Musica Jazz dossier #02: Chet Baker

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musica

dal 1945 DOSSIER 002

jazz, blues, soul, rock

CHET BAKER

ALL’INFERNO E RITORNO


musica

Questo numero racconta il lungo, appassionato e complesso rapporto di Chet Baker con l’Italia, dalle prime visite negli anni Cinquanta ai frequenti ritorni negli anni Ottanta, con numerose foto e testimonianze inedite.

in questo numero... tocca l’immagine per andare alla pagina

Chet Baker in Italia L’ultimo Chorus

di L uc i a no Vio t t o

Chet Baker di G i a n M a r io M a l e t t o

La playlist di questo numero


mensile di critica musicale fondato nel 1945 da gian carlo testoni direttore editoriale Luca Conti (luca.conti@22publishing.it) caposervizio Alessandro Achilli (aachilli@22publishing.it) pubblicità e relazioni esterne Alessandra Andretta (aandretta@22publishing.it) direttore responsabile Fausto Tatarella progetto grafico e impaginazione Diwani E. Fatatis (diwani.fatatis@gmail.com) EDITORE: 22publishing s.r.l. Direzione, redazione, amministrazione: via Morozzo della Rocca 9 • 20123 Milano tel. 02/87389383 • email: musicajazz@22publishing.it Registrazione Tribunale di Milano n. 711 anno 1948. sped. in a.p. - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, Dcb Milano.

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archivio cameraphoto epoche /Getty Images

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di Gi a n M a r io M a l et t o play


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La prima parte del nostro dossier ricostruisce la vita, la carriera e le registrazioni del trombettista, dagli esordi agli anni Settanta

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ella cultura statunitense, la California ha fatto spesso da terra promessa. Il clima più mite, la minore oppressione delle città, la vicinanza degli studi cinematografici (che, a prezzo di un briciolo di compromesso, potevano fornire sostentamento anche all’intellettuale meno conformista): ecco alcune delle ragioni che attrassero sulla costa del Pacifico un piccolo esercito di scrittori, registi, pittori e, naturalmente, musicisti. Così anche il jazz ebbe tra Los Angeles e San Francisco le sue basiliche; nelle sale da concerto, nei numerosi e fiorenti night club, nei ritrovi degli artisti. La sola fortuna nella vita di Chet Baker è stata quella di essersi trovato sulla West Coast al momento giusto. Fu quella degli anni Cinquanta, infatti, l’unica stagione in cui il jazz della sponda del Pacifico poté pretendere una pur relativa autonomia e un’identificazione. Infatti si parlava di «jazz californiano» per indicare uno stile, un atteggiamento, un’evoluzione, oltre che tutta una schiera di beniamini come Gerry Mulligan e Jimmy Giuffre, come Shorty Rogers e Shelly Manne o come Bud Shank, Art Pepper, Dave Brubeck e tanti altri,

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molti dei quali maturati nell’orchestra progressive di Stan Kenton. Ma quel momento singolare si mutò ben presto in banale routine e si esaurì in relativa fretta, vinto dal ritorno in forze dei musicisti neri che non avevano lasciato New York e la costa atlantica, e soverchiato dalla potenza del loro movimento chiamato hard bop. I protagonisti della West Coast erano in grande maggioranza bianchi, e la coincidenza – casuale o no – non mancò di gettar benzina su un fuoco polemico oggi dimenticato. Il tempo ha contribuito a filtrare quelle diatribe, cancellando le opere meno felici di quel periodo avventuroso per lasciare intatto quello che fu il suo grande e primario merito: avere riportato al jazz, in un momento difficile, l’interesse del grande pubblico e – all’interno delle strutture musicali – aver ridato vigore e idee a un’arte che, almeno come popolarità, rischiava d’inaridirsi. Dalla California, insomma, vennero alcuni dei più tipici esempi del progressive e del cool, ma venne anche (e ancor prima dell’hard bop) la reazione a tali movimenti, che facilmente si perdevano nell’involuzione. E vennero complessi e solisti che restituivano allo swing i privilegi che altri sembravano

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Harry James; e, con quel modello in mettere in discussione. Erano musici«Adoro chet baker. lo testa, Chet furoreggiava nella band sti completi e dal gusto raffinato, in amo quando suona, della scuola, che alternava le marce a grado di restare ancorati alla correnma quando canta mi occasioni più piacevoli come le feste te principale del jazz e richiamarsi ai sembra un angelo. da ballo e i picnic. grandi maestri. Un angelo cupo, er un musicista di quello stamsedici anni, nel 1946, Chet ne solitario, pensoso, po, la California era dunque sapeva già abbastanza della rancoroso, dolente l’ambiente ideale. Chi non vi tromba per mettersi alle spalma abbagliante. Usa il era nato cercava di raggiungere in un le la casa di famiglia e avventurarsi cervello, non la voce. modo o nell’altro quella terra promesnel mondo: si arruolò nell’esercito per Usa l’anima, non la sa. Chesney «Chet» Baker non era un entrare nella 298th Army Band di gola. Sono pazza di lui.» nativo, ma nemmeno un immigrato stanza a Berlino. E proprio in Europa, – Mina musicale. Si era stabilito in Califorparticolare curioso, venne a contatto nia con la famiglia all’età di dieci ancon il jazz moderno attraverso i conni, arrivando dal pieno centro degli Stati Uniti, sigli e i dischi di Don Bagley (1927-2012), futuro l’Oklahoma, dov’era nato nella minuscola cittadina contrabbassista kentoniano che aveva studiato con di Yale il 23 dicembre 1929. Suo padre, come molti il noto didatta Wesley LaViolette. Anche Chet destatunitensi di ogni classe sociale, si dilettava sul siderava approfondire le proprie conoscenze musibanjo in un’orchestrina di piccolo cabotaggio: abbacali; e quando fu congedato, nel 1948, si iscrisse stanza per trasmettere a un tredicenne la costanza ai corsi di teoria e armonia dell’El Camino Colledi prendere lezioni di musica nella sua scuola (la ge a Los Angeles. Glendale Junior High). Poiché l’allievo prometteL’esercito, si sa, è sempre stato una grande risorsa per va bene, il padre regalò a Chet un trombone ma il i giovani inquieti. Chet torna ad arruolarsi nel 1950, primo atto del ragazzo fu quello di scambiare lo pare per sfuggire a un legame sentimentale. Ma stastrumento con una tromba. Il suo idolo, allora, era volta non va molto lontano: entra nella 6th Army

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Band, di stanza al presidio di San Francisco, da cui ogni sera taglia la corda per suonare al Bop City e in altri locali notturni. Dopo più di un anno, tuttavia, lo spediscono a Fort Huachuca, in Arizona, in una band militare che è una specie di tetra compagnia di disciplina, rifugio di loschi figuri e di tossicodipendenti. E Chet, che ama le decisioni brusche, fugge dalla caserma, si dà disertore per un mese e, alla fine, viene riformato per «ragioni psichiatriche». iamo nel 1952. In borghese, Baker ritrova una Los Angeles ancora più attraente. Ora c’è modo di lavorare sul serio, e infatti si unisce a grandi partner: Stan Getz, Dexter Gordon, Vido Musso, persino Charlie Parker, il più grande di tutti, che anni prima era stato tra i creatori del jazz moderno e adesso vive gli ultimi bagliori di una carriera penosa e sublime. Nell’estate del 1952 Bird suona al Tiffany di Hollywood, e tra i musicisti locali da lui ingaggiati c’è anche il ventiduenne trombettista. C’è chi va al Tiffany per Parker e si imbatte nella rivelazione Baker; il più avveduto di tutti è Richard Bock, un giovanissimo agente di spettacolo che, su due piedi, scrittura Chet per il proprio locale, lo Haig, e che letteralmente impone a Gerry Mulligan.

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esordio discografico di Baker facenulligan, di due anni più «Anche lui, forse, aveva dogli incidere con Mulligan, il conanziano di Baker, non avrà fatto un patto col trabbassista Joe Mondragon e il piaforse la tumultuosa espediavolo in qualche nista Jimmy Rowles (niente batteria) rienza umana del collega ma ne poscrociccio della un brano che sarà pubblicato soltanto siede una musicale ben superiore. Arassolata california parecchio tempo dopo: She Didn’t Say riva dalla East Coast, da New York, e un bel giorno il Yes, She Didn’t Say No. In esso il giodove è stato un arrangiatore precocisdiavolo è tornato a vane trombettista rimane in disparte simo e si è rapidamente imposto coriprenderselo. Non fin quasi al finale, e del resto Mullime il più interessante sax baritono del importa che fosse l’alba gan stesso pare meno in evidenza di momento, partecipando in entrambe le di una fredda primavera Rowles, il più anziano del gruppo (è vesti alle famose incisioni del nonetto ad amsterdam.» – Vittorio Franchini del 1918) e reduce da una lunga midi Miles Davis, tra il 1948 e il 1950. lizia con Woody Herman. E proprio Davis (un nome che fa drizzare le orecchie a Chet) è ora l’idolo, il modello da n realtà non è facile collocare nell’attività di seguire. Anche per questo, l’idea di suonare a fianco Mulligan questa specie di esperimento, che pudi Mulligan piace a Baker; i due, poi, scoprono un re va sotto il suo nome, perché quando esce il vero e proprio fluido musicale non appena si metprimo 10 pollici del quartetto una delle particolatono al pianoforte e intessono le prime linee melorità che fanno sensazione è la mancanza del pianodiche. Nasce in quel modo un po’ insolito lo stile forte. «Avere a disposizione uno strumento di così che darà immediata fortuna e popolarità alla loro illimitate personalità, e ridurlo a fare da stampella collaborazione e che sarà diffuso dal loro quartetto. a un solista mi è parso inconcepibile», spiega proNon soltanto alle serate allo Haig, ma anche ai diprio Mulligan, che era del resto un sincero estimaschi provvede Bock, con l’etichetta – da lui fondatore e cultore del pianoforte, come risulterà negli ta per l’occasione assieme al batterista Roy Harte anni a venire dalle sue frequenti esibizioni in con– Pacific Jazz, che il 9 luglio organizza il virtuale certo e su disco.

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«chet era da tutti considerato una minaccia plausibile al trono di miles davis […]. le note che suonava avevano una profondità incredibile». – Herbie Hancock, pianista jazz, dagli appunti di Let’s Get Lost

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l suo fianco – sin da quel 16 agosto 1952 in cui vengono incisi tra l’altro Bernie’s Tune e Lullaby Of The Leaves, i due brani della rivelazione – troviamo un Chet Baker finalmente in grado di esprimere in libertà il suo lirismo, un batterista raffinato e puntuale come Foreststorn «Chico» Hamilton – tra i musicisti neri che più hanno collaborato all’attività dei californiani – e il robusto bassista Bob Whitlock. «Vedo il contrabbasso come la base del quartetto», dice Mulligan, e in effetti pare non accontentarsi mai, cambiando e ricambiando il bassista quasi a ognuna delle sedute che si susseguono dapprima a un ritmo mensile e poi, dal gennaio del 1953 (pressappoco quando Hamilton lascia definitivamente il posto a Larry Bunker e Carson Smith si afferma come immutabile contrabbassista), a un ritmo ancor più accelerato. Nei dieci mesi di attività del quartetto, almeno sessanta brani sono pubblicati o messi avvedutamente in archivio dalla Pacific Jazz, in aggiunta agli otto che Mulligan, in due sedute nel gennaio del 1953, realizza con un tentetto, memore delle già citate incisioni di Miles Davis. Naturalmente Chet Baker ne è la tromba leader. pag. 8

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In quei dischi – presto diffusi come una specie di divulgazione popolare del jazz moderno – è la sintesi di quello che sarà chiamato appunto «jazz californiano». Sembra proprio che sia stato Arrigo Polillo a formulare per primo questa etichetta. Ed è il musicista Attilio Donadio a delinearne sulle pagine di Musica Jazz (n. 7/1955) con sbalorditiva concisione gli ingredienti, o meglio le ragioni, del grande successo: «Quel jazz ha addomesticato il bop, ha riscaldato il cool e ha alleggerito il progressive. Un jazz fresco, insomma, musicale e pieno di swing». aturalmente, perché tutta una generazione di giovani resti affascinata proprio dal quartetto di Mulligan e Baker, che non sono certo gli unici californiani, esistono altri pregi meno generali: il perfetto lirismo che accomuna i due fiati del complesso e la loro capacità di tradurre l’effervescenza di idee negli assoli e nelle deliziose trame dei loro duetti, che creano insoliti, deliziosi impasti armonici con il timbro rugoso del sax baritono di Mulligan e la sonorità vitrea della tromba di Baker, entrambi fortemente sostenuti dai due ritmi. La vera rivelazione, occorre ripeterlo, è proprio Chet. Benché visibilmente

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Jazz 601), Bark For Barksdale, Soft ispirato nel fraseggio ai due grandi «erano gli anni in cui la Shoe, Walkin’ Shoes, Frenesi, Freeway trombettisti post gillespiani, Miles presenza di una jazzista (un tema di Baker stesso) e tutti i Davis e Fats Navarro, pure sa esseamericano in Italia brani in cui al quartetto si era unire indiscutibilmente personale per la faceva subito notizia, to, sul palco dello Haig, il santone sonorità. figurarsi se il jazzista del cool Lee Konitz (tre sedute tra il hi cerca un paragone va a scoera “faccia d’angelo” 25 gennaio e l’1 febbraio 1953). Tra modare addirittura l’ombra chet baker, mito della le incisioni di Baker, con il primo illustre di Bix Beiderbecke, tromba e cantante da quartetto sotto suo nome, sono soil coetaneo e, in un certo senso, ribatticuore.» prattutto notevoli quelle del 29 e 30 vale bianco di Louis Armstrong fino – Claudio Sessa, giornalista luglio 1953 come Russ Job e All The alla sua precoce scomparsa nel 1931. Things You Are. E la consacrazione definitiva di Chet Baker è il primo posto che al termine del 1953 questo periodo risale anche la popolarità vagli viene assegnato nel referendum tra i lettori di stissima di Chet quale cantante, che provocò DownBeat quale miglior trombettista. Il verdetto, una feroce frattura di giudizi tra i critici che si ripeterà per un paio d’anni anche in sonma un concorde successo tra il pubblico di tutto daggi europei, è da riconoscersi, in termini assoil mondo. Il suo cavallo di battaglia era My Funny luti, piuttosto esagerato. Valentine, inciso – con quella timida voce da adoAllorché, a metà del 1953, Chet si stacca da Mullilescente – in svariate versioni. gan per formare un proprio quartetto (sovente peIl Chet Baker migliore resta tuttavia il trombetraltro allargato come organico) con il pianista Russ tista dalla sonorità sottile e del tutto sprovviFreeman, si lascia alle spalle una serie di incisioni sta di vibrato, dal fraseggio elegante e dalle idee che vanno considerate tra le sue cose migliori. Si sovente fervide, che ripropone un problema non possono citare, con Mulligan, Bernie’s Tune (uno dei ignoto ai dibattiti estetici di qualsiasi arte: la sua primissimi, pubblicato sullo storico 78 giri Pacific pare dettata dalla grazia più che dalla forza cre-

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Milano, Settembre 1959. Università Politecnico di Milano - Chet Baker e Franco Cerri Photo Š Sergio Pedroli - Archivi Riccardo Schwamenthal pag. 10 Musica Jazz - Chet Baker


sta che quasi subito passa un perioativa. La travolgeranno non tanto le «stai attento dizzy, c’è do di isolamento nel Kentucky, al durezze del jazz degli anni successiun bianco che sta per Lexington Federal Hospital, prima vi quanto il dramma intimo che su farti le scarpe!» tappa di una lunga odissea che si Chet si profila, per oscurare il suo – Charlie Parker, rivolgendosi concluderà nell’abisso. volto da bambino. a Dizzie Gillespie e ella primavera del 1955 Ban questo periodo Baker incide più riferendosi a Chet Baker ker è invitato a un concerto volte per la World Pacific, a Los dedicato ai californiani più Angeles, con complessi in cui inin vista (Mulligan, ma anche Phil Urso, Dave vita per lo più Russ Freeman come pianista e Phil Brubeck, Paul Desmond) nell’austera Carnegie Urso, Art Pepper e talvolta Bud Shank ai sassofoHall di New York, dove il jazz è entrato da temni, oltre a numerosi altri partner meno stabili. Tra po ma dove torna di rado e solo per veri e propri gli album del periodo va citato «Chet Baker And esami di laurea. Per Chet è forse l’ultima immaCrew», con Urso e, al pianoforte, un insolito Bobby gine di un’America amica. Nel settembre parte Timmons. Tuttavia l’occasione migliore proviene con un suo complesso per l’Europa, dove ha un da Mulligan, che per una volta si riunisce al vecnutrito programma di concerti (anche in Italia) chio compagno in tre sedute del dicembre 1957, da e di incisioni per la francese Barclay. E finisce cui verrà tratto il disco «Reunion». Ma chi pone proprio a Parigi l’estate felice ma breve della sua un po’ d’attenzione non può non avvertire il salto carriera. Il 21 ottobre, per una dose eccessiva di di qualità, piuttosto negativo, dalle incisioni legeroina muore il suo pianista Dick Twardzik, apgendarie di quattro anni prima. L’innata bravura pena ventiquattrenne ma già destinato a grandi salva sovente Chet, ma le sottili trame contrappuncose, ed è un segno sinistro di premonizione. Pare tistiche che avevano reso celebri i due jazzisti sono che proprio a quel viaggio o comunque al rientro ormai perdute. negli Stati Uniti, nel 1956, risalga la dannazione A Harlem, nel 1959, Baker viene arrestato per dello stesso Chet nei meandri della droga. Fatto droga, condannato a sei mesi (ne sconterà solo

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quattro) e spedito nel carcere di Rikers Island: invano offre una cauzione Bill Grauer, comproprietario della casa discografica Riverside per la quale Chet aveva inciso già quattro album abbastanza validi, tra cui uno con Johnny Griffin. Dopo il soggiorno in carcere, assieme ad altri jazzisti ben noti come Howard McGhee e Curly Russell, Baker decide di tornare in Europa e, a Milano, inizia una cura disintossicante. Soprattutto, però, pare guarirlo il calore umano che lo circonda. Incide più volte per la Music di Walter Guertler con i maggiori jazzisti italiani, tra settembre e ottobre, e inoltre fa da maestro a Masetti, Basso, Sellani, Cerri e si trova a disposizione una sezione d’archi e legni arrangiata da Ezio Leoni e Giulio Libano. a a tradirlo sarà un incidente banale: a Napoli gli viene rubata la tromba, alla vigilia di un concerto, ed è tale lo sconforto che quella sera stessa Chet si restituisce al suo vizio oscuro. Ed è un ricadere giù per la china, sempre più velocemente, sempre più perdutamente. La moglie Halima, sfinita dalla delusione, lo lascia. In agosto, al festival belga di Comblain-la-Tour, compare sul palco quando già

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co ministero chiede per Chet sette è stata annunciata la sua assenza, ma «dicevano che non anni di reclusione. Ma la sentenza è quasi incapace di suonare. Attende sarei mai arrivato a 35 sarà ben più mite: diciannove mesi, la tragedia come rassegnato. anni, poi che non sarei che la Corte d’appello di Firenze, n amico toscano, medico, mai arrivato ai 40, poi ai in settembre, ridurrà ulteriormententa ancora una volta di sal45. Ora ho quasi 50 anni te a sedici. varlo e lo fa ricoverare alla e inizio a pensare che È una lunga, triste parentesi. Ma non clinica Santa Zita di Lucca, con la liforse si sbagliano» un’agonia. Nel carcere di Lucca, Chet cenza di recarsi ogni giorno alle Fo– Chet Baker scrive musica e suona gli strumenti cette, presso Viareggio, per suonare più improvvisati. Esce il 15 dicemalla Bussola con Romano Mussolini. bre, e ancora una volta trova ad attenderlo gli amiLa sera di giovedì 31 luglio, il custode di una staci italiani che hanno fiducia in lui. zione di servizio di San Concordio in Contrada si insospettisce del lungo silenzio di Baker, che si li organizzano una serie di concerti con era fermato per recarsi in bagno, e fa accorrere la Antonello Vannucchi, Amedeo Tommapolizia. La porta viene sfondata. Chet è riverso a si, Giovanni Tommaso e Franco Tonani, terra, coperto di sangue. Nella frenesia di iniete gli fanno incidere il 5 gennaio 1962, a Roma tarsi lo stupefacente si è più volte colpito il bracper la Rca, un disco dall’augurale titolo «Chet Is cio. Ventidue giorni dopo sarà arrestato e rinviato Back!». Lo affiancano per l’occasione alcuni tra a giudizio. i migliori musicisti europei: Bobby Jaspar al sax Il processo, assai seguito in Italia e fuori, si svoltenore, il pianista Tommasi (che ha scritto per ge a Lucca a metà aprile del 1961, e coinvolge Chet una deliziosa Ballata in forma di blues), René la stessa moglie Halima, due medici lucchesi e Thomas alla chitarra, Benoît Quersin al contrabun avvocato, accusati tutti di aver aiutato Chet basso e Daniel Humair alla batteria. nella sua caccia alla droga. Poiché l’imputazione Nel disco e in pubblico, dopo il breve rodaggio parla anche di ricette mediche false, il pubblidovuto alla forzata inassuefazione delle labbra,

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Chet BAKER e sua moglie, Halima BAKER. Photo by Paul Hoeffler/Redferns

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Chet mostra una forza nuova e quascato». Il 4 giugno viene arrestato a «Beh, se potessi suonare Monaco di Baviera. La caduta semsi un ripudio di tutto il suo pascome wynton, non bra ormai inesorabile. sato. Il grido di battaglia è Well, suonerei come wynton». You Needn’t, il brano di Thelonious l’inizio di una lunga, triste – Chet Baker, parlando a Monk con cui suole iniziare le sue e cupa odissea. Espulso dalproposito del musicista jazz esibizioni. Perfino il pubblico etela Germania e, alla fine delWynton Marsalis rogeneo della Sei giorni ciclistica di lo stesso giugno, anche dalla SvizzeMilano lo applaude, la sera che suora, esule per breve tempo a Londra, na nel grande anello dove i cantanti alla moda non resta a Baker che il triste isolamento nel mavengono abitualmente fischiati fino alle lacrime. nicomio criminale di Haar, nei pressi di Monaco. E sulla sua vita il produttore De Laurentiis vuoNon gli permettono nemmeno di vedere Carol e, le addirittura fare un film. Sono giorni buoni. quando esce, si trova a essere un «indesiderabile» uori dal carcere, ad attenderlo, Chet ha troproprio nei Paesi europei in cui aveva sperato di vato anche la sua ragazza, la giovane inglese trovare serenità. Condannato a Londra a un mese di reclusione nel febbraio 1963, scritturato per Carol Jackson. Anche per lei si sente più forbrevi periodi allo Chat-qui-Pêche di Parigi, passa te. I giornali li ritraggono nell’atto di addobbare ad Ankara, a Barcellona e di nuovo a Parigi, vieil loro albero di Natale. E a metà maggio è prene ancora una volta arrestato il 22 gennaio 1964 a vista, a Milano, l’apertura di un locale notturno intitolato a lui e dedicato al suo jazz. Sembrano Berlino Ovest e, il 2 marzo, definitivamente espulso dalla Germania. Ripartirà direttamente per gli in molti a credere ancora in Baker. Ma, così coStati Uniti, lasciandosi alle spalle un dramma che me era sfumato il film, nemmeno il club si aprirà la notorietà ha impietosamente reso pubblico, con mai, nel sotterraneo del vecchio Olimpia in larle foto che lo esponevano in manette nei tribunali go Cairoli. dove pure c’era chi gli chiedeva un autografo atE ci si domanderà per breve tempo il perché. traverso le sbarre. «Chet», si scopre infine sui giornali, «c’è rica-

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Negli Stati Uniti Chet tenta ancora di affrontare le sue illusioni. Il 3 luglio 1964 appare al fianco di Stan Getz al festival di Newport e, in seguito, si esibisce presso svariati locali. Ma si accorge ben presto che in lui la gente cerca il protagonista di una cronaca scandalosa, più che l’artista. Quanti ascoltavano sul serio il suo jazz? E la sua luce, così piena e forte dieci anni prima, era ormai quella tenue e obliqua del tramonto, ad appena trentacinque anni. nche nel campo discografico la situazione è assai strana: qualche disco per la Limelight (da citare il buon «Baby Breeze») e ben cinque lp per la Prestige su cui è diviso il prodotto di tre giorni di registrazione dell’agosto del 1965, da Rudy Van Gelder, con George Coleman al sax tenore, Kirk Lightsey al pianoforte, Herman Wright al contrabbasso e Roy Brooks alla batteria. Al fianco di queste opere più che accettabili, quattro o cinque commercialissimi dischi per la World Pacific, a livello della più bieca pop music, imprigionano il fantasma di Chet nell’insulsa compagnia dei Mariachi Brass e dei Carmel Strings. Frattanto il suo strumento è diventato il flicorno, simile alla tromba ma as-

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sai più ovattato nel suono: l’aveva scoperto quasi per caso a Parigi, nel 1963, dopo l’ennesimo furto della tromba. e ultime notizie su Baker che giungono allora in Europa provengono da un vasto reportage di Frank Tenot per Jazz Magazine del luglio-agosto 1968, e fanno stringere il cuore. «Chet Baker vive sulla West Coast, in un luogo che tiene segreto e che nessuno, qui, cerca di scoprire. Compare di tanto in tanto in un locale notturno con la tromba sotto braccio, per una jam session. Lo s’incontra al Playboy Club o al Donte’s, dove una sera ha tentato di suonare con il trio di Jimmy Rowles. Ma, non appena lo vedono arrivare, i musicisti terminano il più in fretta possibile il loro brano e fanno lunghe pause. Eppure lui vuole suonare a ogni costo, con risultati spesso penosi. Per il jazz, Chet è perduto». Passano cinque anni. All’improvviso, nel luglio del 1973, una recensione clamorosa da New York: allo Half Note, in un piccolo gruppo diretto dal sassofonista Phil Urso, appare un trombettista che pochi appassionati di quella stanca stagione guardano increduli. Ma è Chet Baker, quello! Al giornalista di Melody Maker Richard Williams, che porta

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la notizia in Europa, Chet racconta le sue ultime vicende. Rivela che dalla droga si era staccato dal 1970, quando ormai si temeva per la sua vita, salvata invece da una terapia a base di metadone. Gli spacciatori cui probabilmente doveva denaro l’avevano fatto pestare a sangue fratturandogli la mandibola, con la perdita di tutti i denti. Era libero, finalmente, ma ridotto alla fame; fino a quel momento, aveva vissuto di modesti sussidi pubblici per la sua infermità. La tromba per quel suo primo concerto se l’era far dovuta prestare. opo tre e passa anni di assoluta inattività, e con una dentiera tutta nuova, le frasi musicali uscivano a volte come un soffio penoso. «Non ho abbastanza forza per stringere i muscoli del volto», spiegava con quella voce ancor più sottile di sempre, «ma non mi preoccupo: ho voglia di lavorare e ce la farò. Sono un ottimista, io». Ma quando gli dissero che, vista quanta gente veniva ad ascoltarlo, il suo ingaggio di due settimane veniva prorogato a tre, mormorò perplesso: «Spero che non vengano soltanto per la curiosità di vedere un relitto del passato». Come tutti oggi sanno, non è stato solo per quello, da allora in poi.

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Archivio Cameraphoto Epoche / Getty Images

C het Baker in Italia

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Keystone / Getty Images

Roma, 13 aprile 1962: Baker e Dalida nei camerini del teatro Brancaccio.


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venticinque anni dalla scomparsa di Chet Baker, che senso può avere rievocarne le sorti e la vicenda umana, specie in Italia? Non senza malinconia e con un lieve disappunto si deve constatare che di lui non si parla quasi più e i soli ricordi non possono restituirci l’essenza della sua statura artistica. Nel tempo da allora trascorso non è bastata una manciata di libri, film e documentari, spezzoni live sulla rete e molti cd (bootleg, novità e riedizioni): è necessario che il jazz di oggi, così mutato a cavallo dei due secoli, guardi a Baker come a un artista unico, in grado di coniugare una sofferta poetica a un lirismo assoluto. Del trombettista e cantante di Yale, Oklahoma, diventa necessaria una rivisitazione più distaccata rispetto alle prime ed emotive analisi apparse nei mesi successivi alla morte, o alla vulgata corrente sulla sua tossicodipendenza, o ad alcune operazioni che il mercato discografico gli ha riservato post mortem (vedi Giuseppe Piacentino, «Il caso Chet Baker: un mercato impazzito?», Musica Jazz n. 4/1990, pp. 28-29), dove le edizioni ufficiali hanno lasciato lo spazio a produzioni discu-

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tibili nei contenuti quanto negli esiti artistici, per non dire delle vicende legate ai diritti reclamati dalla terza moglie Carol Jackson e al suo tentativo di ufficializzare la sterminata serie di live con l’etichetta Ccb (Chet & Carol Baker), naufragata ben presto con la pubblicazione di alcuni cd di modesto valore. Uno degli aspetti da approfondire è il nodo del rapporto con l’Italia maturato oltre le motivazioni di natura artistica. Sono i capitoli che la sua biografia ci ha restituito in epoche diverse: prima, durante e dopo l’Italia del boom (1955-1962); o il suo ritorno in Europa dopo il 1975, fino alla tragica notte di Amsterdam quel 13 luglio 1988, un venerdì. Perché proprio l’Italia? Una possibile risposta è legata all’intrecciarsi di intensi rapporti umani, alla loro intima natura e come dentro e attorno a essi si siano sviluppate le sorti artistiche di Baker che, per esempio, non si è mai sentito partecipe della West Coast: «La scuola West Coast è nata per caso. Personalmente, non ho mai avuto l’impressione di farne parte e nessun musicista della West Coast mi ha influenzato» ( Jazz Magazine n. 96, luglio 1963). È sufficiente un’affrettata valutazione

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di queste frasi per vedere sotto diversa luce i fondamentali dischi incisi da Baker in Italia nel 1959 per la Music, da «Chet Baker In Milan» a «With Fifty Italian Strings»? Quale che sia la risposta, la domanda è un bel sasso lanciato nello stagno ricco di ninfee che è la discografia italiana di Chet Baker. ampia bibliografia formatasi dal 1988 non è del tutto esaustiva: occorre un lavoro di scavo più profondo, attraverso il recupero di fonti orali e documentarie per coprire piccole lacune che, nella biografia bakeriana, non sono mai casuali e possono risultare decisive. Il mio amico Chet: storia un po’ vera un po’ no del processo a Chet Baker di Domenico Manzione (Pacini Fazzi, Lucca 2011) risponde bene all’esigenza di mettere ordine al drammatico e travagliato periodo (estate 1960 - dicembre 1961) che vide Baker imputato, processato e condannato a Lucca. Con un registro di scrittura appropriato, Manzione, pubblico ministero a Lucca e grande appassionato di jazz, architetta un saggio-romanzo che copre tasselli scoperti di quella vicenda giudiziaria avendo potuto accedere alle fonti documentarie. James Gavin, nel suo ampio e approfondito Chet Baker: la lunga notte di un mito (B&C Dalai 2004)

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ha attinto molto. pur con qualche svarione cronologico, dalle testimonianze contenute in Chet Baker in Italia (Stampa Alternativa, 1991) di Paola Boncompagni e Aldo Lastella, e cita episodi importanti: per esempio, il primo ingaggio del trombettista a Milano, per il capodanno 1955-56 alla Taverna dell’hotel Duomo, dove fu fischiato «e alla fine il gestore lo buttò fuori. Chet sembrava molto dispiaciuto» (p. 146); sul fronte dei soggiorni milanesi o romani «il suo atteggiamento blasé sembrava la quintessenza del cool» (p. 179). avin pare non riesca però a superare la soglia della facile creazione di un’icona con il volto di Baker paragonato a quello di James Dean o immortalato sulla copertina dei rotocalchi (Epoca, 21 febbraio 1960, con l’attrice Yvonne Furneaux, sotto il titolo «La dolce vita a Milano»); il biografo di Chet ne ignora altri, non certo minori e che, se approfonditi, potrebbero spiegare per esempio i suoi interessi culturali o chi frequentasse oltre la cerchia musicale. Un esempio: grazie al ricordo di Fernanda Pivano, sappiamo che Chet «insieme alla bellissima Halima […] veniva a mangiare banane e suonare il pianoforte nella nostra caotica casa di via Cappuc-

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13 aprile 1961: Baker durante il processo per droga a Lucca.

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cio dove incontrava Gregory Corso e altri imprevisti compagni di strada…» (Corriere della Sera, 29-9-93, p. 32); basta un aneddoto come questo per aprire squarci impensati sulla sua indole timida, autenticamente genuina, forse in contrasto con l’immagine di un uomo in perenne solitudine con se stesso, ben disegnato nell’intervista di Oriana Fallaci «Dove andrai Bakerre?» (L’Europeo, gennaio 1962, ora in L’Europeo mensile n. 7/2007). he cos’ha lasciato di scritto Baker su quegli anni e oltre? Non è facile giudicare l’operazione editoriale sulle pagine del suo diario condotta da Carol Jackson: Come se avessi le ali: le memorie perdute (Minimum Fax 1998 e 2009) non colma alcune lacune, anche documentali, come il prezioso libro del carcere rilegato in cuoio rosso con i brani composti da Baker, il quaderno perduto. Mancano poi le lettere ed è grave: si sa come gli scambi epistolari siano fondamentali e mai come nel caso di Baker potrebbero costituire quella necessaria complementarità. Chissà che un giorno non vedano la luce anche le missive scambiate con «i migliori musicisti esistenti all’epoca in Italia: Amedeo Tommasi al pianoforte, Giovanni Tommaso al contrabbasso e Franco Mondini alla batteria» (Come

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se avessi le ali, p. 96), con Sergio Bernardini, fondatore della Bussola di Focette, o con i più stretti amici italiani. Su questo argomento i blog non bastano: occorre aprire i bauli dimenticati. La geografia dei viaggi di Baker in Italia non è quella del grand tour ma certo non sfuggono alcune constatazioni, specie sui gruppi di autentici appassionati di jazz (il Circolo di Lucca; i medici della Versilia o milanesi che presero a cuore i suoi problemi) che costituirono un riferimento fondamentale per il Baker italiano. Non si possono risolvere quegli intensi legami di amicizia, spesso aggrovigliati e difficili da comprendere, con la tesi che vuole l’artista imprigionato in rapporti amicali dalla precisa circolarità: accoglienza, bisogno, ingaggio, soddisfazione delle proprie esigenze, ancora astinenza e così via. u questo piano non si capisce perché, in quella fase storica e culturale, Chet venisse idolatrato nel nostro Paese e perché la sua figura potesse fornire un messaggio controverso e al contempo appagante: a Torino, per esempio, il 15 novembre 1959 suona al teatro Alfieri (prima di Caterina Valente) con i Signori del Jazz (Glauco Masetti, Lars Gullin, Romano Mussolini, Franco Cerri, Jimmy

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Pratt) eseguendo una sofferta My Funny Valentine dai colori tenui, cui seguono applausi scroscianti e fischi all’americana (dvd Torino 1959 / Stuttgart 1988, Impro-Jazz DVDIJ 501, e tinyurl.com/funny-val, entrambi con data errata 8-11-59). a vi è un altro aspetto che merita di essere sottolineato. Alla fine degli anni Cinquanta, Baker è un artista affermato, non solo sul palco, ma è anche il prototipo adatto per un successo sicuro con il nastro di celluloide, come uno dei protagonisti più in vista della dolce vita: i film cui ha prestato il volto, il suono e la voce sono alcuni tra gli esempi di quella commedia italiana post realista che aprirà la strada a una ricca stagione, ma diversificandone i soggetti. Tra gli altri, Urlatori alla sbarra (di Lucio Fulci, 1960), dove dalla povertà della trama emerge la poliedricità dell’artista con le gags più esilaranti cui segue un finale struggente con Arrivederci di Umberto Bindi. Non fu il solo contatto con la canzone italiana: nella discografia del triennio 1959-1962, dopo l’uscita dal carcere di Lucca, la tromba e la voce piena di pathos di Baker furono scelte da Ennio Morricone per Chetty’s Lullaby, So che ti perderò, Motivo su raggio di luna e Il mio domani, destinate a un pro-

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getto, poi naufragato, di film prodotto da Dino De Laurentiis sulla figura dello stesso Baker. Non mancano altri segni di minor richiamo e diverso taglio, quali la breve fiction La tromba fredda (Enzo Nasso, 1963) girata nella primavera-estate 1960 durante il soggiorno romano di Baker con la moglie Halima, anche se nel finale è invece con Carol Jackson (la pellicola, che secondo Gavin sarebbe scomparsa, si può almeno vedere in tinyurl.com/tromba-fredda). Un altro docu-film, di tutt’altro genere, che vede Baker tra gli attori è Nudi per vivere (Elio Petri, Giuliano Montaldo e Giulio Questi, 1964, su sceneggiatura di Giancarlo Fusco): allora vietato ai minori di diciott’anni, è un reportage sui locali notturni della penisola. a tentazione di Baker verso il cinema non terminò in quegli anni, né come soggetto né come protagonista: come aveva rilevato Mario Luzzi («Chet Baker tre volte star», Musica Jazz n. 3/1988, pp. 22-23) erano almeno tre i progetti. Del film-documentario Let’s Get Lost (1988), «la lettera d’amore in bianco e nero di Bruce Weber a Chet Baker» (Gavin, p. 412), sappiamo molto, compresi i giudizi e reazioni contrastati che provocò; dei

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due lavori di Giorgio Treves e del francese Pierre Martin non si fece nulla a seguito della morte del trombettista. li anni successivi al 1975 registrano un’attività molto intensa di Baker in Italia, segnata ancora da rapporti umani autentici quanto precari e problematici: a Roma (da Pepito e Picchi Pignatelli e al Music Inn), come a Milano (al Capolinea di Giorgio Vanni) e a Torino (allo Swing Club, ospite all’hotel di Secondo Poncini o dall’amico Franco Mondini) si sentiva a casa sua. In Italia, a parte l’olandese Wim Wigt, il suo unico agente era il tachimetro della propria auto: oggi a Bologna, domani a Parigi e spesso arrivava in ritardo ai concerti o faceva perdere le tracce, alla rincorsa di altri traguardi; come quando non arrivò ad Asti, il 13 luglio 1987, per un inedito incontro con Tom Harrell e il gruppo di Phil Woods, un dialogo dai fremiti intensi. Harrell è uno dei pochi ad aver raccolto l’eredità stilistica e il suono espressi da Baker, con un linguaggio intriso di poesia e di sommessa malinconia. Per gli artisti italiani e il loro rapporto con Baker il discorso è diverso: per i trombettisti, la sua è un’eredità non contesa ma declinata con gran-

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de sensibilità, più evidente nel primo Paolo Fresu, mentre è filologicamente reinterpretata dall’astigiano Felice Reggio. e collaborazioni italiane di Baker furono occasioni per incontri fuori dall’ordinario: Nicola Stilo, flautista e chitarrista che lo accompagnò sino alle ultime esibizioni, condividendone la vita in una sorta di costante quanto provvisoria irregolarità; e poi, tra gli altri, Massimo Urbani, Riccardo Del Fra (che incontrò anche a Parigi), Maurizio Giammarco, Franco D’Andrea, Mike Melillo, Luca Flores, Furio Di Castri, Massimo Moriconi, Roberto Gatto, Giampaolo Ascolese; la collaborazione discografica, prima con la Red di Sergio Veschi e poi con la Philology di Paolo Piangiarelli. È di Enrico Pieranunzi il giudizio che più colpisce: ascoltando Chet Baker durante l’incisione di «Soft Journey» (EdiPan, 1979-80), il pianista «credeva di aver trovato la chiave per capire il mistero del jazz e cioè che “l’improvvisazione è una terra sconfinata, la terra della nostra vita più intima”». (Gavin, p. 311). Sono molteplici gli omaggi alla figura di Baker, artista «maledetto» e irregolare, che hanno segnato questo quarto di secolo con alcune gemme discografiche: da «To Chet» di Giovanni Tommaso (con Fresu, Boltro,

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Rea e Gatto; Red, 1988) a «Shades Of Chet» di Enrico Rava con Paolo Fresu (Via Veneto Jazz, 1999). L’ultimo chorus di Chet Baker in Italia è a Torino, il 21 aprile 1988, durante un concerto come ospite di Rava. a sequenza fotografica qui a lato, ci restituisce idealmente la vita artistica di Baker, dove la passione e la bellezza intrinseca del volto e delle mutevoli espressioni conducono all’ultimo ritratto: un volto reclinato che spiega bene perché, rispondendo forse all’ultima intervista italiana, Chet dichiarò a Stefania Miretti di Stampa Sera (22-4-88) che il jazz è dolore: «Quando possiedi del talento naturale devi fare attenzione a non farti rovinare dalle cose brutte, dalle tante cose brutte che ci sono in questo mondo. Il nostro è un ambiente di persone molto sensibili, ma di troppa sensibilità si muore».

in prigione, a usare la testa per pensare ad altre cose, gli esercizi con la tromba, otto ore al giorno, gli scacchi, il lavoro. ■ Ma senza quella che lei chiama

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sensibilità, ci sarebbe creatività?

Forse no. Ma ci sono dei limiti che non vanno superati, altrimenti arrivi a un punto in cui provi soltanto rabbia, per te e per gli altri, e non t’interessa più fare qualcosa per il pubblico. Non t’interessa più la bellezza… ■ Senza tanto dolore, tante inquietudini, la storia del jazz sarebbe stata la stessa? Avremmo avuto la stessa musica?

Maybe not, forse no, forse il dolore è importante. Ma credo, adesso, che non sia necessario esagerare (…). ■ E adesso con quali sentimenti suona la sua tromba?

■ Lo pensa adesso, l’ha sempre pensato? Ho sempre cercato, ho provato, anche quando ero pag. 9

Musica Jazz - Chet Baker

Con molto amore. M’interessa soprattutto arrivare a toccare qualcosa dentro a chi m’ascolta. torna su

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la playlist di questo numero chet baker 1. Chet baker quartet - All the things you are

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2. Chet baker quartet - Line for lyons

5:31

3. Chet baker - Dear old Stockholm

4:17

4. Chet baker quartet - This time the dream’s on me

7:46

5. Chet baker quartet - The wind

5:05

6. Chet baker quartet - Lullaby of the leaves

4:22

7. Chet baker quartet - Moonlight in Vermont

4:32

8. Chet baker quartet - My funny Valentine

5:06

9. Chet baker - Exitus

5:30

10. Chet baker - Summertime

4:16


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