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NUMERO 2 · ANNO X · GIUGNO 2014

SOMMARIO

Coordinatore

Editoriali 3 La fine dell’Europa · nando cozzi 3 I traguardi · gaia gulp

Prof. Nando Cozzi

Caporedattrice Gaia (Gaia Gulp) Babbicola

Oltre noi stessi 4 La crisi dell’Eurozona · pierluigi, vezio e marco 7 Prima di dire · federica e ludovica 8 Prima che cadano le foglie dagli alberi · marco I colori della letteratura 13 Lo Zio d’America · marco matani 16 Il Fantasy · anthea di salvatore 17 Caro Alieno · anthea di salvatore 18 19 20 20 20 21 21 21 21 21

REDAZIONE

Copertina Gaia (Gaia Gulp) Babbicola

Codifica LATEX e grafici Igor ["aIgO:*]

Vignette e disegni Pamela Primula, Martina Chiara Recchilungo

Recensioni e spettacoli

Enigmistica e giochi

Vita di Pi · alessia coruzzi Skip Beat · pamela primula Oresama Teacher · pamela primula La terapia · federica Io uccido · ludovica Norwegian Wood · ludovica Cose Che Nessuno Sa · anthea di salvatore La Spada della Verità · anthea di salvatore L’Ombra del Vento · anthea di salvatore Orgoglio e Pregiudizio · anthea di salvatore

Ludovica Corradi

Fortissimamente sport 22 Torneo di calcio · filippo e stefano Foto 23 Ashby in Abruzzo · chiara pesci Fumetto 27 Cose strane · pamela primula Appendice enigmistica 28 Sudoku per tutti! · ludovica corradi

Fotografie Chiara Pesci

Redazione Francesco Maria Cameli, Chiara Pesci, Daniel Di Febo, Stefano Ciaffoni, Marco Matani, Alessia Coruzzi, Federica De Iuliis, Ludovica Corradi, Caterina Trimarelli, Pamela Primula, Marco Mazzoni, Francesca Di Marco, Gaia (Gaia Gulp) Babbicola, Francesca Angelozzi, Flavia Cantoro, Anthea Di Salvatore, Filippo Leonzi, Stefano Di Gregorio, Pierluigi Martelli, Vezio Spinozzi, Marco Di Giandomenico

Colophon Realizzato all’interno del Liceo Scientifico “Albert Einstein”, Via Luigi Sturzo 5, 64100 Teramo. Composto in LATEX con le famiglie di font Palatino di Hermann Zapf e TEX Gyre Heros (basato su URW Nimbus Sans L e Helvetica) di Max Miedinger e Eduard Hoffmann.

Sito web del liceo liceoeinsteinte.gov.it

c 2013 − 2014 · Liceo Scientifico “Albert Einstein” · Teramo http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/legalcode


Valar Morghulis

Ultime notizie

la fine dell’europa

i traguardi

di NANDO COZZI

di GAIA GULP

si avvicina la data fatale del 28 giugno quando, cent’anni fa, a seguito dell’attentato di Sarajevo, qualcosa a noi nascosto iniziò come gioco crudele di ragazzi lascivi la mattanza chiamata Grande Guerra, lo studio delle cui cause è ormai diventato una disciplina autonoma vera e propria. E la “guerra per finire le guerre” fu solo l’inizio della serie di massacri con i quali noi europei in primis abbiamo cercato di annientarci a vicenda e che hanno totalizzato, si calcola, circa cento milioni di morti in tutto il mondo fino alla fine del secolo. Cento milioni di morti. . . La cronaca recente — per tacere dei risultati delle ultime elezioni europee — ci dimostra che quelle stesse cause sopravvivono e agiscono ancora oggi intorno a noi. Ecco perché ci risulta cosí difficile osservarle freddamente, da una distanza. Insomma, l’unica cosa certa, pare, è che la storia sia un incubo dal quale vorremmo svegliarci (per parafrasare Stephen Dedalus). Questo spiega, quindi, quella particolare malinconia che ci prende talvolta quando reagiamo contro i costi umani della modernità. Nel racconto “A History of the Twentieth Century, with Illustrations” (Una storia illustrata del ventesimo secolo) di Kim Stanley Robinson il protagonista, lo storico Frank Churchill, vive una profonda crisi depressiva quando viene convinto dal suo agente a scrivere una summa della storia del XX secolo, appunto. Durante le sue ricerche, egli si deve confrontare con il sangue versato e i troppi massacri che caratterizzano il secolo finché il mondo non gli appare che come un infinito cimitero e, per sfuggire al buio senza fine che l’ossessiona, egli insegue la luce dell’estate boreale (vuole “piú luce”) fino a Brough of Birsay (nell’arcipelago delle Orcadi), la metaforica prua dell’Europa nell’Oceano Atlantico. Guardando il mare tempestoso una cinquantina di metri sotto la cima della scogliera per un attimo ha l’impulso di “fare un Hart Crane” e buttarsi di sotto per dar fine al dolore e alla paura. Ma dietro le sue spalle ci sono i resti di un antico insediamento vichingo che, a sua volta, si sovrappone ad altri, innumerevoli e piú antichi insediamenti umani risalenti all’alba dei tempi ed egli capisce che il suo salto sarebbe, tutt’al piú, ridondante: la fine giungerà comunque, in un modo o in un altro. E la consapevolezza che la condizione umana implichi vivere perennemente il senso della fine è l’intuizione consolatoria che riapre Frank alla speranza nel secolo venturo.

eccoci dunque in prossimità del fotofinish. in molti, ormai, si preparano a tagliare la linea del traguardo, mentre qualche “prudente” si attarda in un ultimo giro di “rodaggio” prima dello sprint finale. Per molti altri, invece, è tempo di “rompere il fiato” e riscaldare i muscoli per affrontare un percorso ben piú lungo: ancora tre scritti e il fatidico orale prima di poter stoppare i cronometri! Insomma, sapete bene che l’argomento Vacanze è per alcuni di noi ancora un tabú. I nostri saluti, però, non possono tardare: per poter essere solidali con ciascun lettore, abbiamo pensato di regalarvi quest’ultimo, sudato numero, ricco di spunti di riflessione — per i meno affaccendati — e di inserti freschi e piacevoli anche per i piú impegnati. Quest’anno, causa forze maggiori, la voce, ormai decenne, ha dovuto preferire la veste tecnologica della pubblicazione on-line sul sito scolastico, ma la nostra speranza è che possa riconquistare anche la forma cartacea per tornare a sbucare da sotto i banchi come ai vecchi tempi! Siamo arrivati quindi ai saluti finali. Troppo allergici agli addii, non ci resta che rinnovare un caldo, ma anche fresco e sempre sincero ARRIVEDERCI e lanciarvi una raccomandazione: che la voce sia sempre con voi. . . sotto l’ombrellone! La vostra Gaia Babbicola

La fine dell’Europa

Editoriali 3


La crisi dell’Eurozona Prospettive e scenari futuri

A dispetto delle promesse di governi e mass media, il nostro Paese è ancora in piena fase recessiva. Perché la ripresa economica stenta a decollare? Cosa rende la crisi cosí persistente e intrattabile? Qual è il ruolo dell’Unione Europea in questa situazione e cosa possiamo fare per uscirne? 4 Oltre noi stessi


di Pierluigi Martelli, Vezio Spinozzi, Marco Di Giandomenico dispetto di massicce dosi di ottimismo trasfuse insistentemente da governi, media ed economisti, la crisi della zona Euro non mostra ancora i segni di una sua imminente soluzione. Per tentare di chiarire i nostri dubbi abbiamo deciso di chiedere un parere al professor Giovanni Piersanti, docente di economia politica presso l’università di Teramo, in occasione di una sua conferenza tenutasi il 26 febbraio scorso nell’ambito di un ciclo di seminari sul tema della crisi economica. A suo avviso la crisi, pur avendo degli aspetti in comune con quelle del secolo scorso, presenta alcuni caratteri peculiari che l’hanno aggravata e che stanno creando non pochi grattacapi a chi tenta di trovarvi un rimedio. Esaminando le crisi passate si può cogliere una medesima struttura di fondo: nel periodo pre-crisi si ha una fase di forte espansione della moneta e del credito, che genera abbondanza di liquidità in circolo, con un conseguente aumento generale dei prezzi nei mercati finanziari e dei beni. Se la crescita si protrae nel tempo essa dà origine a fenomeni di «bolla finanziaria» che, al loro scoppio, causano il crollo dei mercati borsistici e il fallimento a catena di banche e imprese. La crisi si trasferisce cosí anche all’economia reale, ed è allora che crollano i consumi e la recessione si manifesta compiutamente in tutti gli aspetti della vita economica. L’Europa ha seguito un percorso analogo, tuttavia il processo ha subito una decisa accelerazione e si sono manifestate conseguenze particolarmente gravi. Sembra, infatti, che gli Stati europei siano piú vulnerabili alle crisi fiscali rispetto ai paesi estranei all’Unione. Evidentemente, altri fattori mai osservati in precedenza hanno amplificato gli effetti della crisi:

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• stretta connessione tra banche e debito sovrano; • non condivisione dei debiti sovrani; • ruolo della bce. Quello che emerge osservando l’aspetto del sistema bancario in Europa è che, in una realtà economicomonetaria fortemente integrata, le banche sono prevalentemente sottoposte alla supervisione nazionale. Questo significa che i Paesi dell’UE non sono in grado di sostenere autonomamente il risanamento di crisi bancarie che trascendono decisamente la portata delle loro misure correttive, in quanto gli istituti di credito si configurano come organi sovranazionali, non piú sotto il loro diretto controllo. Pur tuttavia, rispondono individualmente per il loro debito pubblico, poiché la Banca Centrale Europea, a causa della linea d’azione improntata all’austerity e appoggiata dagli Stati con un’economia piú solida (Germania, Francia, paesi scandinavi), non può acquistare direttamente titoli di Stato dei Paesi in difficoltà. Ciò deriva dalla convinzione che l’aumento del loro debito pubblico sia da imputare alla loro dissolutezza fiscale, e

impone ai singoli Stati un processo di risanamento basato esclusivamente sulle loro risorse interne. D’altro canto, nessuna disposizione è stabilita per una momentanea carenza di fondi dovuta ad eventuali attacchi speculativi, un problema che, invece, i Paesi con una propria Banca centrale (che si configura in tal modo come «prestatore di ultima istanza») possono temporaneamente risolvere coniando moneta. Ciò non è assolutamente un aspetto da trascurare, soprattutto se si considera che le Banche europee sono fortemente esposte a crisi finanziarie perché investono notevoli quantità del loro capitale in titoli pubblici del loro Paese. Dunque, se uno Stato non riesce a fronteggiare una crisi di insolvenza delle banche, oltre a trovarsi esso stesso in carenza di liquidità, vede il suo debito pubblico aumentare e, ben presto, scendere la fiducia dei mercati nei suoi confronti; il deprezzamento dei titoli di Stato aggrava la condizione delle banche, per cui il quadro della situazione assume tinte sempre piú fosche e si genera un circolo vizioso (doom loop) che non di rado conduce a conseguenze catastrofiche. La crescita del debito pubblico di un paese viene subito assunta dal mercato come indice infallibile delle sue politiche fiscali poco ortodosse e del suo concreto rischio di insolvenza: il caso particolare e isolato della Grecia ha rafforzato tali convinzioni, rivelatesi però ben presto errate. Il debito pubblico di uno stato, infatti, non è un indice affidabile della buona salute della sua economia: paesi con un regime di forte crescita hanno interesse a mantenere il loro debito pubblico piú elevato rispetto a quelli con una maggiore stabilità, rimanendo comunque protetti da eventuali attacchi speculativi grazie alla facoltà di stampare moneta attraverso la propria Banca nazionale. Paesi come USA, Regno Unito e Giappone hanno un debito pubblico relativamente alto, ma rimangono al riparo da ogni timore dei mercati. L’Unione Europea, negando la sovranità monetaria ai Paesi membri, li priva del mezzo piú valido a loro disposizione per fronteggiare i problemi economici piú gravi e li lascia in balía delle speculazioni finanziarie. Per garantire coesione e stabilità, l’Europa deve rivolgere il suo l’interesse verso altri fronti e considerare opzioni alternative al falso mito dell’austerity. Ciò richiede profondi cambiamenti statutari ed è illusorio assumere che il mutamento possa essere rapido e semplice; nel breve periodo è meglio concentrarsi su scelte prontamente attuabili. Bisogna porre la crescita al centro e considerare quattro diversi scenari: 1. svalutazione interna: i Paesi periferici dell’Unione avrebbero bisogno di una crescita piú sostenuta ma allo stesso tempo di una contrazione della domanda interna a vantaggio dell’aumento di quella estera. Ciò richiederebbe un abbassamento del costo del lavoro e della manodopera, attuabile riducendo i salari, cosa che renderebbe il peso del debito insostenibile a causa della deflazione e ne farebbe una

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soluzione dolorosa e difficile da attuare a livello sociale; 2. svalutazione fiscale: i governi dei Paesi periferici potrebbero ridurre le tasse sul lavoro e aumentare le imposte sui consumi, per bilanciare gli effetti sul deficit pubblico e diminuire le importazioni. Ciò comporterebbe il ricorso a politiche inverse nei paesi piú forti e la svalutazione dei tassi di cambio, contraria però agli scopi della sistema economico europeo e difficilmente proponibile a livello politico;

siva, acquistando i titoli di Stato dei Paesi membri in difficoltà e delle banche da ricapitalizzare, portando nel contempo l’inflazione al 3-4%. Ciò condurrebbe alla riduzione dei debiti sovrani e alla crescita del pil, insieme a un aumento delle esportazioni e a un mercato piú dinamico, dato l’aumento della domanda interna dei Paesi forti; consentirebbe poi di spezzare il «cappio letale» tra banche e Stati. Il punto è che questi ultimi manifestano una decisa opposizione, sebbene le loro ansie non siano realmente fondate.

3. politiche strutturali: gli Stati membri potrebbero avviare riforme strutturali per stimolare la crescita, quali: aumento della flessibilità sul mercato del lavoro; liberalizzazioni dei mercati di beni e servizi; razionalizzazione delle regole per accedere agli investimenti e per la costituzione delle imprese; snellimento della burocrazia; giustizia piú veloce e trasparente. Ciò porterebbe maggiore produttività e minori costi di produzione, una maggiore efficienza del sistema economico e produttivo e potenzialmente una crescita effettiva del pil. L’attuale governo Renzi sembra aver adottato parzialmente alcuni punti di questa linea d’azione. Pur essendo un ottimo approccio, si tratta di misure che agiscono sul lungo periodo; in fase recessiva, inoltre, l’aumento di beni prodotti (capacità di offerta) non aiuta, ma aggrava la fuoriuscita dalla crisi, perché il problema immediato è nella domanda, non nell’offerta;

martina recchilungo

La Germania teme infatti che l’indebitamento della bce per l’acquisto dei titoli pubblici possa generare un aumento della tassazione sui suoi contribuenti, incentivando per di piú la dissolutezza fiscale degli altri Stati. Preoccupazioni false, dato che il deficit di bilancio della Banca centrale si ripagherebbe autonomamente tramite la crescita indotta dell’economia e sarebbe sufficiente imporre agli Stati assistiti vincoli piú stringenti sull’emissione del debito. In verità, a beneficiarne sarebbe in primis la stessa Germania, perché, se è vero che la Bundesbank possiede la quota azionaria maggiore del capitale della bce, allora ad essa spetterà la quota maggiore dei rendimenti derivanti dagli interessi maturati sui titoli di Stato dei Paesi piú deboli. Forse sarebbe opportuno che la Germania, anziché difendere a spada tratta le proprie posizioni sull’austerity, puntasse maggiormente sulla crescita e su un mercato dinamico, evitando di deprimere le economie dei paesi «poco virtuosi» come l’Italia e la 4. politica monetaria espansiva e pro-crescita: la bce Spagna e condannando la zona Euro a una ripresa lenta potrebbe adottare una politica monetaria piú aggres- e difficile.

Il registro elettronico

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Prima di dire la malattia mentale

di Federica De Iuliis e Ludovica Corradi rima di dire a qualcuno che è un “malato di mente”, pensateci bene! Secondo vari studiosi, infatti, non c’è cosa piú difficile che definire cosa sia una malattia mentale e tanto piú delimitare i confini che ci sono tra noi, che ci consideriamo normali, e loro, i cosiddetti “malati psichici”. Appena udiamo queste due parole, ci viene subito in mente un manicomio, un ospedale per pazzi, in cui i pazienti con la camicia di forza sono pronti per l’elettroshock! In realtà, ci sono varie problematiche che possono colpire le persone, causando dei disturbi a livello psichico, senza essere eccessivamente gravi e che, nella maggioranza dei casi, si rivelano, a prima vista, piuttosto bizzarre. Ma cosa si nasconde dietro un “malato mentale”? Quale strano e misterioso meccanismo scatta nel suo cervello? Vediamo alcune delle piú diffuse malattie psichiche. Esiste, ad esempio, la sindrome da insicurezza che induce le persone a circondarsi di apparecchi antifurto, come se tutti i ladri stessero solo aspettando di fare loro una visita! Oppure, c’è la sindrome da shopping convulsivo, che colpisce

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soprattutto soggetti femminili. Ma accanto a questi disturbi quasi innocui, ci sono alcuni casi piuttosto invalidanti per chi ne soffre. La sindrome di Cotard, infatti, genere nel malato la ferma convinzione di essere morto. Oppure, possiamo incontrare persone affette dalla sindrome di Capgras (anche qui le donne sono le piú colpite): chi è colpito da questa patologia sostiene che le persone piú care (cugini, genitori, nonni. . . ) siano state, in realtà, sostituite da delle copie (come nel film “L’invasione degli anticorpi”). Secondo alcuni ci sarebbero delle cause fisiche e secondo altri, invece, queste persone sono portate a credere che i loro cari siano stati sostituiti in modo da poter esprimere tutti i loro sentimenti negativi senza sentirsi in colpa! Ma cosa dire di coloro che dicono di aver avvistato ufo e alieni? E di quelli che affermano di aver avuto esperienze paranormali con fantasmi e spiriti di ogni genere, per non parlare del folletto che metteva in disordine i documenti di Torquato Tasso! Certamente, la maggior parte di noi è portata a credere che queste per-

sone mentano, ma se invece avessimo la certezza che sono pienamente convinte di quello che dicono, cosa penseremmo? Che sono malati psichici? Il problema è che non sono tanto i medici a stabilire il confine tra sanità e malattia della mente, quanto piú la società. Se, infatti, un mafioso uccidesse il suo boss per prenderne il posto, non sarebbe di certo considerato pazzo. Se, però, un uomo uccidesse una persona per un qualche rito propiziatorio, allora si, sarebbe sicuramente considerato un pazzo da rinchiudere in manicomio, pur trattandosi, in entrambi i casi, di omicidio. La verità è che questa è una questione ancora aperta e non saremmo di certo noi a fornire una soluzione, ma per il momento ci accontentiamo di sorridere di fronte al lato curioso di alcune malattie che, sia chiaro, abbiamo evidenziato per non annoiarvi troppo e per cercare di dar vita a qualcosa di originale: il nostro intento non era sicuramente quello di sminuire o deridere!

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La Grande Guerra “Tornerete alle vostre case prima che siano cadute le foglie dagli alberi” Ciò fu quanto il Kaiser Guglielmo disse alle sue truppe che s’adunavano nelle stazioni tedesche, in partenza per il fronte. Il suo Impero era calato in guerra fin dal 3 Agosto del 1914, dopo che il 28 Luglio l’Impero Asburgico aveva mosso contro la Serbia, il piccolo stato balcanico sotto la protezione del “grande padre dei popoli slavi”, lo Zar di tutte le Russie. di Marco Matani uesti aveva mobilitato il proprio esercito, vedendo aggredito il suo protetto, e come diretta conseguenza la Germania aveva dichiarato guerra alla Russia ed alla sua alleata, la Francia. Immediata fu la reazione del terzo membro della Triplice Intesa, la Gran Bretagna. Cosí l’Europa entrava nella Grande Guerra, che un giorno sarà poi chiamata Prima Guerra Mondiale. La genesi del conflitto armato piú sconvolgente che l’umanità aves-

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se finora vissuto portò la data del 28 Giugno 1914, il giorno in cui, cioè, Gavrilo Princip assassinò a Sarajevo l’erede austriaco, l’arciduca Francesco Ferdinando, e la consorte Sofia. Nel mentre, Francesco Giuseppe piangeva per la seconda volta la morte del suo erede e la notizia si propagava a macchia d’olio per il Vecchio Continente, raggiungendo i maggiori statisti nelle loro amene località di villeggiatura estiva, s’innescava il fatale meccanismo delle alleanze, i cui ingranaggi

erano stati tanto meticolosamente approntati negli anni precedenti dalle tentacolari diplomazie. La strada verso la guerra era battuta, e per di piú in ripida discesa; ma l’idea che il Kaiser aveva di essa era condivisa dalla parte migliore delle teste coronate e dei gabinetti d’Europa: le diplomazie, che lungamente avevano preparato la guerra, avrebbero rapidamente portato ad una sua ricomposizione. Troppo civili, difatti, erano gli europei per tornare a scannarsi nel fango. Fin


troppo il destino aveva arriso loro nel porli sul trono di padroni del mondo, nel renderli il faro del genere umano, i depositari di una civiltà superiore, incarnazione medesima della portentosa forza del progresso, inarrestabile rischiaratore delle menti, destinato a riscattare l’uomo dalle catene della superstizione e a traghettarlo verso il piú fulgido e radioso avvenire, garantito dal puntuale e prodigioso sviluppo delle scienze e delle tecniche. Tale era il dogma che la fin de siecle s’era data, e questa la fede a cui il primo novecento s’era in buona parte votato: il dogma e la fede del positivismo. E la sfilza d’invenzioni che sembravano uscite da un romanzo di Julius Verne, i roboanti motori che inebriavano l’uomo di potenza, la vertiginosa crescita industriale, parevano confermare incontrovertibilmente la fondatezza dell’idolatria fideistica del progresso scientifico. In questo culto si crogiolavano i suoi maggiori beneficiari, le borghesie di tutt’Europa, che da quella classe agonizzante e rantolante ai loro piedi, l’aristocrazia, aveva ereditato il gusto dell’ostentazione: come in triti rituali, capitani d’industria, banchieri, grandi commercianti ed avventurieri di borsa s’adunavano nei teatri, nei casinò, nei grandi saloni da ballo; e qui, nelle ballerine di can can e nelle loro crinoline, nelle arie di Puccini, nei valzer viennesi, vedevano riflessa la loro gloria, la magnificenza di quel mondo che loro stessi avevano forgiato, un mondo piú vicino che mai alla definitiva affermazione del benessere, alla sconfitta della barbarie e dell’ignoranza. E ciò nel mentre le masse operaie annaspavano nei loro tuguri, e i loro tribuni proclamati dibattevano liberalisticamente nei parlamenti su come realizzare il socialismo, con una dialettica cosí soave da fare invidia ai piú ferrati teosofisti. Era, in una fotografica dicitura con cui la Storia suole caratterizzare alcuni suoi periodi, la Belle Èpoque. L’uomo aveva ormai padronanza della natura e dei suoi fenomeni; nessun ostacolo pareva poter reggere dinanzi la ragione umana, tutto doveva e poteva venir studiato e compreso dalla scienza. Tuttavia, con la Grande Guerra, l’uomo dove-

va scoprire quanto velleitarie queste sue convinzioni fossero. Già Freud, con la sua psicanalisi, aveva provocato un certo scollamento nell’ordine di idee di matrice positivista; ma fu il conflitto a far definitivamente comprendere all’uomo come il pertugio piú ostico da raggiungere per il lume rischi aratore della ragione fosse costituito proprio dai meandri oscuri, sommersi ed insondabili della sua coscienza, dove si dimenavano con inaudita violenza sentimenti e moti impalpabili, sconosciuti alla componente razionale. Il salto nel baratro di questa dimensione umana sinora osticamente ignorata, bandita, censurata dalla vulgata scientifico-progressista avvenne proprio il giorno dell’assassinio di Sarajevo. Mai nella storia un singolo colpo di pistola costò tante vite: 16 milioni furono i morti da piangere allorché le armi, dopo quattro anni, tacquero.

Fin troppo il destino aveva arriso gli europei nel porli sul trono di padroni del mondo Ebbene, la domanda si pone come un imperativo: perché? Forse la risposta piú semplice è anche la piú consona: perché Gavrilo Princip assassinò l’erede austriaco. Ma la Storia altro non è se non un continuo guardarsi indietro, un inestricabile groviglio di moventi e di cause, a cui l’uomo guarda con insopprimibile curiosità per rispondere alla piú atavica delle domande: chi sono io? Ebbene, essere stati è una condizione per essere. E la Bosnia, di cui Sarajevo è il capoluogo, era stata fino a pochi anni prima una regione del vastissimo Impero Ottomano. Ora questo crollava, sotto il peso di un’organizzazione statale anacronistica, ereditata dall’epoca delle grandi conquiste che fecero di Saladino l’incubo di tutt’Europa; una struttura in cui i territori assoggettati erano sottoposti ad un controllo oppressivo e spietato, a un drenaggio tributario dissanguante. Già da de-

cenni oramai la Turchia era il “grande malato” d’Europa, se anche, in Europa, non aveva ancora che qualche lembo di Terra in Tracia. La Sublime Porta di Istanbul non poteva reggere a un’epoca in cui i retaggi della quarantottina Primavera dei Popoli si re-imponevano con particolare vigore, come testimonia l’ispirazione serba di riunire tutti i popoli slavi del Sud in un’unica Patria. Diretta interessata in questo discorso era proprio la Bosnia, in cui a sparare fu Gavrilo Princip, affiliato della Mano Nera, un’organizzazione segreta nazionalista serba. In un simile discorso di natura irredentista il grande accusato non può però che essere l’Impero austro-ungarico. Il suo sovrano asburgico, Francesco Giuseppe, era lo stesso Cecco Beppe delle Guerre d’Indipendenza. E ora, dopo piú di un sessantennio di regno, e dopo un trentennio di sodalizio della Triplice Alleanza tra le due nazioni, l’Italia sembrava propensa a dissotterrare l’ascia di guerra contro la vecchia nemica per liberare le città irredente di Trento e Trieste. Certo, l’Italia aveva abituato i suoi amici e i suoi rivali ad eclatanti giri di valzer, ammiccando ora a questa, ora a quella potenza; atteggiamento, questo, destinato a culminare nel Patto segreto di Londra, col quale gli italiani si schierarono contro i vecchi alleati austro-tedeschi per affiancarsi all’Intesa. Fatto sta che, con un Impero che abbracciava tedeschi, magiari, italiani, rumeni, polacchi e slavi del sud, tutti recalcitranti, Cecco Beppe doveva rassegnarsi ad assistere allo sfacelo del suo regno. Incalzata da tali dinamiche, l’aristocrazia austriaca imborghesita ben pensò d’accodarsi al suo piú naturale alleato, quell’Impero tedesco il cui sovrano era stato secoli addietro un vassallo degli antenati di Francesco Giuseppe. Parlare di tedeschi e austriaci, sia ben chiaro, significa parlare di due popoli diversi non piú di quanto campani e pugliesi lo siano tra di loro. E non si può negare che l’Impero tedesco fosse davvero un buon alleato: era la Germania guglielmina, infatti, a contendere, con la sua straordinaria crescita economico-industriale degli anni post-unitari, l’egemonia mondia-

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le alla Gran Bretagna. E non si Capirebbe La Prima Guerra Mondiale se non si tenesse conto di tale dinamica geo-politica: l’Impero britannico, con le sue colonie sparse per tutto il globo, era la piú estesa realtà statale del mondo; Londra, e la sua cittadella finanziaria, la City, erano il baricentro dell’immensa rete dei commerci mondiali. Ora il primato inglese, il primato dell’intraprendente borghesia inglese, era conteso dal Kaiser. Davvero i tedeschi credettero allora, e credettero ancora dopo, di poter assumere il ruolo di protagonisti sul palcoscenico mondiale. Questa loro aspirazione, però, cozzava con l’imponente flotta britannica, la Royal Navy, posta a presidio dei Sette Mari da Sua Maestà. La Germania fallí il suo assalto all’egemonia mondiale, e lo fallirà ancora venti anni dopo, con conseguenze ancora piú tragiche. Con la vittoria nella Prima Guerra Mondiale, la grande borghesia anglo-francese, assieme a quella americana (coloro che, insomma, lucrarono sull’immane tragedia della guerra — magnati della finanza, speculatori, fabbricanti d’armi) poterono avviare quel processo di globalizzazione in pieno corso d’opera ancora oggi. Nei fatti, la Grande Guerra sembra un vero spartiacque storico tra arcaicità e modernità: la grande borghesia tedesca, che tanto sviluppo aveva conosciuto nei decenni immediatamente precedenti la deflagrazione del conflitto, non era comunque paragonabile a quella anglofranco-americana, che si andava già costituendo come un ceto cosmopolita se non internazionalista, apolide, dedito al capitalismo piú aggressivo e alle sue piú fosche conseguenze. Il ceto mercantile-finanziario tedesco certo s’avviava a prendere parte ai processi della globalizzazione, ma era, forse, ancora alieno a una mentalità cosí spregiudicata. È indubbio che il dominio coloniale tedesco fosse altrettanto, se non piú, spietato di quello inglese e francese; ma a fare la differenza era una permanente impostazione tradizionalista, militarista, nazionalista e devota all’Imperatore propria della forma mentis tedesca, e, di conseguenza, degli equilibri di potere interno: in parlamento, al Reichstag,

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sedevano sí i borghesi e i borghesotti, ma il potere effettivo era ben saldo nelle mani del Kiaser e degli Junker, i signorotti della piccola nobiltà rurale tedesca, che nella figura di Bismark avevano trovato la loro miglior raffigurazione. Tale tendenza all’inesorabile sconfitta del tradizionalismo s’accentua ancor piú se si considera quali furono gli altri tre Imperi, assieme a quello germanico, a crollare al termine della guerra. Si è già detto come l’Austria-Ungheria fosse un anacronistico tentativo di tenere uniti popoli diversissimi fra loro per sangue, lingua, storia e cultura, quasi a retaggio delle aspirazioni universalistiche che furono dei sovrani del Sacro Romano Impero di Nazione Germanica; aspirazioni improponibili nel XX secolo.

La Storia non tollera categorizzazioni di sorta, e ama vestirsi di grigio, bistrattando il bianco e il nero Ma per comprendere quanto il peso della tradizione pesasse sulla corte asburgica, non bisogna scordare che l’imperatore d’Austria era ancora generalmente avvertito come il campione del Cattolicesimo (non solo per l’ “inutile strage” il Papa scoraggerà l’Italia a entrare in guerra): quando egli moriva, tante volte il corteo funebre bussava alla porta della cattedrale dove egli sarebbe stato sepolto, e tante volte, dal di dentro, si chiedeva chi fosse; ogni volta si sfoderava uno degli infiniti titoli regali, e ogni volta si sentiva rispondere “non lo conosco”, fino a che alla domanda non si fosse risposto “tuo fratello, un povero peccatore”, e le porte venivano dischiuse. Francesco Giuseppe non era l’unico sovrano in Europa ad essere circondato da un’aurea di religiosità: le masse immani di contadini russi non facevano molta distinzione tra le icone votive dello Zar, padre degli ortodossi, oltre che degli slavi, e quelle di San Nicola (perfino il nome era quello); e

l’appoggio della chiesa ortodossa era uno dei pilastri su cui si fondava il potere dell’oligarchia aristocratica che proprio a Nicola II faceva capo. Ancora, in Turchia, i Sultani non erano soltanto capi politici, ma anche Califfi, e quindi guide spirituali, nonché guardiani dei luoghi sacri come La Mecca; fu il Sultano, in occasione della discesa del suo impero nel conflitto, a proclamare la Jihad, anche se poi la maggior parte dei musulmani, ovvero i popoli arabi, si ribellarono contro di lui; fu presso la sua corte che, per propiziare le sorti della guerra, si scannò un vitello, come in un rituale paganomedievale. Questo tipo d’Europa arcaica, tradizionalista, pressoché identica quella che era due secoli prima, pervasa, in qualche modo, anche di un arcano misticismo (basti pensare alla vicenda di Rasputin, il visionario ed oscuro monaco siberiano accolto alla corte di San Pietroburgo, che con la sua stranezza esoterica tanto contribuí a deteriorare la considerazione dei Romanov presso il popolo russo) fu in buona parte spazzata via dal grande conflitto. Gli Imperi tedesco, asburgico, turco e russo nel 1919 non esistevano piú sulla cartina del mondo. Eppure, si sa, la Storia non tollera categorizzazioni di sorta, e ama vestirsi di grigio, bistrattando il bianco e il nero: gli operai e i contadini tedeschi erano, tra gli europei, quelli a godere di una delle piú avanzate legislazioni sociali. Ma, si è già detto come, a discapito di queste macroscopiche dinamiche storiche, la gran parte dei Re, Kaiser, Zar, Imperatori, Presidenti e ministri d’Europa era convinta che per Natale tutti sarebbero tornati alle loro case. L’Europa era in pace da un quarantennio e piú, dalla Guerra francoprussiana, gli animi erano stati forgiati dall’ordine civile. Questa guerra sarebbe stata quasi un’avventura cavalleresca, a reminescenza folklorica del passato guerriero di quei popoli. Gli aerei, che finalmente realizzavano l’eterno sogno del volo umano, avrebbero solo sostituito i cavalli nei nobili scontri tra paladini. Eppure, la stessa Guerra franco-prussiana e quella di secessione americana avevano già mostrato quale fosse la realtà della


guerra moderna. E fu proprio quella tecnologia, quella scienza a cui con tanto entusiasmo e tanta fiducia gli europei avevano guardato, a partorire le macchine, le bombe e i gas che per quattro anni straziarono, dilaniarono e soffocarono il fiore della gioventú europea. Migliaia di giovani vite recise per pochi metri di terra; non molto piú scomoda la fossa doveva apparire rispetto la trincea, dove si pativano immani sofferenze. Quale fu il risultato di tutto ciò? Un’altra guerra, ancora piú terribile, ancora piú dolorosa, non appena vent’anni dopo. I figli concepiti nell’entusiasmo per la fine di questa guerra morirono in quell’altra. E furono proprio gli europei, i campioni della civiltà, ad insegnare per ben due volte al mondo a che livello potesse giungere la crudeltà ferina dell’uomo. Allora, s’impone categoricamente una nuova, impegnativa domanda: cosa rimane di quella guerra, a un mese dal centenario di quel fatidico colpo di pistola a Sarajevo, oltre alle lapidi commemorative? Forse, la prima tra le risposte è la coscienza di cosa sia la guerra moderna; delle sconvolgenti potenzialità che lo sviluppo tecnologico le ha conferito, di cosa essa rappresenti da un punto di vista non solo degli armamenti, ma ideologico: se fino al Novecento si combatteva contro un Re, una casata nobiliare, un governo rivoluzionario, ora si combatte contro i popoli. La guerra moderna ha come obiettivo non piú la sconfitta dell’avversario e la ratifica di un trattato di pace, ma il suo totale annientamento, la sua radicale distruzione (non è un caso se la Seconda Guerra Mondiale non abbia affatto posto fine alle guerre, ma solo alla pratica della dichiarazione di guerra e del trattato di pace). La mobilitazione propagandista contro il Kaiser sarà superata solo da quella contro Hitler, e simile ragionamento può essere operato a parti inverse. La Germania del primo dopoguerra sarà prostrata ad una condizione da terzo mondo. E i nuovi obiettivi che la guerra moderna si pone, da un punto di vista meramente utilitaristico, potrebbero in un certo qual modo essere visti positivamente, dato

il tentativo, in ultima istanza, di eliminazione di ogni potenziale conflitto futuro. Ma quando, come di regola, un odio sfrenato genera una reazione ad esso proporzionata, le conseguenze sono quelle che l’Europa si troverà a vivere appunto nel 1939. L’uomo ha, dunque, imparato qualcosa dalla Prima Guerra Mondiale e dalla Seconda che ne fu la figlia? Guardandosi attorno, non parrebbe. Alcuni studiosi ritengono che nella Grande Guerra, nelle sue atroci sofferenze, negli orrori della guerra moderna, sia almeno da ravvisare il principio del lungo e tortuoso percorso che porterà all’unificazione europea.

L’uomo ha, dunque, imparato qualcosa dalla Prima Guerra Mondiale? Un simile ragionamento potrebbe certo essere applicato a un caso come quello italiano, in cui uomini provenienti da ogni parte della penisola, “dall’Alpe a Sicilia”, che spesso stentavano addirittura a comprendersi a vicenda per le differenza dialettali, si trovarono a combattere fianco a fianco, fornendo al popolo italiano una solida coscienza nazionale che il Risorgimento aveva mancato di edificare. Ma se bisognasse credere che gli europei si siano uniti, rinunciando ciascuno a cospicui spazi della propria libertà, perché proprio essi non riuscivano a fare a meno di ammazzarsi tra loro, allora si sarebbe costretti a riconoscere che l’unificazione europea altro non è che una camicia di forza di un povero, pazzo Vecchio Continente che si dimena selvaggiamente in preda all’isteria, non potendo trovar requie. Ma allora, perché guardare alla Grande Guerra, un secolo esatto dopo, se essa pare chiaramente un cosí importante coagulo di problematiche irrisolte, di tare congenite che ci affliggono ancora oggi giorno, che non siamo stati in grado di sbrogliare? Proprio perché essa si configura come un nodo gordiano di tali problematiche moderne, proprio perché tante delle

questioni che assillavano l’Europa di ieri si dimostrarono indelebili persino per il sangue di milioni di europei, e sono state ereditate dai loro figli, dai loro nipoti, dall’Europa di oggi: qual è il ruolo dell’Europa giunta a questo punto della sua storia, dopo aver perso il primato mondiale? Come deve porsi l’Europa nei confronti di un mondo di cui l’altro ieri era padrona? È veramente possibile un’Europa unita, e se sí, in quali forme? Cosa significa essere europei? È possibile evitare la guerra? È possibile renderla piú “umana”, piú “etica”? È necessario rinunciare alla libertà per garantire l’ordine e la pace, e se sí, è eticamente accettabile, e soprattutto, siamo disposti a farlo? Gli interrogativi che oggi c’assalgono affondano le radici in quella guerra che ci sembra lontanissima, e forse anche oltre. Per uno dei tanti scherzi che la Storia si diletta a tenderci, cento anni paiono all’uomo una vita, un’eternità; ma, nella colossale epopea del genere umano, essi non son che un istante fuggente, un barlume balenante, un’impressione momentanea. L’uomo sembra confuso, immerso in un fluire di eventi, persone, cose e idee che lo maltratta continuamente, lo sballotta, distrugge tutto ciò che di solido e duraturo egli s’ostina strenuamente a costruire; è incredulo, sgomento di fronte a un qualcosa che lo travolge senza sosta, un qualcosa d’inarrestabile, d’irrazionale, d’inspiegabile, di cui, eppure, è sommo artefice egli stesso; e ne è, sopra ogni altra cosa, attratto. Attratto, certo sgomento ma affascinato, come quando egli scruta meditabondo il cratere insondabile e profondo del proprio essere, seduto sul suo bordo. Sgomento e affascinato come quando, nel buio della notte in cui perfino le stelle sembravano essersi nascoste per sottrarsi a quel cruento spettacolo di morte, il soldato sporgeva temerariamente la testa fuori dalla sua trincea, se non altro per gettare un’occhiata alla buca fangosa e recintata di filo spinato che gli stava a non piú di cento metri dinanzi, per vedere se veramente il nemico non fosse un uomo come lui, ma un mostro come diceva la propaganda.

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pamela primula

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Lo Zio d’America

Marco Matani

Mio zio era un uomo grosso e poderoso. Quella sera sulla veranda l’afa paludosa gli faceva grondare il sudore fino ad intridere le gote lanose, memori di un bel biondo paglierino oramai impallidito. Il verde smeraldino dei suoi occhi invece non era affievolito, ed essi mantenevano una vitalità inusitata per i suoi anni, annaspando nel faccione paonazzo. Non faceva altro che raffazzonarsi il colletto della camicia. E mi sorrideva, guardandomi con infinita tenerezza. era la stessa tenerezza di quei suoi occhi luminosi quando faceva comparire i cioccolatini dietro le mie orecchie, e di quelle carezze offerte con tanta gentilezza che pareva voler ripagare la ruvidezza delle sue mani. Allora mi chiedevo spesso perché un uomo cosí amorevole e bonario fosse destinato a condurre una vita da pecora nera, perennemente disprezzato ed emarginato dai suoi famigliari, quasi se ne vergognassero. Lo zio lo ricordavo cosí, da quando ero nato, con quel viso sempre pronto ad illuminarsi d’un sorriso, da uno scintillio negl’occhi, rivolto a qualcuno che puntualmente lo avrebbe ripagato con un’occhiataccia, un rimprovero, una parola ostile; e lui non dimeno sempre a sorridere, sempre ad effondere affetto, mai offendendosi o tur-

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bandosi nella benché minima misura, perseverando nel rivolgere uno sguardo traboccante di tenerezza anche al piú severo dei suoi ammonitori. Provavo il sentore che il perché di tanto disamore, quando non si trattasse di esplicita avversione, di tutti i miei famigliari nei suoi confronti risiedesse nel suo straordinario passato. Mio zio era il fratello minore di mio nonno. Erano rimasti orfani, bambini, del padre morto a Gettysburg, « da buon soldato della Confederazione », diceva sempre mio nonno. Quando la sua sciabola d’ammiraglio era tornata alla tenuta, al posto del corpo troppo martoriato, tutti avevano pianto; anche gli schiavi. Quando la guerra civile finí, la mia famiglia cadde in un lento, inesorabile declino, come tutte le famiglie dell’orgogliosa aristocrazia sudista dopo la guerra. Mentre mio

nonno e sua madre lottarono strenuamente per arginare lo sfacelo, lo zio non si rassegnò al destino di rampollo di una casata in rovina: un giorno, a diciassette anni, arraffò la sua parte d’eredità paterna e scomparve, senza tante spiegazioni. Lo cercarono per mesi: nelle misere baracche di cui i neri erano finalmente padroni; nelle paludi intorno a New Orleans, infestate dagli alligatori, sotto lo sguardo lugubre delle poiane; negli sterminati campi di cotone che si estendevano a perdita d’occhio, ormai incolti, invasi dalle sterpaglie; nei casinò e nei bordelli di città, sin dentro il quartiere francese; negli scuri pertugi dove le schiave di ieri, abbandonate le nascoste mansarde delle ville degli antichi padroni, celebravano i loro inquietanti riti di sangue, di ossa, di droghe e di grida, oscuro retaggio della piú

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profonda Africa nera. Mio zio ricomparve solo tanti anni dopo, quando il secolo scorso volgeva al tramonto. E quando si ripresentò sulla soglia della bella casa coloniale, il solo ricordo del perduto splendore che mio nonno fosse riuscito a salvare, con quel suo sorriso che da allora mai lo avrebbe abbandonato, con la barba che gli arrivava al petto, i capelli alle spalle, sudicio da far ribrezzo, padrone di null’altro che i cenci che aveva addosso, mio nonno non lo riconobbe. E quando mio zio lo abbracciò, il nonno non ci voleva credere che quello era suo fratello, e quando lo zio insistette, il nonno lo prese a pugni, che suo fratello era morto, e quello era un impostore ciarlatano. Quando venne fuori che quel barbone era davvero il fratello sparito tant’anni addietro, mio nonno, un po’ per pietà, un po’ per evitare che si dicesse che un membro della famiglia era lasciato per strada senza un tetto, nonostante la vergogna, nonostante il furore di trovarsi dinanzi il responsabile di una cosí cospicua parte di patrimonio andata dissipata, se lo prese in casa. Ma, per mio nonno, sarebbe stato meglio che fosse morto, il fratello. Lo accolse in casa come s’accoglie un malato, un delinquente, o un demente. E per demente di certo chiunque l’avrebbe preso, allorché, quando gli si chiedeva come avesse speso la parte migliore della sua vita, egli prendeva a parlare delle ombre che la luna tracciava sulle dune del grande deserto del Sahara, delle erbe aromatiche che gli ambulanti albanesi celavano nelle loro tasche, di come fosse dolce il latte delle noci di cocco delle isole del Tropico, di quanto avesse sofferto il freddo in Kamchatka nonostante la tenda di pelle di orso, dei curiosi e solenni rituali di monasteri inerpicati su per le pendici dei monti le cui vette reggevano il tetto del mondo, e di quando, addormentatosi su di un cammello, si era risvegliato in terra, per le gran risa dei beduini berberi che lo accompagnavano; e ancora, di quando s’era tuffato nelle tiepide acque del porto di Rodi per scorgere negli abissi le rovine del Colosso, o di quando era stato assunto come agente segreto dello Zar, e s’era finto un

mercante di gheshe per infiltrarsi nel palazzo imperiale di Tokyo; oppure di quel periodo in cui aveva vissuto in un tempio induista, provvedendo all’igiene dei buoi sacri, o di quell’altro in cui era mozzo su una caravella nell’Oceano Indiano; del suo avventuroso arrivo a Costantinopoli, di quando era stato ricevuto alla Sublime Porta dal Gran Turco, quando aveva discorso col Negus in un monastero copto, e di quando aveva visitato Persepoli accompagnato dallo Shah di Persia in persona; quando, in un villaggio della Nubia, s’era trovato nel bel mezzo di una rivolta contro le truppe della Regina Vittoria, e di quanto fossero splendenti al tramonto le onde del lago che portava il suo nome; dell’oscurità delle foreste pluviali, e delle coste dell’Africa meridionale dove la terra piatta, arsa e rocciosa si scontrava con l’immenso oceano cobalto. Tutti l’avrebbero preso per demente appunto, se non fosse stato che quei suoi racconti s’accompagnavano di frequente a lucidissime meditazioni filosofeggianti, a finissime riflessioni di una razionalità inoppugnabile, come pervase da una saggezza attinta all’altro capo del mondo, che avevano però il grande difetto di giungere il piú delle volte a conclusioni del tutto avulse al ben pensiero corrente. Bizzarro, lunatico, stravagante, perfino inopportuno, dunque, ma non di certo demente; « e per forza, a vivere trent’anni tra i selvaggi, come dice lui » osservava mia madre. Fatto sta che ben presto mio nonno si stufò di tutti quei racconti, a cui, per la verità, nessuno sapeva se credere o prenderli per lo strampalato frutto della mente di un visionario malato di megalomania. Cosí, per risolvere il dubbio, i miei familiari convennero che la miglior cosa da farsi fosse di zittirlo non appena lo zio avesse attaccato con i suoi racconti, che nessuno voleva provar noia a sentir certe fandonie. E per interi anni di sicuro lo zio dovette lungamente meditare nel profondo del suo animo le memorie di una vita cosí impavidamente vissuta, fino a quando nacqui io, nuovo, appassionato ascoltatore dei suoi favolosi racconti esotici, che ricominciarono a fiorire sulle sue labbra coperte dai

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baffi, per il mio diletto di bambino; e stregoni africani, pirati malesi, pagaiatori samoani tornarono a dipingersi nelle sue parole con una tale vividezza da non permettere mai al sospetto che i miei familiari avevano nutrito d’attecchire su di me. E la mia vorace fantasia s’involava allorché lo zio faceva sobbalzare quel suo pancione per simulare il trotto dei cammelli, o faceva prendere un gran bello spavento ad una malcapitata gattuccia per mostrarmi come aveva combattuto un leone a mani nude, o rompeva il piede di qualche sedia assurta al ruolo di slitta degli sherpa nepalesi. atto sta che quella sera, sulla veranda della nostra bella casa coloniale neoclassicheggiante e tutta bianca, tra le zanzare che s’addensavano attorno alle lampade e le lucciole sfavillanti nel buio della boscaglia, mio zio mi sorrideva. Sorrideva per quel che gli avevo appena detto, e mi guardava con una tenerezza forse ancora maggiore del solito, ma questa volta carica d’infinita comprensione. Gli avevo appena riferito ciò che mia madre mi aveva detto, e che lei, a sua volta, aveva sentito dire dal Presidente Wilson; e cioè che mio padre stava combattendo in Europa l’ultima guerra, e stava combattendo per la pace, per la libertà del mondo, che l’America avrebbe riordinato secondo i principi di giustizia. Mio zio allora si preparava, lo sentivo, a prodursi in una delle sue cogitazioni, formulate con assoluta serietà, pure senza mai assumere la cupezza di colui che si erge professore in cattedra, e serbando sempre un bonario sorriso a chi quelle riflessioni le avrebbe sommariamente respinte, stufandosi ben presto di starci a ragionare sopra. Ma certo non poteva essere il mio caso, e per questo in quell’occasione mio zio non dismise la sua abituale bonarietà, assumendo solo parzialmente quell’espressione assorta che pure certe questioni talvolta richiedono. « Se una cosa è certa, è che tuo padre si sta battendo con valore per questi nobili scopi. » mi disse. « Tu però devi sapere che le immani moltitudini di uomini che nel mondo sono tagliate fuori

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dalla storia come noi la intendiamo, e che non sono raggiunti nemmeno dalla benché minima eco di questa guerra, non si crucciano se sulla Somme a vincere siano i soldati del Kaiser o quelli degli Stati Uniti. Chiunque vincerà questa guerra, i monaci tibetani continueranno ad intonare le loro preghiere, gli uiguri della Siberia a solcare le steppe ghiacciate per rincorrere la cacciagione, gli africani nelle fitte foreste a combattere per non far sbranare nelle culle i propri figli dalle pantere. Questi popoli vivono cosí da secoli, quando non da millenni: né Colombo, né Napoleone, né qualcun altro è mai riuscito a cambiare apprezzabilmente i loro modi di vivere. Non serbano nessuna speranza che il vincitore di una guerra remota, se non sconosciuta, possa giungere a redimerli. Perché non sentono il bisogno di essere redenti. Certamente, il progresso, per quanto la nozione di progresso sia conosciuta a questi popoli, giungerà in qualche modo a modificare anche minimamente la loro condizione. Ma ciò non vuol dire che questo Paese, dopo essersi arrogato il monopolio della quasi totalità delle ricchezze che la Natura ha dato all’uomo, debba monopolizzare anche l’idea di progresso. Prego ogni notte affinché i punti che Wilson proporrà al tavolo della pace segnino la fine di ogni guerra, ma ciò non avverrà. Non avverrà perché questo Paese pretende di governare il mondo senza conoscerlo affatto, e senza darsi affatto briga di conoscerlo. Il progresso giungerà a questi popoli, ma per vie che non ci è dato nemmeno lontanamente prevedere. Vie che dovranno essere segante da questi stessi popoli, secondo i loro millenni di storia, l’evoluzione delle loro tradizioni, dei loro costumi, delle loro piú intime convinzioni e certezze, che affondano le radici nella recondita notte dei tempi. Tradizioni, costumi, convinzioni e certezze di cui non abbiamo, per quanto ci possiamo illudere, nessuna vera nozione, semplicemente perché la loro essenza autentica si cela nelle profondità dell’animo ancestrale di questi popoli, ad un livello impenetrabile anche da chi come me ha speso una vita ad amare, visitare ed

osservare queste genti. Non possiamo essere noi a pretendere d’ordinare il mondo, ad apprestare gli argini che in questi popoli incanaleranno il progresso. Devono essere loro stessi a farlo, altrimenti la misura sarà necessariamente sbagliata, gli argini si romperanno e loro saranno travolti dalla fiumana del progresso. Non possiamo essere noi a imporli come vivere, come pensare, come agire, loro non lo potrebbero mai, e a ragione, accettare. Non si può negare che essi siano custodi di una saggezza ben piú antica dalla nostra, diversa, ma non per questo meno valida. L’America è come un grosso e prepotente bambinone che s’affaccia su un mondo che gli è sconosciuto, arcano, insondabile nella sua natura piú genuina, eppure ha la presunzione di dettar legge su di esso. Pensa, se un bambino nato l’altro ieri ti venisse a dire che come hai vissuto in questi nove anni è completamente sbagliato, che la tua stessa personalità come l’hai sviluppata in questo tempo è sbagliata: tu nemmeno gli sapresti spiegare perché sei cosí e non in un altro modo, sai solo, e con estrema vaghezza, che ciò è frutto di come la natura ti ha fatto, dell’ambiente in cui sei vissuto, delle esperienze che sino ad ora hai affrontato; ebbene, la tua vita cosí costituita è assolutamente da cambiare, da stravolgere, perché te lo dice un neonato. Tu allora non lo guarderesti negli occhi, non gli carezzeresti le guancione, e non ti rallegreresti di quella ingenua verva infantile? Cosí fanno o farebbero quei popoli lontani e misteriosi, curiosi, affascinanti, incomprensibili nel loro stesso innato modo di essere. Questa pretesa di decidere da che parte il mondo deve andare, senza nemmeno conoscere come il mondo è arrivato al punto in cui si trova, una pretesa antica, ormai, del nostro popolo, ci renderà terribili. Ci porterà a distruggere intere popolazioni, ad incarnare ciò che oggi stesso siamo convinti di star combattendo in Europa: strapperemo agli europei lo scettro soggiogatore dell’imperialismo. Ben presto diverrà evidente agli occhi del mondo che preservare la pace, la giustizia e la libertà bisognerà combattere contro di noi. Dietro ai

nobili principi i nostri soldati combatteranno per conformare tutti i popoli al nostro stile di vita, al progresso d’interpretazione americana, annientando le mille e piú identità che rendono il mondo un posto degno di giocarsi la vita ogni istante, dalle lande vaste e silenti spazzate dal vento gelato ai caldi mari del Sud, come ho fatto io. Come già avviene in questa guerra, uomini giusti come tuo padre moriranno per l’inganno di presidenti costretti ad accontentare l’avidità e le pretese di comandare il mondo di coloro che gli hanno pagato la campagna elettorale. Non è un bel compito quello che Iddio ha assegnato all’America, e cioè quello di mostrare al mondo quanto siano vane le pretese di spadroneggiare su di esso. Non nell’egoismo, nel fanatismo messianico troveranno pace i popoli, ma nella comprensione reciproca e nell’amore fraterno per la diversità d’ognuno. » Da principio, nei miei nove anni, capí ben poco di quel fiume di parole di mio zio. Egli m’abbracciò, mentre io ero ancora confuso e lo sentivo, per la prima volta, incredibilmente, trattenere a stento i singhiozzi di pianto. Quelle parole mi sono piú chiare ora, mentre muoio a Iwojima, come mio padre morí sulla Somme, e suo nonno a Gettysburg. Ora mi s’iniziano a chiarire le ragioni che hanno dovuto spingere, quando mettemmo piede su questo atollo, l’intera sua popolazione al suicidio collettivo. Capivo che ogni popolo ha una sua anima, che lotterà strenuamente per difendere, perché quando essa scomparirà, allora quel popolo si spegnerà insieme ad essa, e perirà; e il mondo perderà una delle tante fiaccole che fanno cosí vivo il focolare dell’umanità. E capivo che i miei compagni sulle portaerei non potevano comprendere quegli apparecchi giapponesi che osservavano precipitare in picchiata per sfracellarsi su di loro, come mio zio non aveva potuto carpire quell’anima profonda e misteriosa, che si celava nelle migliaia di genti diverse in cui s’era imbattuto, per quanto in una vita si fosse sforzato di scrutare gli abissi dei loro occhi.

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I colori della letteratura

Il Fantasy: un genere antico o un genere nuovo? di Anthea Di Salvatore oleridge diceva che ci sono due tipi di immaginazione: quella primaria e quella secondaria. L’immaginazione primaria appartiene a tutti gli esseri umani e viene utilizzata involontariamente per comprendere la realtà; quella secondaria è volontaria e permette di creare dei nuovi mondi partendo dalle conoscenze derivanti dall’immaginazione primaria. Cosa direbbe Coleridge leggendo “Il Signore degli Anelli”? “Un esempio altissimo di immaginazione secondaria!” Chissà cosa penserebbe del nuovo e fortunato genere “fantasy”! Fantasy. Che cosa significa questa parola? Letteralmente il termine deriva dall’inglese e può essere tradotto con “fantasia”. Il termine individua l’elemento fondamentale di questo genere letterario. Le storie fantasy, infatti, nascono proprio dall’immaginazione dell’autore, che crea storie e mondi inventati ma internamente coerenti, e quindi credibili, spesso completamente alternativi alla realtà che conosciamo. Le origini del romanzo fantasy possono essere ricercate nell’Ottocento romantico; tuttavia, le tematiche che affronta sono ben lungi dell’essere nuove, mentre nuovo è il modo di affrontarle. Molti elementi derivano dall’epica classica e medievale, con importanti contaminazioni con elementi derivanti dalla mitologia classica, nordica e celtica, e dalla fiaba. Proprio dall’Ottocento, invece, il genere prende uno dei tratti che maggiormente differenziano il fantasy dalla fantascienza: la critica al progresso tecnico-scientifico avviato dall’industrializzazione, tanto da conferire

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un’ambientazione temporale simile a quella del medioevo europeo a gran parte dei romanzi. All’ambientazione medievale, però, si contrappongono una sensibilità e una mentalità moderna, che testimoniano quanto questo genere sia, in realtà, recente. Il fantasy è un genere nato per evadere, per fuggire dalla realtà, per trovare un’alternativa emotiva in un mondo in cui la percezione dell’impossibile e dell’irreale viene alterata. Tuttavia i luoghi e i personaggi creati dagli autori spesso non sono altro che una metafora della realtà, che ci consente di sviluppare riflessioni e osservazioni critiche sul mondo che conosciamo. Esempi di questa formula sono “Il Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien, “Il Ciclo dell’Eredità” di Christopher Paolini, “Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco” di George R.R. Martin, “La Saga del Mondo Emerso” di Licia Troisi e “La Spada della Verità” di Terry Goodkind. Ma negli ultimi anni questi mondi di magia e fantasia si sono fusi con il mondo reale. Uno dei primi esempi è quello de “La Storia Infinita” di Michael Ende. Uno degli esempi piú famosi è senza dubbio quello di “Harry Potter”, della scrittrice inglese Joanne K. Rowling, che ha appassionato, e continua tuttora ad appassionare, intere generazioni. L’epopea di Harry Potter si sviluppa in un mondo parallelo a quello reale, che spesso con esso si interseca, evidenziandone i limiti e la scarsa consapevolezza. I temi affrontati nei romanzi fantasy sono quelli della normale vita umana: la guerra, la pace, la famiglia, l’amore, l’amicizia, il dolore, il viaggio, il Bene, il Male, la religione, il cambiamento, la vita, la morte. . . Ma questi

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temi sono rivisitati in chiave immaginifica ed arricchiti dall’insediamento di elementi e creature fantastiche, magie e vicende “extra-ordinario”. Negli ultimi anni l’aumento della domanda ha determinato una notevole espansione del genere fantasy, ancor piú enfatizzata dalla presenza di Internet e quindi dalla possibilità di coinvolgere con il fantasy persone da tutto il mondo. Infatti sono fioriti siti dedicati e fan-fiction, che rinnovano ed approfondiscono il coinvolgimento e la passione dei fan, soprattutto dei fan adolescenti, verso i quali si orienta un’importante fetta della produzione, come nel caso già citato di Licia Troisi, ma senza dimenticare un pubblico piú maturo, come dimostra il grande successo che sta avendo Martin con il suo ciclo che ha ispirato anche la serie televisiva “Game of Thrones” (distribuito in Italia con il titolo “Il Trono Di Spade”). Il cinema e la televisione hanno molto contribuito alla diffusione del fantasy, basti pensare agli straordinari film del “Signore degli Anelli” con la regia di Peter Jackson. La crescente produzione fantasy ha portato anche ad un’inevitabile suddivisione in sottogeneri, tra cui ha avuto particolare fortuna l’“urban fantasy”. Questo consiste nell’inserimento di personaggi ed elementi fantastici nel mondo reale: vampiri, demoni, lupi mannari, angeli, streghe, creature mitologiche sono inseriti in un contesto urbano, come nella saga di “Twilight” di Stephenie Meyer e in “Shadowhunters” di Cassandra Clare. Altri sottogeneri sono l’heroic fantasy, il dark fantasy, l’high fantasy, lo Sword and Sorcery (S&S — Spada & Magia).


“Caro Alieno, ti presento Licia Troisi”

di Anthea Di Salvatore

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Alla domanda del giornalista e critico letterario Simone Gambacorta su come fosse, per lei, vivere divisa tra la scrittura e l’astrofisica, Licia Troisi ha risposto che tra queste due grandi passioni non c’è mai stato conflitto.

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artedí 8 Aprile 2014 l’Istituto Pascal di Teramo ha ospitato la premiazione della 5a edizione del premio “Vittorio Castellari” e, in qualità di guest star, la scrittrice italiana piú letta e venduta al mondo, Licia Troisi. Il concorso, organizzato dall’inaf — Osservatorio Astronomico di Teramo, diretto dal Professor Roberto Buonanno e dal Club Unesco di Teramo, presieduto dalla Professoressa Teresa Di Giacinto Speca, ha coinvolto nei mesi scorsi ragazzi delle Scuole Medie “F. Savini” e “M. Zippilli” di Teramo, del Liceo Classico Europeo “M. Delfico” di Teramo, del Liceo Scientifico “M. Curie” di Giulianova, del Liceo Classico “A. Zoli” di Atri e dell’Istituto Tecnico Commerciale “Pascal — Comi” di Montorio al Vomano. Il tema del concorso (sia letterario che fotografico) era “Caro Alieno, ti presento la Terra”. Quest’evento ha seguito in vari modi il percorso dell’analogia: l’alieno è “il diverso”, “l’estraneo” e, cosí come nei loro lavori i ragazzi hanno cercato di raccontare la Terra e di accogliere personaggi cosí diversi da loro, la scuola deve imparare ad accogliere la diversità ed apprendere come imparare da essa. In questo contesto chi poteva essere piú indicato di una scrittrice ed astrofisica? Cosí l’intervento di Licia Troisi, scrittrice di fantasy per adolescenti, ha rappresentato la sintesi del lavoro dell’Osservatorio e della comunicazione della scrittura.

La scrittura le è stata compagna di vita fin da piccola. Essa ha rappresentato il mezzo attraverso il quale ha imparato a conoscere se stessa ed il mondo che la circonda, ed ancor di piú il mezzo attraverso il quale lei ha comunicato le sue riflessioni e raccontato le sue storie. L’astrofisica è stata l’evoluzione naturale della sua curiosità ed amore per la conoscenza, il suo modo per imparare a conoscere ciò che è “oltre”. E questa non è forse una delle caratteristiche del fantasy? Conoscere e inventare mondi nuovi, fantastici, diversi. . . Certo, ci sono stati momenti nei quali si è ritrovata a chiedersi se fosse piú un’astrofisica o una scrittrice, ma

poi, durante il suo viaggio di crescita e di vita, è riuscita a trovare un modo per essere entrambe. Ed è proprio il viaggio che lei ripropone nei suoi romanzi; non solo il viaggio attraverso mondi sconosciuti che diventano reali nelle sue pagine, ma anche il viaggio di formazione, attraverso esperienze di crescita che, inevitabilmente, affascinano i lettori piú giovani. L’autrice ha spiegato all’uditorio il metodo organizzato e scientifico che segue nella scrittura dei suoi romanzi: prepara con cura le trame, i personaggi, i luoghi, le creature, e solo dopo si dedica alla stesura vera e propria. Ed anche ora, che l’impegno di scrittrice e di mamma l’ha costretta a ridimensionare il suo lavoro di astrofisica, la sua passione per gli astri è ancora fortissima e importante. Questo è evidente nei suoi libri, in cui le stelle danno i nomi a personaggi straordinari come Nihal (protagonista delle “Cronache del Mondo Emerso” e stella della costellazione della Lepre), Dubhe (protagonista delle “Guerre del Mondo Emerso” e seconda stella della costellazione dell’Orsa Maggiore) e Adhara (protagonista delle “Leggende del Mondo Emerso” e stella della costellazione del Cane Maggiore), o diventano un elemento fondamentale della trama stessa, come nella saga “I Regni di Nashira”. Cosí, come i ragazzi partecipanti al concorso dovevano trovare il modo di raccontare a “qualcuno di diverso” la “nostra Terra”, Licia Troisi racconta a “noi” “mondi diversi”.

I colori della letteratura 17


Recensioni e spettacoli

Vita di Pi di Alessia Coruzzi l film di Ang Lee ti cattura subito. Hai la sensazione di essere in mezzo all’oceano, isolato dalla civiltà, dovete vivere quest’avventura, dovete vederlo.”

“I

È cosí che J. Cameron (regista di numerosi capolavori tra cui il leggendario Titanic) commenta il film “Vita di Pi” del regista e sceneggiatore taiwanese ispirato all’omonimo best seller nato dalla penna di Yann Martel. “Vita di Pi” è un romanzo sospeso tra realtà e magia, tra mare e cielo, surreale pieno di emozioni, si possono percepire odori, angosce, tutto questo unito ad’anima noir e drammatica con la quale si entra nel macabro,nell’incubo e nella paura, fremerà il corpo e la fronte inizierà a sudare! Nelle 334 pagine del romanzo viene descritta la storia di Pi, un ragazzino di sedici anni originario Pondi Cherry, in India, che rimasto solo su una scialuppa, dopo un tragico naufragio, si trova costretto a convivere con un compagno di viaggio davvero fuori dal comune: una tigre del Bengala. Si,una tigre! Non una tigre peluche, non una di quei giocattoli che avevamo da bambini, ma un gattone in carne, denti e ossa di circa 200 chili che prima era ospite dello zoo di Pi imbarcato nella nave colata a picco. Per il nostro naufrago non è ancora tutto. Pi solo sulla superficie dell’abisso, consumato dalla perdita dei familiari, esausto per aver affrontato le immense onde non riesce ad accarezzare l’idea del dolce riposo poiché la sua battaglia ora si fa piú dura, intensa, costante. Deve rimanere in vita.

Proprio grazie a Richard Parker, la tigre, il ragazzo rimane vigile e attento ad ogni minimo movimento del felino. Grazie al suo compagno di avventura, Pi sarà salvo. Il libro induce a una lettura senza sosta nella quale si è travolti dalle tempeste piú violente, inebriati dagli odori piú forti delle spezie indiane, inondati dal sapore del sale sulla pelle, si è completamente trasportati sulla scialuppa di Pi, dove all’atrofia dei muscoli si aggiungerà il brontolio dello stomaco e il terrore paralizzante della scoperta del feroce passeggero. La vita del ragazzo è condizionata dal connubio di tre religioni (Cristianesimo, Islamismo e Induismo), in cui egli stesso confida e alle cui divinità rivolge le proprie preghiere, i propri ringraziamenti e le proprie mormorazioni. Il romanzo solletica la curiosità di ognuno di noi nell’intraprendere un’avventura fantastica, a dir poco eccezionale. Siamo risucchiati nello stesso viaggio da un capo all’altro del mondo che il giovane Pi Patel ha vissuto e che ha cambiato la sua vita. Solo dopo 227 giorni di navigazione gli sforzi di Pi saranno ricompensati con l’approdo sulle coste del Messico che oltre il raggiungimento della salvezza segna la divisione tra i due “amici”, tra i protagonisti di una stessa avventura: Richard Parker si addentrerà nella giungla senza un saluto, un addio nel quale il giovane indiano aveva tanto sperato mentre Pi stremato verrà soccorso da alcuni pescatori. In questa fantastica avventura Pi avrà molti dolori, ma anche tante sod-

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disfazioni e trionfi che lo porteranno a non arrendersi mai di fronte agli imprevisti nemmeno nell’intento di domare la tigre. È una storia che farà credere in Dio, una storia con due volti: uno magico e fiabesco l’altro tragico e drammatico, ma in entrambi Pi è arrivato a conoscere Dio e la verità essenziale tanto cercata. “Un libro da non perdere. Un geniale racconto di viaggio e di ricerca di se stessi.” (Il sole 24 ore) Il libro è considerato come un nuovo classico dalla critica, ha raggiunto le 9 milioni di copie vendute ed è stato tradotto in ben quarantadue lingue. Un romanzo di avventura che cela all’interno un’indagine teologica diretta a tre religioni ed è proprio questo che ha fatto sorgere in molti la curiosità di leggerlo e lo ha fatto diventare uno dei piú grandi best seller planetari degli ultimi anni. Nonostante si siano scritti libri e libri su naufraghi, naufragi e storie di sopravvivenza, “Life of Pi” aggiunge al tema dell’avventura una metafora esistenziale e sebbene sia una storia semplice, ma allo stesso tempo avvincente, Yann Martel riesce a mostrare gli aspetti piú duri della realtà e la speranza che esista Qualcuno che ci guidi. L’opera letteraria ha ispirato il regista Lee che ne ha fatto un’eccellente opera. Il taiwanese ha colto l’essenza di questo fantastico libro, ha dato vita ad un capolavoro con grandiosi effetti speciali, fantastico e coinvolgente, un film che cattura i nostri sentimenti


piú reconditi, che penetra nel felino che è in noi, domandolo. Il lungometraggio ha come protagonista Suraj Sharma che veste i panni di Pi da ragazzo mentre il Pi adulto è stato interpretato dal cinematografo Irrfan Khan. Compare anche lo stesso Martel interpretato dall’attore britannico Rafe Spall. Un film semplicemente magnifico con effetti speciali cosí spettacolari da sembrare reali, dove le emozioni si fanno proprie dello spettatore, dove il terrore corre lungo la schiena e la paura non è ammessa. I paesaggi ripresi e costruiti sono mozza fiato, cosí come gli animali; il panorama di sfondo delle singole scene è ricco di mix di colori e di accurati particolari. Lee ha unito il materiale digitale a quello reale creando qualcosa di magnifico e sconvolgente. La pellicola ha un’eccezionale grafica con un 3D ineguagliabile, Lee ha introdotto un nuovo modo di produrre film in tre dimensioni creando effetti speciali mai visti prima; la maggior

parte delle scene sono completamente costruite al computer. Ciò che colpisce di piú è il realismo della tigre che nonostante sia interamente progettata e costruita al computer incute terrore, paura ma al tempo stesso speranza costringendo Pi a non smettere di lottare e sperare nella salvezza. Il film ha incassato circa 610 milioni di dollari ed è considerato da molti critici, appassionati e da Time Magazine il “nuovo Avatar” sia per gli effetti speciali che per la storia avvincente e sorprendente, infatti, è secondo solo al capolavoro di Cameron che vede per protagonisti gli umanoidi dal colorito blu. Candidato ad 11 premi oscar si è aggiudicato 4 statuette d’oro nel 2013 tra cui “miglior colonna sonora” a Mychael Danna e “miglior regia” a Lee. “Life of Pi” è uno dei film piú belli mai realizzati, un trionfo per gli occhi! Il 3D ti coinvolge e ti fa coglie-

re la minuziosa cura per i particolari nell’intera durata della pellicola. Registra e scrittore ci comunicano l’importanza del credere e del perché solo credendo è possibile vivere meglio ed elevare il nostro essere a qualcosa di piú dei meri istinti animaleschi. Ang Lee ha prodotto 127 minuti ricchi di emozioni nei quali si esalta il rapporto tra l’uomo e la natura, 127 minuti che rivisitano il disaster movie del colossal “Titanic” di Cameron con il 3D e la potenza di una cinepresa instancabile, una visione disneyana della natura nei sui lati meravigliosi e in quelli feroci, un film nuovo tutto da scoprire e da vivere. “Vivi una vita di avventura, una vita di speranza, una vita di trionfi, vivi la vita di Pi.” Ang Lee.

Manga

famosissimo. Per attuare la sua vendetta decide di cambiare la sua immagine ed entrare a far parte del mondo dello show-business: si taglia e tinge i capelli, cambia il modo di vestirsi e si comporta non piú come una gentile e innamorata donzella, ma come un’ amazzone battagliera che, in uno scrigno, nel suo cuore, ha chiuso con dei lucchetti il sentimento dell’amore e ne ha scoperchiato un altro contenente tutta la sua rabbia repressa. Kyoko sceglie di entrare nella compagnia rivale di quella di Sho, la L.M.E., della quale fa parte anche l’attore Ren Tsuruga, invidiato dal cantante. Purtroppo, prima ancora di diventare famosa, la ragazza dovrà affrontare molti problemi soprattutto perché incomincerà a lavorare nella compagnia come una “tuttofare” nella neo fondata sezione “Love Me” scoprendo solo in seguito le sue capacità recitative. Naturalmente le vicende gireranno intorno al triangolo amoroso Ren-Kyoko-Sho e agli eventi passati che li collegano

tra loro. Ren, un gentile ed educato attore, dimostra piú volte di avere grande autocontrollo sui suoi sentimenti fino a quando non incontra Kyoko: lui si trova a sorridere in situazioni dove dovrebbe avere un’espressione furiosa per mascherare il suo vero stato d’animo ma esso viene compreso facilmente dalla ragazza che si comporta come un agnellino impaurito e sottomesso. Quando si scontra con Sho, invece, porta fulmini e tempeste dimostrandosi geloso del rapporto, litigioso ma di confidenza, tra Kyoko e il cantante. Ren viene piú volte rimproverato dal suo manager, dallo strano potere distruttivo verso i cellulari, per il vizio di mettere in prima linea la recitazione e poi la sua salute. Ren ha un passato sconosciuto e molto oscuro legato a Kyoko, la ragazza che crede nell’esistenza delle fate e nell’arrivo del suo principe azzurro identificato, prima di cambiare radicalmente, in Sho. Il cantante, sicuro di possedere anco-

skip beat di PAMELA PRIMULA

“skip beat” è lo shoujo manga (fumetto destinato ad un pubblico femminile) scritto e disegnato da Yoshiki Nakamura edito sulla rivista “Hana to Yume” fin dal Febbraio del 2002 e ancora inedito in Italia che conta oltre 32 volumi, una serie anime (cartoni animati) di 25 episodi e un dorama (serie TV) taiwanese di 15 episodi, conosciuto con il titolo di “Extravagant Challenge”. Kyoko Mogami, protagonista del manga, amica d’infanzia di Sho Fuwa, di cui è sempre stata innamorata, vuole vendicarsi dell’umiliazione che il ragazzo le ha inflitto deridendola nel considerarla solo una casalinga. Kyoko esige vendetta per tutto il tempo che gli ha dedicato prendendosi cura di lui, diventato nel frattempo un cantante

Voto HHHHH Fonti consultate http://bit.do/g4Cq http://bit.do/jjrg

(26/01/2014) (28/03/2014)

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ra il cuore di Kyoko, spesso si trova coinvolto nella vita della ragazza cosí tanto che a volte ti domandi: “è una coincidenza o destino?”. La storia è dinamica per le diverse situazioni create dai piú svariati personaggi (es. il presidente della L.M.E.) e i disegni, dal tratto marcato, non rappresentano soltanto momenti comici ma mirano ad esprimere i sentimenti contrastanti dei personaggi. Secondo me è il miglior shoujo manga dopo “Arrivare a te” (Kimi ni todoke) e “Maid-sama! La doppia vita di Misaki” (Kaichou wa Maid-sama!) per le emozioni che trasmette, per gli incredibili colpi di scena che vorresti e che raramente leggi in altri manga, per la caratterizzazione psicologica dei personaggi e le scene divertenti che non ti stancano mai. A coloro che apprezzeranno il manga suggerisco di vedere l’anime con il doppiaggio di Sho da parte del famoso cantante giapponese Mamoru Miyano. Voto HHHHI

Manga

oresama teacher di PAMELA PRIMULA

il proverbio “il lupo perde il pelo ma non il vizio” è proprio indicato per descrivere la situazione complicata della protagonista di “Oresama Teacher”, Mafuyu Kurosaki, che cerca di fare amicizia con persone normali ma finisce con il trovarsi in una zuffa tra i boss delle bande teppiste. Lo shoujo manga (fumetto destinato ad un pubblico femminile), edito sulla rivista “Hana to Yume” dal Luglio del 2007 e portato in Italia dalla “Star Comics”, è scritto e disegnato da Izumi Tsubaki. Mafuyu Kurosaki si trasferisce al liceo privato Midorigaoka, un istituto per ricchi, dove si radunano tutti i teppisti espulsi dalle altre scuole, con l’intento di trascorrere la sua vita da normale studentessa. Ovviamente è impossibile. Mafuyu, ex-teppista e boss (banchou) della prefettura di Saitama, salva un ragazzo da una rissa, scoprendo solo la mattina dopo che lui era, in realtà, il suo

futuro coordinatore di classe, Takaomi Saeki. L’arrogante e terrificante professore, dai metodi scolastici spartani, è una vecchia conoscenza della povera Mafuyu che è costretta, insieme al suo compagno di banco e teppista Hayasaka, ad entrare a far parte del Club del Buon Costume. La vita che sognava la ragazza non potrà mai realizzarsi tanto che subito rompe la promessa che aveva fatto ritornando alle vecchie abitudini da teppista. Mafuyu e Hayasaka vengono invischiati nella scommessa tra Takaomi e l’amministratore generale che prevede lo scontro tra loro e i componenti del Consiglio Studentesco. La trama non è tipica degli shoujo manga, anzi, invece di prediligere i sentimenti e i temi amorosi, all’ordine del giorno ci sono combattimenti e gag demenziali. I disegni accompagnano magistralmente ogni fase, suscitando anche sorrisi per le espressioni facciali dei personaggi nei loro momenti comici. I personaggi presenti nel manga sono numerosi e questo può causare anche qualche confusione, soprattutto per i tratti del viso molto simili ma, fortunatamente, i loro capelli aiutano a distinguerli, almeno in parte. Nel corso della storia si incontreranno personaggi molto particolari come il No.2 e No.3 della vecchia banda di Mafuyu, il boss del liceo Midorigaoka, il Presidente del Consiglio Studentesco e i suoi seguaci, un ninja, una supereroina, uno studente-teppista, non esattamente iscritto al liceo, un impacciato e goffo boss e un playboy fifone. Vi consiglio di leggerlo se amate gli intrighi perché dietro a questa semplice storia di combattimenti e compiti in classe si celano molti misteri: qual è il segreto sull’infanzia di Mafuyu che Takaomi non vuole dirle? Chi è in realtà Hayasaka? Quali sono le condizioni della scommessa? Qual è il rapporto tra i componenti del Consiglio Studentesco? La vera identità di Mafuyu verrà scoperta? E i nostri eroi riusciranno a non fare a botte per un intero capitolo? Voto HHIII

“la terapia” di sebastian fitzek

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di FEDERICA

la terapia è un thriller scritto da Sebastian Fitzek, un autore tedesco i cui libri sono tradotti in tutto il mondo; in Italia, per Elliot Edizioni sono usciti Il ladro di anime, Schegge, Il bambino e Il gioco degli occhi. Ne La terapia si narra di uno psichiatra, Victor Larenz, la cui figlia dodicenne Josy scompare senza lasciare alcuna traccia. In un viaggio, sull’isola di Parkum, Victor incontra e conosce Anna Spiegel, una scrittrice di libri per bambini che, però, sembra essere direttamente coinvolta nella comparsa della piccola Josy. Sarebbe riduttivo, a mio avviso, considerare La terapia come un “semplice” libro da leggere. Esso è un vero e proprio rompicapo, uno struggente ed affascinante viaggio nelle mille sfaccettature della mente umana (motivo per cui, per essere piú precisi, si definisce questo libro come uno “psicothriller”). Dal momento che il lettore racconta gli avvenimenti attraverso una visione soggettiva, noi lettori non dobbiamo assolutamente “fidarci” di ciò che ci viene narrato poiché risulterà evidente, nella lettura del libro, come ciò che ci aspettiamo avvenga in realtà è estremamente lontano da ciò che, invece, avviene realmente. È qui che risiede tutto il fascino del libro e questa costante imprevedibilità, unita ad un ritmo sempre piú incalzante, obbliga il lettore a rimanere letteralmente incollato al libro ed a continuare la lettura fino alla fine, senza smettere mai di farsi coinvolgere completamente. Questo suo fascino dovuto ad un incessante effetto sorpresa ha reso La terapia il mio libro preferito; ragazzi, che dire? È un libro che vi consiglio assolutamente! Voto HHHHH

io uccido di LUDOVICA

“io uccido” è un romanzo thriller, scritto da Giorgio Faletti. L’autore ci porta a Monaco, in una stazione radio. Qui, il famoso Jean-Loup conduce “Voices”, una trasmissione


alla quale una sera arriva un’inquietante telefonata. Chi chiama è un uomo. Un uomo che, non riuscendo a dormire, uccide. In questo clima di paura e terrore, alimentato dalle ripetute telefonate, il commissario Nicolas Hulot e l’agente dell’FBI Frank Ottobre dovranno capire chi è l’artefice di tanti omicidi. Con un finale assolutamente inaspettato, imprevedibile e sconvolgente, Giorgio Faletti si afferma uno dei maggiori scrittori italiani tanto da poter competere con Stephen King. P.S. È inutile cercare di indovinare chi sia l’assassino, non ci arriverete mai!

“cose che nessuno sa” di alessandro d’avenia

“l’ombra del vento” di carlos ruiz zafón

di ANTHEA DI SALVATORE

di ANTHEA DI SALVATORE

“il romanzo “cose che nessuno sa” di Alessandro D’Avenia racconta la storia di Margherita, una ragazza di quattordici anni che si ritrova improvvisamente catapultata nell’universo dell’adolescenza in una Milano odierna, con l’inizio del liceo e l’improvviso abbandono del padre che, da presenza costante nella sua vita, diventa solo un’ombra che aleggia su di lei. Ed è in questo momento di spaesamento che Margherita deVoto HHHHH cide di intraprendere il suo viaggio alla ricerca del padre perduto, in direzione di Genova, come Telemaco norwegian wood nell’Odissea. di LUDOVICA In questo suo viaggio verrà accompagnata da Giulio, un ragazzo con il murakami haruki è uno scrit- quale si troverà a condividere emoziotore giapponese, vincitore del Kaf- ni e pensieri che la cambieranno per ka Prize e del Jerusalem Prize. È sempre. famoso per il suo modo di scrivere Voto HHHHI particolarmente adatto ai giovani: le sue atmosfere surreali accompagnano ogni racconto, ogni situazione, ogni li“la spada della verità” di terry bro. Tranne uno: “Norwegian Wood”. goodkind Non per questo non è un romanzo di ANTHEA DI SALVATORE degno di nota, anzi, forse è proprio quello che, senza nulla togliere agli “la spada della verità” è una altri suoi capolavori, affronta temi importanti, come l’amore, ma anche la serie di romanzi di Terry Goodkind morte, senza mai dilungarsi troppo, appartenente al genere fantasy. In un intreccio di scontri, battaevitando quindi di annoiare il lettore. A mio avviso, è un romanzo che ogni glie, amori e passioni, dove il Bene adolescente dovrebbe leggere, per ad- è cosparso di ombre e il Male è fin dentrarsi nel mondo dei sentimenti troppo umano, nascono e muoiono eroi e tiranni. umani. Una Regola del Mago caratterizIl protagonista, Toru, un po’ come il giovane Holden, sente il bisogno di za ogni romanzo: un principio che assomigliare agli altri e di entrare nel sintetizza l’insegnamento trasmesso loro mondo, ma, allo stesso tempo, dal libro stesso. Sullo sfondo di ternon vuole rinunciare al suo carattere. re meravigliose piagate dalla guerra, Toru, deve scegliere tra due ragaz- personaggi affascinanti e straordinari ze, Naoko e Midori, e affrontare le ci trasportano in un mondo magico. Una storia complessa e coinvoldifficoltà portate da entrambe, non gente, scritta in modo scorrevole e sempre facilmente superabili. Starà a voi il compito di accompa- piacevole, dove il passato, il presengnarlo nel suo straordinario viaggio te e il futuro si fondono per creadella vita, dal punto di vista di un re avventure intriganti ed esperienze nuove. adolescente, proprio come noi. Voto HHHHH

Voto HHHHH

“l’ombra del vento” di carlos Ruiz Zafón è un romanzo sorprendente, in cui nulla è come sembra, eppure tutto segue una sua logica complessa. Il racconto narra la storia di Daniel Sempere attraverso gli anni, a partire dal suo “incontro” con il Cimitero dei Libri Dimenticati nel 1945, all’età di undici anni. Anno dopo anno, pagina dopo pagina, scopriamo un mondo sempre piú vasto, che si snoda tra le strade di una Barcellona che sta cambiando e tra i misteri di un libro “maledetto”. Una trama incalzante e personaggi ben delineati si fondono grazie alla magistrale perizia dall’autore nell’alternare scrittura poetica e crudo realismo. Voto HHHHI

“orgoglio e pregiudizio” di jane austen di ANTHEA DI SALVATORE

“orgoglio e pregiudizio” è un romanzo di Jane Austen scritto nel 1796 (prima stesura) e ambientato nell’Inghilterra di fine Settecento. Malgrado la veneranda età, la sua storia rimane attuale ed è in grado di emozionare sempre nuove generazioni di lettori, trasportandoli nel cuore dell’aristocrazia britannica. Una storia d’amore in cui gli ostacoli vengono posti piú dai diretti interessati che da impedimenti esterni. E cosí, tra l’orgoglio di Mr. Darcy, che non vuole riconoscere i propri sentimenti, ed il pregiudizio di Elisabeth Bennet nei suoi confronti, l’amore si scava una via propria, come un fiume con argini troppo stretti si crea una nuova strada. Voto HHHHH

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Torneo di calcio del nostro liceo Filippo Leonzi e Stefano Di Gregorio

Quale sarà la migliore squadra del Liceo Scientifico “Einstein”? “Gran parte del successo nel calcio sta nella mente. Devi credere di essere il migliore e confermarlo sul campo.” – Bill Shankly nche quest’anno nella nostra scuola si svolgerà il torneo di calcio tra le classi, l’anno scorso il 5°C vinse il torneo, fu la classe migliore! Quest’anno, invece, i contendenti al titolo sono molti, specialmente le due quarte: 4°B e 4°E.

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al nostro nuovo acquisto Youssenne, per la 2°E i gol sono stati realizzati da che tenterà di fare 10 gol! » Di Gennaro e Tarquini. La seconda partita è stata giocata La prima partita del torneo è stata dalla 2°F e la 2°G, vinta dalla 2°F ai 1°A vs 1°C con una vittoria schiacciante della 1°A per ben 11 - 4, la squadra rigori dopo un gioco combattutissivincitrice si è mostrata molto unita e mo che ha visto lo scadere dei due compatta aggiudicandosi la vittoria tempi regolamentari sul punteggio di già dai primi minuti segnando mol- 6 - 6. I gol sono stati realizzati per ti gol grazie anche al loro “bomber” il 2°G da Delvecchio, Evangelista e Lorenzo Onori. L’unica nota positiva Leonzi mentre per la 2°F da: D’Addaper la 1°C è Francesco Ursini che ha rio, Ulissi e Mariani. Questa partita cercato di mantenere viva la partita è stata probabilmente la partita piú con Gol e assist per il suo compagno entusiasmante fra tutte. Ettore Valle.

22 Fortissimamente sport

pamela primula

pamela primula

La seconda partita ha visto fronteggiarsi sul campo la 1°D e 1°F, a differenza della prima, questa è stata una partita abbastanza combattuta: due classi forti che hanno saputo mettere in evidenza, probabilmente i loro giocatori piú forti: Palestini (1°D) e Benetel (1°F). La partita è stata molto vivace, piena di azioni da Gol e reti bellissime segnate per la 1°D da Palestini, Seca, Crescenzi e Di Giandomenico e per la 1°F Benetel, Alcantarini Beh, non siete curiosi di conoscere Abbiamo intervistato due studenti e Consorti; unica pecca della 1°D è i vincitori del torneo? che fanno parte di queste classi: Dal’autogol del portiere Reginaldi. Siamo felici di poter soddisfare la niele di Carlo (4°B) e Daniel di Febo Deludente è stata la partita delvostra curiosità: la finale del biennio (4°E) « Abbiamo molte probabilità di la 1°G, persa 5-1 contro la 1°H. La si è conclusa con un 4 - 3 per la 1°D vincere, anche grazie al nostro “Bom- 1°H ha dominato infatti tutta la parti- sulla 1°A, mentre — rullo di tambuber” Marcello Pichini. Inoltre siamo ta, i gol sono stati realizzati da Ginai, ri — dopo un pareggio per 3 - 3 con ben organizzati: quest’anno abbiamo Di Domenicantonio e Di Domenico, l’accreditata 4°B, si è imposta come anche un allenatore, Luca Lanciapri- mentre l’unico gol della 1°G è stato vincitrice della finale del triennio la 3°E, che ha avuto la meglio ai rigori ma, vogliamo vincere il torneo come segnato da Gimminiani. abbiamo fatto in seconda! », ci ha In un altro giorno si sono svolte con un punteggio di 7 - 6. detto Daniele. altre due partite. Nella prima la 2°C Ma in fondo il calcio, come ogni Daniel ha aggiunto: « L’anno scor- vs 2°E è finita 6 - 3; la 2°C ha domi- sport, deve unire piuttosto che diso abbiamo perso ai rigori in semifi- nato tutta la partita e il giocatore che videre, quindi, in vista del prossinale contro il 5°E dopo una partita ha segnato di piú è stato Chiarini con mo triangolare tra istituti, non remolto combattuta, ma quest’anno vo- ben 3 gol, gli altri gol stati realizza- sta che gridare in coro “FORZA gliamo vincere il torneo grazie anche ti da Di Polidoro e Ioannoni, mentre EINSTEIN!”







Sudoku per tutti i gusti!

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