muta che aveva come testimoni solo la notte e un barista annoiato all’angolo della via. Quando è tornato ci ha detto, «Lui è più libero di me». E noi, rivoluzionari traditi dalla rivoluzione e da noi stessi, siamo rimasti nudi, persino dei nostri sogni. Rosella Simone
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L’ho sempre trovato un bel nome: Edoardo De Candia. Profuma di Mediterraneo, di olivo, di mirto. Il nome di un re, quando la terra costruiva i suoi miti e le sue leggi.
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Omaggio al pittore Edoardo De Candia (1933 - 1992)
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Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Fondo Verri. Realizzato a cura di Mauro Marino nella sede di Via Santa Maria del Paradiso 8/a, a Lecce. Supplemento a “L’Osservatore in cammino” iscritto al registro della stampa del Tribunale di Lecce n°4 del 28 gennaio 2014.
Spagine è su: issuu.com/mmmotus https://www.facebook.com/perspagine Esce on line e in tiratura limitata stampato in digitale.
Retrospettiva “Edoardo De Candia AMO. ODIO. ORO”
Complesso Museale di San Francesco della Scarpa (ex Convitto Palmieri) - Lecce 10 luglio - 30 novembre 2017
Ideazione e cura Caterina Gerardi Fotografie Caterina Gerardi
Impaginazione Mauro Marino
Rosella Simone giornalista, scrittrice attivista politica Caterina Gerardi fotografa operatrice culturale