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Elisabetta Tufarelli
Le potenzialità delle
nuove generazioni
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non sono ancora sfruttate come si dovrebbe. Giovanni Gioia, al vertice dell’Anga, ha le idee chiare su cosa bisogna fare
di Elisabetta Tufarelli
Alla guida dei Giovani di Confagricoltura da poco più di un mese, Giovanni Gioia vuole portare le imprese under 35 al centro delle grandi questioni che il settore primario sta affrontando. Sostenibilità e produttività in primis. Trent’anni, palermitano, Gioia rappresenta la quarta generazione di una famiglia di imprenditori cerealicoli. La sua azienda, l’Agricola Kibbò, ha fatto del grano duro proveniente da seme certificato il proprio punto di forza. Essere presidente dell’Anga è oggi diverso da anni fa? Un
Più risorse ai giovani
vecchio slogan recitava siamo giovani, mica piccoli… Non so se sia diverso da prima. Certamente la gran parte di noi conduce imprese in prima persona, con le complessità che ne derivano. Nello stesso tempo abbiamo il difficile ruolo di immaginare l’agricoltura del futuro, con la consapevolezza di dover contribuire fattivamente alla nostra Organizzazione, consci della difficile fase attuale. Abbiamo vissuto un triennio estremamente complicato. Affrontiamo stravolgimenti della Politica Agricola Comune, contemporaneamente ad una delle più gravi crisi sociali, economiche e, purtroppo, anche geopolitiche. Tutto ciò si traduce per ogni territorio in specifiche sfide che toccano la quotidianità di ogni agricoltore, a prescindere dalla sua età anagrafica. L’attuale scenario internazionale e l’esplosione dei costi di produzione rimettono in discussione gli obiettivi strategici delineati nel Green New Deal e nella Farm
L’ultimo Censimento Generale dell’Agricoltura dell’Istat rivela una drastica riduzione delle imprese guidate da giovani. È necessario ripensare le politiche sul ricambio generazionale
Giovanni Gioia neopresidente dell’Anga
to Fork. Al centro del dibattito pubblico è entrato prepotentemente il tema della produttività e della sicurezza alimentare. Non ci aspetta certamente una passeggiata, ma una difficile scalata tra funzionamento del mercato globale, con le sue implicazioni e interconnessioni dell’economia italiana ed europea con il resto del mondo, la realtà attuale e la volontà di far crescere le nostre imprese. Noi giovani imprenditori viviamo intensamente questa situazione e siamo consapevoli di dover puntare sull’intensificazione sostenibile delle produzioni, dimostrando che risultati economicamente remunerativi e cibo sano non sono in contrasto con i principi di sostenibilità ambientale e con l’utilizzo delle più avanzate tecniche di innovazione genetica. Si parla da tempo di un ritorno alla terra, di giovani professionisti che scelgono di puntare sulle aziende di famiglia. È davvero così? Non proprio. I dati dell’ultimo Censimento Generale dell’Agricoltura dell’Istat rivelano che, negli ultimi 10 anni, le aziende guidate da under 35 si sono ridotte di oltre 82.000 unità. La loro percentuale è scesa dall’11,5% al 9,3%. Come se non bastasse, il 18% delle imprese giovani non supera i tre anni di attività. È giunto il momento di rimettere in discussione non solo il primo insediamento nel suo ruolo di strumento principe, ma anche l’impalcatura generale delle misure destinate al ricambio generazionale. I giovani imprenditori agricoli hanno titoli di studio più avanzati, attuano maggiormente investimenti in innovazione e diversificazione e conducono aziende con una dimensione media doppia rispetto a quelle condotte da over 40 (18,3 ettari contro 9,9 ettari). La giovane impresa è più orientata al mercato e alla crescita e può contare su maggiori economie di scala. È necessario compiere più sforzi per sostenere un vero processo di rinnovamento del settore primario, puntando sulla parte più promettente e professionalizzata del comparto. Quale potrebbero essere le soluzioni? È sufficiente riprogettare le politiche di sviluppo? Non credo che sia un problema risolvibile con un colpo di bacchetta magica. Occorre certamente utilizzare buon senso e programmare tenendo presente gli obiettivi, attraverso misure snelle: sburocratizzare e facilitare l’accesso anche a modeste somme di liquidità spesso fa la differenza nel dare impulso alle aziende. Se l’obiettivo è creare imprese economicamente sostenibili, favorendo l’accorpamento e le reti d’imprese, serve, di conseguenza, adottare scelte chiare. La giovane impresa ha necessità di essere affiancata per i primi anni di attività, indubbiamente i più difficili, con strumenti di supporto finanziario e agronomico che accompagnino il consolidamento aziendale. In agricoltura, infatti, gli elevati costi di avviamento e investimento in beni strumentali si combinano generalmente a tempi di rientro lunghi. È necessario puntare sulla figura di agricoltore attivo e canalizzare le risorse verso le aziende performanti, rivedendo anche i meccanismi di assegnazione dei punteggi nelle graduatorie dei bandi PSR, spesso incentivo per progetti mal tarati, sia in un’ottica di mercato che di esposizione economica. Infine, c’è l’annoso e irrisolto problema delle barriere all’ingresso, come quella del credito. Andrebbe introdotto un sistema di garanzie statali legate alla presentazione di validi piani di sviluppo aziendale, potenziando e migliorando strumenti come quelli già messi a disposizione da Ismea. Anche prevedendo fasi di controllo dell’investimento per correggere il tiro, se necessario. nnn
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EXTRAPROFITTI, IL TAR DELLA LOMBARDIA ACCOGLIE IL RICORSO DI CONFAGRICOLTURA
La prima sezione del Tar Lombardia ha accolto i ricorsi contro la delibera dell’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (Arera) che introduce limiti ai ricavi (i così detti “extraprofitti”) ottenuti dagli impianti alimentati da fonti rinnovabili. L’ffetto dell’accoglimento è stato l’annullamento degli atti impugnati. Tra i primi ad aver presentato ricorso c’è Confagricoltura. L’accoglimento del ricorso è un importante segnale alle tante imprese agricole italiane che hanno investito nella realizzazione di impianti green per puntare all’autosufficienza energetica e alla diversificazione delle proprie attività, e che rischiano di vedere i propri sforzi vanificati da una tassazione che Confagricoltura ritiene discriminante, irragionevole e sproporzionata.
Le politiche per i lavoratori non sono più percepite dalle imprese come ostacolo, ma come elemento strategico. Lo dimostrano i numeri dell’indagine di Generali Italia per il 2022
di Francesco Bellizzi
La persona al centro
Il Welfare Index Pmi, l’indagine che Generali Italia dedica alle politiche per il personale del sistema produttivo nazionale, ha chiuso l’edizione di quest’anno con numeri in decisa crescita. Una crescita che riflette il miglioramento dei welfare aziendali in ogni settore produttivo dello Stivale. La ricerca, di cui Confagricoltura è partner, si sviluppa su 156 variabili e quest’anno è stata svolta su un campione di 6.500 aziende. Cifra che porta la platea indagata, dalla prima edizione del 2016 ad oggi, a 33mila realtà. Sette anni fa, le partecipanti erano state 2.140. Alla conferenza stampa, (a cui ha partecipato il ministro del
Sandro Gambuzza
Vicepresidente di Confagricoltura Lavoro, Marina Elvira Calderone) era presente il vicepresidente di Confagricoltura, Sandro Gambuzza, insieme alle quattro imprese premiate, socie della Confederazione. “Mai come in questo delicato periodo storico c’è bisogno di welfare aziendale - ha detto Gambuzza - visto quanto il caroenergia e l’aumento dei costi di produzione stanno gravando sul bilancio delle famiglie”. Delle dieci aree prese in considerazione dall’indice di Generali, quella che fa registrare le performance migliori è quella della sicurezza, con il 100% dei partecipanti che presentano un livello medio e il 74, un livello alto o molto alto. Segue il welfare di comunità (il 66,5% presenta livelli alti o molto alti). Buona anche la performance degli investimenti sulla formazione e l’aggiornamento: il 40,6% raggiunge i livelli più alti dell’indagine. Il welfare aziendale non è più percepito come ostacolo, bensì come elemento strategico per lo sviluppo sostenibile dell’impresa, come dimostra l’indagine fatta dal gruppo assicurativo, insieme al Cerved, sui bilanci 2019-2021 di 2.590 imprese. Il dato rilevante è che il fatturato per addetto cresce proporzionalmente con il livello di welfare. Lo stesso vale per gli utili che, per chi ha politiche del personale avanzate, nel 2021, sono stati il doppio rispetto a quelli delle realtà con un livello base (6,7% contro 3,7%). Sono migliori anche risultati del margine operativo lordo pro capite (ossia la produttività per singolo addetto) che passa dal 9,4% del 2019 all’11% dell’anno scorso. Fanno la differenza anche le dinamiche occupazionali: il 43% delle imprese con livello di welfare elevato segnano una crescita occupazionale con un saldo positivo di oltre 3 punti percentuali rispetto alle altre. Migliora la percentuale di imprese da 250 dipendenti con livelli elevati di governance del personale che passa dal 64,1% del 2017 al 70,7 di oggi). Sale anche il numero delle Pmi (tra i 101 e 250 addetti) attente al benessere di lavoratori e lavoratrici (66,8% rispetto al 59,8 di cinque anni fa. Scende drasticamente la percentuale di quelle che non investono seriamente nell’ambito (dal 42,7 del 2016 al 29,8% del 2022). Purtroppo, continua ad essere alto anche il gap di genere con il 42% delle imprese coinvolte senza donne in posizioni di comando. La quota femminile raggiunge il 38,7%nelle realtà più virtuose e scende al 29,6 tra quelle con un welfare di base. nnn