Freedom Room

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Un nuovo concetto di ospitalitĂ : un modulo abitativo essenziale, a basso costo, pensato con i detenuti e prodotto in carcere.

Comunicare Moltiplica Doveri


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9 > 14 aprile 2013

Salone del Mobile

La Triennale di Milano

Freedom Room un progetto di Cibicworkshop e CoMoDo

Grafica: Marina Turci Giuliano Chimenti Francesco Piarulli

Fotografo: Alberto Parise

Cibicworkshop: Aldo Cibic Tommaso Corà

Testi di: Aldo Bonomi, Aldo Cibic Marco Tortoioli Ricci Thomas Bialas Joost Beundemann Lucia Castellano Francesco Bellosi Luisa Della Morte Andrea Margaritelli Michelangelo Patron

Comunicare Moltiplica Doveri

CoMoDo: Marco Tortoioli Ricci Thomas Bialas Alba Beni Coordinamento: Silvia Conz

Disegni e illustrazioni Mario Trudu tratti dal volume “Cucinare in massima sicurezza”, a cura di Matteo Guidi, Edizioni Stampa Alternativa / Nuovi Equilibri, Viterbo, 2013

Realizzazione a cura di: Listone Giordano Collaborazione e supporto all’evento: CFMT Stampa dei materiali: Tipografia Pavan Ringraziamo per la collaborazione: Maurizio Bertolini, Matteo Guidi, Michele Cecchetto, Giacomo Boncio, Daniele Mariani


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In collaborazione con:

Main Sponsors:

Sponsors:

con il gentile contributo di:

COIN DAINESE ICB Industrie Chimiche Barbini LARUSMIANI OLTREMATERIA PLASTIC METAL GROUP RODRIGO RODRIGUEZ TECNOPROJECT VALUE PARTNERS MANAGEMENT WILLIS ITALIA

BILLIANI - 911 F.A.J. COMPONENTS GROUP GLASS IDROMASSAGGIO LAMBO SIMMONS VITRA ZANOTTA

Contatti Cibicworkshop Tommaso Corà tommasocora@cibicworkshop.com Co.Mo.Do Marco Tortoioli Ricci mtr@comodosociale.it


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In sintesi

Spoleto è

Molti di quegli oggetti nello spazio di una cella diventano altro. Lo spazio stesso diventa altro. Reinventato da chi ci abita per lungo tempo. Abbiamo chiesto ai detenuti che lavorano in quella falegnameria di essere nostri consulenti. Con loro è nata l’idea di una cella più vivibile. L’abbiamo chiamata Freedom Room. Un modulo compatto e funzionale che può rispondere a nuove necessità.

Freedom Room è il punto di partenza per ripensare la cella delle carceri italiane


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è una delle Carceri di massima sicurezza italiane. In quel carcere c’è una grande falegnameria; qui si producono molti degli arredi per le altre carceri in Italia.

Freedom Room è il risultato di questo lavoro. Sarà la stanza di un albergo a basso costo. Freedom Room è la risposta a necessità di Temporary Housing, Ostelli diffusi o Social Housing.


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Cosa è Freedom Room

Il design può essere uno strumento di innovazione sociale? Può dare risposte a nuovi bisogni emergenti? Può, in altre parole, essere uno strumento di liberazione? -Freedom Room, laboratorio sul design in carcere, è un progetto nato dalla collaborazione tra Aldo Cibic, Tommaso Corà e Marco Tortoioli Ricci con una delle carceri di massima sicurezza italiane, la Casa Circondariale di Spoleto, dove la cooperativa Comodo svolge, dal 2003, un lavoro di formazione dedicato alla qualificazione professionale dei detenuti nell’ambito del design, della grafica e dell’editoria. La sinergia tra Comodo e lo studio di Aldo Cibic nasce nel 2009 per riflettere circa le possibilità che il design può rappresentare per qualificare il lavoro all’interno del carcere. Dall’ascolto di un gruppo di detenuti sono nate le riflessioni che hanno portato all’idea di ‘abitare-con-poco’, a un ambiente in cui, perché


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piccolo, gli oggetti devono assumere più di una funzione, dove lo spazio deve poter essere interpretabile e flessibile. Una cella è un guscio chiuso, definito come un modulo spaziale. Chi lo abita ha bisogno che quello stesso spazio sia cucina, camera, studio, sala giochi, armadio, palestra, biblioteca e altro ancora: un interno che viene perennemente reinventato dai bisogni e dalle necessità di chi è chiamato ad abitarlo. In quel ‘modulo’ uno sgabello diventa un forno, un letto un armadio, una lattina un’antenna, il tavolo una palestra. Si riscopre, in quello stesso modulo e ovviamente per necessità, che lo spazio ha una dimensione flessibile se cambia l’esperienza che di esso ogni individuo può fare. Molti degli arredi delle carceri in Italia vengono prodotti in un una grande falegnameria che si trova all’interno del carcere di Spoleto stesso: lavorando insieme ai detenuti Aldo Cibic, Tommaso Corà e Marco Tortoioli Ricci hanno imparato che molti di tali arredi nello spazio di una cella diventano altro. Lo spazio stesso diventa altro. Le condizioni di costrizione e di necessità, in cui si trovano a vivere molti dei detenuti nelle nostre carceri, li costringe infatti, a reinventare sia lo spazio della cella che la funzione di molti degli oggetti che vi si trovano dentro. È da questa constatazione che è partita la riflessione che ha portato alla nascita del progetto Freedom Room. Proprio i detenuti che lavorano in quella falegnameria sono diventati i consulenti del progetto: con loro è nata l’idea di uno spazio più vivibile, pensato per essere compatto e funzionale, per rispondere a


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nuove necessità, rimanendo nella dimensione della cella di riferimento che è di 4 m per 2,7 m. Da tale nuovo concetto di ospitalità è stato sviluppato un modulo abitativo essenziale, economico, una proposta/prodotto per soluzioni temporanee, hotel diffusi, studentati, ostelli o innovative formule permanenti. Una stanza che diventa un ambiente disegnato per ottimizzare lo spazio, lavorare, studiare, soggiornare, fare festa, ma anche strumento di riattivazione urbana di spazi in disuso. Il modulo Freedom Room può essere posto dentro spazi industriali, spazi urbani, commerciali o non, non più occupati. Può diventare motore di nuove dinamiche sociali destinate a reinventare l’idea di comunità e di quartiere.


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Abbiamo pensato a questa pubblicazione come un atto di inizio, un primo momento di riflessione attorno al lavoro svolto fino a questo momento. Pensieri in libertĂ , in sostanza. Dieci diverse voci di interpreti, spesso amici, che hanno accompagnato con passione questo progetto. Dieci importanti contributi per fissare alcuni dei pensieri nati attorno a Freedom Room sperando che da questi ne nascano altri in grado di farlo crescere. Buona lettura.


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Il progetto

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Luce esterna L’apertura sull’esterno allargata permette di godere di una maggiore quantità di luce naturale. Piano di lavoro Contenimento Un ulteriore contenimento dato dalla possibilità di chiudere i ripiani con pannelli scorrevoli Ripiani Letti Cassettoni

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Luce esterna L’apertura sull’esterno allargata Armadio permette di godere di Ad ante scorrevoli per il contenimento una maggiore quantità di luce naturale. non solo dei propri abiti ma di tutta

quella selezione di oggetti la vita in carcere

Piano di lavoro che accompagnano

Contenimento Un ulteriore contenimento dato dallaDoccia possibilità di chiudere i ripiani con pannelli scorrevoli

Oggi la maggior parte dei penitenziari non è dotato di doccia nelle celle Ripiani con conseguenti problemi di gestione Lettie impedimento ad una dignità della persona nella sua privacy. Cassettoni

Bagno Dotato di un lavabo dove sia possibile lavare e fare il bucato, un appoggio dove cucinare e uno dove asciugare gli oggetti o gli abiti.

WC


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Ripiani Per libri o altri oggetti, con la possibilità di richiudere i ripiani con dei pannelli scorrevoli

Luce naturale Illuminazione L’apertura sull’esterno Un’illuminazione morbida e allargata permette di godere regolabile per un confort ideale in tutte le attività che si di una maggiore quantità di luce naturale. svolgono nella cella.

Cassettoni Contenimento per i propri abiti e la biancheria

Letti Sul letto nella cella si svolge gran parte della vita. E quindi un letto, m anche un divano, un luogo dignitoso dove potersi concentrare.

Esterno Una veranda, un terrazo, uno spazio verso l’esterno, un ingresso per la luce.


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I panni si asciugano fuori dalla finestra

Marco Tortoioli Ricci Designer della comunciazione


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Fernando, Massimo, Vincenzo, Ben Alì e Leo ci aspettavano seduti intorno al tavolo quadrato. Erano lì, le mani appoggiate sul piano, di fronte a ciascuno un album da disegno e matite pefettamente appuntite. Il senso di attesa, la curiosità, un fondo di incredulità, avevano disegnato sui loro volti espressioni da bambini impertinenti, curiosi di scoprire cosa avremmo ‘portato’ in quella falegnameria blindata. Quel primo incontro era stato organizzato quando l’inverno era ormai alla fine, ma tra le mura spesse, a Spoleto, nel cuore del carcere, il freddo continuava a stagnare a lungo anche a primavera inoltrata. Avevo avvisato Aldo Cibic di coprirsi; nella stanza/aula ricavata all’interno della grande falegnameria avrebbe fatto un bel freddo. L’obiettivo del corso, di questo si trattava, era formare professionalmente un gruppo di detenuti al lavoro in falegnameria. Fernando, Massimo, Vincenzo, Bel Alì e Leo avevano storie diverse, età diverse, origini diverse, ma in quel momento si trovavano forzatamente nello stesso luogo e a tutti era concesso lo spazio di libertà di un corso. Ogni attività in carcere è preziosa. È il non fare niente che è pericoloso, risveglia inquietudini che spesso fanno uscire di testa. Il tempo assume una diversa ‘densità’, cambia dimensione. Le piccole unità di tempo che scandiscono il quotidiano si ingigantiscono, mettono paura, mentre si fanno più facilmente i conti con i decenni che definiscono il tempo della condanna.


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Fu una delle prime cose che imparai cominciando il lavoro in quel carcere con la cooperativa Comodo1 nel 2003. Da lì nacque quell’idea di una serie di taccuini e diari che prendessero in giro, usando il registro del paradosso e dell’ironia, il tempo stesso. Li chiamammo Oggetti di Comodo e credo che alcuni di loro stiano ancora itinerando per il mondo all’interno di una mostra della Triennale di Milano, ideata e curata da Mario Piazza che aveva per titolo ‘New Italian Design’. Un lavoro fatto bene, avevamo portato quel primo gruppo di detenuti a pensare a loro stessi in modo diverso, fuori dalla abituale retorica fuori-dentro. Avevamo portato quelle persone a pensare a se stessi come persone capaci di dare, creare, essere utili alla società non reclusa. Per questo motivo il lavoro in carcere è ambito. Ogni tipo di lavoro, meglio se impegna il corpo oltre che la mente. Era così anche per Fernando, Massimo, Vincenzo, Bel Alì e Leo. Avevano il loro corso, un appuntamento, un orario, altre facce da incontrare e piccole sfide che aiutano la giornata a passare più velocemente. Loro, quindi, erano stati selezionati per diventare falegnami. E dopo aver imparato a segare, piallare, levigare, accoppiare, verniciare, avrebbero conosciuto cosa significa ‘progettare’. Nell’ambito di quel corso avevamo deciso di chiamare un designer di chiara fama per introdurre il tema del design come elemento in grado di portare qualità a una produzione che in quella falegnameria si era sempre dedicata alla confezione di arredi per le carceri italiane. L’intenzione, la speranza dovrei dire, si limitava allora all’idea che da questo incontro sarebbe uscito un nuovo sgabello, un armadietto diverso dai soliti, una qualche strana forma in grado di conquistarsi un po’ di attenzione e lasciare nell’esperienza dei detenuti la coscienza che le cose possiamo disegnarle e pensarle, invece che farle solamente. Non avevamo pensato però che la lezione, in modo inaspettato l’avremmo ricevuta, l’avrebbero fatta loro a noi. Dopo le presentazioni ha cominciato Vincenzo. Lui, raccontava, era un ‘designer’ di barche, motoscafi di altura. Comodo, Comunicare Moltiplica Doveri è una Cooperativa fondata nel 2003 che si occupa di Comunicazione e Innovazione sociali. Svolge attività di formazione all’interno del Carcere di Spoleto da quella data, in particolar modo dedicate al mondo della grafica, dell’editoria e del design. Maggiori informazioni sulle attività e i progetti di Comodo si trovano all’indirizzo www.comodosociale.it

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Marco Tortoioli Ricci

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Amava costruirle nella sua cella. Certo, non quelle vere, racconta Vincenzo, ma ‘come’ quelle vere. Sono barche fatte di stuzzicadenti, 8000 per la precisione; sono tanti, sono quelli che servono a fare una barca grande, incollati uno per uno dopo aver loro tagliato le punte. Fu chiaro subito che stava partendo una sfida, una presentazione vecchia maniera, una gara a chi aveva storie più interessanti e strane da presentare agli ‘ospiti’, un fiume in piena che ci investi e riservò piccole meraviglie. Scoprimmo così che il letto, con opportune modifiche è anche scarpiera, il bagno è anche cucina e un guardaroba si può fare velocemente fissando un manico di scopa tra due armadietti. Una lattina di Coca fissata a un bastone è una buona antenna della televisione e, meraviglia, con lo sgabello in dotazione a ogni cella, si può costruire un forno per cuocere crostate. Siamo stati una giornata insieme a loro, ascoltando per lo più, disegnando e progressivamente immaginando; lentamente emergeva, su quel tavolo quadrato, una diversa idea dello spazio. La cella, 9 metri quadri, di cui i nostri nuovi amici raccontavano momenti e gesta, acquisiva con il passare del tempo, un volume espanso da tanta creazione spontanea, da tanti oggetti eclettici, reinventati e multifunzione. Evidente, si concretizzava l’idea, nelle ore di quell’incontro, che era proprio il pensiero elucubrativo, narrativo, progettuale in ultima sostanza, a costituire la possibile cerniera in grado di riconnettere quel mondo recluso e separato con il mondo esterno libero e occupato. Stavamo lavorando insieme, nessuna lezione e nessun discente, piuttosto la possibilità aperta di riconnettere esperienze che la vita aveva fatto arrivare li da cammini distanti. In sostanza avevamo bisogno di loro, non solo Aldo e io, non solo gli assistenti, gli organizzatori, la direzione del carcere, ma la comunità tutta. Avevamo riscoperto la necessità di guardare alla nostra esistenza da un punto di vista diverso, una angolazione che potesse farci riconsiderare i nostri spazi di vita, il nostro senso dell’utile e del funzionale, ormai completamente sintetico velleitario e distante dal vero. Noi però non ci occupiamo di inclusione sociale, non siamo operatori, non siamo politici (nel senso tecnico), il nostro lavoro è progettare. Quale può essere quindi il nostro compito? Può il design essere uno strumento per riavvicinare mondi lontani?


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Nel 2007 mi era capitato di vedere al Cooper-Hewitt Museum di New York una mostra che aveva un titolo destinato a essere ricordato, Design for the Other 90%. Il giardino del Museo era ingombro di case di cartone, frigoriferi di terracotta in grado di funzionare senza elettricità, scooter in grado di funzionare come generatori di corrente per alimentare antenne satellitari destinate a portare una connessione internet in villaggi remoti. Il senso era chiaro. Perché destinare il 90% del nostro pensiero di progettisti per il 10% della popolazione del pianeta? Perchè le idee illuminanti riservate alla produzione di oggetti esclusivi e costosissimi non potevano invece essere dirette a risolvere alcune questioni basiche e necessarie per migliorare la vita a fasce più estese di popolazione? Domande retoriche, a tutti piace essere pagati bene. Ma l’urgenza che emergeva da quel titolo era espressa perfettamente dal segno percentuale. È una questione di misura. Non c’è colpa nell’essere pagati per il proprio lavoro, ma quanto più si ha successo e si raggiungono meritatamente posizioni sociali sicure e protette, tanto più una ‘misura’ del nostro tempo andrebbe restituita a chi rimane indietro. Possiamo cavarcela con una donazione, ce ne vengono offerte di tutti i tipi. La responsabilità che ci siamo presi, invece, facendo questo lavoro, impone che il tipo di valore da restituire riguardi in ugual misura il tangibile e l’intangibile, in altri termini la possibilità di riattivare pensieri, consapevolezza e relazioni. Lo aveva prefigurato, questo senso di responsabilità, già nel 1964 Ken Garland scrivendo il suo manifesto First Thing First. Lui, grafico, alla fine di una conferenza al Institute of Contemporary Arts di Londra, aveva sentito, già allora, l’urgenza di fissare il punto; scrivere un manifesto immediatamente firmato da numerose personalità che stabilisse priorità e doveri del nostro lavoro. Non possiamo occuparci solo di sedurre, ma anche di far pensare. Regalare spirito critico, insomma. D’altro canto basta guardare tra le pieghe dell’informazione più ufficiale e mondana per trovare casi come quello offerto dall’Atelier d’Architecture Autogerée, pionieristico collettivo di architetti che si è fatto le ossa nelle periferie parigine recuperando tratti di ferrovia in abbandono grazie al lavoro inclusivo di persone, abitanti senza fissa dimora. Ne troviamo traccia in un libro prezioso pubblicato da Iaspis (Swedish Arts Grants Committee’s


Marco Tortoioli Ricci

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International Programme for Visual Arts), dal titolo Design Act. Agire dunque, sul campo. È ciò che abbiamo fatto. La proposta che nacque da quella giornata è quello che oggi è Freedom Room. Eravamo conquistati dall’idea che quello spazio prefigurato durante il lavoro con i detenuti divenisse uno spazio reale, vivibile, disponibile alle persone. Una nuova stanza, un nuovo modo di abitare, temporaneo, diffuso, a basso costo; un modulo non più grande di una cella, che negli stessi 9 metri quadri potesse offrire la stessa capacità di meravigliare che lo spazio raccontato da Fernando, Massimo, Vincenzo, Bel Alì e Leo aveva offerto a noi. Poteva diventare un antihotel, un virus positivo, una casa per studenti e giovani professionisti nomadi, desiderosi di visitare una grande città spendendo il meno possibile. Esponemmo le prime idee e i primi frutti di quel lavoro in una veloce installazione presentata durante la prima edizione di Festarch, Festival Internazionale dell’Architettura in Umbria, nel 2009. Gli spazi erano quelli del Caos di Terni e portammo lì un primo embrione di quello che sarebbe divenuto poi il modulo abitativo che oggi viene esposto alla Triennale di Milano. Il tempo, l’amicizia e una sana ostinazione hanno poi fatto in modo che tra le pieghe degli impegni personali, l’idea maturasse, raccogliesse energie più allargate e potesse diventare un progetto concreto. Freedom Room oggi è reale, è un’idea finita, compiuta e tuttavia è un progetto solo all’inizio. Questo che presentiamo è un primo risultato, finalmente l’idea nata allora è diventata un prototipo visitabile, reale, da toccare. Vogliamo però iniziare da qui per farlo diventare un prodotto, capace di stare nel mercato reale, ma realizzato interamente nella falegnameria del Carcere di Spoleto. Lì dove è nato. Vogliamo che diventi il nuovo lavoro per altri detenuti, che costituisca per loro una occupazione reale, quotidiana, in grado di togliere densità al tempo e restituire dignità a persone che troppo facilmente vogliamo dimenticare.


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4 metri per 2,70

Aldo Cibic Designer


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Un anno e mezzo fa circa Andrea Margaritelli, un amico industriale di Perugia, persona visionaria e sensibile, mi ha telefonato per chiedermi se ero disponibile a partecipare ad un progetto particolare che un suo amico e consulente per la comunicazione, che si chiama Marco Tortoioli Ricci, seguiva già da anni, premettendo che non dovevo farmi nessun problema se non avessi voluto accettare l’invito; mi ha raccontato che si trattava di andare a visitare la falegnameria del carcere di Spoleto per ragionare, con un gruppo di detenuti falegnami, l’ipotesi di un progetto di design da sviluppare per ampliare la gamma della produzione. La mia iniziazione è avvenuta nell’ora di macchina da Perugia a Spoleto con Marco che mi raccontava le dinamiche della vita del carcere e il lavoro sviluppato negli anni soprattutto nella grafica e nell’editoria con gruppi di detenuti. Questa volta, con la mia presenza, si trattava di capire come differenziare il lavoro della falegnameria, che ancora oggi produce mobili e accessori standard per diverse carceri, per arrivare ad avere una produzione, forse di oggetti singoli, più originale e riconoscibile grazie all’apporto del “design”. Pochi minuti dopo essere arrivati a destinazione, ci siamo trovati chiusi a chiave in una stanza con le sbarre che dava sulla falegnameria; oltre a noi c’erano Giorgio Pannaccio maestro falegname, il fotografo ufficiale che fa parte del corpo di guardia e che è una simpatica persona, e sei detenuti di


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diversa età, provenienza e tipo di pena: Fernando che è tuttora in carcere e lavora all’interno della falegnameria, Leo che è in regime di semi libertà e che ora lavora in una falegnameria a Spoleto, Vincenzo che realizza incredibili vascelli fatti di stuzzicadenti (il più grande che ho avuto modo di vedere era composto da 8000 stuzzicadenti), Ben Alì il nordafricano e il siciliano Massimo. Devo dire che per me il bello di questi incontri è che all’inizio non si sa da dove cominciare: ci si trova tra persone che arrivano da mondi diversi e pian piano ci si annusa per capire quale può essere l’inizio di un discorso. La mia curiosità più grande era di rendermi conto di come si svolgeva la vita nel carcere e, più nello specifico, nella cella; in pochi minuti era chiaro che c’era una gran voglia da parte loro di raccontare e poco dopo era come se si fosse schiuso un mondo ricco di storie personali che s’intrecciavano a idee e a riflessioni molto originali. Non potendo visitare la cella, mi sono fatto raccontare le trasformazioni d’uso degli elementi d’arredo e le varie invenzioni di cui alcune concepite da loro stessi ed altre ereditate da detenuti precedenti. Nell’ascoltare, quello che più mi colpiva era come la mente umana, in una condizione di precarietà e di difficoltà, di tempo che non passa mai, fosse in grado di creare quasi dal nulla un universo di soluzioni per migliorare il luogo, nel caso specifico estremamente precario, in cui vivevano. Se all’inizio il programma era di progettare nuovi oggetti che facessero tesoro di quanto inventato in carcere, man mano che mi venivano raccontati i dettagli della vita in cella la mia attenzione si focalizzava sempre di più sulla loro conoscenza e il loro rapporto rispetto a questo spazio minimo: le dimensioni della cella erano di 4 metri per 2,70, dove originariamente avrebbero dovuto essere in due ma dove di fatto vivevano in quattro. Alla fine della giornata l’idea che è maturata è stata quella di lavorare su uno spazio della stessa dimensione occupato da due persone che doveva essere la stanza di un hotel low-cost: il nome inventato al momento è stato Freedom Room. Questo sarebbe diventato il tema progettuale per una nuova produzione del carcere di Spoleto.


Aldo Cibic

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Il tempo che è passato da quell’incontro ha fatto maturare nel nostro gruppo di lavoro altre riflessioni che hanno riguardato soprattutto il concetto di dignità di uno spazio minimo per diverse destinazioni. Nella cella, grazie all’arte di arrangiarsi, ci si fa da mangiare, si lavano le stoviglie ma anche gli indumenti in una situazione davvero precaria. Il problema è di creare delle soluzioni grazie alle quali, nelle stesse dimensioni, quelle funzioni si svolgano in modo tale che un modello del genere possa diventare una possibile nuova cella, la stanza di un hotel low-cost, di un campus, di un centro di prima accoglienza. Si può anche ragionare su nuovi complessi abitativi a costo contenuto fatti con gli stessi moduli, ai quali aggregare parti comuni fornite dei più svariati servizi, in modo da generare socialità, momenti di scambio e di business. Ovviamente è un progetto che va sviluppato e capito da diversi punti di vista; è per tale motivo che lo scopo di questo primo passo è di creare le condizioni affinché il carcere possa avviare una start-up di un percorso progettuale e il business plan ideale per arrivare a proporre quest’idea sul mercato.


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Freedom 2.0: liberi dalla proprietĂ , liberi di abitare

Thomas Bialas Futurist, CoMoDo


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Incubare talento dove nessuno se lo aspetta e dove nessuno lo pretende. In carcere. Freedom Room non è solo una bella storia di design applicato all’innovazione sociale ma è anche la storia di un mondo (almeno di una parte) che vuole cambiare, che vuole liberarsi. Liberarsi dalle vecchie economie, liberarsi dai vecchi paradigmi, liberarsi dai vecchi modelli, liberarsi dai vecchi dogmi. Complice la civiltà digitale stiamo assistendo a un salto antropologico (nel buio o nella luce, scegliete voi) sorprendente. La rete ci abitua a pensare e agire diversamente. Freedom from ownership L’esplosione del fenomeno dell’aggregare, classificare, comparare, giudicare, votare, recensire, suggerire, donare, copiare, scambiare, barattare, partecipare, collaborare e condividere tutto quello che si può condividere ha una radice profonda: internet è un mondo privato dalla proprietà. Copyleft o meglio sharing. La tendenza è chiara nel mondo digitale: vogliamo accedere, usare e scambiare ma non possedere. Ora questa tendenza sta per contaminare anche il mondo fisico perché la libertà digitale è anche una libertà dalle cose fisiche. > Non vogliamo più possedere automobili ma accedere alla mobilità quando e dove ci serve. > Non vogliamo più possedere libri ma accedere alla cultura quando e dove ci interessa.


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> Non vogliamo più possedere case in mezzo mondo ma accedere a spazi quando e dove ci piace (il fenomeno ‘planetario’ di airbnb.com, il portale e community che permette di affittare e socializzare fra privati case e stanze in tutto il mondo, ne è un chiaro segnale). Siamo pronti e attrezzati per un futuro in cui non si desidera più acquistare e possedere prodotti? Freedom from business Il profitto elevato a divinità e unico parametro di riferimento ha distrutto l’economia e società reali. Anche qui la rete ci abitua a pensare e agire diversamente. Le economie collaborative nate in rete (per esempio collaborativeconsumption.com) hanno come meta (e misura) il low profit per coniugare valore economico con valore sociale, ambientale, culturale e civico. Ora, mentre il mercato convenzionale del business e dei consumi langue assistiamo invece ad un’esplosione della produttività del sociale e di nuove economie locali. Una nuova economia civile sta emergendo: è open e social e nasce dalla fusione della cultura del web 2.0 con uno scopo civile, locale, sociale, sostenibile, civica. L’innovazione economica parla nuovi linguaggi. Come sostiene l’Institute for the Future di Palo Alto: il commercio sarà sociale e le nuove economie delle micro economie fatte di micro imprese che soddisfano in modo quasi chirurgico micro esigenze delle comunità locali. Questo porta anche ad una diversa visione del design che deve essere sociale, aperto e collaborativo. Detto in tre formule progettuali > Social design: l’arte di progettare prodotti e servizi aggreganti, fruibili collettivamente in condivisa partecipazione; > Open design: l’arte di progettare prodotti e servizi evolutivi, modificabili dall’utente in solitudine o compagnia; > Collaborative design: l’arte di progettare prodotti e servizi “democratici” nati dalla collaborazione con clienti, fornitori, concorrenti etc. Siamo pronti e attrezzati per un futuro in cui bisogna soddisfare bisogni sociali e rigenerare i luoghi? Freedom Room Unendo le due libertà ne nasce una terza. Non vogliamo più accumulare beni ma accumulare esperienze. E Freedom Room è una nuova esperienza dell’abitare, anche da un punto di vista economico. Sarà l’uso (e non la proprietà) del modulo abitativo a finanziare la sua persistenza e diffusione. Ma questa è la fase 2 (operativa del progetto) di cui si inizierà a parlare dopo la mostra in Triennale.


Thomas Bialas

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Freedom room: design della cura per uscire dalla dark room carceraria Aldo Bonomi Sociologo


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Recentemente mi è capitato di discutere all’interno di un dibattito sulle tante diverse antropologie dei “senza fissa dimora” che abitano il nostro tempo con Marc Augé, “scopritore” della categoria dei non luoghi. Ragionando con lui intorno a questa categoria tanto cara alle archistar, egli sottolineava l’importanza di uscire da un certo riduzionismo morale che connota negativamente il “non luogo”, in quanto espressione di isolamento, indifferenza e spaesamento sociale, attribuendo invece valore positivo al “luogo”, in quanto spazio dell’identità, del riconoscimento e della prossimità comunitaria. L’antropologo francese ci invitava a considerare le due polarità come riferimenti e strumenti utili sotto il profilo analitico, da porre sotto lo stress dell’esperienza e delle pratiche, dal momento che la capacità integrativa dei luoghi dipende fondamentalmente dal tipo di relazioni sussistenti tra i soggetti e non dalla natura funzionale di tali luoghi. Questo invito mi sembra particolarmente pregnante nell’esperimento pensato da Aldo Cibic perché intende agire all’interno di un luogo di relazioni coatte, qual è il carcere, per realizzare relazioni di cura attivando il protagonismo creativo dei detenuti. Si tratta di un esperienza di creatività del limite, in cui, tanto per rovesciare uno stereotipo sulle archistar, si punta alla generazione di relazioni, e di relazioni positive, tra soggetti costretti in un medesimo luogo per farne un’eterotopia del possibile. L’esperimento della Freedom Room, cioè la messa a punto di una cella carceraria progettata e realizzata direttamente da chi deve abitarla in quanto


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detenuto, declinando a suo modo una delle ultime tendenze di sviluppo dell’architettura nel progettare l’“ospitalità temporanea” di una società nomade ad ogni costo e per ogni tasca, contiene in sé importanti elementi concettuali relativi a come si fa cura nell’epoca in cui il carcere, per usare una metafora un po’ cruda, più che luogo del riciclo assomiglia più spesso ad una discarica indifferenziata di materiali irrecuperabili. Se infatti il carcere del ‘900 con la sua organizzazione panottica e verticale ha rappresentato l’altra faccia della fabbrica, in cui la dimensione carceraria, discendente da un’idea di Stato-provvidenza, manteneva una retorica del recupero rispetto ad una composizione sociale operosa messa al lavoro dentro le mura della fabbrica, questo dispositivo si è trasformato in epoca postfordista in luogo invisibile, un vero e proprio buco nero sostanzialmente consegnato all’oblio sociale, per non parlare di quello politico, la cui rappresentazione non è caso affidata a qualche nobile reduce delle battaglie per i diritti civili del secolo scorso. Quella di Freedom Room non vuole essere una pura rappresentazione di design dell’utopia, ma piuttosto, ambisce a costituirsi come design dell’eterotopia, cioè come concretizzazione di un pensiero di carcere come luogo di liberazione, oltre la dimensione di luogo in cui si sconta la pena inflitta dal codice penale. L’idea di mettere a frutto i talenti dormienti dei carcerati mettendo a frutto la creatività del margine di chi deve arrangiarsi ad “abitare” l’angustia della cella per quotarla al mercato dei manufatti low cost-high dignity mi pare una via all’inclusione sociale molto consona ai nostri tempi e si muove, per me, nel solco di una mostra sulla Rappresentazione sociale della pena che avevo organizzato presso la Triennale nel 2008. Del resto non è certo la prima volta che si lavora sul potenziale creativo degli abitanti delle carceri per ridare un volto di persona ai vulnerati e attivarne le virtù. Basti pensare, per restare a tempi recenti, al caso di Cesare non deve morire, film girato all’interno delle mura di Rebibbia dai fratelli Taviani, in cui esperienza di vita e canone shakespeariano si fondono in una mirabile sintesi cinematografica. L’esperienza concepita da Listone Giordano e da un pool di designer guidati da Aldo Cibic per la valorizzazione dei talenti dormienti nel carcere di massima sicurezza di Spoleto si inscrive nella stessa linea di pensiero, seppure su un diverso registro creativo. La linea di pensiero alla quale mi riferisco rimanda all’incontro tra


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le due categorie antropologiche più confacenti per leggere le moltitudini in cui si è scomposto il corpo sociale nella nostra epoca: nuda vita e vita nuda. Da un lato, nella dimensione della nuda vita messa al lavoro, è l’esistenza “intellettuale” dell’uomo ad essere sussunta nel processo economico. L’estensione della capacità di memoria dell’uomo grazie all’applicazione delle nuove tecnologie microelettroniche, l’impatto delle biotecnologie sulla capacità riproduttiva del corpo, la messa a valore del nostro stesso sentire e pensare, sono solo alcuni possibili esempi di un’economia della comunicazione e della conoscenza che nella dimensione metropolitana ha trovato il suo luogo d’elezione. È cresciuta così una nuova composizione sociale fatta di élite terziarie alte radicata nelle professioni intellettuali che costituisce il general intellect gestore dei circuiti di interconnessione del sistema economico. Dall’altro lato, a fianco di questa nuda vita e funzionalmente legata ad essa, dentro la dimensione del corpo metropolitano, cresce la dimensione della vita nuda, cioè la dimensione di coloro per i quali il problema è ancora mangiare, abitare, vestire e sopravvivere. È la dimensione dela vita in balìa dell’altro, di chi mette in gioco il proprio corpo per soddisfare bisogni legati più direttamente alla vita materiale. Sul piano concettuale la Freedom Room si configura come spazio di incontro e contaminazione tra vita nuda e nuda vita, in cui la prima, quella incarnata dal designer e da tutte le figure terziarie che animano il contenitore fantasmagorico del Salone del Mobile, pone a disposizione della seconda la strumentazione disciplinare della progettazione architettonica per l’abilitazione di un’esperienza di vita che è, a sua volta, materia prima e risorsa fondamentale per attivare il circuito della creatività al lavoro, facendo del carcerato un “consulente strategico” per la progettazione di temporary housing. Siamo, in questo modo, qualche passo avanti rispetto alla terapia ergonomica classica, in cui si lavora per espiare la pena e, in qualche caso, per acquisire una più o meno precaria professionalità. Qui la dimensione della cura parte dal riconoscimento di una comune vulnerabilità, dalla consapevolezza che il corpo come macchina comunicante della nuda vita e il corpo come macchina della sopravvivenza della vita nuda in carcere sono, in realtà, espressione di un corpo sociale unico, fatto salvo il principio di responsabilità di ognuno di fronte alla legge. La cura, cioè l’accompagnamento della persona carcerata al di fuori del terreno in cui la delinquenza si configura come diritto all’illegalità e i soggetti si sentendo


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titolari di una legge che impone agli altri, passa attraverso l’inclusione nella sfera di senso di una comunità operosa. Con l’aggiunta che non si tratta di una comunità operosa marginale, bensì di un circuito produttivo alto, che richiama i canoni del made in Italy con il suo portato storico legato al design e all’artigianìa high touch. Come mi è più volte capitato di dire riannodare i fili tra dimensione della cura e dimensione dell’operosità è fondamentale, non solo nella fattispecie della condizione del carcerato, ma più in generale come terreno per dare un volto alle molecole umane che compongono la moltitudine. Se infatti un tempo la società piramidale rendeva chiara la stratificazione sociale e il posizionamento di ognuno rispetto ai vertici, la società della moltitudine, dopo essere passata dal disfacimento del condominio ballardiano, tende all’orizzontalità, ed è dis-organizzata per gated community in cui ognuno non ha più l’orizzonte della “classe” ma è tenuto a costruirsi una mappa cognitiva per tracciare confini e appartenenze, avendo una conoscenza molto limitata del tutto, a meno di non essere tra quelli che hanno il potere di sorvolare il mondo. In questo passaggio il carcere è passato dall’essere un luogo fisico collocato nel sottosuolo della piramide sociale all’essere una costellazione di buchi neri nella città infinita, cioè luoghi dai quali neanche la luce può sfuggire. Così la città contemporanea produce vulnerabilità collettive ma non riconosce carattere di collettività alla vulnerabilità così come tende a togliere soggettività alla sofferenza individuale offrendo anzi risposte che producono de-soggettivazione. Non è questo il caso di Freedom Room che, anzi, intende rappresentare senza retorica una luce per imparare ad orientarsi nelle memorie del sottosuolo e per uscire, si spera, dalla dark room in cui ognuno di noi in questa epoca può sempre incappare.


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Piccolo mondo postmoderno

Francesco Bellosi Coordinatore dell’Associazione Comunità Il Gabbiano onlus


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I numeri del sovraffollamento. Al 31 dicembre 2012 i detenuti in Italia ammontavano a 65.701 unità, ventimila in più rispetto alla capienza regolamentare. In particolare, in Lombardia arrivavano a 9.250 unità e nelle tre carceri per adulti di Milano a 4.100 unità, quasi la metà di tutta la Regione. I tre istituti per adulti presentano una forte differenziazione: Bollate è il carcere trattamentale nell’esercizio delle sue funzioni; Opera è il carcere duro, dove anche le attività migliori sono a rischio di chiusura; San Vittore è l’albergo dei poveri. Il sovraffollamento è determinato dal numero elevato di ingressi in carcere, dalla difficoltà per molti a fruire delle misure alternative, dagli insufficienti luoghi di accoglienza una volta terminata la pena. In particolare, gli istituti penitenziari si riempiono continuamente per la presenza di leggi carcerogene come la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sulle droghe, la ex Cirielli sulle recidive. Prigioni e monasteri. Il sovraffollamento, da solo, deturpa l’immagine della sobrietà delle celle. Questa è una delle tre differenze di fondo tra i monasteri e le prigioni: la prima è che nei monasteri la cella singola viene garantita, nelle prigioni no; la seconda deriva dall’intrusione quotidiana di chi picchia con suono insopportabilmente metallico sulle sbarre; la terza, essenziale è il chiostro: l’ora d’aria non può mai essere esposta alla meditazione.


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Per il resto, la sobrietà delle celle può apparire la stessa. Come per il cibo. Solo che i monaci lo gustano al riparo mistico del canto gregoriano; i detenuti devono lavorarci sopra per renderlo commestibile. La crisi d’epoca che abbiamo davanti ci obbliga a ripensare tutto, a partire dai valori materiali essenziali, come il mangiare e l’abitare. In carcere questi passaggi non dipendono però dalla crisi, ma dalla sopravvivenza. Il che, come paradigma, li rende più interessanti. Non a caso, in prigione non si spreca nulla: il pollo chimico bollito frantumato e fatto saltare in padella con burro e cipolle; il latte a conservazione protratta trasformato in ricotta al limone; le mele raggrinzite a fermentare nei secchi per ricavarne una grappa senza limiti di gradazione alcolica. Lo stesso avviene per l’abitare, anche in condizioni estreme. Le carceri sono state utilizzate a lungo come luoghi di segregazione punitiva con criteri soggettivi, oggi lo sono in maniera oggettiva. La riforma degli stipetti di formica. Fino all’entrata in vigore della legge di riforma penitenziaria del 1975, in alcuni casi anche oltre, sono stati usati per i detenuti disobbedienti i letti di contenzione presenti quasi ovunque o le celle sotterranee come sull’isola di Santo Stefano, la rissa a Porto Azzurro, la campana e il forno a Lecce. Dopo la riforma, sono arrivati i gabinetti o le turche invece dei buglioli e gli stipetti di formica. Rigorosamente arancioni. I cubicoli in alcune carceri sono stati separati la cella e il bagno. A San Vittore, in bagno si cucinava con i fornelletti da campeggio e ci si ingegnava a costruire la propria cella. Dopo anni di permanenza in carcere, infatti, sopravviene quasi inevitabilmente la sindrome di Porto Azzurro, quella dell’ergastolano che trasforma la cella nella propria abitazione, tirando la cera sul pavimento, dipingendo le mura scrostate e privatizzando con qualsiasi oggetto riciclato gli spazi. Il riciclaggio, in carcere, è fondamentale. La danza immobile del carcere speciale. Quando, nel 1977, sono state aperte le carceri speciali, il circuito dei camosci, si è utilizzato solo il metallo, fisso e immobile, ancorato al cemento. Ma non è possibile impedire a una persona di modificare minimamente l’ambiente in cui vive. Così si cominciarono a costruire ripiani per i libri con gli ossi della carta igienica, a tirare i fili delle calze di cotone grezzo per stendere i


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panni, a recuperare dai lavoranti le cassette vuote della frutta. Fino ai gesti estremi, come a Fossombrone, dove con i fornelletti vennero fatti saltare i vetri antiproiettile che ingabbiavano i televisori nel muro. Da allora, esistono almeno due tipi di carcere: quello normale, invivibile perché sovraffollato; e quello sottoposto a regole speciali, invivibile perché costretto alla solitudine. Il lavoro di Spoleto è decisamente interessante perché va in una direzione opposta a questi due estremi senza spazio e senza tempo. Il WWF per San Vittore. Un’ultima cosa. Ogni tanto salta fuori l’idea di chiudere San Vittore: non tutte le carceri, ma solo quello situato in centro a Milano. San Vittore vive la città, le sue luci, i suoi rumori, anche il suo inquinamento: non si può spostare in mezzo alle brume della campagna. Il carcere di San Vittore potrebbe però diventare anche un supermercato, un cinema, un ristorante e, in almeno un raggio, un albergo gestiti dai detenuti che vi risiedono. Anche questo può essere un modo per superare la separatezza tra il carcere e la città.


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PerchĂŠ non prima?

Ernesto Padovani direttore Carcere di Spoleto


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L’abitabilità della casa penitenziaria deve avere le garanzie dell’igiene, della riservatezza, dell’efficace contenimento degli effetti negativi della privazione della libertà. Deve essere dignitosa e conforme ad umanità, tutelare i diritti dell’uomo e la persona, variabile indipendente, non altro da sé, senza le omologazioni del giudizio morale. È la regola minima, l’etica delle relazioni umane, perchè la pena consiste nella privazione della libertà e vorrebbe non limitare né togliere altro. La cella è un contesto finito ma chi la abita deve violarne i confini. Può farla diventare un altrove possibile dove la vita ha gli spazi del mondo reale, con gli arredi, i momenti ed i luoghi delle necessità quotidiane. Ma quella perimetrazione costretta deve evocare la libertà, suscitarne i desideri e salvarne gli affetti. L’esclusione della cella diviene un paradosso inclusivo, il luogo lontano ed eccentrico che ti mette in salvo. Quel modulo minimalista deve poter ricostruire l’identità, la cura della relazione ed il rispetto di sé, il bisogno della casa con le sue memorie emotive, le malinconie, le gioie, il rumore dei passi che la hanno percorsa. Deve difendere l’impossibile tutela della famiglia, le radici e la cultura di ognuno. Deve racchiudere le insidie degli spazi estremi, le condotte fuorilegge, le ombre del male, la colpa da espiare, l’irrisarcibile dolore procurato, un’ossessione che dura per sempre.


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Il perdono che si nega a se stessi è un dono-per proteggere i segreti dell’anima. È un’ingiunzione alle coscienze altrui ed ai luoghi comuni dell’intolleranza. La dignità della casa non è solo un luogo fisico, è un valore condiviso, il legame fra le persone, un diritto del cittadino restituito al detenuto come un patrimonio ideale irrinunciabile, qualità di vita dovunque. Perchè non prima? E perchè non durante, e rendere credibile il sistema delle garanzie della pena? La simulazione di vita in detenzione scommette su se stessa e trasforma in risorse l’esiguità degli spazi ed il tempo scandito da altri. Sa di offrire un’attenzione presuntuosa ed invasiva, ma sensibile e fortemente simbolica perchè deve restituire la libertà ed i diritti negati. Deve essere flessibile perchè misura un’esperienza innaturale, al limite della percezione di sé, incoerente ed arbitraria se non conserva pari dignità umana e sociale. Sogno raramente. E se capita, mi risveglio di soprassalto in un bagno di sudore. In questi casi, poi, mi abbandono nel letto e medito sul potere magico ed inesorabile delle notti aspettando che il cuore si calmi. I miei sogni sono assolutamente uguali, tessuti di visioni ricorrenti. Sogno sempre la stessa cosa, sono in piedi, in fondo alle nostre scale, nell’androne, mi trovo sul lato interno del portone e cerco di aprirlo. La chiave gira. Ma i miei sforzi sono vani. Magda Szabò.


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Lo spettro del sovraffollamento

Lucia Castellano ex direttore Carcere di Bollate


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Parlare di spazio in carcere oggi evoca lo spettro del sovraffollamento, che rende gli istituti di pena del nostro Paese indegni di una società civile. Il problema può essere seriamente affrontato solo mettendo in discussione leggi “carcerogene” che prevedono la carcerazione come la prima delle risposte punitive e non come “l’extrema ratio” per alcuni tipi di reati minori. Parlo della legge Bossi Fini sull’immigrazione, della legge ex Cirielli sulla recidiva e della legge Fini Giovanardi sulle tossicodipendenze. Lasciamo quindi al nuovo Governo il compito di prendere decisioni definitive volte a evitare che gli istituti di pena diventino contenitori stracolmi di povera gente, moltiplicatori di devianza e delinquenza, produttori di insicurezza sociale, con costi sempre meno sostenibili. La riflessione sugli spazi della pena oggi parte da una considerazione preliminare: non esiste un pensiero progettuale che differenzi la costruzione degli spazi a seconda della tipologia di utenza che li abiterà. Gli istituti penitenziari moderni sono tutti, drammaticamente, identici. Bollate (istituto a custodia attenuata) è uguale a Secondigliano (massima sicurezza). Questo è un messaggio preciso da parte dell’amministrazione penitenziaria: non abbiamo alcun pensiero progettuale sull’organizzazione della vita “intramoenia” che sia modellato sulla tipologia dei suoi abitanti. Gli spazi sono quelli, uguali, a prescindere dal fatto che saranno abitati da uomini, donne, minorenni, boss della malavita o piccoli criminali da recuperare socialmente.


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E allora la gestione di questi spazi immensi delle nuove carceri è affidata al “buon cuore” di direttori e operatori penitenziari. Le centinaia di metri quadrati di verde che separano un padiglione dall’altro possono essere lasciati vuoti o riempiti di panchine per i colloqui all’aperto, di orti urbani curati dai detenuti, di serre per la floricultura. Possono essere popolati da detenuti al lavoro o a colloquio con i familiari o essere lasciati, desolatamente, vuoti. Senza una regia, una visione politica a monte. Questo è, purtroppo, lo scenario a cui siamo abituati. E nessuno, dall’Amministrazione Centrale, si è mai nemmeno preoccupato di mutuare esempi virtuosi di utilizzo degli spazi e di estenderli ad altri istituti. Gli esempi virtuosi, nel nostro Paese, rimangono “sperimentazioni”, anche se esistono ormai da decenni. Le scelte coraggiose, pur produttive di riduzione della recidiva e aumento della qualità della vita per gli operatori penitenziari, rimangono lontane dalla prassi consuetudinaria delle carceri. Si continua a mortificare gli spazi abitativi in un’unica grigia cornice a una vita intramuraria ossessivamente ritmata da regole sempre uguali e senza vita, dove le individualità di detenuti e poliziotti sono azzerate. L’opposto della “tendenza alla rieducazione” imposta alla pena detentiva dalla Costituzione. L’opposto della dignità della vita lavorativa, per quanto riguarda gli operatori penitenziari. E veniamo a esaminare gli spazi interni. La cella, anche quando non è piagata dal sovraffollamento che impedisce ogni minima organizzazione vitale, è soggetta a regolamenti ferrei su arredi e suppellettili. Tutto può diventare uno strumento per farsi del male: ricordo un carcere in cui il comandante vietava ai detenuti di utilizzare le lenzuola proprie con la seguente motivazione: “se si impicca con il lenzuolo dell’Amministrazione è una cosa, se lo fa con quello proprio noi siamo corresponsabili, per averne autorizzato l’ingresso”. Pericolosa deriva dell’ossessione da “evento critico” da cui è affetta tutta l’organizzazione penitenziaria. La limitazione fortissima delle suppellettili e degli strumenti per la gestione della vita quotidiana mortifica l’individualità e va in direzione contraria alla funzione rieducativa della pena. Inoltre, porta i detenuti ad aguzzare l’ingegno e a potenziare le prestazioni di ciascun oggetto a loro disposizione (pacchetti di sigarette che diventano scaffali, scatolette di tonno che diventano coltelli). I detenuti sanno benissimo che questa


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loro ingegnosa costruzione può essere vanificata da una perquisizione, con distruzione del marchingegno creato e conseguente rapporto disciplinare. Se questa è, anche nel 2013, la cultura dell’istituzione totale, credo che un progetto come Freedom Room debba essere salutato come una ventata di ossigeno culturale di straordinaria importanza. I detenuti diventano artefici di una nuova cultura dell’abitare, partendo proprio dalla situazione di disagio in cui si trovano e trasformandola in risorsa. Viene superata la spersonalizzazione tipica dell’istituzione totale, la paura dell’evento critico e della responsabilità. Spero davvero che l’Amministrazione Penitenziaria voglia partire da questo progetto per costruire una cultura della vita in carcere che, per la prima volta, parta dai suoi abitanti.


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Fertile Ground for a Civic Economy

Joost Beunderman urban designer at 00:/ [zero zero], London


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It seems so long ago now: that famous dictum of Rahm Emanuel, the thenchief-of-staff of then-recently elected president Obama, that one should “never let a serious crisis go to waste”. Almost five years later, it is clear that in the on-going crisis, many opportunities for innovation and transformation of our socio-economy are being wasted. A deep crisis is still upon us: our economies have stalled; the mood across society is brittle, and the quality of our global environment keeps eroding whilst we are obsessing about restoring economic growth. But it is increasingly clear that this FROG mantra (First Restore Our Growth) is not delivering; therefore, in order to grow a more resilient and inclusive prosperity, we need not just to rebuild but also to reimagine the economy of places. Meanwhile many social pioneers, including architects, are getting on with exactly this. From the rapidly growing renewable energy cooperatives to the HUB network of shared workplaces, from urban agriculture initiatives to the emerging sharing economy, we are seeing new ways of organizing the everyday economy as well as the way in which crucial assets are being owned, and managed. Realising the importance of such initiatives to inspire other practitioners and wider policy debates, our practice in 2011 published a book about what we call the “civic economy.” It focuses on projects that we admire and that inspire us in our desire to create truly sustainable places. We recognised that, amidst the crisis, there were plenty of new initiatives


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to signpost where our cities and villages can find new ideas and strengths. Understanding the behaviours of their protagonists can help us create the fertile ground for a wholly different story about both long-term economic recovery and more immediate responses to austerity. Our book – called the Compendium for the Civic Economy, republished in 2012 – includes examples that go across a wide spectrum. It focused largely on the UK but the examples have been shown to have much wider resonance: from the FabLab, a high-tech community product development workshop originated in the “How To Make (almost) Anything” course module at MIT, to Livity, a socially responsible marketing agency-turned-alternativeyouth-club that helps young people from often tough backgrounds to learn workplace skills. Or from Incredible Edible Todmorden, a town-wide network that appropriates underused urban spaces for food growing, to Dalston’s Arcola theatre, which became the UK’s first carbon-neutral theatre after a journey that started by sharing its building with local entrepreneurs. Some examples have been around for a while, such as the Bromley by Bow Centre, a hotbed for social enterprise since the mid-1990s; others are very recent, like Space Makers Agency’s initiatives to re-think underused town centres as community-driven marketplaces in Brixton Village. Some grew as conscious responses to the financial crisis of 2008, others out of a much older dissatisfaction with the way in which services like healthcare were run by the state or privatized parties, or conversely out of a recognition of the creative opportunities afforded by creative re-use of materials. The book is essentially a story about people working in new and different ways to achieve better economic, social and environmental outcomes. What they have in common is how their protagonists create platforms and invitations for others to join, collaborate and contribute. They manage to unlock a new type of abundance, unleashing the resources that people already have, whether innate curiosity to invent or assets that can be shared or co-invested. And they do something that the dominant organisations of the late 20th Century were very bad at: creating productive interfaces between large-scale entities and issues (utility infrastructures and providers, landowners and real estate management, the education or transport system, etc.) and the micro level of citizens. This more porous interface is


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what allows, for example, people to co-invest in local renewable energy or broadband infrastructure. Or grow food in the public domain. Or hack existing online data for unexpected use. Or commission their own shared apartment blocks like in the German city of Tuebingen, or get easier access to vacant premises for new projects. Or do whatever it is that makes people tick, unleashes their ideas and liberates their imagination. Scaling and building on these approaches is the way forward to building a more resilient economy and generating better everyday places. We used the term ‘fertile ground’ for civic entrepreneurs and the ventures they create to grow and prosper. For architects, a collective challenge is to use their tools and talent to be an integral part of this process: recognising fertile ground where it exists, growing it where it is scarce, and utilising its opportunities creatively whilst others talk of crisis. Across Europe, there is a great deal of uncertainty in our current political context. But we should not wait for the policy process to run its course: already, people have found ways to overcome constraints in the status quo, combining their skills in order to generate collaborations between organisations and foster experimentation. Such examples of civic entrepreneurship show that sometimes it is the perception rather than the reality of something actually being impossible that impedes innovation. Nor is this an issue of, as I hear too often in debates about citizen initiative, the state ‘getting out of the way’ to let ‘local people’ get on with small scale volunteering projects: more than anything the civic economy requires a broader shift in mind-set that recognises that what we need is not just the next generation of easily-marginalised community projects, but a change in behaviour amongst all professionals, policymakers, and established institutions and corporates. The examples in the Compendium for the Civic Economy show that this is already happening in often-unexpected ways and places. They are not templates to cut out and replicate. Creating a civic economy is not about scaling any one particular approach but creating a broader movement that unleashes people to create new, shared solutions within a collaborative and supportive environment. Wasting this opportunity is simply not something we can afford. Europe needs the civic economy to flourish and grow, and this is the moment to create the fertile ground for that to happen.


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Freedom work

Luisa Della Morte presidente cooperativa Alice, Milano


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Le carceri italiane ospitano più di 65.000 persone detenute a fronte di una capienza di 47.000. Le donne sono appena duemila e ottocento. Sono suddivise in otto istituti e svariate sezioni femminili all’interno di istituti misti. Negli ultimi anni, il numero delle donne detenute, ad eccezione di alcuni istituti, non ha mai superato la soglia della normale capienza, per cui, a differenza di quanto avviene nelle carceri maschili, i problemi di sovraffollamento sono minori; questo tuttavia non significa che le sezioni femminili siano esenti da disagi “strutturali” ma che la convivenza tra le detenute dovrebbe essere meno carica di tensioni per lo meno per ciò che riguarda la mancanza di spazi vitali. Occuparsi di donne, perciò, nell’emergenza del sovraffollamento dei penitenziari maschili, può apparire un esercizio inutile. Di fatto la donna detenuta si trova a vivere in un contesto maschile, in una istituzione fatta dagli uomini per gli uomini, e forse la maggiore intolleranza delle donne nei confronti del regime detentivo non è mera insofferenza, ma il sintomo di una difficoltà a rispettare regole non proprie. La cura delle proprie cose, della cella, del proprio letto, del proprio corpo risponde ad una necessità della donna che emerge in maniera lampante: il bisogno di intimità. Bisogno che è necessità di trovare un proprio spazio, una propria identità attraverso la pulizia e la cura: un ritrovarsi nella confusione e nella spersonalizzazione che il carcere crea. Le celle delle detenute, rispetto a quelle maschili sono più ordinate e pulite, più colorate, tenute meglio.


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I rumori più attenuati, si riesce a sentire voci e parole, canzoni e musica. Piccole cose che finiscono per comporre la vita minima di chi è costretto a progettarsi l’esistenza in uno spazio ristretto, in cui lo scorrere delle ore è scandito dai regolamenti e dall’interminabile vuoto che separa due colloqui, due telefonate, due permessi. In fondo, sono questi atti quotidiani a restituire una percezione del ruolo femminile negato, di giornate che si ripetono uguali. Alcuni gesti rappresentano la ripetitività coatta con cui ciascuno reagisce alla situazione di prigionia: ciascuno ripete, innumerevoli volte, nelle ore in cui resta chiuso in cella, i gesti che gli sono familiari. E alle donne i gesti del riordinare e pulire sono generalmente molto familiari. Il carcere non è certo il luogo dove si può provare ad uscire dal proprio ruolo, quindi ci si porta dietro il ruolo sociale che già ci apparteneva. Eppure per alcune donne, la carcerazione è stata una occasione di emancipazione, perché forse qui per la prima volta hanno avuto l’opportunità di sperimentarsi in un lavoro vero e avere un reddito che a volte permette di mantenere i figli fuori, di riacquistare fiducia in sé e in un futuro diverso. Il lavoro è uno degli elementi fondamentali del trattamento, la sua possibile valenza rieducativa viene chiamata in causa di continuo, eppure le persone detenute che hanno la possibilità di lavorare (ma non la scopina o la porta vitto all’interno dell’istituto) sono pochissime. Il progetto “Sigillo” nasce proprio dall’esigenza di creare nuove e più numerose opportunità di lavoro per le donne detenute: dalle buone pratiche oggi esistenti tra le imprese sociali femminili che, in questi anni, hanno lavorato in ambito penitenziario emerge la necessità di dotarsi di nuovi strumenti imprenditoriali che consentano alla cooperazione sociale di stare sul mercato garantendo solidità e continuità alle opportunità lavorative offerte. Nel 2009, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha sottoscritto con alcune cooperative un Protocollo in cui si impegna ad attivare sinergie tra soggetti pubblici e privati in grado di incrementare le attività lavorative presenti negli Istituti Penitenziari femminili. Per questo ha depositato il marchio Sigillo, marchio di qualità e di genere. Il marchio è veicolato dall’Agenzia costituita da alcune tra le realtà cooperative ritenute dal DAP rappresentative per capacità imprenditoriali nel settore tessile e dell’abbigliamento.


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L’Agenzia Sigillo è quindi la prima agenzia nazionale di coordinamento dell’imprenditorialità delle donne detenute, di cui cura le strategie di prodotto, comunicazione e posizionamento sul mercato e ha il compito di avviare contatti centralizzati con realtà imprenditoriali sensibili alla responsabilità sociale in una logica di co-branding, contando su capacità produttive e potenzialità nuove. Nell’Agenzia Sigillo la collaborazione gioca un ruolo primario e non si considera una singola realtà ma una costellazione di imprese in relazione tra loro nelle operazioni di produzione e vendita con l’obiettivo di raggiungere lo scopo delle imprese sociali, garantire cioè maggiori e migliori opportunità lavorative a persone svantaggiate. Sigillo ha avuto inizio a metà gennaio 2013 grazie al finanziamento di Cassa delle Ammende del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, è coordinato dalla Cooperativa Alice di Milano e partner di progetto sono la cooperativa Uno di Due di Torino, Officina Creativa di Lecce ed il Consorzio Sir di Milano. Sono numerose le realtà penitenziarie che ad oggi hanno espresso la loro volontà di adesione al progetto: questo è solo un primo passaggio e ci auguriamo che questo anno di lavoro ci consenta di creare le basi e la fiducia per continuare nella medesima direzione.


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Design fuori luogo

Andrea Margaritelli Direttore marketing Margaritelli Spa


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Un maestro del design entra un giorno in un carcere di massima sicurezza per tenere una lezione straordinaria e ne esce con la convinzione di aver invece assistito, da allievo, ad una straordinaria lezione. Quello stesso giorno nasce anche Freedom Room, un progetto dalle ali leggere e solidissimo telaio, germinato per caso e poi cresciuto per strati, come avviene in natura per le creazioni più belle. Un progetto cui mi sento legato da molti fili. Primo fra tutti quello affettivo di chi avverte la fortuna di aver preso parte, da inconsapevole fochista, alla genesi di un pensiero di sana e robusta costituzione, ricco di futuro. La scintilla che innesca la sorprendente reazione a catena scocca un paio di anni fa con una telefonata improvvisata ad Aldo Cibic, per una preghiera che avrebbe richiesto molto più del microcredito di amicizia di cui disponevo. “Te la sentiresti mica di guidare un percorso di orientamento al design per un gruppo speciale di apprendisti falegnami? Puro volontariato, naturalmente. In carcere. A Spoleto...” A distanza di tempo il ricordo ancora mi sorprende. Ed è difficile dire se a prevalere è lo stupore per la sfrontatezza della mia domanda oppure per l’immediatezza della sua risposta, che fu senza esitazioni: “Certamente sì.


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E con grande, grande gioia!” Nemmeno avessi chiesto una semplice dedica su un libro... In verità la generosità d’animo del personaggio mi era nota, così come una certa vena di scanzonata follia. Ma fu una bellissima conferma. Freedom Room nasce quindi nel segno del fuori luogo, del fuori scala, del fuori tempo. Cioè del totalmente inusuale. Di tutto ciò che, essendo fuori dalle più comuni abitudini, obbliga a ripensare tutto. Vale per il totalmente inusuale ciò che Philip Crosby sosteneva a proposito del cambiamento: “genera sempre grande innovazione e beneficio: per questo dovrebbe essere considerato il più prezioso degli amici. Andrebbe incontrato perché ricercato, e non a seguito di un incidente, o del caso”. Freedom Room è poi cresciuto grazie anche al contributo di due progettisti di talento come Tommaso Corà e Marco Tortoioli Ricci che hanno affiancato Aldo Cibic per dare fisionomia compiuta a un progetto in cui Design, Architettura e Comunicazione si abbracciano davvero. Amo molto Freedom Room, nella forma attuale e nelle sue prospettive di sviluppo, perché esprime l’idea di Design che è più vicino alla mia sensibilità e allo spirito di Listone Giordano. Quella cioè che privilegia il lavoro sul senso e il significato autentico delle cose, piuttosto che sulla loro forma esteriore. Che oltre il suono, conosce il peso della parola responsabilità. Che opera per sottrazione, ricercando l’essenziale. Che sa ascoltare l’esigenza di chi deve utilizzare e soprattutto l’esperienza di chi ha già utilizzato. Che partendo da materie prime anche povere e risorse scarse, sa fare del limite la propria ragione di forza. Che riesce a produrre infinita ricchezza, con la sola capacità di far vibrare le corde più remote dell’animo. In genere si riconosce facilmente grattando la superficie. Forse è anche l’unica idea di Design che amo veramente.


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Creare mondi, dando senso e valore alla freedom economy Michelangelo Patron CFMT, Milano


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Può sembrare ovvio, ma non lo è. Perché negli anni ottanta, la vulgata della globalizzazione divenne un’altra. Mettendo insieme l’ideologia della produzione di massa e la potenza di fuoco delle grandi multinazionali, diventate egemoni nel mondo post-comunista, gli uomini del marketing di allora ci hanno proposto l’idea che l’effetto fondamentale del nostro abitare nel villaggio globale era la fine delle differenze e delle identità. Ossia la confluenza verso un mondo “piatto”, dove tutti i consumatori e i produttori sono uguali (ossia universali) e dove le società locali si normalizzano sullo standard più avanzato, facendo indossare a giovani moscoviti – in procinto di diventare post-sovietici – i loro bravi jeans, mentre sorseggiano per strada inebrianti dosi di coca cola. Né più e né meno di quanto accadeva, allora, dall’altra parte del modo, a diecimila e più chilometri di distanza. Ma, oggi lo sappiamo, il mondo globale è un’altra cosa: ha contaminato le differenze, non le ha fatte sparire, né diventare irrilevanti, un semplice residuo del passato. Le multinazionali stesse hanno imparato che, quando propongono “modelli globali”, devono in realtà dare spazio, nei servizi, nei significati, nelle varianti, alla varietà dei mercati e delle culture con cui si confrontano. Del resto sarebbe difficile immaginare un occidente che “si mangia” in un boccone la Cina, normalizza l’America Latina, conquista senza nulla cedere il mondo islamico o l’immensità dell’Asia di oggi. Come mai la profezia del “mondo piatto” non si è avverata? Per una ragione


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molto semplice: perché il mondo di oggi – fortemente interdipendente nel suo essere sempre più villaggio globale – non è popolato soltanto da individui astratti, che possono facilmente dimenticare la propria differenza uniformandosi allo standard dell’one best way mondiale. Ma è popolato da sistemi sociali densi, portatori di intelligenza generativa, che si nutre del senso e dei legami che nascono dalla condivisione sociale. Sistemi sociali che – qui sta il punto – si sono rivelati essere la risorse chiave della generazione di valore economico. Per tutti gli abitanti del villaggio globale, certo, ma specialmente nei paesi ricchi – come l’Italia – che oggi stanno progressivamente perdendo le attività basate su conoscenze replicative, incorporate in macchine o in prodotti standard, irresistibilmente attratti dai paesi emergenti, low cost. Che tipo di conseguenze ha vivere la propria libertà in un contesto creativo di questo genere, dove ciascuno viene coinvolto nel cambiamento mosso dal triangolo senso/legame/valore? Dobbiamo chiedercelo, ciascuno nel suo campo. Per quanto ci riguarda, il Cfmt utilizza ormai da tempo una griglia di senso/ legami/valore per definire i processi formativi da collocare nel mondo complesso di oggi: un mondo instabile e aperto, che richiede sempre più forme di azione collettiva, liberamente scelte e costruite, per pensare “fuori degli schemi”. In un mondo in transizione del genere, dove il sociale e l’economico cercano nuove sintesi, anche il mestiere del management non può restare lo stesso. Perché la gestione del business non rispecchia uno standard uniforme, ma vive della valorizzazione del senso e dei legami, fatta nello spazio glo-cale. Abbiamo bisogno di manager che capiscono non solo come vendere e fare efficienza, ma che sanno anche inserirsi nelle contraddizioni del proprio mondo – non solo economico, ma anche sociale, culturale, politico – per mettere in moto il circuito senso/legami/valore, applicandolo soprattutto ai problemi che non trovano risposta negli automatismi di mercato, e che – da qualche tempo a questa parte - nemmeno lo Stato sa più come trattare. L’esperienza che il Cfmt ha fatto, per esempio, con il percorso che abbiamo chiamato Managerattivo ha cercato di intercettare il potenziale inespresso che sempre si trova celato dietro una contraddizione apparentemente irrisolvibile. Da un lato ci sono le PMI che soffrono o chiudono e che, dunque, hanno bisogno di una risposta non convenzionale, tale da rompere


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con gli schemi consueti. Dall’altro, tanti manager ancora attivi e ricchi di idee, che la crisi tende a lasciare a casa, privi di funzione. Possiamo mettere insieme le due cose, per sperimentare nuove soluzioni. Ad esempio, come abbiamo cercato di fare, usare l’esperienza di questi manager per offrire alle PMI, in forme appropriate, quella marcia in più (la competenza differenziale) che serve loro per cambiare i modelli di business e gli usi della conoscenza a cui sono abituate. Con il t.Lab, che nel Cfmt lavora su questi temi, stiamo completando una riflessione sul rapporto tra sense-making e valore economico. Nel volumetto che uscirà tra breve, anche on line, il filo conduttore è quello di una Freedom Room che si riempie di persone, e della loro capacità creativa di generare mondi dotati di valore. Domandiamoci: con questo termine (Freedom Room) stiamo parlando di noi, delle nostre imprese, delle nostre persone? Speriamo di sì.


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Biografie autori


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Marco Tortoioli Ricci, Nato a Perugia nel 1964, diplomato all’ISIA di Urbino nel 1987, allievo di Provinciali e Hohenneger, ha lavorato dall’89 al 92 come art director presso lo studio Dolcini associati di Pesaro. Nel 1992 è titolare e fondatore dello studio bcpt associati di Perugia, da allora si occupa della progettazione di sistemi di identità aziendale e design dei sistemi con speciale riferimento alla comunicazione dei territori e dei luoghi. Nel 2003 fonda la cooperativa Co.Mo.Do che si occupa di comunicazione etica e innovazione sociale. È professore di Metodologia del Progetto, all’Isia di Urbino.

Con Cibicworkshop oggi, nelle sue sedi di Milano, Vicenza e Istanbul, svolge sia attività di progettazione architettonica e di grandi interni che attività di design e ricerca. È inoltre visiting Professor alla Domus Academy, al Corso di Laurea in Disegno Industriale della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano e al Corso di Laurea in Disegno Industriale della Facoltà di Design dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. È Professore Onorario alla Tongji University di Shanghai.

Aldo Cibic Nasce a Schio (Vicenza) nel 1955. Nel 1977 si trasferisce a Milano per lavorare con Ettore Sottsass, di cui diventa socio nel 1980. Nel 1981 nasce la collezione Memphis di cui Cibic è uno dei designer e fondatori. Nel 1989 fonda il suo studio e inizia l’attività di ricerca con le scuole.

Thomas Bialas Tedesco. Una moglie. Quattro figli. Autodidatta per vocazione. Pensa, scrive e parla (in pubblico). Futurologo e innovatore si occupa principalmente di progettazione dei contenuti. Elabora scenari e trend reports settoriali, organizza inspiring innovation workshop, crea installazioni che raccontano i nuovi paradigmi e aiuta imprese e istituzioni a


Biografie autori

ripensare il proprio ruolo e futuro. Per Cfmt (Centro di Formazione Management del Terziario) è responsabile del progetto Future Management Tools, una piattaforma multidisciplinare che distilla e anticipa i cambiamenti. È socio della cooperativa CoMoDo, laboratorio di comunicazione e innovazione sociale, membro del network Hub e curatore della piattaforma wecomomy.it, un libro-blog-movimento di Logotel per diffondere i principi e le pratiche dell’economia collaborativa. Aldo Bonomi (Sondrio, 1950) è fondatore del Consorzio Aaster, che dirige dall’84. Da oltre trent’anni studia le dinamiche territoriali compiendo studi e ricerche. Cura la rubrica “Microcosmi” sul Sole24ore e dirige la rivista Communitas. Con La Triennale di Milano ha curato mostre di taglio sociale: da La Città Infinita, 2004 a La città fragile, 2009. È autore di numerose pubblicazioni da “Il Trionfo della moltitudine” (Bollati Boringhieri, 1996), a “Sotto la pelle dello Stato” (Feltrinelli 2010), e “Elogio della depressione” con Eugenio Borgna (Einaudi, 2011). Francesco Bellosi È coordinatore dell’Associazione Comunità Il Gabbiano onlus, che si prende cura di persone espulse e ai margini: detenuti, minori in difficoltà, tossicodipenti, malati di AIDS. Tra il 1980 e il 1990 è stato in carcere. Sul mondo della detenzione ha scritto il testo teatrale “Labirinto” (Spirali/Vel), presentato nel 1988 al Teatro Franco Parenti a Milano; su quello delle

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comunità terapeutiche “Piccoli Gulag” (DeriveApprodi) nel 2004. Si occupa di carcere per il Coordinamento Nazionale della Comunità di Accoglienza. Andrea Margaritelli È nato a Torino nel 1969. Laureato in Ingegneria a Perugia, affianca all’attività principale di imprenditore, incarichi operativi in seno a varie istituzioni no-profit impegnate in campo sociale e culturale. Direttore marketing del Gruppo Margaritelli ha curato, fin dalle sue origini, la comunicazione del marchio Listone Giordano nei principali mercati internazionali sottolineandone la vocazione di interior design brand, legato ai più tipici valori della creatività italiana. Come relatore ha preso parte a numerose conferenze, in particolare su temi riguardanti cultura, valori del territorio e comunicazione d’impresa. In veste di Direttore della Fondazione Guglielmo Giordano partecipa attivamente alla promozione di eventi in Italia e all’estero, nel campo dell’arte, architettura e design.


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Michelangelo Patron Laurea in Economia Aziendale presso l’Università Cà Foscari di Venezia, ha iniziato il suo percorso di crescita professionale nel Gruppo Pam, ricoprendo tra gli incarichi più rilevanti quello di Direttore delle Risorse. Dal 1994, anno di fondazione, dirige il Cfmt – Centro di Formazione Management del Terziario – la business school per il management e le aziende del settore terziario con l’obiettivo di consolidare e diffondere una cultura manageriale e imprenditoriale orientata all’innovazione, aperta ai temi dell’economia della conoscenza e alla costruzione e scambio di esperienze con i principali attori accademici e scientifici dello scenario internazionale.

presso il carcere sperimentale. Dal 2002 al giugno 2011 è stata direttore del carcere di Bollate per detenuti comuni, dove ha realizzato un istituto modello in Italia e in Europa per il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Nel 2009 ha scritto insieme a Donatella Stasio il libro Diritti e Castighi. Ed Il Saggiatore. Ha vinto il premio internazionale Donna fuori dal coro a Genova. La sua biografia è stata inserita nella pubblicazione del Consiglio dei Ministri e del Ministero delle Pari Opportunità Meriti e al Femminile. È stata inserita inoltre nella mostra Donne d’Italia in occasione dei festeggiamenti dell’Unità d’Italia. Dal giugno 2011 al gennaio 2013 è stata assessore alla Casa, Demanio e Lavori pubblici del Comune di Milano. È stata eletta al Consiglio Regionale della Lombardia nella lista “Con Ambrosoli Presidente-Patto Civico”.

Lucia Castellano 49 anni, è nata a Napoli. È laureata in legge ed è avvocato. Dal 1991 è direttore di carceri. Ha lavorato presso il Marassi di Genova, a Eboli, a Napoli - Secondigliano in qualità di vice direttore, ad Alghero


Biografie autori

Joost Beunderman Master in City Design and Social Science alla London School of Economics è responsabile dello studio londinese 00:/ uno dei laboratori inglesi più innovativi nell’urban design e progettazione di nuovi spazi lavorativi, economie locali e territoriali. Ha condotto una vasta gamma di progetti di rigenerazione urbana nel Regno Unito e nei Paesi Bassi. Il suo obiettivo è l’intersezione tra il luogo, la rivitalizzazione economica e l’innovazione sociale. Joost è anche Direttore di Hub Islington, uno spazio di co-working e incubazione di innovazione sociale nel nord di Londra. È co-autore dei libri The Empathic City e di Compendium for the Civic Economy: what the Big Society should learn from 25 trailblazers. Luisa Della Morte È nata nel 1959 a Tirano (SO). Ha lavorato per una decina di anni come operatrice della riabilitazione in psichiatria, dove ha imparato che il fare insieme può divenire un potente strumento terapeutico. Da sempre le donne in situazioni di disagio e il lavoro riabilitativo sono state le costanti del suo impegno. Nel 1994 ha iniziato a lavorare a S. Vittore all’interno della cooperativa Alice. Ha proposto e coordinato numerosi progetti nel campo della formazione (Fondi Sociali Europei, Regione Lombardia), dell’inserimento lavorativo e sviluppo di attività di impresa sociale (Ministero dello Sviluppo Economico, Fondazione Cariplo, Ministero di Giustizia). Attualmente è Presidente e responsabile sociale della cooperativa Alice.

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Il design può essere uno strumento di innovazione sociale? Può dare risposte a nuovi bisogni emergenti? Può essere uno strumento di liberazione? Freedom Room è un progetto nato dalla collaborazione con una delle carceri di massima sicurezza italiane. La Casa Circondariale di Spoleto. Lì c’è una grande falegnameria dove si producono molti degli arredi per le altre carceri in Italia. Lavorando insieme ai detenuti abbiamo imparato che molti oggetti nello spazio di una cella diventano altro, lo spazio stesso diventa altro. Abbiamo chiesto loro di essere nostri consulenti, di progettare insieme una cella più vivibile, un modulo compatto e funzionale che possa rispondere a nuove necessità.

cibicworkshop.com comodosociale.it freedomroom.org


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