Umberto Saba di Carmelo Aliberti

UMBERTO SABA.…..

CARMELO ALIBERTI

Edizioni Terzo Millennio - supplemento omaggio Collana ROBINSON – Monografie agosto 2017 - copyright © Tutti i diritti riservati all'autore

Umberto Saba

UMBERTO SABA: -un uomo onesto e sensibile, Maestro di Umanità e di poesia. Tra autobiografia poetica e passione politica-. Umberto Saba, poeta triestino tra i più singolari e importanti della letteratura italiana del Novecento, ha raccontato in versi, per oltre mezzo secolo, il legame profondo con la sua città, osservata nei molteplici aspetti quotidiani, con gli occhi ingenui del bambino, incantato dalla austera e decorata bellezza dei suoi palazzi, delle sue vie, dello specchio scintillante delle acque del suo mare, in cui si tuffa il limpido azzurro del cielo, popolato dalle bianche vele delle barche, in attesa di scattare per la gara della Barcolana. Nasce a Trieste il 9 marzo 1883 in via Riborgo nella città vecchia, figlio del commerciante veneziano Ugo Edoardo Poli e di una ragazza di origine ebrea, Felicita Rachela Cohen, ma triestina. Il. padre. dopo. averla. sposata. di. malavoglia, incinta, scompare per. sempre, lasciando in difficoltà la moglie a provvedere alla crescita del bambino. Rimasto orfano di padre, presto viene lasciato solo anche dalla madre che, rimasta depressa per la fuga del marito, affida la piccola creatura ad una balia slovena, Ioseffa Gabrovic schobar, detta Beba Sabaz, che lo cresce con affetto filiale, fino al “ritorno” della madre che lo educa assieme ad altre due sorelle.

Sostenuto dalle tre donne con molti sacrifici, Umberto frequenta le scuole con grandi difficoltà e con incomprensibile scarso impegno, passando dal Ginnasio Dante Alighieri, all’imperiale Accademia di Commercio e Nautica, fino all’’abbandono, dovuto 2

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particolarmente all’eccessivo autoritarismo prescrittivo dell’insegnamento di regime, come sempre insensibile a capire le esigenze libertarie e creative dei giovani geni. Così, a diciassette anni, segue la sua reale vocazione e incomincia a scrivere la sua prima poesia, intitolata “Ammonizione”, firmandola con il nuovo cognome italianizzato di Saba, in segno di riconoscenza verso la sua affettuosa nutrice, che apparirà nella sezione “Poesie dell’adolescenza e giovanili del suo primo volume “Poesie”, pubblicato a sue spese nel 1911 con prefazione di Silvio Benco.

A vent’anni si reca a Pisa per frequentare l’Università, abbandonata dopo pochi studi di letteratura e archeologia, per vivere con gli amici, vicini alla rivista “La Voce” di Papini e Prezzolini, continuando a scrivere poesie e resoconti di viaggio, di cui uno dedicato al Montenegro, esce nel 1915 sul giornale dei socialisti giuliani: “Il Lavoratore”, che successivamente, dal 1921 al 1923, sarà clandestinamente diretto dal rifugiato e ricercato Ignazio Silone in fuga per le persecuzioni fasciste. Nel 1906 si reca a Firenze, sovvenzionato dalle tre donne di casa. Nel 1907, si innamora di Carolina Wolfer, che il poeta chiamerà Lina e che sposerà con rito ebraico nel 1908, prima di partire per Salerno per assolvere agli obblighi del servizio militare (ispiratrice di tante poesie. A proposito, si racconta che la moglie si offese quando in una poesia, a lei dedicata, il poeta la definì “pollastrella”). Nel 1909 nasce Linuccia, la sua unica figlia. Nel 1912, per le edizioni della rivista “La Voce” esce la sua seconda raccolta “Coi miei occhi”, che successivamente prenderà il titolo di “Trieste e una donna”, proveniente dalla poesia “Trieste”, dedicata alla sua città nel 1911 e dalla donna da lui sposata e per sempre amata. Fin da queste prime prove giovanili, si evidenziano le connotazioni della 3

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produzione lirica di Saba, caratterizzata da una visione “ritrattistica” del paesaggio, delle architetture cittadine di Trieste, connotato da simmetrica e armoniosa austerità regale, un atteggiamento quasi umano per tutte le creature, con un silenzio sotteso in una misteriosa comunicazione, in cui si intuisce un linguaggio di amicizia e di solidarietà e reciproca condizione di minime e indifese “fibre dell’universo”, un tenero e aereo sentimento d’amore esteso alle sue due donne, Linuccia e Lina, nella quale con umiltà sentimentale immagina di veder luccicare l’ingenuità, la mansuetudine, il candore, l’innocenza, la laboriosità, la fedeltà e la docilità di alcuni animali domestici, assieme ad una stupefatta ammirazione per i bambini in festa e felici nei loro giochi spensierati. Nella lirica “Ho parlato ad una capra”, il poeta concentrando l’attenzione su un animale domestico, colto in una condizione di estremo disagio, evidenziato nelle locuzioni: “era sola”, “era legata”, ”era bagnata dalla pioggia”, “belava”, identifica il suo malessere esistenziale nella sofferenza di quella docile creatura, innalzata a figura emblematica del dolore inguaribile dell’intera umanità, particolarmente di quella parte delle vittime della storia, come ogni creatura umana e particolarmente ebrea, nelle cui radici etniche Saba-uomo si riconosce, condividendone il crudele destino di persecuzione, di torture disumane, di morte atroce nei lager nazisti. Attraverso le poche, ma significative indicazioni, si constata la prefigurazione del teorema di “Poesia onesta”, delineato dal giovane poeta sulle pagine de “La Voce”. È il progetto di una poesia “onesta”, innestata sulla classicità della poesia eterna, non assoggettata a sperimentalismi che spesso sono pure esercitazioni tecnico-lessicali che, privi di nessi logici, ora 4

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aggrovigliano il tessuto del verso, ora condensano in parabolici intrecci e devianti sopraffazioni di parole arcaiche, innestate in lacerti moderni di versi, stigliolate di flussi verbali di difficilissima comprensione per il lettore, allontanandolo dal soave sapore della vera poesia. Saba, convinto che la poesia deve essere il linguaggio comunicativo tra tutte le creature, in nome dell’origine comune e del destino finale di morte, che accomuna tutti gli esseri animati e inanimati, ritiene adatto ad una tale fine di disfacimento del tutto, non isolare i suoi versi dalla realtà, ma predilige un linguaggio semplice, assortito con la leggerezza delle cose che una comune origine umile e il comune percorso di vita accidentato, può essere il solo mezzo di comunione tra tutte le cose create, legate ad una giostra insidiosa di vita e di morte. Tale comune condizione di creatura, “umile fibra dell’Universo”, induce il poeta a optare spontaneamente per l’uso di uno strumento comunicativo, in un senso emblematico, “onomatopeico”, come se simili modi diversi più o meno semplici, facilitassero un comune sentimento percettivo del plasma verbale e reale. È la smisurata fede nell’operato del padre creatore che suscita nei versi di Saba l’eco dell’alito dei pensieri o delle vibrazioni degli elementi. Nel contesto di una realtà, unificata da tale invisibile capacità di ricezione, il poeta non solo riesce a capire la sofferenza universale, ma attraverso il colloquio, sillabariamente scandito, Saba è sereno per essere “una fibra dell’universo”. Ne deriva un verso che sgorga fluidamente nel testo, un modo di poetare semplice, quasi quotidiano, che riesce a trasmettere pensieri, emozioni, descrizioni, affettività, con mezzi linguistici non repellenti, ma capaci di cooptare il cuore del lettore nei sentimenti generali. La sua poesia è limpida, trasparente, 5

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onesta perché offre al lettore una lettura onesta e non sofisticata e, quindi, ingannevole, delle varie sfaccettature della vita dell’uomo e delle cose create, un modo di interpretare il mondo, simile a quello di S. Francesco. La poesia di Saba può diventare il vero linguaggio del poeta che, se vuole essere utile alla società, dovrà rinunciare agli istrionismi verbali usati in modo autoreferenziale. Questa alterità rende la poesia del poeta triestino non assimilabile ai coevi modelli estetici del dannunzianesimo, del futurismo e dell’ermetismo e ne distingue la singolare triestinità, di una città, cioè, afflitta fin dal ‘300 da localismi, multinazionalismi, imperialismi e plurilinguismo, sempre alla ricerca di una identità, in una realtà mitteleuropea. Il poeta, respirando l’aria libera nel meraviglioso porto franco, dove si intrecciano con traffici intensi, una molteplicità di linguaggi che, nei versi di Saba, diventano espressione del concetto già ben definito di “poesia onesta” e si va attenuando fino ad illimpidirsi, con una conquistata purezza espressiva, nell’immediata cattura degli ingredienti peculiari della città giuliana, finalmente e gradualmente riuscita a circoscrivere gli elementi identificativi del suo esistere. Ancora lontano dalla liberazione della sua città dagli ancoraggi restrittivi della storia, Saba, già nel 1912, con la poesia “Trieste” si affida alla immediatezza descrittiva ed impressionistica degli avvenimenti, per volgersi alla descrizione interiore dello stato d’animo, come si può cogliere nelle successive stesure della stessa poesia(1912, 1921, 1945), dove la città prima “selvaggia” si fa “scontrosa” e la vita del poeta, prima contemplativa si fa pensosa e “schiva”: in una fase poco serena della vita familiare, Saba nel 1913 vive a Bologna, dove collabora con “Il resto del Carlino” e successivamente a Milano, dove 6

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lavora al Teatro Eden, fino alla partenza per la guerra da lui vissuta in caserma, dove svolge l’attività di dattilografo e traduttore per i prigionieri austriaci, grazie alla conoscenza del tedesco. Tornato a Trieste dopo la guerra, vive per un certo periodo senza problemi finanziari usufruendo dei beni lasciatigli da una zia, ma con l’annessione all’Italia si registra un peggioramento della città, in quanto Trieste perde la centralità marittima, di cui aveva sempre goduto e diventa un porto periferico dell’Italia. Inoltre con l’arrivo del fascismo, inizia la persecuzione contro gli sloveni comunisti e verso le comunità di altra fede e ideologia, generando una condizione di astiosa confusione tra fascismo e italianità. Il poeta segue con molta attenzione gli sconvolgimenti nella sua città, mentre è costretto a cercare lavoro, in seguito al dissolversi di ogni risorsa economica, trovandolo presso la sala cinematografica del cognato (ancora esistente in via xx settembre, con il compito di inventarsi slogan pubblicitari in versi, per attrarre i passanti a vedere il film proiettato in sala. Insoddisfatto di questo lavoro, nel 1919 rileva la libreria antiquaria Maylander, oggi ancora esistente grazie a Mario Cerne, figlio di Carlo Cerne, che fin dal 1924 affianca il poeta nell’attività di libraio e che riesce a trascinare il poeta allo stadio, per assistere ad una partita della squadra locale. In quella circostanza compone in onore della squadra locale, la poesia “Squadra paesana”, ricca di emozioni ed impressioni: “Anch’io tra i volti vi saluto, rosso/alabardati/sputati dalla terra natìa, da tutti un popolo/amati. / Trepido. seguo. il. vostro. gioco/:Ignari/.

Esprimete con quello antiche cose/meravigliose/sul verde tappeto all’aria, ai chiari /soli d’inverno…). Ne 1928, la rivista Solaria gli dedica un intero fascicolo alla sua poesia, imponendolo 7

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all’attenzione nazionale. Nel 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali, Saba cede la libreria a Carlo Cerne e si trasferisce in Francia, ma amareggiato per il razzismo e il filonazismo ivi emergente, nonostante la presenza al governo del Fronte Popolare, si trasferisce nel 1939, prima si rifugia a Roma, dove riprende una serie di raccontini, brevissime riflessioni ed aforismi, raccolte libro Scorciatoie e raccontini”, già iniziati negli anni precedenti, come una sorta di diario, scandite da “scorciatoie” e da Aforismi”, in cui il poeta avvoltolava la sua sofferenza interiore di chi ha subito il trauma che ha inciso amaramente tutta la sua esistenza: la fuga dalla famiglia del padre, che lascia la moglie in attesa di un figlio e che è costretta, con pianto inconsolabile, ad affidare ad una balia, la sopravvivenza del bimbo. Anche se la balia gli elargisce infinito affetto, egli avverte una stritolante angoscia per la mancanza dell’affettivo calore familiare e trova nell’arte di scrivere lacerti di pensieri, che sembrano ermetici versi e che, invece, appartengono ad un clima esistenziale, letterario e semantico, connotato da brevità, sobrietà di pensiero, ritmici sussulti di incandescente consapevolezza, in cui risulta tracciato lentamente, l’universo interiore del poeta in un determinante momento della sua esistenza, con tratti espressivi brevi, in cui ogni parola, ogni segno di interpunzione, ogni frammento di spazio bianco, (interpretabile come momento di sosta del proprio sentire nel clima ossessivo degli eventi), contribuiscono a svolgere il fluttuante universo oggettuale, contrapposto al silenzio dell’anima. Forse, tale forma espressiva contratta, può essere messa sulla linea di sviluppo della scienza attuale che, con un modello di comunicazione tra esseri lontanissimi, ha dato vita ad un vertiginoso sviluppo scientifico 8

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nell’ambito delle corrispondenze verbali, estremamente ossificate e anche solamente balbettate o fonicamente occultate dalla metodologia comunicativa e silente dei messaggi scritti. In tal caso, la letteratura anticipa la scienza. Ma forse è più fedele alla realtà interiore del poeta, che utilizza aforismi e scorciatoie per poter velocemente scaricare sulla pagina i propri deliranti pensieri sia sulle sue lacerate e dolorose condizioni di vita, che la disperazione di assistere inerme alle mostruose vicende di un’epoca, che sembra volere annientare la stessa umanità, per un atto di sadismo o per l’esplosione di schegge di follia dal cervello perforato dell’uomo tecnologico, che, sopraffatto dai totalitarismi e privato di ogni forma di libertà, è condannato ad uno stillicidio di dolore fino all’agonia e alla morte disperata. I diversi contrasti potrebbero trovare soluzione, secondo alcuni critici, solo nella razionale e consapevole riconciliazione e nella convivenza equilibrata delle varie attività creative dell’uomo, come la storia, la letteratura. la poesia, la psicanalisi e la politica, in cui poter, anche se per poco, avvoltolare e obliare l’angoscia di vivere così.

Nelle serene giornate romane, Saba può riprendere, con una prosa, caratteristica degli “Aforismi”, che ora confluiscono in un’opera organica, che si pone l’obiettivo di riepilogare le ferite inguaribili della società stritolata dalle vicende belliche. Saba, ora, avverte l’urgenza di riordinare la sua realtà interiore, frammentata dallo scatenarsi della follia umana, per poter ricostruire un proprio equilibrio mentale e sentimentale, con l’ansia del sopravvissuto alla bufera dell’odio, della morte e della barbara tragedia collettiva, per tentare di recuperare un nuovo rapporti con le altre umane creature, per non sentirsi solo con il proprio travagliato vissuto di quegli anni di “diluvio Universale”. Occorre anche 9

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ricordare gli anni terribili delle persecuzioni antiebraiche, che nella Shoah raggiunsero l’acme non ipotizzabile della “matta bestialità” che si annida nell’uomo. Durante tale periodo (19431944), Saba dovette rifugiarsi a Firenze, dove fu costretto a cambiare 11 nascondigli per sottrarsi alla cattura. In più occasioni egli ebbe modo di lasciar emergere un suo modo contraddittorio di giudicare le proprie radici, come la scelta di ribattezzarsi come Umberto Saba, cambiando il suo cognome in Poli, come segno di affetto per la sua nutrice. Nonostante tale posizione di ostilità all’ebraismo, Saba non si può considerare razzista. La sua era un’insofferenza critica nei confronti dell’ottusità meschina di certa ortodossia religiosa ben incarnata nei vecchi legalisti della Sinagoga, fedeli più alle tradizioni di famiglia, che ai richiami di una viva fede e per questo guardati dal poeta come gente superstiziosa più che religiosa. Irritato per l’universale miseria morale e meschinità del sentire dell’umanità, egli vedeva la stessa miseria ingrandita nei fedeli della Sinagoga, verso cui avvertiva un’ostilità mai nascosta. Ma i rapporti s’infransero totalmente, dopo la diffusione, nel 1946, come testimoniano numerose pagine degli “Scorciatoie”, sull’esistenza alle spalle di Trieste di un lager, la risiera di San Sabba, dove i detenuti antinazifascisti venivano anche bruciati vivi nei forni crematori, dopo essere abbandonati alla fame e al freddo e dopo disumane atrocità sugli scheletri umani, già ansimanti di morte. Saba, costantemente ossessionato dalle immagini di brutalità e ferocia umana, non si riprenderà più dalla profonda ferita e come scriverà Adorno nel 1949 con uguale tormento dell’anima: “Scrivere una poesia, dopo Auschuitz, è un atto di barbarie”, Dotato di profonda sensibilità umana, nella mente del poeta si scontrano angosciosamente montagne di ossa 10

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cosparse dal sangue delle vittime della storia. “Ora rimane solo la parola “onesta”, limpida, pulita, umana, mai inquinata dalla menzogna, accettabile anche nella rima “amore e fiore”. Nei confronti della filosofia nutrì un’ostilità sistematica, nel senso che tale disciplina tenta di mettere rammendi agli infiniti strappi del reale, un tentativo irreale, in quanto inseparabili dalle distonie costituzionali e ontologiche del reale” (Alessandra Scarino “Vita.

Nuova”, Trieste, 12 maggio 2017, in. “L’onestà. di. un. uomo. semplice”). A tale periplo attorno all’IO, tipico di una visione cosmica e trionfalistica filosofo, in Saba corrispondono le figure di opposizione nella lingua e nel pensiero, fedele all’oscillazione delle cose tra punti contrari i l’uso dell’aforisma e della scorciatoia che collegano punti lontanissimi e opposti della realtà.

Nel periodo trascorso a Roma, la ruvidità del suo carattere sembra essersi ammorbidita e aprirsi a sottili velature di compassione e di empatia per tutta la gente con le sue gioie e le proprie ferite, con l’urgenza di serenità per poter dissolvere le tenebre e la morte e poter sperare di risplendere. la. luce. accanto. a. loro, anche. se. per. poco. Ora Saba, dopo aver riflettuto sull’abisso dei lager e sull’inenarrabile strazio subito dal “fratello”, pur dilaniato da tanta mostruosità, si sente ricomposto in una nuova figura umana e avverte l’importanza per l’uomo di vivere tra la gente, per respirarne il calore umano, perché anche loro sono stati trafitti dalle stesse violenze e sventure. Anche nei momenti in cui il “ruvido” Saba sembra di non sopportare l’intera umanità, evidenzia la sua onestà: la commovente simpatia per gli altri e per tutti gli esseri viventi, insieme partecipi di un comune destino.

Questa sua onestà, talvolta in apparente, lo rende sempre attuale, come umile maestro di poesia e di compassione, in cui si potrà 11

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rinvenire quell’abbraccio d’amore tra gli uomini di fronte ad un disumano destino (di cui Leopardi fu il fervente sostenitore, per poter accettare la vita o per sentirsi più forti e meglio resistere ai mortali agguati della morte. Dopo il quieto. soggiorno romano, il ritorno a Trieste fu breve. Infatti, dall’amata città di Trieste, fu costretto di nuovo fuggire con la consorte e con la figlia, dopo l’8 settembre del ’43 e si rifugiò a Firenze, sotto la protezione di Eugenio Montale, Maio Spinella, Ottavio Cecchi e Carlo Levi che si innamorerà ricambiato di Linuccia, figlia del poeta. Rimasto incolume dopo la Liberazione, soggiorna a Roma, dove ritrovata la serenità necessaria, si dedica alla revisione delle sue poesie che usciranno presso l’editore Einaudi nel 1945 con il titolo di Canzoniere, vincitrice del Premio Viareggio 1946. L’opera si presenta come un’autobiografia in versi che per la loro chiarezza, semplicità e sincerità, impongono Saba come uno dei più grandi poeti del Novecento. Nella sua “Storia e Cronistoria del Canzoniere”, l’autore scriverà: Nato dalla vita, dal romanzo della vita, era esso stesso un piccolo romanzo. Bastava lasciare alle poesie il loro ordine cronologico; non disturbare con inopportune osservazioni lo spontaneo fluire e trasfigurarsi in poesia della vita”. Nel 1953, in un breve discorso agli amici triestini che lo festeggiavano, dichiara:” il carattere della mia poesia e la sua affermazione, stanno nella differenziazione dagli altri contemporanei italiani e stranieri: differenziazioni che ne rese e che ne rende ancora, la comprensione stranamente difficile”.

L’anno successivo, confesserà che “il poeta è: l’amalgama di un bambino e di un uomo riuniti in una sola persona; è un bambino che si meraviglia delle cose che accadono a lui stesso diventato adulti”. Finita la guerra, nel 1945, Saba come Quasimodo, avverte 12

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l’urgenza di impegnarsi nella ricostruzione civili, morale e politica dell’uomo e del paese, dilaniati dalla barbarie mondiale del conflitto. Si avvicina poi al P. C. I. tramite Carlo Levi e vorrebbe vedere governare da Palmiro Togliatti, per il quale dimostra stima, ammirazione affetto”. Allora compone intense poesie politiche, intrise di limpidi sentimenti democratici, preceduti nel 1944 da “Avevo”: “Tutto mi portò via il fascista abietto e il tedesco lucro. Nello stesso anno scriveva: “Teatro degli artigianelli”: Falce e martello e la stella d’Italia ornano nuovi la sala”, parola di un giovane compagno-poeta, fiducioso che “l’idea degli animi affratella”, contrapposta alla condizione di Firenze ancora “assorta nelle sue rovine”. A proposito Carlo Levi ricorderà che la stella rossa del teatro rimandava all’Unione sovietica e il poeta scherzosamente rispondeva di aver anticipato i tempi, in quanto alla Falce e Martello, simbolo del P.C.I. si sarebbe aggiunta la stella d’Italia, simbolo dell’Italia repubblicana. Nel dopoguerra, la condizione di arretratezza in cui versa Trieste, divenuta Territorio Libero, lo carica di pessimismo, espresso così: “diventerà-come la Palestina della malora-uno degli inferni del mondo. Per fortuna, la città, dopo il decennio di controllo angloamericano, riacquisterà un importante ruolo mercantile, oggi purtroppo in declino. Nel 1947, ritornato nella città tergestea, si propose provocatoriamente come Governatore di Trieste, “per restituire alla città il suo carattere molto allegro e un po’ nevrotico, mentre si dissolvono le speranze coltivate durante la Resistenza e il poeta teme che la sua poesia non sia capita dall’Italia democristiana, in cui moltissimi fascisti si erano riciclati nel nuovo partito di Governo e potrebbero osteggiare la pubblicazione del suo Canzoniere riveduto e corretto nel 1948.

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Contro la da lui presunta “dittatura dei preti, nelle elezioni del 18 aprile 1948, aderisce al Fronte Democratico popolare, formato da socialisti e comunisti, guidati da Togliatti, Ingrao, Amendola e Pertini, ma prevedendone la sconfitta, da Milano il 1 marzo dello stesso anno, scrive a Vittorio Sereni: “Se da una parte vedessi i preti pronti ad incensarmi e dall’altra il plotone d’esecuzione comunista, sceglierei ancora quest’ultimo”. In segno di rivolta, dopo la vittoria di De Gasperi, desolato e depresso, rinuncia a collaborare ai giornali italiani, convinto dell’incapacità dell’Italia a capire gli eventi contemporanei, la condizione di Trieste e la sua poesia… “perché, se la mia poesia è-come ogni poesia-una rappresentazione del mondo, questo è veduto da Trieste, non da Cesena o da Predappio o da Firenze. E nemmeno da Roma. È l’altro mondo, quello che gli italiani non possono assimilare” Tale affermazione è surrogata dalla convinzione del poeta che gli italiani non possono capire e rispettare le peculiarità di una città, caratterizzata dalla convivenza. di. tante. culture, italiana, slovena, slava, austriaca, serba e balcanica, poeta al confine di due contrapposte civiltà: quella Orientale, Comunista, e quella Occidentale democratica, due civiltà detentrici di due diverse visioni dell’uomo, della civiltà e della storia. La posizione politica di sinistra di Saba era maturata dalla sua disapprovazione del connubio Chiesa-fascismo che, con il consolidamento del regime, trascinò l’Italia alla dittatura, alle leggi razziali, alla guerra al fianco di Hitler, alla persecuzione e all’olocausto degli Ebrei e conseguentemente allo sterminio degli oppositori. Di fronte al dolore sofferto a Milano dal poeta dopo i risultati elettorali del 18 aprile, Vittorio Sereni, con tono consolatorio e di stima, gli dedica una poesia intitolata: 14

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“SABA”.

E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile, lo vidi errare da una piazza all’altra dall’uno all’altro caffè inseguito dalla radio.

Porca vociferando-porca”.

Lo guardava stupefatta la gente lo diceva all’Italia. di schianto, come a una donna che ignara o no a morte ci ha ferito.

Dopo il suo ritorno a Trieste ancora non italiana, Saba continua a scrivere poesie che cantano la quotidianità della città giuliana: “tristezze molte e la bellezza del cielo”, “il golfo luminoso”, e “Dieci poesie per un canarino” e il sottotitolo “Ad un giovane comunista, dove non si è spento il bagliore politico, più di sentimento che di fede, come avviene per tanti poeti: “ho in casa-come vedi-un canarino…

Ma tu pensi: I poeti sono matti.

Guardi e lo trovi appena stupidino.

Ti piace più Togliatti”.

Successivamente scriverà ancora in “Passioni”: “Sono fatte di lacrime e di sangue e di altro ancora.

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Il cuore batte a sinistra”.

La poesia scritta a 70 anni e intitolata “Ultima”, esprime come un epitaffio la dolorosa confessione “fui sempre un povero cane randagio, certamente nei luoghi. dell’anima ma non lontano dalla sua Trieste “azzurra, bella tra i monti rocciosi e il mare luminoso”.

Indebolito dalla malattia e lacerato dalla tristezza, dopo la scomparsa della moglie nel 1956, si spense a Gorizia il 25 giugno del 1957. Saba, dopo i primi contatti con l’ambiente “vociano”, non si lasciò coinvolgere dalla restaurazione formale della “Ronda” e rimase estraneo alla rivoluzione ermetica, tranne l’involontario assorbimento di qualche breve riecheggiamento ungarettiano e montaliano, rimanendo sempre fedele alla propria vocazione di cantore delle piccole cose, di sentimenti comuni di uomini semplici, rincattucciati nell’ombra, attraverso cui la vita racconta alla poesia il segreto della sua verità dolorosa, tesa a stringere altra mano al prossimo come gesto di solidarietà consolatrice, canto solitario di integrazione nel comune destino, come afflato religioso “cantico delle creature”, che affratella tutti gli esseri viventi nella vacuità della vita e del tempo, comprese le figure di alcuni animali, accomunati alla somiglianza vitale degli uomini. Si veda l’immagine della moglie amatissima vista come affine alla regale dignità della pollastra, o come nella mirabile poesia “La capra”, dove il lamento della bestia legata e grondante di pioggia assurge a simbolo di sofferenza universale. Saba riveste i suoi motivi tematici con forme limpide, in cui s’incarnano i turbamenti di una profonda psicologia, e di cui il poeta è orgoglioso, nel tempo in cui “la poetica della parola” rappresentò un tempo di adozione di un lessico prezioso e rarefatto. La 16

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semplicità del linguaggio sabiano non è trasandata banalità, ma frutto di una suprema sapienza linguistica, finalizzata a ristabilire al discorso un equilibrio, non semplice, tra realismo e interiorità, fra registrazione delle cose e il loro avvolgimento nella spirale del canto. Saba fu anche un significativo prosatore nelle già ricordate pagine del volume “Scorciatoie e racconti”, dove un polifonico moralismo, bonario e talvolta mordace, trova una felice rappresentazione artistica nel taglio rapido dell’apologo o dell’epigramma. Ma occorre anche ricordare il tanto discusso romanzo “Ernesto”, appesantito dai. frequenti. indugi. psicologici, indispensabili, però, ad evidenziare in maniera più convincente, il collegamento dei grovigli interiori di un giovane personaggio Ernesto, con il paterno acceso sentimento di protezione e d’’amore per il ragazzo che si accinge, inerme, a varcare le sabbie mobili della vita.

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POESIE: da IL CANZONIERE A diciassette anni nel 1900 incomincia a scrivere versi, trasformando il suo nome e cognome in Umberto Saba, in omaggio alla nutrice. Questo il testo della prima poesia, anch’essa rivista negli anni successivi e farà parte delle “Poesie dell’adolescenza e giovanili”, un componimento che preannuncia connotazioni del Saba futuro.

Ammonizione Che fai nel ciel sereno Nel nuvolo rosato Acceso e vagheggiato Dall’aurora del dì?

Cangi tue forme e perdi Quel fuoco veleggiando; ti spezzi e, dileguando. ammonisci così: ”Tu pure, o baldo giovane, ci suonan liete l’ore.

Cui dolci sogni e amore Fanno a un pensier ribel, scolorerai, chiudendo, le azzurre luci, un giorno: mai più vedrai d’intorno gli amici e il patrio ciel”.

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Due anni dopo, a dicianove anni, scrive: Da un colle Era d’ottobre;l’ora vespertina Di pace empiva e di dolcezza il cuore.

Solitario il sentier della collina Salivo dietro un bue e un agricoltore. giunto alla vetta scorsa in un fulgore Trieste colle chiese e la marina; e dell’amico, rossa come un fiore, l’amata casa sull’opposta china.

Veniva a me della città il richiamo; e come all’orizzonte il sol calato faceva il vetro delle case ardenti d’un pino al tronco m’avvolgìa beato.

Ne svelsi, sospirando, un basso ramo, e diedi un nome, un caro nome, ai venti.

A 28 anni pubblica a sue spese il primo libro “Poesie”, con prefazione di Silvio Benco e nel 1912, per le edizioni della rivista “La Voce”, la raccolta “Coi miei occhi” che poi prenderà il nome di “Trieste e una donna”. Si delinea il suo stile poetico, asciutto, essenziale, incatalocabile, lontanissimo dalla retorica dannunziana e al tictaczagante verso politico dei futuristi ed estraneo all’ermetismo montaliano. Queste particolarità rendono molto autonoma la poesia di Saba, poesia italiana, anzi triestina.

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E’ “La Voce” di Prezzolini e Papini a rendere ben visibile la poesia di Saba, che nel 1912 pubblica sulla rivista la famosa poesia “Trieste”, che subirà due varianti, nel 1921 e nel 1945, da cui emerge una nuova direzione della poesia sabiana, che ora si addentra nella descrizione interiore dei grovigli dell’animo, allontanandosi dalla tendenza al descrittivismo per scegliere un timbro quasi impressionistico delle prime due stesure, così che la città da “selvaggia” diventa “scontrosa” e la vita del poeta da “contemplativa” diventa “pensosa e schiva”.

Trieste (1912, La Voce, Firenze) O’ scorsa d’ogni parte la città, poi o’ salita un’erta, popolosa in principio, indi deserta, chiusa da un muricciolo, dove seggo vicino al mare e al sole calante;in un cantuccio, qui, ove pare termini la città.

La città dove vivo à una selvaggia Grazia, che adulta serba il bello e il rozzo d’un ragazzaccio con le mani troppo grandi per dare un fiore: è torbida come un amore con gelosia.

Da quest’erta ogni casa, ogni sua via scopro, e se mena all’ingombbrata spiaggia.

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Dalla collina, cui, sulla sassosa cima, un sobborgo, l’ultimo, si aggrappa.

Circola in ogni cosa un’aria strana, un’aria tormentosa, l’aria natìa.

La mia città, sì pittoresca e viva Più d’ogni altra, ha un cantuccio ove l’ozio diventa vita contemplativa.

Trieste (1945) Ho attraversato tutta la città.

Poi ho salito un’erta, popolosa in principio, in là deserta, chiusa da un muriciolo: un cantuccio in cui solo siedo; e mi pare che dov’esso termina termini la città.

Trieste ha una scontrosa Grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore; come un amore con gelosia: Da quest’erta ogni chiesa, ogni via scopro, se mena all’ingombrata spiaggia, o alla collina cui, sulla sassosa 21

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cima, una casa, l’ultima s’aggrappa. Intorno circola ad ogni cosa un’aria strana, un’aria tormentosa, l’aria natìa.

La mia città che in ogni parte è viva, ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita pensosa e schiva.

Dopo serie difficoltà economiche, assembla in un unico volume tutte le sue poesie, che pubblica con il titolo de “Il Canzoniere”, un vero romanzo autobiografico in versi che, grazie all’amichevole ospitalità delle sue creazioni sulla rivista Solaria di Carocci, Debenedetti e Montale, condurrà Saba all’affermazione poetica; tuttavia la fama non attenuerà i suoi momenti di depressione, sempre aggredito dalla nevrosi che lo costringerà a frequentare lo psicanalista Edoardo Weiss fino alla fine.

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Edizioni Terzo Millennio - supplemento omaggio Collana ROBINSON – Monografie esplorazioni interiori attraverso le opere

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