Focus Storia 177 - Luglio 2021

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Storia SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE

n°177

MENSILE –Austria � 9,20 - Belgio, Francia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna � 8 - MC, Côte d’Azur € 8,10 - Germania � 12,00 - Svizzera CHF 10,80 - Svizzera Canton Ticino CHF 10,40 - USA $ 11,50

luglio

CAMPIONI DI OGNI EPOCA MILONE E PHAYLLOS, I CAVALIERI MEDIEVALI, LE DONNE INDOMABILI, I GRANDI RIVALI DELLO SPORT MODERNO, I RECORD STORICI

22 GIUGNO 2021 - MENSILE � 4,90 IN ITALIA

Sped. in A.P. - D.L. 353/03 art.1, comma 1, DCB Verona

ROMA CAPITALE 150 ANNI FA IL PAPA PERSE IL CONTROLLO SULLA CITTÀ ETERNA

MAO E LA CINA

IL GRANDE TIMONIERE CHE SI FECE GRANDE DITTATORE

CHE TEMPO!

PICCOLE GLACIAZIONI E GRANDI SICCITÀ: IL CLIMA DIETRO GLI EVENTI


Luglio 2021

focusstoria.it

Storia

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a forza sovrumana del lottatore greco Milone, i pugni di acciaio di John L. Sullivan, la determinazione di Alfonsina Strada nel voler partecipare, unica donna, al Giro d’Italia... I personaggi che si sono distinti nel mondo dello sport sono ovviamente tantissimi. A chi dare spazio? Ai famosi o a quelli meno noti che però hanno scritto pagine bellissime di impegno atletico e civile? Il risultato che leggerete è, secondo noi, un buon compromesso: dà voce ai pionieri e alle pioniere, entra nelle vite dei campioni, restituisce i meriti a quegli atleti penalizzati dalla società o dal potere e permette di raccontare che cos’è l’agonismo, le sue origini, gli anni bui del Medioevo e quelli d’oro dell’Ottocento, la sua strumentalizzazione politica nel Novecento... Un racconto denso ma accattivante anche per chi è poco avvezzo a tifoserie e fatica fisica. Perché la Storia può raccontare, con i suoi codici, qualsiasi cosa: allenamenti, medaglie olimpiche, fallimenti e record inclusi. Emanuela Cruciano caporedattrice

4 LA PAGINA DEI LETTORI

6 NOVITÀ & SCOPERTE

8 TRAPASSATI

ALLA STORIA 10 UNA GIORNATA DA... IMAGES (FONDO), GETTY IMAGES (MENNEA)

ELABORAZIONE COPERTINA: MASSIMO RIVOLA, CORBIS/GETTY

RUBRICHE

12 CHI L’HA INVENTATO? 64 DOMANDE & RISPOSTE 68 MICROSTORIA 76 CURIOSO PER CASO 97 AGENDA

GETTY IMAGES

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Copia in scala (42 cm) del gruppo scultoreo di epoca romana I lottatori, conservato agli Uffizi di Firenze.

CI TROVI ANCHE SU:

In copertina: Pietro Mennea.

IN PIÙ...

14 ...eVITApoiQUOTIDIANA arrivò

la forchetta Oggi è indispensabile, eppure è stata l’ultima posata ad arrivare sulle nostre tavole. Anche colpa di una certa fama...

I GRANDI ATLETI DEL PASSATO 26 L’imbattibile Milone

L’atleta di Crotone, emblema della forza nell’antica Grecia.

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Le armi e i cavalieri

Tornei e giostre erano gli “sport” più amati tra Medioevo e Rinascimento.

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A pugni chiusi

Iniziò a mani nude, finì coi guantoni: il pioniere del pugilato John L. Sullivan.

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Questa partita non s’ha da fare

Le calciatrici che, nel 1933, sfidarono i pregiudizi sportivi del fascismo.

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La leggenda del Pietro corridore

Pietro Mennea conquistò i suoi primati con una ricetta: mai risparmiarsi.

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Una donna al Giro d’Italia

Alfonsina Strada, che per passione e bisogno partecipò alle corse maschili.

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Eterni rivali

Scontri memorabili e sfide tra grandi campioni.

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Campioni di dissenso

I coraggiosi nello sport e nella vita che hanno lottato per una giusta causa.

NOVECENTO 20 Nel segno di Mao

Come e perché la lotta di Mao Zedong per una nuova Cina si trasformò in tragedia.

70 IlCULTURA cielo in una stampa Le più belle rappresentazioni della volta celeste create nei secoli.

ANTICHITÀ 78 Prometeo che eroe La figura mitologica di Prometeo, che è diventata un riferimento per l’Illuminismo e il Romanticismo.

I GRANDI TEMI 84 Roma Caput Italiae

150 anni fa, il trasloco di re Vittorio Emanuele II nella Città eterna sancì la fine dello Stato della Chiesa.

CLIMA 90 Troppo freddo,

troppo caldo Dietro le grandi svolte epocali ci sono (anche) piccole glaciazioni e grandi siccità. 3


LA PAGINA DEI LETTORI

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Prendo spunto dall’articolo “In memoria di Adriano”, pubblicato su Focus Storia n° 174 per porre all’attenzione dei lettori la figura di Alessandro Rossi (sopra), nato a Schio (Vicenza) nel 1819, esempio singolare di imprenditore acuto e lungimirante. Ai piedi delle Piccole Dolomiti seppe creare una vera e propria “città della lana” e, ispirandosi a ciò che stava succedendo in nord Europa in quel periodo (principalmente in Inghilterra e in Belgio), non solo trasformò Schio nella Manchester d’Italia, ma seppe declinare le necessità dell’industria in una visione ben più ampia, dove il rapporto fra successo produttivo e sviluppo sociale dell’uomo-operaio dovevano avanzare di pari passo. Ecco che accanto alla rivoluzionaria “Fabbrica Alta”, testimonianza fra le più rilevanti a livello europeo di architettura industriale ottocentesca, eretta nel 1862 su progetto dell’architetto belga Auguste Vivroux, Schio vede sorgere l’Asilo Rossi, pensato per la prole degli operai, il Giardino e Teatro Jacquard, splendido esempio di giardino romantico, voluto, come più tardi il Teatro Civico, per il tempo libero dei dipendenti e poi il Quartiere operaio, progettato da Caregaro Negrin (l’architetto che diede vita e sostanza alle rivoluzionarie idee di Rossi), innervato da una visione architettonica salubre e moderna, dotato di quattro categorie di abitazioni, dalle splendide villette dirigenziali (alcune su progetto di architetti nordeuropei) alle case a schiera degli operai. Queste ultime erano tutt’altro che “agglomerati brutalisti” ante litteram, a 4

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Certo non furono tutte rose e fiori, si trattò forse in alcuni casi di “dispotismo illuminato”, scioperi e frizioni non mancarono, ma il grande costrutto economico-sociale di Alessandro Rossi, oltre a donare lavoro e prosperità a un intero territorio, ebbe il merito di focalizzare come pochi altri seppero fare il legame strettissimo esistente fra condizioni di lavoro e successo imprenditoriale: nell’epoca di Amazon, verrebbe da dire, Rossi è quanto mai moderno e attuale. Le vestigia del suo operato sono ancora lì, a Schio, a monumentale testimonianza, mentre tutto attorno il panorama è cambiato e la pedemontana vicentina da Manchester d’Italia si è trasformata a partire dagli anni ‘60 in un importante distretto a vocazione metalmeccanica, mantenendo però la stessa caparbia vitalità di un tempo. [...] Fabio Caraccio, Schio (Vi)

La firma dell’Armistizio di Cassibile, il 3 settembre 1943. La notizia fu resa pubblica l’8 settembre.

L’altra Resistenza

Ho letto l’articolo “La guerra di liberazione” pubblicato su Focus Storia n° 175 [...]. Non si fa alcun cenno all’apporto delle truppe regolari dell’allora Regio Esercito inquadrate, inizialmente, nel Primo Raggruppamento Motorizzato e successivamente nel Corpo Italiano di Liberazione (C.I.L.) alla Guerra di Liberazione. Chiarisco di essere figlio di uno degli ufficiali che prese parte a quelle tragiche pagine della nostra storia. Mio padre era un giovane sottotenente del 184° reggimento artiglieria inquadrato nel C.I.L. che prese parte ai fatti d’arme nell’Italia centrale e settentrionale agli

ordini del colonnello Leandro Giaccone e del generale Umberto Utili. Il tributo di sangue di quei giovani, e meno giovani, non è stato mai ricordato. Di fronte a questa rimozione mio padre, militare di carriera, ha sempre sottolineato che tutti quei soldati avevano compiuto il loro dovere per il riscatto dell’Italia, per restituire dignità alla Nazione e a loro stessi. Non volevano medaglie e riconoscimenti, l’unico riconoscimento era stato vedere la gente nei paesi e nelle città liberate alla vista del tricolore. Per senso di giustizia e verità ritengo sia necessario illuminare questo capitolo della Guerra di Liberazione al di là delle

AKG_IMAGES/MONDADORI PORTFOLIO

Industriali italiani

schiera sì, ma ognuna diversa dall’altra, più alta, più stretta, perché Rossi non voleva che i suoi operai si sentissero omologati, e allora ogni abitazione doveva avere il proprio orto e la propria barchessa nel retro, secondo la migliore tradizione veneta. E poi i lanifici Conte e Cazzola, industrie satelliti e la Scuola di Pomologia, con annesso Podere Modello, a Santorso, appena fuori città. La Schio di Rossi fu in definitiva un grandioso esperimento sociologico dove Alessandro fu sì “padrone” ma anche “padre” dei suoi operai, evidenziando sin da subito la necessità di garantire salute, istruzione ed evoluzione sociale a coloro che riteneva i tasselli fondamentali della suo opera. Non a caso di fronte al Duomo della città ancora oggi fa bella mostra di sé l’Omo, vale a dire il Monumento al Tessitore, unico nel suo genere, voluto da Rossi e dedicato ai suoi operai.


MONDADORI PORTFOLIO/BRIDGEMAN IMAGES

VITA QUOTIDIANA

Per noi italiani è indispensabile: come mangiare spaghetti e lasagne altrimenti? Eppure a inventarla sono stati i cinesi (che poi preferirono le bacchette) e per la Chiesa di Giuliana Lomazzi del Medioevo era diabolica.

...e poi arrivò


Tavola coronata

Nel dipinto Il banchetto dei monarchi (1579) è ritratta la tavola di Carlo V (all’estrema destra) con la moglie Isabella di Portogallo, il figlio Filippo II (al centro), parenti e alti dignitari. Sui lussuosi piatti brillano forchette d'oro a tre rebbi.

la forchetta

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Caterina de’ Medici la portò a Parigi per le nozze con

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indispensabile: un servitore infilzava la carne, per esempio un volatile, e la tagliava a pezzi per i commensali. Così facevano Egizi, Greci (nell’Iliade si legge di “forche” impugnate dai convitati) e Romani. Questi ultimi prelevavano, dal triclinio su cui erano semisdraiati, il cibo con le posate di servizio, lo mettevano nel piatto e da qui con la mano destra lo portavano alla bocca. Siamo insomma ancora molto lontani dalle posate individuali a disposizione di ogni commensale; del resto, si trattava sostanzialmente di consumare finger food, come diremmo oggi.

Le progenitrici

Sotto, dall’alto: una forchetta da servizio in bronzo (VI-VII secolo), ritrovata vicino a Shiraz, in Iran, con due lunghi rebbi e manico ritorto; un’altra forchetta in bronzo da servizio, del II-III secolo, questa volta della Roma imperiale, dove talvolta era usata come posata personale. METROPOLITAN MUSEUM OF ART

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n principio furono i denti dritti. Lo dimostrano gli esemplari più antichi della nostra posata più utilizzata: sono stati ritrovati in Cina, in tombe del III-II millennio a.C., ma a differenza delle forchette odierne avevano i rebbi (due o tre) dritti, utili per infilzare più che per mangiare. Nel bacino del Mediterraneo, per trovare i primi rudimentali esemplari di forchette scoperti dagli archeologi, a soli due rebbi, bisogna arrivare al II secolo d.C. Prima di allora non si usavano? Niente affatto. Si legge per esempio nella Bibbia (Samuele, libro I): “Il servo del sacerdote veniva nel momento in cui si faceva cuocere la carne; teneva in mano una forchetta a tre punte, la piantava nella caldaia o nel paiuolo o nella pentola o nella marmitta”. Insomma, per cucinare o per il servizio in tavola la forchetta era


MONDADORI PORTFOLIO/DE AGOSTINI PICTURE LIBRARY

Etichetta per le mani

Qui e nell’altra pagina, due miniature da una copia manoscritta del De Universo di Rabano Mauro. Ritraggono nobili dell’XI secolo a tavola: all’epoca, il forchettone era utilizzato per cucinare, infilzare e servire. Le mani si lavavano in bacili.

Enrico II (1533). La corte francese la trovò “da effeminati” LA SVOLTA MEDIEVALE. Alla corte di Bisanzio le mani unte non piacevano. E infatti l’imperatore e i suoi familiari mangiavano con la forchetta. Quando la principessa bizantina Teodora andò sposa al doge veneziano Domenico Silvo (1071-1084), al banchetto nuziale ostentò una “forcina” d’oro a due denti, suscitando grande scalpore. Il teologo Pier Damiani raccontò che la dogaressa non toccava il cibo con le mani, ma “lo avvicinava alla bocca con fare schizzinoso”, con quello da lui definito “instrumentum diaboli”. Forse non era proprio demoniaca, ma di certo agli occhi di papa Innocenzo III (1161-1216) la forchetta era un segno nefasto della vanità umana, insieme a “tovaglie decorate, coltelli dal manico d’avorio, vasi d’oro, ciotole d’argento” e tante altre suppellettili delle mense più ricche.

Ma lo “strumento diabolico”, nonostante “E venendo la insalata, l’opposizione della Chiesa, continuava, non te le avventare come le seppure lentamente, a fare proseliti. Lo vacche al fieno: ma fa’ ritroviamo in miniature dell’XI secolo, per i boccon piccin piccini, esempio, dopodiché si ripresenta sempre più e senza ungerti appena le dita spesso in ricettari, libri e ovviamente dipinti. póntigli in bocca; la quale non chinarai, pigliando le vivande, A favorirne l’ascesa in Italia fu il nostro fino in sul piatto come talor piatto più famoso, la pasta, la cui produzione veggo fare ad alcuna poltrona: era attestata già nel XII secolo in Sicilia e ma statti in maestà”. Sardegna, a Napoli e Genova. Per mangiare Pietro Aretino, L’educazione questi maccheroni bollentissimi, molto spesso sentimentale di Pippa (1536) lunghi, non c’era che la forchetta: lo racconta il Liber de Coquina (1285-1309), il primo ricettario medievale. Così, nel XIV secolo la posata raggiunse le taverne, come testimonia nel Trecentonovelle il fiorentino Franco Sacchetti: due uomini muniti di forchetta mangiano pasta dallo  stesso recipiente, ma uno dei due non rispetta le 17

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METROPOLITAN MUSEUM OF ART

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MIGRAZIONE EUROPEA. Nel 1483 il fiorentino Sandro Botticelli dipinse il Banchetto nuziale di Nastagio degli Onesti, distribuendo sulla tavola e tra le mani degli invitati “forcine” a due denti. Nella prima metà del Cinquecento Caterina de’ Medici, promessa sposa del re di Francia Enrico II, giunse a Parigi con forchetta (e molto altro) al seguito: nella sua Firenze era indecoroso mangiare con le mani. Nel 1492, nell’inventario dei beni di Lorenzo il Magnifico compaiono infatti coltelli, cucchiai e ben 56 forchette: sulla tavola del signore di Firenze, l’uso della posata con i rebbi era ormai una consuetudine consolidata. La corte francese invece liquidò la novità giunta con la sposa fiorentina come una debolezza da effeminati, più o meno come avevano fatto anche il resto delle corti rinascimentali italiane (Magnifico a parte). La forchetta restava la Cenerentola delle posate, per esempio all’elegante corte estense, dove regnarono tra gli altri Lucrezia Borgia ed Ercole d’Este. Lo testimonia il ricettario del celebre scalco ducale Cristoforo Messisbugo, completato da un accurato resoconto dei banchetti. «Messisbugo fa una descrizione dettagliata di tutti gli arredi di sala, ma senza citare le forchette. Parte dei cibi veniva presa con le mani, che poi venivano lavate in appositi bacili», spiega Alberto Capatti, storico della gastronomia italiana. Poi, finalmente, nel 1570, alla corte dei papi, la forchetta c’è. «Nella sua Opera, il cuoco Bartolomeo Scappi descrive molti menù e precisa la sostituzione di coltelli, cucchiai, “forcine” d’oro e d’argento e tovaglie. La forchetta non sempre viene menzionata, ma probabilmente era una dotazione regolare». A inizio Seicento il viaggiatore inglese Thomas Coryat vide la forchetta nel Belpaese e per primo la descrisse, definendola un’affettazione italiana poco maschile. La portò in patria, dove come ci si poteva aspettare ebbe scarso successo. Neanche in Francia la posata con i rebbi aveva sfondato, per la verità. Re Luigi XIV, che tra Seicento e Settecento alla corte di Versailles disponeva anche di questi utensili per i commensali, da parte sua preferiva mangiare all’antica: con le mani. RIVOLUZIONE A TAVOLA. Per un vero cambiamento si dovette attendere la fine del Settecento, con la Rivoluzione industriale e una maggiore diffusione della ricchezza, ma

Passami la forcula...

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ella sua lunga e sofferta storia, questo utensile ha ricevuto i nomi più svariati: schidioncino (piccolo spiedo), spillone o spilletto (dal latino spinula, piccola spina), lingula (termine latino che indica una lama piccola e affilata a forma di foglia, usata come arma), punteruolo, imbroccatoio o brocchetta (da imbroccare, cioè infilzare, dalla radice celtica brocc che significa punta, chiodo), pirone (dal verbo greco peirein, infilzare, che nel dialetto veneto diventa piròn), forcula, forcina, forchetta, forchettone. AKG_IMAGES/MONDADORI PORTFOLIO

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buone maniere dell’epoca (vedi riquadro in basso), facendo la parte poco elegante di chi si abbuffa.

soprattutto con il passaggio dal servizio alla francese a quello alla russa. Nel primo tutte le portate arrivavano in tavola insieme; nel secondo si susseguivano, come avviene oggi, e richiedevano quindi un servizio individuale di posate da cambiare a seconda dei piatti serviti. Contribuì alla diffusione capillare delle forchette anche la più pratica forma curva, completata nell’Ottocento dall’aggiunta del quarto dente. Quando le forchette cominciarono a entrare nelle case comuni, non lo fecero certo rivestite d’oro. Le più economiche erano di ferro, come nell’antichità, o di stagno. Nell’Ottocento ne esistevano in ottone, sostituito a fine secolo da alpacca (una lega di rame, zinco e nichel) e infine dall’alluminio. L’acciaio inox si aggiunse un secolo dopo. Un successo? Sì, ma parziale a ben vedere: oggi la forchetta a tavola è indispensabile soltanto per un terzo della popolazione mondiale. Tutti gli altri si dividono equamente fra chi usa la • bacchetta e chi le mani.

Fuori l’argenteria

Sopra, posate d’argento in un dipinto tedesco del XVI secolo. Sotto, forchetta italiana del XV secolo. In alto a sinistra, cucchiaioforchetta d’oro e argento (III secolo).

“Noddo cominciò a raguazzare i maccheroni, avviluppa e caccia giù; e n’avea già mandati sei bocconi giù, che Giovanni avea ancora il primo boccone su la forchetta, e non ardiva, veggendolo molto fumicare, appressarlosi alla bocca”. F. Sacchetti, Il Trecentonovelle, Novella CXXIV (1392)


Bon ton

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Nel ’700 si passò al servizio russo, che prevedeva più portate. E quindi richiedeva un set di posate individuali

e mense comuni, con ciotole da cui se andava bene pescavano solo due persone, imponevano un minimo di contegno. I galatei del XII secolo vietavano di pulirsi i denti con le dita, di grattarsi il capo, sputare, soffiarsi il naso nella tovaglia (quando c’era) e così via. Nel secolo successivo Brunetto Latini scriveva nel Tesoretto: “Quando siedi a mensa, non far un laido piglio”, ovvero non ingozzarti a piene mani. Sporcarsi con classe. Nel ‘500 si espresse anche l’Aretino, noto per i sonetti erotici. «Un suo testo fornisce indicazioni alle donne per mangiare l’insalata in modo elegante: il consiglio è di non portare il volto verso la ciotola, ma di cogliere l’insalata con due dita e di portarla con grazia alla bocca», spiega lo storico Alberto Capatti. «Del resto, fino a inizio ‘600 i libri di galateo esortavano le dame a preferire la punta delle tre dita ai “pezzi d’argento”». Ma anche i più virtuosi sporcavano tovaglia e abiti. Perciò i Romani indossavano la vestis cenatoria, che cambiavano nel corso del banchetto.

Siamo italiani

A sinistra, cena in un’osteria di Roma (1866): le forchette in Italia ormai erano diffuse. In alto, forcine d’oro nel banchetto nuziale del dipinto Nastagio degli Onesti, di Botticelli (1483). “Le tue mani siano

pulite, né le dita nelle orecchie né le mani sul capo devi mettere. Non deve l’uomo che mangia, se ha un buon pasto, frugare con le dita nelle porzioni, ché sarebbe cosa sporca”. Bonvesin de la Riva, Zinquanta cortesie da tavola (1288)

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PRIMO PIANO John L. Sullivan cominciò a combattere a mani nude nel

A PUGNI S

ono pronto a combattere con qualsiasi uomo che respiri, per qualsiasi somma da cento a 10mila dollari”: così, su una pagina di giornale, a inizio carriera, John Lawrence Sullivan lanciava le sue sfide. In una decina d’anni, a suon di cazzotti, era diventato l’idolo sportivo d’America e per combattere contro di lui c’era la fila. Il pugilato da attività illegale e spesso disapprovata si era trasformato in intrattenimento per tutti: migliaia di persone si radunavano quando sapevano che sul ring c’era lui e milioni

Vincitore

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John L. Sullivan (1858-1918). Fu l’ultimo a vincere il titolo dei pesi massimi a mani nude contro Jake Kilrain (nella foto grande).

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stavano incollati ai notiziari trasmessi dal telegrafo o ai quotidiani che proprio allora cominciavano a occuparsi di sport. Sullivan è la storia di un campione di boxe ma anche il racconto di un’epoca lontana un secolo e mezzo.

FIGLIO DI PROFUGHI. John Lawrence era nato il 15 ottobre 1858 a Roxbury, sobborgo oggi inglobato nella città di Boston, ma le sue origini erano irlandesi. La sua famiglia si era rifugiata oltreoceano a causa di una delle più spaventose carestie della Storia. In Irlanda la principale fonte di sostentamento per la popolazione era la patata. Talmente importante che nel 1840, appena un secolo dopo il suo arrivo (scoperta in Perù, era stata


1882, divenne un idolo e finì la carriera con i guantoni.

CHIUSI di Anita Rubini

stava bruciando l’Irlanda». E Boston fu: lì John nacque e diventò appunto the Boston strong boy (“il duro di Boston”). Crebbe forte e sano, avviandosi verso le sue misure da peso massimo (179 centimetri per 85 kg che arrivarono anche a 96). Mentre sua madre lo immaginava già sistemato in toga da prete, John si rimboccò le maniche e iniziò a guadagnarsi qualche soldo con lavoretti manuali, e con i combattimenti. Non era certo il pugilato che conosciamo oggi: si lottava in gran segreto e secondo le cosiddette Regole  di Londra (v. riquadro nelle pagine ALAMY/IPA

portata in Europa dai conquistadores, ma si cominciò a coltivare solo dal XVIII secolo), il fungo che devastò i campi di patate irlandesi provocò un milione di morti per fame e due milioni di profughi, la maggior parte dei quali si trasferirono in America. Tra loro c’erano anche i Sullivan. «Quando Sullivan padre dovette scegliere la sua nuova casa, guardò la mappa per avere un’ispirazione», spiega Christopher Klein, autore della biografia in inglese sul pugile Strong Boy: The Life and Times of John L. Sullivan, America’s First Sports Hero (Lyons Press). «Puntò il dito oltre l’Atlantico, sulla costa americana. Non sapeva nulla di Boston, ma non poteva andare peggio che nell’inferno in cui

Prima volta

Paddy Ryan (1851-1900). Nel 1882 Sullivan lo sconfisse (a mani nude) e divenne campione del mondo.

POPPERFOTO/GETTY IMAGES

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Jake LaMotta, il Toro scatenato

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e Sullivan era il duro di Boston, lui era il Toro del Bronx: parliamo di Jake LaMotta a cui fu dedicato il film capolavoro di Martin Scorsese Toro scatenato (1980) per il quale il protagonista Robert De Niro vinse il premio Oscar. L’attore si era immedesimato a tal punto con il pugile newyorkese che ingrassò una ventina di chili. Proprio il peso era uno dei principali crucci di LaMotta: oltre che sul ring, lottava sulla bilancia per rimanere entro i 70 kg della sua categoria, i pesi medi. Non ci riusciva mai, e tra un incontro e l’altro finiva per metterne su anche 20. Salvato. Giacobbe LaMotta, detto Jack, era nato il 10 luglio 1921. Figlio di immigrati italiani, si mise nei guai fin da giovanissimo e finì anche in riformatorio: “Se non avessi avuto la boxe, avrei passato la mia vita in prigione e avrei finito per fare davvero male a qualcuno”, dichiarò. Iniziò la carriera pugilistica a vent’anni e nel 1949 a Detroit diventò campione del mondo, rimanendo in carica per tre anni. Cioè fino al 14 febbraio 1951, quando a Chicago fu messo al tappeto da Sugar Ray Robinson, suo storico avversario (in alto). Secondo alcuni LaMotta subì il cosidetto “massacro di San Valentino” perché arrivò all’appuntamento sfibrato dall’ennesima perdita di peso. Tre anni dopo, con all’attivo 106 incontri (di cui 83 vittorie), Jack era pronto ad appendere i guantoni al chiodo, ma non a uscire di scena. Comprò bar e locali notturni in cui si esibiva come show man e intraprese anche la carriera di attore. Scrisse inoltre la sua autobiografia (intitolata appunto Toro scatenato) e visse fino alla veneranda età di 95 anni.

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successive). Si tiravano pugni a mani nude, in imprese di resistenza che duravano dozzine di round, fino a quando uno dei due sfidanti non stava più in piedi. Era questo il contesto in cui iniziò la sua carriera Sullivan il duro, che a 21 anni aveva già una certa fama.

I PRIMI MATCH. La sua prima vittoria si celebrò in un teatro di Boston, tra uno spettacolo di varietà e l’altro. Gli incontri di boxe, per aggirare le leggi che li proibivano, si svolgevano infatti nei teatri e venivano reclamizzati come “mostre” che si alternavano a esibizioni canore e balletti. L’incoronazione a campione del mondo arrivò il 7 febbraio 1882, quando lo strong boy mise al tappeto a Mississippi City un altro irlandese, Paddy Ryan. Da lì, al pari di una moderna rock star, partì per un lungo tour che lo portò a combattere 195 incontri in 136 città diverse, incassando 250 dollari a match. Man mano che i soldi arrivavano, John li sperperava in alcol e donne. Il pugilato era uscito dalla macchia: perché tanto successo? Gli americani avevano da poco superato la Guerra civile e, spiega Klein, «la vita si muoveva a una velocità mai vista prima, i progressi della tecnologia e della comunicazione comprimevano le nozioni di spazio e tempo, la stessa luce artificiale modificava i ritmi biologici di sonno e veglia. Gli sport diventarono un antidoto alla nuova (e anche più sedentaria) vita moderna». Ci si appassionò al baseball (anche Sullivan vi si era cimentato, con ottimi risultati) e alle corse, ma il pugilato diventò una mania. Negli Anni ’80 dell’800, Richard Kyle Fox, editore della rivista scandalistica National Police Gazette, fiutò gli umori popolari e fu il primo a volere che il suo giornale coprisse anche gli eventi sportivi: si cominciò a non parlare d’altro che di pugilato, e del ragazzone di Boston. FINE DI UN’ERA. L’8 luglio 1889 Sullivan affrontò Jake Kilrain in quello che sarebbe stato l’ultimo incontro disputato a mani nude per il titolo mondiale dei massimi. Il luogo del

match fu tenuto segreto per evitare l’arrivo delle forze dell’ordine dato che quel tipo di combattimento, senza i guantoni ormai obbligatori, era ufficialmente vietato anche se ancora praticato. In palio, una cifra record: 10.000 dollari (oltre alla cintura e il titolo di campione del mondo). A Richburg (Mississippi), l’incontro durò oltre due ore e fu vinto in 75 round da Sullivan, per abbandono dello sfidante. Tre anni dopo, lo attendeva invece l’ultimo incontro della carriera, questa volta con i guantoni. Il 7 settembre 1892, a New Orleans, Sullivan fu sfidato da James J. Corbett (soprannome: “Gentleman Jim”). “Tutto l’allenamento di cui ho bisogno per quel tipo è un taglio di capelli e una sbarbata”, aveva dichiarato Sullivan che a quel tempo GETTY IMAGES

BETTMANN ARCHIVE/GETTY IMAGES

Sullivan è considerato il più grande prizefighter (“pugile a pagamento”) del suo tempo

Guantoni...

Il poster dell’incontro Sullivan-Corbett (7 settembre 1892): era il primo mondiale dei massimi coi guantoni. Sullivan perse in 21 round.


ULTIMO ROUND. Sicuro del successo, Sullivan era pronto a sfidare Corbett. «La boxe si era trasformata nell’ultimo decennio, in gran parte proprio grazie a Sullivan: appoggiando le nuove regole del marchese di Queensberry, traghettò il pugilato dall’antidiluviana era dei pugni nudi a

La boxe si mette in regola

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ell’antica Grecia le mani dei pugili erano cinte da fasce di cuoio con le borchie che non servivano a proteggerle, ma a fare più male. Un po’ quello che accadde nell’800 quando il pugilato visse uno spartiacque epocale: l’introduzione dei guantoni. Prima si combatteva per lo più a mani nude. Uno dei primi boxer, l’inglese Tom Figg – che vinse nel 1719 il primo campionato inglese – combatteva anche con una sorta di manganello che serviva a tenere lontano l’avversario. Fino al 1730 Figg dominò su tutti i ring, o quel che allora si usava: il terreno di scontro era spesso delimitato da una riga circolare tracciata per terra (appunto ring, “cerchio”, “anello”). Perché in questa forma arcaica di pugilato fossero messi dei “paletti” bisognò attendere il 1743 quando un altro pugile, Jack Broughton (1703-1789), scrisse delle regole che poi confluirono nell’800 nelle London Prize Ring Rules, le Regole di Londra. Si combatteva sempre a mani nude ma, per esempio, non si poteva colpire un avversario a terra (che aveva 30 secondi per alzarsi). Cambio pagina. Nel 1867, John Sholto Douglas, IX marchese di Queensberry, stilò 12 nuovi “capitoli”. Le Regole del marchese Queensberry, che furono introdotte gradualmente nei ring, stabilivano che ognuno combattesse alla pari, con avversari della stessa classe di peso (nascevano le principali categorie: leggeri, medi e massimi) ma soprattutto rendevano obbligatorio l’uso dei guantoni. Fu un rivoluzione: «I guantoni resero gli incontri più brutali e più veloci», spiega lo storico dello sport Christopher Klein. «Prima non si esagerava, proprio per evitare di rovinarsi l’arma più importante, le proprie mani».

quella moderna dei guantoni», spiega ancora Klein. A New Orleans, John avrebbe combattuto davanti a 10mila persone: era finita l’epoca dell’illegalità, dei raduni segreti e delle irruzioni della polizia. Con l’America intera che

tratteneva il fiato in attesa di sapere l’esito di questo storico scontro, il “duro di Boston” finì al tappeto al 21° round. Il re era stato spodestato e Corbett diventò per sempre “l’unico uomo che ha battuto • Sullivan”.

...e baffi

Sullivan in una foto scattata attorno al 1882, all’inizio della sua carriera di pugile. I baffoni diventarono il suo marchio di fabbrica.

GETTY IMAGES

era impegnato in altre faccende: in uno spettacolo teatrale che parlava di lui, L’uomo che veniva da Boston (nel frattempo si era buttato anche nella recitazione) e nella stesura della sua autobiografia (300 pagine su cui stava lavorando con un ghost writer) Life and Reminiscence of a Nineteenth Century Gladiator. Inciso: la cosa più interessante del libro è l’appendice redatta da un medico con le misure del corpo di Sullivan, tutte sopra la media, tranne quelle della tibia che invece era stranamente corta e gli permetteva una leggendaria agilità sul ring. Includeva anche due foto del pugile completamente nudo, che fecero arrossire più di una fan...

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la leggenda del PIETRO

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mennea e i suoi record

Senza freni

Mennea (19522013) durante un allenamento in pista con il suo storico coach Carlo Vittori, che lo seguiva in Vespa. 50

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Città del Messico nel 1979 ho assistito a un evento storico per davvero, peccato che il centralino della Rai per minuti e minuti trillò a vuoto (in Italia erano le 23:00 circa); poi mi risposero che il Tg della notte era appena finito». Il giornalista Gianni Minà raccontava così quel memorabile giorno in cui Pietro Mennea entrò nell’olimpo dei velocisti correndo i 200 metri in 19"72. “Siamo nell’anno 1979, mica nel 1972” fu il laconico commento a caldo, dopo aver visto il risultato sul tabellone, dell’atleta pugliese. Il ventisettenne di Barletta minimizzava, ma sapeva bene che aveva appena strappato il primato a uno dei più grandi sportivi statunitensi, Tommie Smith, che nel 1968 quella stessa distanza (sempre a Città del Messico, in quota) l’aveva percorsa in 19"83, primo ad abbattere il muro dei 20 secondi sui 200 metri.

GARE CON LE AUTO. L’avventura da corridore di Mennea iniziò prestissimo. A soli 13 anni entrò nel G.S. Avis Barletta e a 15 affrontava auto di grossa cilindrata sui 50 metri, di notte. “È arrivata una Porsche da Brescia, la vuoi sfidare?” gli dicevano. Lo raccontava lui stesso nelle interviste: “Scommettevano e a me davano 500 lire di premio”. Con quei soldi il giovane Pietro si comprava un panino. “Quando ho iniziato a correre i calzoncini me li cuciva lui (il padre, ndr). Oggi non mi entrano più, nemmeno al braccio, ma li tengo ancora. Le prime scarpe da gara le ho prese più grandi, dovevo ancora crescere, sarebbero durate”.

Il velocista pugliese conquistò i suoi primati, a lungo imbattuti, con una ricetta: mai risparmiarsi. di Federica Ceccherini


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iligendae Nato nelotatum 1952, era il terzoeatendi di 5 sciatibus comnitcasalinga ea id quidisc figli, padre sarto, madre illanim et utevelliquam che aiutava il marito si occupava assimendam es dianden dei figli. «Le condizionique economiche ecerunt uritior pur epudis debit explit della famiglia, dignitose, re voluptatesacrifici. nem sum, optae impongono E da essireil si volorem porerorio que es molto erchiti giovanissimo Pietroetimpara quia Itatiumalla ut fatica ma quodic prestoeatemporio. una propensione tempernam et odi che in perero officimil e all’adattamento ne forgiano aximincit, to velectur samus carattere e volore, risulteranno determinanti ut volecturibus volupta temque ne nella formazioneeadel suo talento», dolorib raccontausamus. il giornalista Pippo Russo nel libro Pietro Mennea. Più veloce

escil laccumqui ullaClichy). voloremConvinto volupid del vento (Edizioni empelit che soloest, consunt, tantaquunti fatica ullessintora si ottengano cusciumquis eos doluptae risultati, Mennea si buttò arehenimi, capofitto omnihit ibusam ipici in ogni impresa dellaventur?Aceatib sua vita: nello ustotatemo id cinque et archillauree: maio estis studio (prese Isef, magnati ossimpe roviducia delluptam Scienze politiche, Giurisprudenza, que dunti nonsedis autemque Lettere e Scienze motorie), neldenimpor lavoro magnimo lorempoavvocato, rumquis professore acculparia e (commercialista, sus diti delit maionse ditaestios scrittore) e naturalmente nella corsa. comnias imusci omnisitibust qui “Lo sport insegna che per laavittoria dellabo rerum, quamuscia ditas resed non basta il talento, ci vuole il lavoro quo core, quatempore nosam aut e il sacrificio quotidiano. Nelloetsport resci sit ex eatia Mennea. quibusapit aut come odiatur nella vita” diceva E sulle quo entur re naturiatust disque vittorie sportive aggiungeva: “Ioliquas non et alitas ra alibus verem. ItasI rem facimsi credo nella predestinazione. risultati saped quiam secuslavoro. dolorecest ottengono sololaboria con molto Nella as atur, sita excearu et miaiuscarriera sportiva mintionseris sono allenato placcum ute natis cinque-seique oredicid al giorno, tuttidisciis i giorni, re, autatem res apeliqui giorni oditam perilit trecentosessantacinque et quaspe nonsendaecus l’anno, tranihitaecus, gare e allenamenti per quasi eumque paritas dus exernat aut arum venti anni”. ex eoste natati quiatetur sam qui OLIMPIONICO. La prima medaglia optaerror adis vitatest esequiatur aci olimpica arrivò 1972, di cum quasin nus nel se quassi ut bronzo, harcime sui 200 metridolorei alle Olimpiadi di Monaco ndelecaestet cations ectiis (tristemente per la vicenda degli autemporuntnote acepero vitatqu aecus, atleti rapiti da doloris un commando nobis israeliani aut perrum restiis eum di terroristi palestinesi, in nem fuga. Itat quia sitio finita quo blaut un massacro): arrivò dietro a due essima voluptior maxim autat dolorro campioni, il sovietico Valerij Borzov e cus. loFiciisi statunitense Larry Black. comnimagnam aut etur aut Era iniziato,aligend per lui,aeptatur? un periodo occaernatem molto duroaut dioccumquis allenamentimagnimin serrati a Lab idit Formia, nel centro di preparazione re ium atum que voloremquis serisim olimpica. volluptio. E proprio qui conobbe il suo allenatore, che divenne anche il suo mentore, Carlo Vittori. Il coach marchigiano raccontò spesso l’ossessione dell’atleta barlettano per la perfetta performance, che lo portava a spingersi sempre molto oltre i suoi limiti e a non essere mai contento dei risultati raggiunti. Magro, tirato, spigoloso, con quella smorfia di fatica stampata sulla faccia in tutte le gare, arrabbiato (diceva che la rabbia gli serviva per vincere), era sempre in lotta per aggiudicarsi il primo posto. Nel 1976 dichiarò di non voler prendere parte alle Olimpiadi di Montreal, salvo poi ripensarci e partecipare, senza tuttavia raggiungere alcun risultato di rilievo (arrivò quarto sui 200 metri). L’episodio, stigmatizzato da larga parte dell’opinione pubblica e dei commentatori, contribuì all’epoca a dare di Mennea l’immagine di un personaggio scorbutico, difficile da trattare. Ma di lì a poco la fama mondiale lo ripagò di ogni amarezza.

RECORD DEI RECORD. Settembre 1979, Universiadi di Città del Messico. L’atleta pugliese mette a segno due primati destinati a durare eccezionalmente a lungo: quello italiano dei 100 metri piani con un tempo di 10"01, battuto dopo 39 anni da Filippo Tortu (2018); e il record mondiale (ancora oggi record europeo) dei 200 metri piani, con quei 19"72 che lo fecero entrare di diritto nella leggenda. Il primato dei 200 passerà indenne un intero decennio (gli Anni ’80) resistendo fino al 1996, quando il velocista statunitense Michael Johnson fermò il cronometro a 19"66 (dal 2009 il record è del giamaicano Usain Bolt, con 19"19). A Mosca nel 1980 arrivò l’oro olimpico, sempre sui 200, strappato (per 2 centesimi) al campione britannico Allan Wells. Ai neonati Campionati del mondo di atletica (Helsinki, 1983) conquistò bronzo e argento. Nell’84 alle Olimpiadi di Los Angeles conobbe il fisioterapista Robert Kerr, dal quale – raccontò al quotidiano La Repubblica – si fece convincere ad assumere sostanze dopanti. Due iniezioni di ormone della crescita (somatotropina, all’epoca non vietata), gli bastarono, affermò, per capire che non ne avrebbe mai più fatto uso. Questa confessione però gli costò molte critiche, che avvelenarono la fine della sua carriera sportiva. A 36 anni compiuti, nell’88 a Seul, partecipò alla sua quarta Olimpiade ma si ritirò dopo il primo turno dei 200 metri. SECONDA VITA. Negli Anni ’90 per Mennea iniziò una nuova fase della vita. Divenne professore, si sposò e si buttò in politica. Ma non si legò a nessun partito: nel 1999 fu europarlamentare con i Democratici, nel 2001 si presentò al Senato con Italia dei Valori (non fu eletto), per passare nel 2002 a Forza Italia, che lo candidò alle elezioni per il sindaco di Barletta (non superò il primo turno). Ammalatosi di un tumore al pancreas, tenne segreta la notizia. Con grande sorpresa di tutti, il più grande velocista dell’atletica italiana, detto “la Freccia del Sud”, se ne andò il primo giorno di primavera del 2013, ad appena sessant’anni. Lasciando dietro di sé, oltre a una triste scia di polemiche sull’eredità, un grande insegnamento: “la fatica non è mai sprecata”. Lui ne era la prova vivente. • 51

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