Il manifesto del 14 ottobre 2015

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CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 2,00 Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut. GIPA/C/RM/23/2013

ANNO XLV - N. 245 - MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE 2015

Con 179 sì, 16 contrari e 7 astenuti la maggioranza Renzi-Verdini si vota la riforma del Senato. Le forze di opposizione non votano (Fi e Sel) o escono dall’aula (Lega, M5S). L’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano interviene in aula e benedice l’addio alla Costituzione del ’48 PAGINE 2 E 3

FOTO LA PRESSE

BIANI

LO SPIRITO INCOSTITUENTE

Syriza dimostra l’impossibilità di un governo di alternativa. La sinistra deve unirsi e lavorare a un nuovo sistema monetario

Norma Rangeri

I

l vicepresidente della Lombardia, arrestato ieri per corruzione, è stato davvero sfortunato. La magistratura è intervenuta, purtroppo per lui, prima che il nuovo Senato dei consiglieri regionali diventasse realtà. Perché tra i tanti obbrobri che il governo del "fare" vorrebbe regalarci con il Senato delle regioni c’è appunto quello di un ramo del Parlamento formato dalla classe politica più squalificata del nostro paese. Ma protetta, domani, dall’immunità. La nuova Costituzione di Renzi e Verdini ha tagliato un importante traguardo. Con la benedizione di Napolitano. L’ex Presidente della Repubblica, «il vero padre di questa riforma», secondo la ministra Boschi, è intervenuto per benedire la sua creatura. In fondo riconoscendovi quella "grande riforma" disegnata da Craxi ai vecchi tempi della Prima Repubblica. Con il voto finale alla prima lettura del progetto controriformatore si mette agli atti lo "spirito incostituente" che ha segnato questi lunghi mesi di forsennato attacco alla nostra Carta costituzionale. A partire dall’anomalia, sconsiderata, di essere una revisione della legge fondamentale originata non da un’iniziativa parlamentare, ma da una proposta di governo. Anzi, e più precisamente, dalla volontà di un presidente del consiglio e "capo" di un partito i cui elettori non sono mai stati chiamati a pronunciarsi su questo progetto di manomissione della Costituzione. Al consenso parlamentare e elettorale sono stati preferiti i patti del Nazareno e i successivi accordi con quei galantuomini di Verdini&Co. Con le continue, ripetute forzature dei regolamenti parlamentari dettati e piegati ai tempi imposti dall’esecutivo. Uno stravolgimento delle regole della discussione perfettamente coerente con i contenuti della riforma. CONTINUA |PAGINA 3

RETATA ALLA REGIONE LOMBARDIA PER «CORRUZIONE NELLA SANITÀ»

L’ARTICOLO Oskar Lafontaine pagina 15

STRAGE DI STATO

ISRAELE/PALESTINA | PAGINA 9

La Turchia in sciopero generale contro Erdogan

Sangue sull’autobus e repressione dura

Marce e sit-in con i cartelli con su scritto: «Noi conosciamo il nome dell’assassino» - hanno accompagnato il secondo giorno di sciopero generale, indetto da sindacati e ordini professionali. In migliaia in piazza ad Ankara, tensione a Istanbul, Kurdistan turco sotto assedio. A tre giorni dal doppio attentato contro i pacifisti alla stazione di Ankara che ha causato 97 vittime, altri 53 feriti sono gravi ACCONCIA |PAGINA 8

Appalti, trema il Pirellone: arrestato il vice di Maroni P

er sopraggiunti impegni, l’ex assessore alla Sanità e vicepresidente in carica della Regione Lombardia, Mario Mantovani (Forza Italia), ieri è stato costretto a disertare la «Giornata della trasparenza», un appuntamento istituzionale sul rapporto tra pubblica amministrazione e integrità (si presume morale). Lo stavano arrestando. Era previsto anche un intervento del governatore Roberto Maroni, anche lui ha cambiato programma. I capi di imputazione che vengono contestati a Mantovani, ex senatore e uomo forte di Berlusconi nella giunta lombarda, sono concussione, corruzione aggravata e «turbata li-

VAL DI SUSA

Tre processi che parlano dell’Italia Livio Pepino

C

Ancora attacchi, scontri e vittime da entrambe le parti a Gerusalemme, nei Territori e a Gaza. Tornano le «punizioni collettive». Intervista a Michel Warschawski: «La violenza di questi giorni figlia delle politiche di Netanyahu»

I sono, in questo scorcio di autunno, fatti convergenti che rimandano a diversi modi di governo della società, pur occultati sotto scelte definite tecniche. Il luogo in cui accadono è, ancora una volta, la Val Susa, piccola valle alpina che appare sempre più, nel bene e nel male, laboratorio della vicenda politica dell’intero Paese. Domani inizierà – evidente accanimento accusatorio – il processo d’appello a 4 militanti No Tav, assolti in primo grado (dopo 1 anno di carcere in isolamento), dall’accusa di attentato per finalità terroristiche in riferimento a un «assalto» al cantiere di Maddalena di Chiomonte con incendio di un compressore (senza alcun danno alle persone). CONTINUA |PAGINA 15

bertà degli incanti» nel settore della sanità. Secondo l’accusa avrebbero pilotato appalti, anche per il trasporto dei pazienti dializzati, in cambio di favori. In esecuzione della stessa ordinanza del Gip di Milano Stefania Pepe, risulta indagato per turbativa d’asta anche l’assessore leghista all’economia Maurizio Garavaglia. Oltre a Mantovani, arrestate per le stesse ipotesi di reato, altre due persone.Dodici gli indagati. I fatti contestati sarebbero stati commessi tra il 2012 e il 2014. Le opposizioni chiedono le dimissioni della giunta. La Lega fa la garantista. LUCA FAZIO |PAGINA 5

CITTADINANZA | PAGINA 4

La camera approva lo «ius soli» soft. Insorgono le destre UNIONI CIVILI | PAGINA 3

In aula il ddl Cirinnà, ma Alfano non molla CASO CUCCHI | PAGINA 5

Indagati per lesioni i carabinieri che arrestarono Stefano


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il manifesto

MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE 2015

FUNERALE DI STATO

Senato •

Le opposizioni non partecipano al voto. Il governo supera facilmente la soglia dei 161 sì, ma per la maggioranza assoluta sono necessari i transfughi

Riformare la riforma Il padre della nuova costituzione Napolitano mette la sua firma in aula. E renzianamente aggiunge: perfetta non poteva essere, adesso facciamo attenzione agli equilibri con l’Italicum Andrea Fabozzi

C

entosettantotto voti, anzi 179 perché la campionessa Josefa Idem, appena rientrata dalla malattia, ha sbagliato a votare «e mi scuso per i giorni in cui sono mancata». È una maggioranza assoluta larga, 18 voti sopra la soglia che sarà obbligatorio raggiungere nella seconda e definitiva lettura della riforma costituzionale che il senato potrà fare a partire dal prossimo 14 gennaio. Se, com’è probabile, la camera non toccherà una virgola dei sei articoli del disegno di legge che dovrà riesaminare entro la fine dell’anno, sessione di bilancio permettendo. Il governo è in trionfo, ma i numeri dimostrano che i voti dei transfughi del centrodestra sono indispensabili. A partire dal gruppo Verdini, con i suoi 13 senatori ieri tutti presenti, passando per la coppia ex forzista Repetti-Bondi, i tre su dieci del residuo Gruppo Gal fino ai due senatori che non mollano Forza Italia ma neanche Renzi. In tutto venti voti decisivi per scavallare la soglia di sicurezza. Nel Pd la minoranza dei trenta che furono è stata completamente riassorbita. E graziata da Calderoli, che non ha letto in aula gli sms degli ex barricaderi - il leghista ha rinnovato la minaccia: «Li metterò in un libro, ne ho ricevuti anche dal governo». Alla fine nel partito del presidente del Consiglio solo in quattro non hanno votato la riforma: Tocci e Mineo contrari, Casson astenuto e la senatrice Amati assente. Ma soprattutto è arrivato l’annunciato voto di Giorgio Napolitano, che ha spiegato di non essere intervenuto nei giorni del dibattito «perché mi è sembrato più appropriato». Ma quando si contano i voti, eccolo. L’ex presidente della Repubblica è l’unico senatore a vita a votare, l’altra presente, la senatrice Cattaneo da lui nominata, è contraria alla riforma e si astiene. Quando entra nell’emiciclo, bastone a destra e borsa da lavoro a sinistra, il senatore Napolitano schiva l’imbarazzante Barani, appena riammeso in aula dopo la sospensione per gestacci, e si dirige verso l’amico Sergio Zavoli. Sta parlando la presidente del gruppo misto, la senatrice di Sel Loredana De Petris che in quel preciso momento legge le prime righe dell’articolo dei costituzionalisti pubblicato ieri dal manifesto. Napolitano gira alla larga e cerca un posto nella prima fila, rapido glielo cede Casini. La ministra Boschi l’ha riconosciuto padre della nuova Costituzione ma avendolo lì governo e Pd si mostrano timidi, prima del voto non corrono a fargli la ruota. Lasciano così spazio a Verdini, il quale sa come si conquista l’attenzione. L’ex braccio destro di Berlusconi piomba dai banchi in alto a destra dove ha trincerato i suoi e si inventa un omaggio all’ex presidente, un saluto fatto di poche parole e molte fotografie. Nel frattempo tocca intervenire proprio ai verdiniani e prende la parola un senatore qualsiasi. Gli ex squalificati Barani e D’Anna non solo non parla-

no ma vengono fatti sedere in modo da non entrare nella diretta tv. Quando tocca a Napolitano, che interviene a nome del gruppo delle autonomie al quale si è iscritto appena sceso dal Colle, spunta il senatore Scilipoti, disdicevole rappresentante del trasformismo quando il trasformismo era disdicevole. Ormai è l’ultimo dei berlusconiani e piazza sul banco di Napolitano, a coprirgli il testo dell’intervento, un foglio dove si legge «2011». Riferimento alla storia del «golpe» del Colle, Monti a palazzo Chigi al posto di Berlusconi. I commessi lo braccano, Scilipoti consegna il foglio, poi ne tira fuori un altro dalla tasca. E via così tre volte, fino a che si placa e Napolitano attacca. L’aula si fa silenziosa e anche piuttosto vuota, perché già i leghisti sono andati via sventolando costituzioni e olio di ricino, poi quelli del Movimento 5 sfilano in muta protesta per non sentire l’ex presidente. E nel silenzio comincia a squillare un telefono sugli abbandonati banchi leghisti, per cui i primi cinque minuti di Napolitano somigliano a quelli di C’era una volta in America. Fino a che il telefono tace e si può sentire Napolitano parlare di sé stesso, di quello che ha fatto al Quirinale, di quello che aveva detto nel primo giuramento, della commissione di saggi che aveva benedetto. Immediatamente dopo parla Quagliariello che è giusto uno di quei saggi e comincia - ce ne fosse bisogno - con una citazione di Napolitano. Ma è proprio Napolitano che, inaspettatamente, avverte: «Bisognerà dare attenzione a tutte le preoccupazioni espresse in queste settimane in materia di legislazione elettorale e di equilibri costituzionali». Stiamo facendo una prova? È un invito a tornare indietro sulla legge elettorale che proprio lui ha battezzato? Un incitamento a tornare al premio per le coalizione? Fioriscono ipotesi, ma non è il caso di immaginare chissà quale piano. L’ex capo dello stato argomenta ormai da renziano. Questa riforma può non essere perfetta, riconosce il suo «padre» nel momento cui mette il sigillo, ma quello che ci ha fermato fino a qui «è stata la defatigante ricerca del perfetto o del meno imperfetto». Renzi avrebbe detto: «Si

può essere o meno d’accordo su ciò che siamo facendo, ma lo stiamo facendo», e infatti l’ha detto. A proposito di fare, appena completato il passaggio trionfale della riforma, il governo ha dovuto ammettere che alcune norme transitorie proprio non stanno in piedi. Invece di rinviare alla camera le correzioni, Grasso ha concesso di modificare il testo come «coordinamento». Rapida alzata di mano e via. Tutti ad abbracciare Napolitano.

L’ARTICOLO DELLA NOSTRA PRIMA DI IERI

Non si scrive così una Costituzione

L

a proposta di legge costituzionale che il senato voterà oggi dissolve l’identità della Repubblica nata dalla Resistenza. È inaccettabile per il metodo e i contenuti; lo è ancor di più in rapporto alla legge elettorale già approvata. Nel metodo: è costruita per la sopravvivenza di un governo e di una maggioranza privi di qualsiasi legittimazione sostanziale dopo la sentenza con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità del «Porcellum». Molteplici forzature di prassi e regolamenti hanno determinato in parlamento spaccature insanabili tra le forze politiche, giungendo ora al voto finale con una maggioranza raccogliticcia e occasionale, che nemmeno esisterebbe senza il premio di maggioranza dichiarato illegittimo. Nei contenuti: la cancellazione della elezione diretta dei senatori, la drastica riduzione dei componenti - lasciando immutato il numero dei deputati - la composizione fondata su persone selezionate per la titolarità di un diverso mandato (e tratta da un ceto politico di cui l’esperienza dimostra la prevalente bassa qualità) colpiscono irrimediabilmente il principio della rappresentanza politica e gli equilibri

del sistema istituzionale. Non basta l’argomento del taglio dei costi, che più e meglio poteva perseguirsi con scelte diverse. Né basta l’intento dichiarato di costruire una più efficiente Repubblica delle autonomie, smentito dal complesso e farraginoso procedimento legislativo, e da un rapporto stato-Regioni che solo in piccola parte realizza obiettivi di razionalizzazione e semplificazione, determinando per contro rischi di neo-centralismo. Il vero obiettivo della riforma è lo spostamento dell’asse istituzionale a favore dell’esecutivo. Una prova si trae dalla introduzione in Costituzione di un governo dominus dell’agenda dei lavori parlamentari. Ma ne è soprattutto prova la sinergia con la legge elettorale «Italicum» che aggiunge all’azzeramento della rappresentatività del senato l’indebolimento radicale della rappresentatività della camera dei deputati. Ballottaggio, premio di maggioranza alla singola lista, soglie di accesso, voto bloccato sui capilista consegnano la camera nelle mani del leader del partito vincente - anche con pochi voti nella competizione elettorale, secondo il modello dell’uomo solo al comando. Ne vengono effetti collaterali negativi anche per il si-

stema di checks and balances. Ne risente infatti l’elezione del Capo dello Stato, dei componenti della Corte costituzionale, del Csm. E ne esce indebolita la stessa rigidità della Costituzione. La funzione di revisione rimane bicamerale, ma i numeri necessari sono alla Camera artificialmente garantiti alla maggioranza di governo, mentre in senato troviamo membri privi di qualsiasi legittimazione sostanziale a partecipare alla delicatissima funzione di modificare la Carta fondamentale. L’incontro delle forze politiche antifasciste in Assemblea Costituente trovò fondamento nella condivisione di essenziali obiettivi di eguaglianza e giustizia sociale, di tutela di libertà e diritti. Sul progetto politico fu costruita un’architettura istituzionale fondata sulla partecipazione democratica, sulla rappresentanza politica, sull’equilibrio tra i poteri. Il disegno di legge Renzi-Boschi stravolge radicalmente l’impianto della Costituzione del 1948, ed è volto ad affrontare un momento storico difficile e una pesante crisi economica concentrando il potere sull’esecutivo, riducendo la partecipazione democratica, mettendo il bavaglio al dissenso. Non basta certo in senso contrario l’argomento che

la proposta riguarda solo i profili organizzativi. L’impatto sulla sovranità popolare, sulla rappresentanza, sulla partecipazione democratica, sul diritto di voto è indiscutibile. Più in generale, l’assetto istituzionale è decisivo per l’attuazione dei diritti e delle libertà di cui alla prima parte, come è stato reso evidente dalla sciagurata riforma dell’articolo 81 della Costituzione. Bisogna dunque battersi contro questa modifica della Costituzione. Facendo mancare il voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti in seconda deliberazione. E poi con una battaglia referendaria come quella che fece cadere nel 2006, con il voto del popolo italiano, la riforma - parimenti stravolgente - approvata dal centrodestra. Gaetano Azzariti, Lorenza Carlassare, Gianni Ferrara, Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Massimo Villone.

Ieri hanno deciso di sottoscrivere molti giuristi e costituzionalisti, tra cui Mauro Volpi, Domenico Gallo, Claudio De Fiores, Fabrizio Amato, Laura Ronchetti, Alfonso Di Giovine e altri i cui nomi pubblicheremo nei prossimi giorni assieme a quelli dei tanti che ci stanno scrivendo a costituzione@ilmanifesto.info


MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE 2015

il manifesto

FUNERALE DI STATO

Diritti •

DALLA PRIMA

Renzi lascia i suoi senatori liberi di votare secondo coscienza sulle adozioni. Il Ncd chiede di far tornare il testo in commissione UNIONI CIVILI · Parziale passo in avanti del provvedimento. Gelo tra Pd e Ncd

Il ddl Cirinnà oggi in aula al Senato. Ma non si discute Carlo Lania ROMA

T

GUSTAVO ZAGREBELSKY

Riformatori? No esecutori di progetti sopra di loro Avevamo chiesto al professor Gustavo Zagrebelsky di sottoscrivere l’articolo che abbiamo pubblicato ieri con le firme di sei tra i più autorevoli costituzionalisti italiani, e che ripubblichiamo oggi qui accanto. Zagrebelsky ha preferito non firmare, ma ha aggiunto delle motivazioni che riteniamo valga la pena far conoscere – con il suo consenso - ai nostri lettori. «Dopo averci pensato, ho deciso di non firmare, non perché non sia d'accordo sugli argomenti, proposti all’attenzione dei responsabili della riforma. La ragione - sostiene l’ex presidente della Corte costituzionale - è un'altra: la totale irrilevanza dell’invito alla riflessione presso chi si appella semplicemente all'argomento della forza. Una delle espressioni più ricorrenti, in questo tempo di autoritarismo non solo strisciante ma addirittura conclamato come virtù, è «abbiamo i voti», «abbiamo i numeri». Una concezione della democrazia da scuola elementare! Dunque, che cosa serve discutere? Un bel nulla. Oltretutto, ho l'impressione che i nostri riformatori, tronfi dei loro numeri raccogliticci in un consesso che ha raggiunto il grado più basso di credibilità, non agiscano in libertà, ma come esecutori di progetti che li sovrastano, di cui hanno accettato di farsi passivi e arroganti esecutori in nome di interessi o poco chiari, o indicibili ch'essi riassumono nel ridicolo nome di «governabilità»: parola di cui non conoscono nemmeno il significato. Non dissento nel merito, ma sono certo della totale inefficacia dell'invito al confronto. Mi astengo, dunque, dal firmare - conclude Zagrebelsky -, i tempi dell'impegno verranno quando saranno chiamati i cittadini a esprimersi, saranno duri e imminenti. Allora sarà un'altra storia».

L’AULA DI PALAZZO MADAMA. IN ALTO A SINISTRA, MARIA ELENA BOSCHI ABBRACCIA MARIANNA MADIA DOPO IL VOTO FOTO LAPRESSE

ra Renzi e Alfano sulle unioni civili a spuntarla per adesso è stato il primo. Questa mattina alle 9,30 il Senato incardinerà infatti la discussione in aula del nuovo ddl Cirinnà sbloccando così una situazione resa impossibile per mesi dall’ostruzionismo messo in atto dal Ncd in commissione Giustizia. A deciderlo è stata ieri sera la conferenza dei capigruppo che ha anche stabilito che a dover essere esaminato è il testo sottoscritto la scorsa settimana da 70 senatori del Pd. Scelta confermata subito dopo dall’aula. Si tratta però solo di un primo passo. Il lavori sulle unioni civili verranno infatti subito sospesi per lasciare spazio al dibattito sulla legge Boccadutri che conserva il finanziamento pubblico ai partiti, poi nel pomeriggio è atteso l’intervento di Renzi, domani ci sarà il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon e martedì prenderà avvio l’esame della legge di stabilità. Di diritti delle coppie omosessuali si tornerà quindi a parlare solo a gennaio del 2016, anche se c’è chi spera di poter sfruttare la finestra di qualche giorno che potrebbe aprirsi a novembre, quando la legge di stabilità sarà all’esame della Camera. Anche se per adesso il premier ha la meglio sulle resistenze dell’alleato di centrodestra, il percorso resta quindi ancora tutto in salita. A spingere perché il Senato incardinasse il provvedimento è stato lo stesso Renzi ieri mattina parlando alla radio. «Le unioni civili sono un argomento che divide profondamente tant’è che siamo l’unico paese in Europa senza una legge. La posizione del Pd è di iniziare a discutere di questa legge in aula, dandoci i tempi per arrivare alla conclusione in Senato» ha spiegato il premier, augurandosi di poter procedere «senza furore ideologico». «Sul 95% della legge nel Pd c’è l’accordo di tutti», ha concluso. La nota dolente, il restante 5% sul quale manca il consenso, riguarda le step child adoption, la possibilità di adottare il figlio biologico del partner. Su questo punto il Pd ha già annunciato che lascerà i suoi senatori liberi di votare secondo coscienza, ma

la discussione si annuncia accesissima. Alcuni cattolici del Pd vorrebbero fatti sostituire l’adozione con un affido «rinforzato», diverso da quello di cui usufruiscono le coppie eterosessuali. In pratica i servizi sociali non interverrebbero per un controllo sulle condizioni del minore ogni due anni, come avviene con le coppie di sesso diverso, ma all’inizio dell’affido e tutte le volte che lo riterranno necessario. Proposta che non piace alle associazioni omosessuali (ieri l’Arcigay ha parlato di «ignobile tentativo di marchiare i figli degli omosessuali». Ma neanche a molti senatori dem. «Si tratta di un falso rafforzamento, perché lascia in balìa di una serie di fattori l’esercizio dei diritti del bambino» contesta il senatore Sergio Lo Giudice, per il quale il rischio vero è quello di danneggiare il minore. «Con l’affido il bambino viene discriminato perché perde tutti i diritti - dal mantenimento alla possibilità di entrare nell’asse ereditario - che avrebbe invece con l’adozione e verrebbe lasciato in un limbo di incertezze». Lo Giudice si dice però anche sicuro di riuscire a convincere i colleghi di partito: «Sono convinto che spiegando nel dettaglio tutti i problemi che la loro proposta crea, saranno i primi a cambiare idea». Intanto l’aria che tira nella maggioranza è a dir poco gelida. La compattezza dimostrata finora sulla riforma

costituzionale appartiene già al passato e il Ncd promette battaglia. Il partito di Alfano ha fatto di tutto per evitare che il ddl Cirinnà venisse incardinato definendo l’operazione una «forzatura del regolamento», e adesso che ha perso la battaglia gioca la carta di un possibile ritorno del testo in commissione Giustizia, dove l’ha tenuto impantanato per mesi con oltre mille emendamenti. Anche per i centristi il punto cruciale si chiama step child adoption, che tentano di abolire in tutti i modi. «E’ possibile trovare un margine di intesa sul nuovo testo Cirinnà durante la sessione di Bilancio che scatta dalla prossima settimana», ha spiegato il capogruppo Renato Schifani. Duro, invece, il commento del M5S. Più volte i grillini si sono detti pronti a votare il ddl Cirinnà a patto, come ha ripetuto ancora ieri il senatore Alberto Airola, che non si faccia nessun passo indietro rispetto al testo originario. Ieri i 5 stelle hanno condannato la scelta di non discutere subito il provvedimento dando la precedenza alla legge Boccadutri: «Il bicameralismo non è un problema quando i partiti vogliono i soldi dei cittadini», ha detto il capogruppo Gianluca Castaldi. «Le unioni civili? I diritti possono attendere, domani (oggi, ndr) la legge verrà incardinata in aula per poi essere discussa chissà quando...».

LEGGE ELETTORALE · I centristi cercano posti: troppi per metterli in lista

L’ipotesi del premio alla coalizione che adesso farebbe comodo al Pd Andrea Colombo

D

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a ieri la Costituzione italiana è radicalmente cambiata, di fatto se non ancora di nome. Sono necessari altri due passaggi parlamentari, ma con il fiato di Renzi sul collo si può stare certi che la Camera non apporterà modifiche e l’ampia maggioranza incassata ieri dal governo garantisce che anche il voto finale al Senato filerà liscissimo. Resta il referendum, è vero, e si tratta di una incognita gigantesca, ma da oggi tutte le forze politiche inizieranno a fare i conti con il nuovo quadro istituzionale. Il Pd che ha voluto più di tutti sia la riforma che la legge elettorale dovrebbe sentirsi a cavallo. Non è del tutto così. Il premio assegnato alla lista invece che alla coalizione lo costringe a fare i conti con i numerosi alleati che già sgomitano ai cancelli del Nazareno in cerca di posti. I quali pe-

rò scarseggiano, con il bacino del Senato ormai precluso. Renzi potrà offrire ben poco, e anche quel poco rischia di costargli caro, essendo acclarato lo scarso gradimento dell'elettorato Pd per i nuovi alleati spuntati come funghi dopo la rotta del partito azzurro, da Alfano a Verdini. E’ un dilemma che il premier dovrà in qualche modo risolvere, e proprio per questo è rispuntata proprio ieri l’ipotesi, o forse il miraggio, di un ritorno al premio di coalizione. Giorgio Napolitano, in un discorso reso solenne dalle circostanze lo ha quasi promesso, ma se si sia trattato del vano desiderio di un ex monarca o dell’annuncio di un sovrano ancora di fatto in carica lo scopriremo solo nei prossimi mesi. L’eventuale rovesciamento potrebbe rendere un po’ più facile la situazione al Pd, perché non dovrebbe più costringere nessuno a sloggiare dalle liste per far

posto agli orfani di Arcore e perché l’alleanza, pur sempre assai indigesta, dovrebbe far infuriare un po’ meno gli elettori. Per Fi, invece, il nuovo edificio istituzionale non presenta zone in luce, ed è davvero incredibile che sia stato costruito, almeno fino a un certo punto, con l’attivo concorso della vittima predestinata, Berlusconi Silvio. Per due decenni l’ex Cavaliere aveva costruito tutte le sue fortune su una capacità di creare coalizioni che sarebbe ancora la sua arma migliore, se non la avesse regalata al rivale. La penuria di posti, inoltre, è all’origine della frana in corso, essendo i gruppi parlamentari dell’ex magnifico molto meno fidelizzati dello stesso elettorato e dunque prontissimi a voltare le spalle in mancanza di prebenda. Volente o nolente, senza l’auspicato ritorno al premio di coalizione, il signore di Arcore dovrà acconciarsi a una lista unica con

Salvini e Giorgia Meloni. Ipotesi tutt’altro che rosea, sia perché il prezzo imposto dal nordico per concedersi sarà salato, sia perché quella eventuale lista, a trazione tutt’altro che moderata, spaventerebbe una parte del residuo bacino elettorale azzurro. All’M5S, invece, la riforma va di lusso. E’ un partito che non ha mai contemplato la coalizione, dunque nato per il premio di lista. Conta una componente militante strutturale, quindi non ha nulla da temere dalla vacanza di poltrone disponibili. Inoltre è potenzialmente la forza maggiormente avvantaggiata dal doppio turno. A meno che qualcuno non si aggiudichi il premio al primo turno raggiungendo il 40%, ipotesi più impossibile che improbabi-

Norma Rangeri Principalmente finalizzata alla creazione di un premierato senza contrappesi, come in nessun paese europeo. Disegnato sulla silhouette di quello che nel suo intervento in dissenso dal gruppo del Pd, Walter Tocci ha definito «il demagogo che potrà fare quello che vuole». Del resto, di essere il dominus anche del futuro potere legislativo questo presidente del consiglio se ne fa vanto («le riforme si fanno, l’Italia cambia, avanti tutta più decisi che mai»). Con motivazioni di bassa lega (meno senatori, meno costi della politica) e disprezzo per le minoranze, a cominciare da quelle del suo partito. Bersani e i fedeli della "ditta" hanno masochisticamente scelto di farsi umiliare fino a votare la trasformazione del Parlamento in cassa di risonanza dei piccoli Cesare. Di oggi e di domani. La prima pagina del manifesto di ieri, con il documento firmato dai sei illustri costituzionalisti (Rodotà, Villone, Azzariti, Carlassare, Pace e Ferrara) è entrata nell’aula di palazzo Madama grazie alla senatrice di Sel, Loredana De Petris, che ne ha illustrato il senso davanti all’assemblea. Il documento spiega perché e come, questa riforma, nell’abbinamento con la nuova legge elettorale, costituisce una torsione autoritaria delle istituzioni, in definitiva della democrazia parlamentare: «Uno stravolgimento dell’impianto della Costituzione del ’48, sulla sovranità popolare, sulla rappresentanza, sulla partecipazione democratica, sul diritto di voto». Tuttavia ancora non è stata scritta la parola definitiva. Se si verificheranno le condizioni per poterci esprimere in un referendum, saremo chiamati, come già nel 2006, a una grande battaglia che potrà farci svegliare dall’incubo cancellando questo frutto avvelenato del renzismo. Va comunque preso atto che il presidente del consiglio sta segnando punti a suo favore: grazie alla forza dei numeri e agli squallidi trasformismi, vince. Però non convince. Per lui contano le bandierine della conquista, come quelle che accompagnarono la marcia trionfale di Berlusconi. Ma Renzi sta facendo anche terra bruciata nel suo partito, perché ne sta distruggendo quel poco che resta della sua storia.

le, l’Italicum è infatti una legge che avvantaggia nel ballottaggio il secondo arrivato, che può raccogliere i voti degli esclusi per ostilità al partito in testa. La sorte della galassia centrista si deciderà nei prossimi mesi. L’azzardo è fallito, e i diretti interessati se ne rendono conto perfettamente. Ma Ncd e Udc devono ancora decidere se puntare sul disperato tentativo di superare la soglia di sbarramento del 3% e strappare un diritto di tribuna nel nuovo Parlamento oppure, come è più probabile, avviare quella diaspora latente che riporterà alcuni all’ovile azzurro, mentre altri, un tempo insospettabili, approderanno sulle sponde del Pd renziano, depurato anche dagli ultimi olezzi di sinistra. Cosa succederà alla sinistra del Pd è un mistero, importante anche per le sorti del partito di Renzi. Se nascerà una forza in grado di ambire a qualcosa di più che un diritto di tribuna, la ricaduta potrebbe essere pesante sia per il Pd che per lo stesso M5S. Se non riuscirà a superare l’attuale assurda frammentazione o, peggio, si dividerà ulteriormente in nome della necessità di non rompere ogni ponte con il Pd, apparirà superflua agli occhi dei suoi stessi potenziali elettori.


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il manifesto

MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE 2015

POLITICA

INTERVISTA · Mohamed Tailmoun (Rete G2)

«Si poteva fare di meglio, ma ora siamo cittadini» Carlo Lania

A

Approvate dalla Camera le nuove norme che introducono uno ius soli temperato IN UNA SCUOLA ELEMENTARE FOTO LORENZO PASSONI-TAM TAM. A DESTRA, MOHAMED TAILMOUN DELLA RETE G2

DIRITTI · Astenuto il M5S, Meloni: «Ricorreremo al referendum abrogativo. Polverini (Fi) vota a favore

Cittadinanza, via alla riforma Leo Lancari ROMA

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ra la legge deve passare l’esame del Senato ma il primo passo è stato fatto. In futuro sarà più semplice per un bambino figlio di immigrati diventare cittadino italiano. La riforma della cittadinanza è stata infatti approvata ieri dalla Camera con 310 voti a favore (maggioranza più Sel), 66 contrari (Lega, FdI e Fi) e 83 astenuti tra i quali i senatori del M5S. Un via libera avvenuto in un clima inizialmente surreale, con la diretta televisiva che ha mostrato il dibattito avviarsi in un’aula praticamente deserta. Chi avrebbe voluto che le nuove norme fossero più aperte nei confronti dei figli di quanti sono immigrati nel nostro

paese (ma anche degli adulti, esclusi dal provvedimento) spera adesso di poter migliorare il testo nel prossimo passaggio a palazzo madama. A destra invece, oltre alle previste grida della Lega, per Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha già annunciato di voler ricorrere al referendum abrogativo mentre Renata Polverini si è schierata in contrasto con Forza Italia votando a favore. Il vecchio ius sanguinis va quindi in soffitta, messo da parte dalle nuove norme che rappresentano un insieme di regole tra lo ius soli temperato e uno ius culturae. Contrariamente a quanto accade oggi, per cui un o straniero può chiedere la cittadinanza solo se ha risieduto nel nostro paese legalmente e senza interruzione fino al compimento della maggiore età, in futu-

VATILEAKS · I timori per le aperture del papa

Vescovi spaccati, scompiglio al Sinodo

ro è previsto che potrà richiedere il passaporto chi è nato in Italia da genitori stranieri, non comunitari, dei quali almeno uno sia in possesso del permesso di soggiorno Ue di lungo periodo. Tra gli altri requisiti richiesti c’è l’obbligo di avere un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale (448 euro per 13 mensilità), la disponibilità di un alloggi che risponda ai requisiti previsti dalla legge e il superamento di un test di conoscenza della lingua italiana. La parte che riguarda lo ius culturae prevede invece il riconoscimento della cittadinanza italiana ai bambini entrati in Italia o arrivati entro il dodicesimo anno di età che abbiano frequentato regolarmente per almeno cinque anni uno o più cicli di studio o seguito percorsi di istruzione e formazione professionale. E’ richiesto che i ciclo di studi sia superato con successo, over con l’idoneità al ciclo di studi superiore. Prevista infine anche la naturalizzazione, cioè la possibilità di ottenere la cittadinanza per lo stranieri centrato in Italia prima del compimento della maggiore età e avendovi risieduto legalmente almeno sei anni duranti i quali ha frequentato un ciclo scola-

stico. Una possibilità che riguarda soprattutto i minori arrivati in Italia con un’età compresa tra i 12 e i 18 anni. Infine la norma transitoria prevede l’applicazione delle nuove disposizioni anche ai 127 mila stranieri in possesso dei nuovi requisiti ma che abbiano superato al momento dell’approvazione della legge, il limite di età dei 20 anni per farne richiesta. «La Camera ha contribuito oggi ad abbattere un muro, al tempo in cui i muri conoscono una nuova, triste popolarità», è stato il commento della presidente Laura Boldrini. «Approvando il testo sulla cittadinanza, Montecitorio fa cadere la barriera che per troppo tempo ha tenuto separati tanti giovani e giovanissimi nuovi italiani dai loro compagni di scuola e di gioco», Soddisfazione è stata espressa anche da Pd e Sel, anche se i vendoliani definiscono la legge «un compromesso al ribasso» perché esclude gli adulti. Il M5S ha invece spiegato la scelta dell’astensione ritenendo la legge «inutile, che non semplifica la materia ma la complica ulteriormente, frazionando i diritti e mettendo, nero su bianco, che non tutti sono uguali di fronte alla legge».

ttesa da oltre venti anni, la riforma della cittadinanza è stata approvata ieri da un'aula della Camera inizialmente deserta. Uno spettacolo desolante, che però non ha tolto ai tantissimi giovani figli di stranieri che vivono nel nostro paese la gioia di vedere diventare realtà una provvedimento che – seppure con tutti i suoi limiti – attendevano d troppo tempo. «Se posso riassumere il sentimento della maggioranza delle secondo generazioni che hanno seguito in diretta il dibattito commentandolo su Facebook direi che la sostanza è stata questa: aula deserta o piena purché approvino la riforma», spiega Mohamed Tailmoun, 44 anni di origine libica ma arrivato in Italia quando aveva 5 anni. Oggi lavora come mediatore culturale e fa parte della Rete G2 seconde generazioni, associazione fondata nel 2005 da figli di immigrati e rifugiati nati o cresciuti in Italia. «Abbiamo aspettato così tanto, al di là dei venti anni della legge 1991/92 che era già vecchia quando è stata approvata. La sensazione della maggior parte delle seconde generazioni è che non se ne poteva più e che serviva una riforma al più presto». Il testo approvato la convince? Insieme ad altre realtà e associazioni la Rete G2 fa parte della campagna «L'Italia sono anch'io» che ha proposto un testo diverso. Dopo di che bisogna fare buon viso a cattivo gioco e vedere che è stata approvata una riforma che prevede in qualche modo un certo auto-

Luca Kocci

N

ei sacri palazzi ricomincia il Vatileaks. Una lettera riservata indirizzata al papa e firmata da alcuni cardinali conservatori di primo piano è stata pubblicata su un blog di informazione vaticana, sollevando un vespaio, tanto che ieri il portavoce vaticano, padre Lombardi, è intervenuto per condannare l’«atto di disturbo» spiegando che sia il contenuto della lettera sia i nomi e il numero dei firmatari sono imprecisi. Oggetto del contendere del nuovo giallo è il Sinodo dei vescovi - ormai all’ultimo chilometro - che secondo i firmatari della lettera sarebbe abilmente manipolato da papa Francesco al fine di ottenere il semaforo verde a una serie di aperture e innovazioni, a cominciare dall’accesso ai sacramenti per i divorziati risposati. I fatti. Lunedì mattina sul blog del vaticanista dell’Espresso Sandro Magister (lo stesso che a giugno pubblicò con qualche giorno di anticipo l’enciclica Laudato si’, in possesso anche di altri vaticanisti che però rispettarono la regola dell’embargo) viene postata una lettera - di cui si vociferava da diversi giorni - firmata da 13 cardinali e consegnata al papa alla vigilia dell’assemblea sinodale. Nella lettera si criticano l’Instrumentum laboris del Sinodo («non può adeguatamente servire da testo guida o da fondamento di un documento finale»), le procedure poco collegiali che condurrebbero a un esito già predeterminato - ovvero a presunte aperture volute dallo stesso Bergoglio - e si paventa il rischio che venga dato il via libera alla «comunione per i divorziati risposati civilmente». Nel giro di poche ore, uno dopo l’altro 4 cardinali smentiscono di aver firmato la lettera: gli italiani Scola e Piacenza, gli arcivescovi di Parigi e Budapest Vingt-Trois ed Erdo, quest’ultimo autore della reazionaria relazione introduttiva dell’assemblea sinodale. E altri due (il “ministro” dell’economia Pell e il cardinale sudafricano Fox Napier) dicono di aver firmato un testo diverso da quello pubblicato; dagli Usa, sul settimanale dei gesuiti America, rimbalzano i nomi di 4 cardinali “sostituti”, ma uno subito smentisce. Fra quelli che restano ci sono comunque pezzi da 90, come il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Müller e lo stesso Pell, che gettano acqua sul fuoco, ma confermano le preoccupazioni di un ammorbidimento del magistero. «L’ortodossia deve realizzarsi nella pastorale, ma non c’è una pastorale senza sana dottrina», dice Müller al Corriere della Sera. E Pell, attraverso un portavoce, puntualizza che «non esiste possibilità di cambiamento della dottrina», anche se «elementi di minoranza vogliono cambiare gli insegnamenti della Chiesa». La vicenda non fa che confermare quello che da più parti - anche da questo giornale - si sostiene da tempo: che i vescovi sono divisi in due “partiti” (conservatori e innovatori) e che al Sinodo si gioca una partita importante, forse decisiva, per capire in quale direzione andrà la Chiesa di papa Francesco. Proprio per questo tutti i colpi sono leciti, anche quelli che puntano soprattutto a creare scompiglio.

DOPO LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE

I Cie sono inutili e dannosi, chiudiamoli

I

Centri di identificazione e di espulsione per stranieri irregolari (Cie) sono nonluoghi precipitati nello spazio ottusamente vuoto di un nontempo. Forse le sedi più crudeli di privazione della libertà presenti nel nostro Paese: ed è proprio per questa ragione che intorno alla loro natura e alle loro finalità, alle norme che li regolamentano e alle iniquità che vi si consumano, si gioca una partita dura, molto dura, dall'esito incerto, condotta su molti piani. Uno di questi, tutt'altro che secondario, è quello giudiziario. E da qui proviene, finalmente una buona notizia. Qualche giorno fa, la Cassazione, con sentenza 18748/15, ha annullato il provvedimento di trattenimento nel Cie di Ponte Galeria, all'estrema periferia di Roma. Provvedimento a carico di un cittadino libico di etnia tuareg impugnato dall'avvocato Alessandro Ferrara, collaboratore dell'Associazione A Buon Diritto. Il periodo di permanenza all'interno di quel centro era stato più volte prorogato, nonostante la stessa autorità libica in Italia si fosse da subito opposta al rimpatrio, perché avrebbe esposto lo stesso trattenuto «a un grave rischio per la propria vita e incolumità». Quelle stesse autorità avevano constatato, inoltre, che l'impossibilità del rimpatrio costituiva «una situazione permanente» e non transitoria, che dunque faceva venir meno anche la necessità del trattenimento. Si tratta di una sentenza

Luigi Manconi, Valentina Brinis

molto importante che conferma la totale inadeguatezza di una misura come l'ingresso nel Cie per persone che, sin dal principio, si rivelano inespellibili. Ne sono un esempio tutti coloro che vengono trattenuti più volte, anche sei o sette, senza che le autorità siano in grado di procedere al rimpatrio per mancanza di indicazioni attendibili sulla loro nazionalità. Basti pensare ai rom provenienti dalla Bosnia o dalla Serbia che non vengono riconosciuti come cittadini di quei paesi a causa di profondi cambiamenti geopolitici avvenuti nel corso degli anni '90. La condizione di irregolarità, difficile da sanare, li condanna a ripetuti trattenimenti che si concludono sempre in un nulla di fatto. Eppure basterebbe che anche solo una delle figure professionali con cui vengono in contatto - assistenti sociali, avvocati, giudici di pace, funzionari della Questura fornisse loro qualche informazione su come accedere al riconoscimento dello status di apolide. Tuttavia, c'è da dire che, anche se quell'informazione fosse più accessibile, rimarrebbe faticoso completare la procedura, il cui esito si determina in sede giudiziaria più che amministrativa. Ma il caso dei rom è solo uno tra i molti possibili. In generale, il mancato riconoscimento da parte delle autorità consolari, non sempre coincide con il rilascio del-

la persona trattenuta, come insegna la vicenda qui ricordata. E tutto ciò dimostra come, a proposito dei centri di identificazione e di espulsione, ci sia ancora molto da fare. Uno spiraglio si era aperto con la riduzione dei tempi di trattenimento da diciotto a tre mesi; con l'emanazione del regolamento nazionale; e, infine, con il recepimento della direttiva europea sull'accoglienza. Si è trattato di tre importanti occasioni che, però, non hanno migliorato le condizioni di vivibilità all'interno di quei luoghi. Addirittura si può dire che, con l'ultimo provvedimento, quelle condizioni sono destinate a peggiorarle. E ciò perché sono state introdotte specifiche indicazioni sulla reclusione di una particolare tipologia profughi, all'interno dei Cie per un periodo fino a dodici mesi. Insomma, appare sempre più evidente che il trattenimento venga utilizzato come strumento punitivo nei confronti di chi non abbia i documenti in regola; e che poco si faccia per promuovere misure alternative al trattenimento e altre forme di rimpatrio. I costi umani ed economici che la permanenza nei Cie comporta sono ormai troppo alti se confrontati con il numero di rimpatri effettivamente realizzati. Ancora oggi, appena il 50% dei trattenuti viene riportato nel paese di origine. Un mezzo fallimento proprio rispetto allo scopo per il quale quei luoghi orribili sono stati creati.

matismo, sia per i nati in Italia che per chi è arrivato da piccolo, e questo è positivo. Si avvicina di più alla nostra richiesta di cittadinanza come diritto soggettivo, limitando al massimo il potere della pubblica amministrazione di dire si o no. I difetti sono in alcuni dei criteri indicati: avremmo voluto che non ci fosse l'obbligo per uno dei due genitori di possedere la carta di soggiorno, che sappiamo tutti essere un documento difficile da ottenere ma soprattutto che introduce la discrezionalità della pubblica amministrazione che uscita dalla porta è rientrata dalla finestra: non ti do la carta di soggiorno, quindi nego a tuo figlio la possibilità di essere cittadino italiano. C'è poi il criterio del reddito, che limita fortemente e fa della cittadinanza una questione di ceto. Infine avremmo voluto che la questione della scuola non stesse tra i criteri di una legge sulla cittadinanza, anche se messa così non è certo la versione peggiore dello ius culturae. Ci sarebbero i margini per migliorare la legge, perché sicuramente così com’è è imperfetta, però tutto sommato incassiamo il fatto che è stata superata la legge 91/92 che produceva solo stranieri. C'è chi definisce le nuove norme un compromesso al ribasso, ad esempio perché non si affronta il problema della cittadinanza per gli adulti. E' vero. Diciamo che non è una riforma integrale della 91/92 perché la vecchia legge prevedeva anche una parte sugli adulti. Questa è una riforma con compromessi e come tale non accontenta tutti. Facciamo un po' di numeri: quanti potrebbero essere i nuovi cittadini italiani? Tra le seconde generazioni si fa sempre una cifra che oscilla tra gli 800 mila e un milione di ragazzi. Ma circa la metà dei cittadini stranieri non comunitari non possiede la carta di soggiorno, quindi la cifra si dimezzerebbe. Una mia idea, ma andrebbe confrontata con i dati del ministero dell'Interno, è che in realtà il numero degli stranieri con figli che potrebbero essere interessati dalla riforma è inferiore. Diciamo che potrebbero essere circa 500 mila. Quanto è importante questa legge per l'integrazione di una ragazzo? Come Rete G2 quando siamo nati, ormai dieci anni fa, avevamo individuato come fondamentale la riforma della cittadinanza, perché essere o non essere cittadini in questo paese fa la differenza. Chi è cittadino è ascoltato quanto meno come elettore. Non essere cittadini italiani, invece, per i ragazzi immigrati ma anche per i nostri genitori ha significato essere sempre stati oggetto delle campagne elettorali. Su di noi si costruiscono e si disfano fortune politiche a destra come a sinistra. Avere una riforma come questa, per quanto non completamente soddisfacente, vuol dire che domani anche in Italia potremo dire ai politici: anche io voto, quindi quello che dici influenzerà una fetta del tuo elettorato. Ma soprattutto questa legge darà dignità a tantissimi giovani che si sentono italiani ma formalmente vengono trattati come stranieri o comunque come cittadini di serie B.


MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE 2015

il manifesto

ITALIA

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LOMBARDIA · Arrestato l’ex titolare della sanità, uomo forte di Berlusconi e altre 4 persone. Indagato assessore leghista

Trema il Pirellone, in cella il vice di Maroni Luca Fazio

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er sopraggiunti impegni, l’ex assessore alla Sanità e vicepresidente in carica della Regione Lombardia, Mario Mantovani (Forza Italia), ieri è stato costretto a disertare la «Giornata della trasparenza», un appuntamento istituzionale sul rapporto tra pubblica amministrazione e integrità (si presume morale). Lo stavano arrestando. Era previsto anche un intervento del governatore Roberto Maroni, anche lui ha cambiato programma. Per la giornata della legalità in Lombardia andrà meglio la prossima volta. I capi di imputazione che vengono contestati a Mario Mantovani sono concussione, corruzione aggravata e «turbata libertà de-

Mario Mantovani in manette mentre andava alla festa della legalità. L’accusa: concussione e corruzione aggravata gli incanti». In esecuzione della stessa ordinanza, emessa dal Gip di Milano Stefania Pepe, risulta indagato per turbativa d’asta anche l’assessore leghista all’economia della Regione Lombardia Maurizio Garavaglia. La Guardia di Finanza ha arrestato anche Giacomo Di Capua, per gli stessi reati che vengono contestati al vicepresidente della Regione Lombardia, e Angelo Bianchi, ingegnere del provveditorato Interregionale delle opere pubbliche per la Lombardia e la Liguria. Ci sono anche altri dodici indagati che «hanno concorso in vario titolo nei reati». I fatti contestati, ha precisato il procuratore Edmondo Bruti Liberati, sarebbero stati commessi tra il giugno 2012 e il giugno 2014. Quando Mario Mantovani era un «fedelissimo» senatore di Silvio Berlusconi, nonché sindaco di Arconate (Milano) e potente assessore alla Sanità della Regione Lombardia.

In casi esemplari come questi si dice «terremoto», si invocano dimissioni immediate ed elezioni anticipate, tornano in mente la spudorata gestione del sistema sanitario dell’era Formigoni e il teatrino «delle scope» agitate dai leghisti per rivendicare la ritrovata verginità di un partito già «screditato» da ruberie e miserie varie - proprio lo stesso par-

tito che oggi domina la scena politica della destra italiana. Tutto vero. Ma è improbabile che l’ennesimo scandalo politico giudiziario faccia saltare la giunta di Roberto Maroni. Il centrosinistra presenterà una mozione di sfiducia, così come il Movimento 5 Stelle, che ieri ha portato le arance a Bobo Maroni, mentre il centrodestra si trincera dietro al solito balbettante garantismo di facciata. I più imbarazzati sembrano proprio i leghisti che si preoccupano però di difendere solo il loro assessore indagato, quel Maurizio Garavaglia per cui Salvini è disposto a mettere una mano sul fuoco: «Pazzesco. L’assessore al Bilancio di Regione Lombardia, leghista concreto e onesto, è indagato (e sputtanato da stamattina) perché la sua colpa sarebbe di aver aiutato una associazione di volontariato del suo territorio, che trasporta malati e dializzati». Maroni, meno baldanzoso, è sor-

preso. Farà le verifiche del caso. Berlusconi nulla sa e con due righe detta la linea ai suoi: «Ci ha stupito molto questa inchiesta di cui non sapevamo nulla. Francamente conosciamo Mantovani come persona corretta e siamo in attesa di notizie». Le prime notizie non sono confortanti. Secondo il pubblico ministero Giovanni Polizzi, il vicepresidente della Regione Lombardia avrebbe pilotato gare d’appalto nel settore sanitario favorendo alcuni professionisti che in cambio avrebbero offerto non denaro ma prestazioni (la ristrutturazione di alcuni immobili di sua proprietà). E ancora. Avrebbe pilotato gare pubbliche relative al trasporto di pazienti dializzati (11 milioni di euro di valore), all’edilizia scolastica e alle case di riposo. Infine, avrebbe fatto pressioni per avvantaggiare persone a lui vicine politicamente, soprattutto sul provveditore delle opere pubbliche di Lombardia e Liguria per spingerlo a reintegrare il funzionario Angelo Bianchi (arrestato ieri e già arrestato nel 2008 nell’ambito di un’inchiesta su presunti appalti truccati in Valtellina. Umberto Ambrosoli, coordinatore del centrosinistra che oggi deposita una sfiducia per il governatore Maroni, quasi se l’aspettava: «Chissà perché la notizia non mi ha colto di sorpresa». Ambrosoli è impressionato dal fatto che «Mantovani fino a qualche settimana fa ha ricoperto anche il ruolo di assessore alla Sanità, e che l’indagine con accusa di concussione e corruzione aggravata si riferisce ad episodi tra il 2012 e 2014, la prova provata che nessuna discontinuità c’è stata nel passaggio dalla vecchia amministrazione, crollata proprio per indagini giudiziarie, alla giunta attuale». A testa bassa il M5S. «I lombardi non meritano questa vergogna - scrive il capogruppo Dario Violi - l’arresto è la prova provata che tante denunce che abbiamo sollevato negli ultimi anni sono fondate e che Maroni non è mai stato in grado di allontanare le lobby di affaristi e corruttori. E’ necessario tornare al voto subito e Maroni e i suoi assessori devono tornarsene a casa a cercarsi un lavoro». Anche Sel e Prc chiedono le dimissioni. Qualcuno, invece, ironizza sulle ruspe.

ROMA · I mini sindaci contro lo scioglimento dei consigli territoriali

L’allarme dei municipi: servizi sociali a rischio con il commissariamento E. Ma. ROMA

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il giorno delle smentite. Matteo Renzi smentisce che si stia pensando al rinvio delle elezioni comunali a Roma: «Perché nel 2017? Si vota quando prescrive la legge, con gli altri comuni che vanno al voto, a fine maggio o giugno 2016. Mi sembra che sia giusto ridare la parola ai cittadini, senza troppi giri intorno». L’assessore alla Scuola e fedelissima di Marino, Alessandra Cattoi, esclude invece che il sindaco dimissionario stia pensando di candidarsi con una propria lista alle prossime primarie del centrosinistra: «Non sta pensando al suo futuro, sta pensando a come chiudere i dossier per Roma». E infine l’assessore alla Legalità, Alfonso Sabella, nega di essere disponibile «a ruoli politici» per il Pd, solo a «ruoli tecnici purché con determinate garanzie». Potrebbe in sostanza, da magistrato, accettare di governare come commissario straordinario la Capitale fino alle prossime elezioni, ma non oltre. In questo modo però Sabella cerca di dribblare l’ostacolo Ncd e opposizioni che chiedono a gran voce un "tecnico" a capo della commissione prefettizia che sarà incaricata di portare a termine, in 90 giorni a partire dalla deadline del 2 novembre (quando le dimissioni di Marino diventeranno irreversibili), lo scioglimento del Campidoglio. Lo stesso "tecnico" che poi potrebbe diventare, ad Alfano piacendo, il super commissario prospettato da Renzi. Anche se il premier sul punto non si sbottona: chi sarà? «Lo scopriremo solo vivendo», ribatte su Rtl 102.5. Però, spiega, «stiamo preparando, per evitare contraccolpi alle

dimissioni della giunta comunale, una bella squadra tosta, un dream team per lavorare su quest’anno del Giubileo». Un evento che nei desiderata del segretario del Pd deve replicare il «trionfo pazzesco» dell’Expo milanese e spianare la strada, piena di buche come le vie romane, che porta alle elezioni. Il dream team però dovrà cominciare a trovare una soluzione al problema sollevato dai presidenti dei municipi che ieri, durante una riunione in Campidoglio con il vicesindaco uscente con delega al bilancio, Marco Causi, hanno lanciato un Sos sui servizi sociali a rischio con il commissariamento. «Il governo sta giocando sulla pelle dei romani, attaccando da un lato il sindaco e dall’altro non garantendo le risorse per la città», denuncia Susi Fantino (Sel), presidente del VII

municipio. «C’è un problema di copertura economica dei servizi sociali essenziali, il rischio è che restino scoperti gli ultimi due mesi dell’anno - riferisce il coordinatore dei municipi Daniele Torquati - Secondo noi ci si deve attenere all’art. 54 del Tuel, che dice che durante la gestione commissariale i municipi restano in carica fino alle elezioni. A breve spero che il Segretario generale si pronunci in merito: ci sono delle regole, vanno applicate». Il centrodestra invece pretende le dimissioni di tutti i mini-sindaci, anche se lo Statuto del Comune prescrive che «i Consigli dei Municipi, anche nel caso di scioglimento anticipato» dell’Assemblea capitolina, «restano in carica» ed «esercitano le loro funzioni sino alla elezione dei nuovi». «Si stanno facendo tutti gli approfondimenti e nei prossimi giorni

vedremo, fermo restando che l’ultima parola spetterà al Commissario», spiega la presidente dell’Assemblea, Valeria Baglio. Intanto in Campidoglio sono arrivati gli uomini della Guardia di finanza per acquisire l’incartamento relativo agli scontrini e alle spese sostenute dal sindaco con la carta di credito comunale. «Un atto dovuto», spiega Sabella che invece, parlando della vicenda in generale, afferma: «Non credo nei complotti, ma c’è stata una aggressione mediatica parti-

colare dove si sono inserite forze ostili al sindaco». Tant’è che, secondo il blog "Roma fa schifo", sotto i giustificativi relativi agli scontrini su cui indagano le Fiamme gialle sarebbe riportata la firma di Marino con calligrafie differenti. Come è logico aspettarsi che sia avvenuto anche nelle passate amministrazioni, e che avvenga in qualsiasi città metropolitana, dove sono i dipendenti a firmare per il sindaco. La procura procederà anche con le perizie calligrafiche.

CASO CUCCHI

I carabinieri dell’arresto di Stefano accusati di lesioni Eleonora Martini

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na volta aperto un varco nel muro di omertà che aveva finora nascosto la verità sulla morte di Stefano Cucchi, la procura di Roma procede velocemente nell’inchiesta bis che si avvale della testimonianza spontanea di una coppia di carabineri. E ieri ha iscritto sul registro degli indagati altri quattro militari dell’Arma, tre dei quali, per la prima volta, con l’accusa di «lesioni dolose aggravate». Che vanno ad aggiungersi all’ex vice comandante della stazione di Tor Sapienza, Roberto Mandolini, il primo a finire, per falsa testimonianza, nel fascicolo aperto dal procuratore Giuseppe Pignatone a sei anni dalla morte, rimasta finora senza responsabili, del giovane romano arrestato dai carabinieri per droga nella notte del 15 ottobre 2009 e deceduto una settimana dopo nel reparto penitenziario dell’ospedale Pertini. Il pm Giovanni Musarò accusa di «lesioni» Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, mentre viene ipotizzato il reato di falsa testimonianza per Vincenzo Nicolardi. Per ricostruire chi sono, vale la pena tornare all’articolo scritto sul manifesto da Luigi Manconi e Valentina Calderone il 16 settembre scorso. Di Bernardo e D’Alessandro sono i militari che «brillano per la loro accecante assenza» dai verbali, spariscono dalla prima inchiesta e non vengono neppure mai sentiti nel dibattimento che pure si è avvalso della testimonianza di oltre 150 persone e che si è concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati: sei medici, tre infermieri e tre poliziotti penitenziari. I due carabinieri, secondo la ricostruzione mai smentita - del senatore Manconi e di Calderone, insieme a Tedesco ed altri due colleghi sono coloro che «hanno effettuato la perquisizione domiciliare e che sono stati insieme a Stefano Cucchi per più di un’ora, da quando cioè sono usciti dalla casa di Tor Pignattara fino al momento in cui è stato trasferito nella caserma di Tor Sapienza». Vincenzo Nicolardi, invece, sarebbe, secondo l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, uno dei carabinieri che «portano Stefano dalla caserma di Via Appia, dove è stato condotto subito dopo la perquisizione domiciliare, a quella di Tor Sapienza. Qui, inspiegabilmente, il mattino dopo, Nicolardi viene pure richiamato dal piantone di turno. Per far cosa non è chiaro e da quel momento se ne perdono le tracce». «Il vero dilemma - accusa Manconi - è perché i pm che indagarono nella prima inchiesta saltarono a pie’ pari le vicende della prima notte, quella che vedeva protagonisti i carabinieri». Una notizia, quella di ieri, che non stupisce la famiglia e il loro avvocato: «Come avevamo detto fin da subito commenta Anselmo - la procura di Roma è andata ben oltre il primo contributo alle indagini che noi abbiamo dato». Il legale si riferisce alla nuova perizia depositata che mostra fratture «recenti» su alcune vertebre di Stefano, mai comparse nei referti ufficiali. «E ora - aggiunge Ilaria Cucchi, sorella della vittima - ho la sensazione che siano arrivati ai responsabili della morte di mio fratello. Ma, sono sicura, altri nomi verranno fuori: siamo solo all’inizio». «Questa contestazione, che riteniamo essere provvisoria, interromperà la prescrizione - spiega Anselmo Ma, lo ribadiamo con forza e lo stiamo provando, senza quel o quei pestaggi Stefano sarebbe ancora vivo. Questo è certo ed ormai tutti lo hanno capito. Per questo - aggiunge - contiamo di far emergere altri elementi, in corso d’indagine, che permettano di cambiare l’ipotesi di reato in omicidio».


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il manifesto

MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE 2015

ECONOMIA

DAMIANO · L’ex ministro avverte Renzi

«Pd non più di sinistra se smantella i contratti»

Confermato il passo indietro sul regime fiscale agevolato per le partite Iva. Zanetti (Mef): «Costerà 300 milioni». Sui tagli alla sanità le Regioni sono critiche

Antonio Sciotto

«I

CONTROLLI DELLA GUARDIA DI FINANZA. A DESTRA, CESARE DAMIANO (PD), PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE LAVORO DELLA CAMERA ED EX MINISTRO

LEGGE DI STABILITÀ · Renzi annuncia che sarà abolito il tetto di mille euro per il pagamento in contanti

Bersani: «Favoriti gli evasori» Mario Pierro

A

poche ore dalla presentazione delle linee generali della legge di stabilità il presidente del Consiglio Matteo Renzi anticipa che «sarà straordinaria». E incassa subito una polemica dal fronte sinistro del Pd: «Non si dica che, alzando la soglia a 3mila euro, si favoriscono i consumi - ha detto Pierluigi Bersani - Chi ha 3mila euro da spendere sicuramente ha la carta di credito. Si incoraggerebbero consumi in nero, riciclaggio, evasione e corruzione come certificato da tutte le agenzie a partire dalle Entrate». Bersani si riferisce all’anticipazione di Renzi in un’intervista rilasciata ieri a radio Rtl 102.5 sull’uso dei contanti. «Riporteremo i livelli del contante alla media europea, al livello francese, portandolo da mille a 3 mila euro. Un modo per aiuare i consumi e dire

basta al terrore». «Quei soldi sono già tracciati - ha continuato Renzi - con il telefonino controllo tutto di tutti. L’anno scorso abbiamo avuto quasi 4 miliardi in più di gettito Iva attraverso l’information technology si recupera molta più evasione che giocando al gatto e al cane sulle strade». Bersani non è soddisfatto e aggiunge: «Anch'io sono favorevole ad arrivare alla media europea nell'uso del contante, quando saremo alla media europea nell'uso del contante, nell'evasione, nel nero, nella corruzione. Non possiamo prendere la stessa medicina di chi non ha la malattia. Noi abbiamo una malattia molto seria e si richiederebbero medicine molto serie». Anche Alfredo D’Attore, esponente della minoranza del partito renziano, è teso: «Sulla legge di stabilità il quadro che emerge dalle anticipazioni è sempre più preoccupante».

Renzi ha confermato che l’intervento sulle pensioni slitterà di qualche mese: «Sono molto preoccupato di non fare pasticci come in passato - ha detto il presidente del Consiglio - faremo partire con l’Inps un grande lavoro di coinvolgimento degli interessati». Un dialogo sarebbe in corso con il presidente dell’Inps, Tito Boeri. Alla base dello slittamento c’è la penuria di risorse per finanziare la flessibilità in uscita. Tra le altre misure previste, al momento, nella manovra c’è la conferma del bonus Irpef degli 80 euro per i lavoratori dipendenti («Sono una misura acquisita»), ma non per gli autonomi. Per i quali Renzi ha confermato le anticipazioni di questi giorni: la modifica del regime fiscale agevolato. «C’è un intervento serio sulle partite Iva - ha detto - con un’azione sul regime dei minimi. Anche questa promessa l’abbiamo messa in cantiere». Il go-

INTERVISTA · Salvatore Iaconesi, artista e docente, su conflitto e innovazione

«Makers Faire a Sapienza, il problema è l’università» Roberto Ciccarelli

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li studenti della Sapienza stanno protestando perché spazi e le attività dell'università pubblica sono stati occupati dalla Maker Faire che celebra l'open access, l'innovazione, la creatività. Al rettore Gaudio rimproverano un uso «commerciale» degli spazi, oltre che la chiusura di aule e servizi, con i lavoratori costretti a prendersi le ferie per lasciare spazio all'«evento». Salvatore Iaconesi, artista, docente universitatio e promotore della piattaforma netwrok «Art is Open Source», sta animando un'intesa discussione sulle pagine facebook dei Makers e ha esposto un punto di vista originale su ciò che oggi si chiama «innovazione». «La protesta può essere vista da più punti di vista – afferma - Da un lato aziende, organizzazioni e istituzioni che si stanno incontrando/scontrando in vari modi con il cambiamento dei modelli del lavoro, dell'impresa e, in generale, del benessere dei cittadini. Dall'altro lato i cittadini che hanno sempre meno mezzi per orientarsi nel "futuro". Ci sono pochi poteri in grado di comunicare e, quindi, di attuare il "futuro", che diventa tendenzialmente "singolare". Si perde progressivamente il potere di immaginare autonomamente futuri possibili e desiderabili. Tutto va in questa direzione: da come vengono resi disponibili i fondi per la ricerca; a come si trasformano le politiche del lavoro; a come si trasforma il sistema educativo. È una crisi dell'immaginario e del ruolo del conflitto in questo momento storico». Gli studenti ritengono che la Sapienza non abbia considerato la Maker Faire un'occasione di dialogo tra universitari e makers, I problemi di questi giorni, secondo me, non sono nemmeno tra la Maker Faire e gli studenti – tantomeno con i makers –, quanto tra la governance dell'università e gli studenti. E questo è un fatto importante. Sarebbe avvenuto anche se si fosse trattato di un'altro evento. È già successo.Bisogna capire se l'Università sia un bene comune, tecnicamente un «commons». Secondo definizioni illumina-

te, come quelle di Elinor Ostrom, il «commons» non è costituito solo da una «risorsa», da un qualcosa come l'acqua, un bosco o un prodotto dell'intelletto, ma anche e soprattutto dell'ambiente relazionale ad alta qualità che è necessario perché sia possibile gestire il "bene" come comunità. Altrimenti non funziona. Questo è il problema: l'ambiente relazionale di alta qualità. È una dinamica che si ripete sistematicamente. È il principale punto per un possibile intervento costruttivo. Che cosa ha prodotto la crisi del conflitto e dell'immaginario? L'innovazione è trasgressione. Non esiste senza la possibilità di superare i limiti in tante direzioni possibili. Bateson diceva che «l'informazione è una differenza che crea la differenza". Penso che ci troviamo in una situazione simile: «l'innovazione è una differenza che crea la differenza».Per poterne trar-

ne vantaggio, come società e ecosistema umano e naturale, occorre ripensare completamente il ruolo che il conflitto assume nelle istituzioni, e anche re-immaginare i linguaggi del conflitto. Molotov e slogan non servono più, perché non solo non sono utili, ma addirittura dannosi: diventano parte dello spettacolo. Occorre una nuova sincerità, una nuova estetica, una nuova percezione del «bello», che permetta di apprezzare il conflitto, una nuova immaginazione. Da parte di tutti.

Come si posizionano i makers in questo scenario?

In un mondo in cui la gran parte della produzione intellettuale è frutto di remix e ricombinazione, la trasgressione assume un valore enorme e impone all'industria di avere un rapporto con i «piantagrane». Ovviamente secondo i canoni accettabili dall'industria. Il conflitto diventa l'incipit per il «business». I makers sono qui, in questo punto. Ciò ha un impatto immenso sulla trasformazione dei modelli del lavoro, della proprietà intellettuale, dei diritti e della possibilità di avere spazi pubblici e privati. Se utilizziamo questo punto di vista più ampio, il problema si sposta. Da un lato con le difficoltà che derivano dalle trasformazioni di diritti e garanzie dei cittadini, dall'altro con l'emergere della possibilità di porsi concretamente domande come «l'Università è un "commons", un bene comune?», e dei modi di darsi risposte e di attuarle.

verno prevede «un forfait fino a 30 mila euro con l'aliquota ridotta al 5% per i primi anni» con «un impatto nell'ordine di circa 300 milioni di euro» ha aggiunto il sottosegretario all'Economia, Enrico Zanetti. Il clamoroso «autogol» dell’anno scorso, quando il governo ha modificato il regime dei minimi, sembra recuperato. Nulla è stato detto sul blocco dell’aliquota al 27,72% per gli iscritti alla gestione separata Inps. Le indiscrezioni all’inizio dell’accidentato percorso della legge di stabilità sostengono che ci sarà. Altri problemi per Renzi vengono dalle regioni che protestano sui tagli al al Fondo nazionale della sanità. Il governo dava per scontato un incasso da 10 miliardi che sono scesi a 6-7 al massimo. La dotazione del Fondo 2016 sarà i di 111 miliardi. La ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, sostiene di battersi per le risorse aggiuntive per l'aggiornamento dei Livelli essenziali di assistenza, garantiti dal servizio sanitario nazionale, e per la stabilizzazione dei circa 7mila precari, puntando a ottenere a almeno altri 900 milioni. Il livello del finanziamento fissato al momento è «troppo poco» per il presidente della Conferenza delle Regioni, Sergio Chiamparino: «Sono indispensabili ulteriori risorse: servono almeno due dei 3 miliardi previsti di aumento del fondo».

ntrodurre un salario minimo per legge, per tutti, distruggerebbe l’impianto contrattuale. Una scelta che porrebbe un interrogativo di fondo al Pd: se sia ancora di sinistra». Cesare Damiano, deputato Pd e presidente della Commissione Lavoro della Camera, ha un’idea netta sul possibile intervento del governo sul nodo sensibile dei contratti, ventilato anche ieri dal presidente del consiglio. Matteo Renzi ha spiegato infatti a Rtl 102,5 che «l’esecutivo e il Parlamento interverranno se non ci sarà un accordo tra Confindustria e sindacati». Il premier non ha parlato espressamente di salario minimo per legge, imposto erga omnes, ma qualche giorno fa lo ha invece invocato esplicitamente Pietro Ichino, anche lui parlamentare di spicco del Pd e sicuramente influente in tema di lavoro. La reazione di Cesare Damiano è di contrarietà assoluta. Sono in radicale disaccordo con la proposta di Ichino: l’idea che lo anima è quella di sostituire con il salario minimo per legge i contratti nazionali di lavoro. E non solo: chiede anche il rafforzamento dell’articolo 8 del 2011, quella legge voluta dal governo Berlusconi che permette agli accordi aziendali di derogare rispetto ai contratti nazionali e alle leggi. Questo significherebbe distruggere l’impianto contrattuale, ed è una scelta che ci porrebbe di fronte a un interrogativo: la natura di sinistra del nostro partito. Il nuovo sistema introdurrebbe una totale deregolazione, con un conseguente dumping sociale, che comprimerebbe i salari verso il basso. E annullerebbe di fatto il ruolo delle parti sociali. Però è vero che le parti sociali non si sanno accordare. Sono anche loro, come la politica, sicuramente in crisi. Ma un conto è intervenire, magari, con una legislazione di sostegno, ben altra cosa è annullarne forze, ruolo e autonomia. Per ora un modello non c’è: meglio allora continuare così? Peraltro ci sono diverse ricette su possibili interventi del governo: Landini della Fiom chiede di in-

Makers Faire /PARLA L’ORGANIZZATORE

«Gli studenti contestano? Vorrei capissero il futuro»

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uecento studenti hanno manifestato ieri nella città universitaria della Sapienza di Roma mentre continua la costruzione dei padiglioni che ospiteranno la Makers Faire nel fine settimana. Il corteo si è snodato nel cantiere ed è terminato davanti al Rettorato presidiato dalle forze dell’ordine. Slogan di protesta contro la privatizzazione dello spazio universitario sono stati scritti sui teloni dei padiglioni. «Questa fiera - sostengono gli studenti - è il frutto di una decisione della governance universitaria che ha scavalcato i pareri e i bisogni della comunità studentesca, dei docenti, dei ricercatori e dei lavoratori ed è calata dall'alto». «È la prima volta che gli spazi di quest'Ateneo vengono affittati nella loro totalità alle multinazionali della tecnologia (Microsoft, Intel, Eni, Google) e che si fanno pagare gli studenti per accedervi». Venerdì 16 nuova manifestazione a Piazzale Aldo Moro. «Personalmente resto gelato da quello che sta succedendo – afferma Massimiliano Colella, direttore generale di Asset Camera, promotrice e organizzatrice della Makers Faire - Rispetto tutte le voci di dissenso, siamo aperti a qualsiasi tipo di dialogo, ma perché imbrattarci i materiali? La Makers faire non ha scopo di

lucro, è organizzata dalla Pubblica amministrazione che ha voluto diffondere una cultura tecnologica a basso costo e alla portata di tutti. L’iniziativa si ripaga con i proventi che arrivano dagli sponsor e dalle piccole imprese che hanno comprato lo spazio per esporre i propri prodotti. I makers non pagano e vengono qui a esporre le loro idee. È un fatto atipico che i grandi paghino per i piccoli. Veniamo criticati, è la prima volta che lo sento». Gli studenti contestano che gli iscritti all’ateneo dovranno pagare. «Venerdì l’ingresso è a due euro poi a 4 euro. I costi bassi sono per favorire la più ampia partecipazione possibile». «Per l'iniziativa - continua Colella - la Camera di Commercio di Roma ha investito 400 mila euro. Alla Sapienza andranno circa 130 mila euro che, detratti dai costi, saranno investiti in ricerca». La polemica degli studenti è contro la «governance» dell'università che ha deciso la manifestazione: «Ma l’iniziativa è nota dal 18 dicembre 2014, e ci sono stati passaggi accademici votati all'unanimità - risponde Colella - Ci saranno attività formativa e speakers da tutte le parti del mondo. Se i ragazzi credono in un futuro migliore e diverso dovrebbero partecipare». ro. ci.

centivare fiscalmente i contratti nazionali, e non chiude a un salario minimo per legge, ma basato sui contratti. Furlan della Cisl chiede di detassare, al contrario, il secondo livello. Ci tengo a togliere di mezzo un equivoco. Io non sono contro un intervento legislativo, ma deve essere di sostegno. L’idea di Landini sul sancire per legge i minimi stabiliti dai contratti mi pare buona. O altrimenti, se tutto resta com’è, in caso di contenzioso il giudice continuerà a fare riferimento alle retribuzioni da contratto di categoria. Sul fronte

dell’incentivazione rifarei quel che ho fatto già in passato come ministro, detassando gli accordi aziendali. L’essenziale è non mettere in soffitta il contratto nazionale: il salario minimo per legge non deve essere sostitutivo, ma applicato a chi non ha un contratto di riferimento, come abbiamo già deciso con la delega del Jobs Act. Rafforzerei il tutto con una legge di sostegno sulla rappresentatività sindacale, traducendo l’accordo già stipulato da sindacati e Confindustria: c’è già una mia proposta incardinata alla Commissione Lavoro della Camera. Certificare e normare la rappresentatività con una legge. Sì, e se hai certificato la rappresentatività, puoi evitare di fare pasticci quando regolerai la legge sugli scioperi dei servizi pubblici essenziali. Ritengo che per indire uno sciopero in questi settori si debba avere al massimo un 20-30% di rappresentatività, e in questo modo puoi evitare che sindacati più piccoli e di mestiere blocchino tutto periodicamente. Ma è di sinistra, invece, togliere la tassa sulla prima casa anche ai ricchi e non introdurre una flessibilità pensionistica? Ho già detto che, secondo il principio della progressività in Costituzione, io sono perché chi può la paghi: io vorrei poterla ancora pagare. Sulle pensioni, la scelta di rimandare la flessibilità al 2016 è un errore. Io ho parlato di «doccia fredda» da parte del premier, perché era un punto della Nota di aggiornamento al Def approvata dalla Camera. È essenziale nella legge di Stabilità assicurare la settima salvaguardia per 26 mila esodati, con gli 1,3 miliardi risparmiati negli ultimi 3 anni, e garantire l’«opzione donna» fino alla sua naturale conclusione, a fine 2015. Per quanto riguarda l’uscita flessibile, io i conti li ho già fatti, e vorrei che Renzi li discutesse con me: si può anticipare l’uscita fino a 4 anni, e chi esce paga uno scotto dell’8%. Il sistema costa allo Stato solo per i primi 4 anni, poi per i successivi 19 anni di aspettativa di vita media del pensionato rappresenta addirittura un risparmio. Per freelance e partite Iva proporrete delle soluzioni? Ci stiamo impegnando. Miriamo a bloccare i contributi al 27%, per poi farli scendere gradualmente fino al 24%. A portare il tetto dei regimi fiscali da 15 mila a 30 mila euro, con una aliquota sostitutiva unica del 5% per i primi 5 anni e poi del 15% dal sesto. E poi: deduzione totale per aggiornamento e formazione, accesso ad appalti e bandi europei. Infine, nuovi diritti, misurati su di loro, su maternità e malattia grave.


MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE 2015

il manifesto

INTERNAZIONALE

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LONDRA · Scotland Yard sospende la vigilanza davanti all’ambasciata dell’Ecuador dove si trova il fondatore di Wikileaks

Costa troppo sorvegliare Assange Geraldina Colotti

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a polizia britannica ha deciso di sospendere la sorveglianza permanente davanti all'ambasciata dell'Ecuador a Londra: costa troppo mantenere agenti in uniforme 24 ore su 24 per catturare Julian Assange, fondatore del sito Wikileaks. In tre anni – fa sapere Scotland Yard – sono stati spesi almeno 14,9 milioni di euro e non si può andare avanti a quel ritmo: tanto più che la vicenda non sembra potersi risolvere in tempi brevi. La vigilanza continuerà comunque, anche se in modo non visibile: e così pure i tentativi di arrestare Assange per estradarlo in Svezia, dov'è accusato di una presunta violenza sessuale che ha sempre negato, e che data del 2010. Ad agosto di

Dal 2012, il giornalista vive da prigioniero per evitare di essere estradato quest’anno, la magistratura svedese ha prosciolto l’attivista per alcune accuse minori, ma non per quella di stupro. Per ribadire la propria posizione, Londra ha nuovamente convocato l'ambasciatore ecuadoriano, esprimendogli «una volta di più» la «profonda delusione» per i tentativi sempre infruttuosi di farsi consegnare l'attivista. Assange si è rifugiato nella sede diplomatica il 19 giugno del 2012, dopo una complicata vicenda giudiziaria e un lungo processo. Sullo sfondo, lo scandalo internazionale del Cablogate. Il sito Wikileaks è balzato agli onori delle cronache tra luglio e ottobre del 2010,

LONDRA, L’AMBASCIATA DELL’ECUADOR PRESIDIATA. SOTTO, IL VERTICE DEI POPOLI IN BOLIVIA LA PRESSE

dopo aver pubblicato i documenti segreti del Pentagono, sottratti dal soldato Bradley Manning (oggi diventata Chelsea). Cablogrammi inerenti la guerra in Afghanistan (del 2001) e la seconda guerra all’Iraq, del 2003. Proprio le atrocità a cui aveva assistito in Iraq, spinsero il giovane soldato a divulgare le informazioni segrete - rifiutate da molti grandi giornali - e ad affrontare la corte marziale. Dopo quelle rivelazioni, dopo mesi di clamore sulla stampa e di imbarazzo delle diplomazie, Assange venne arrestato a Londra il 7 dicembre del 2010 per ordine della magistratura svedese: due donne lo

GUINEA CONAKRY · Tensioni dopo il primo turno

Presidenziali a Condé, gli sfidanti in rivolta me una «pietra miliare» per le loro «giovani istituzioni democratiituazione politicamente agiche». Soprattutto Engel auspicatata, in Guinea Conakry, a va che eventuali controversie fosdue giorni dal primo, contesero «portate davanti ai giudici e statissimo turno delle elezioni non nelle strade». La preoccupapresidenziali. In base al 70% delzione evidente è che proteste di le schede scrutinate, il presidenpiazza come quelle che l'opposite uscente Alpha Condé verrebzione minaccia in queste ore debe riconfermato con il 53% delle generino in violenze. È già accapreferenze. Il risultato definitivo duto a più riprese durante la verrà reso noto solo nei prossimi campagna elettorale, con scontri giorni, ma già prima che iniziassanguinosi che hanno lasciato a se lo scrutinio l'opposizione griterra numerose vittime. dava alla frode e chiedeva l'an«Non riconosceremo mai un rinullamento del voto. Resta quinsultato da queste urne», ha tuodi da capire se quella di domeninato il 63enne economista Celca sia stata una torlou Dalein Diallo, nata elettorale casconfitto Onu e Ue avallano principale ratterizzata da nel caso in cui Con«qualche difficoltà» dé venisse riconferla tesi del voto ma sostanzialmenmato presidente. regolare. E ora In una conferenza te regolare, come afferma la Commis- temono il ricorso stampa congiunta sione elettorale incon gli altri sei canalla piazza dipendente (Ceni), didati, ieri a Coo se invece sia stata nakry, Diallo ha geinficiata da «brogli massicci», colato le aspettative promettendo me denunciano i sette candidati «una grande mobilitazione». E avversari di Alpha Condé. anche l’ex primo ministro Sidya La comunità internazionale Touré ha disatteso le speranze di sembrerebbe propendere per la Onu e Ue affermando che «c’è prima ipotesi. Già lunedì il segrepoco da fare ricorso, la giustizia e tario generale dell'Onu Ban il Ceni purtroppo non sono istituKi-moon si era felicitato per il zioni indipendenti». Il suo parti«clima pacifico» in cui si era svolto, l’Unione delle forze repubblito il primo turno e l'Unione eurocane (Ufr), annuncia di volersi ripea aveva fatto altrettanto. Il portirare dal processo elettorale. tavoce dei circa seimila osservaÈ la seconda volta dalla proclatori internazionali dispiegati nel mazione dell’Indipendenza nel paese ieri ha parlato di «irregola1958 che si votava in Guinea. Nel rità di piccola importanza». E il 2010 vinse appunto il suo primo giorno precedente il capo della mandato Alpha Condé, dopo missione Ue, il lussemburghese una lunga reggenza militare seFrank Engel, aveva sì criticato guita a un golpe. Condé, oggi l'«impreparazione» della Com77enne, vanta buone relazioni inmissione elettorale, ma al conternazionali e una credibilità in tempo si era augurato che i guicrescita per il modo in cui ha geneani ricordassero la giornata costito l’emergenza Ebola. Gina Musso

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accusavano di aver avuto una relazione sessuale senza protezione. Il processo durò fino al 30 maggio del 2012, quando la Corte suprema britannica accettò la domanda di estradizione. Allora, Assange si rifugiò nell’ambasciata ecuadoriana. Più tardi, la sua vicenda si è incontrata con quella di Edward Snowden, la fonte del Datagate, che ha portato in luce il grande scandalo delle intercettazioni ille-

gali messo in atto a livello planetario dalle agenzie per la sicurezza Usa. Snowden venne difeso dall’avvocato di Wikileaks, ed è tutt’ora rifugiato in Russia per evitare di subire la stessa sorte di Manning, se non peggio. Anche in quel caso, l’Ecuador si era dimostrato disponibile ad accogliere Snowden come ulteriore gesto di indipendenza e di sovranità nei confronti dell’arrogante Nordamerica. Le rivelazioni di

Snowden riguardavano da vicino il campo progressista che governa gran parte del continente latinoamericano, spiato dagli Usa fino ai massimi livelli. Da allora, sia Snowden che Assange intervengono via internet nei grandi convegni internazionali per ricordare al mondo quali dinamiche si celino dietro alleanze di guerra e piani geopolitici. In questi giorni, è uscito il libro di Assange The Wikileaks Files: The World According to U. S. Empire. Sugli oltre 250.000 cablogrammi segreti, che rivelano le magagne della diplomazia Usa, quasi

GIAPPONE

L’attivista rivela in un libro i piani di Washington contro «il pericolo bolivariano»

Le elezioni in Myanmar si terranno come stabilito. E come auspicato dalla Lega nazionale per la democrazia (Nld), il partito di Aung San Suu Kyi (nella foto), dato per favorito. Nel pomeriggio la commissione elettorale aveva proposto il rinvio del voto a causa per le alluvioni che hanno colpito il Paese negli ultimi giorni. Incassando il parere negativo dell’Ndl e quello favorevole del Partito dello svilup-

35.000 riguardano l’America latina. Commentandoli in dettaglio, Assange mostra l’ossessione Usa per «il pericolo bolivariano», in crescendo da quando, nel 1998, il Venezuela ha votato per Hugo Chavez. Da allora, i piani del Pentagono e delle sue agenzie per far cadere il governo venezuelano dal golpe del 2002 in avanti - si sono estesi agli altri presidenti progressisti dell’America latina, eletti dopo di lui. Contro i governi di sinistra - dall’Ecuador alla Bolivia al Nicaragua - Washington ha impiegato e impiega grandi risorse. E i personaggi di cui si serve oggi in Venezuela, sono in gran parte gli stessi.

Bolivia/ IL SECONDO VERTICE DEI POPOLI SULL’AMBIENTE

Da Cochabamba a Parigi, 10 punti contro il cambiamento climatico

Il rifiuto di Okinawa alla nuova base Usa Il governatore di Okinawa, Takeshi Onaga, ha annunciato la revoca dell’autorizzazione a costruire una nuova base militare a Nago City sull'isola, che già ospita il 74% delle forze militari americane in Giappone. Tokyo presenterà ricorso.

ELEZIONI IN MYANMAR

Rinvio, anzi no Si vota l’8 novembre

po (Usdp), espressione della giunta militare al potere. In serata lo stesso organo ha invece confermato la data dell’8 novembre. Il movimento di Suu Kyi potrebbe però non raggiungere la maggioranza assoluta. Un movimento di monaci buddisti, in prima linea nel clima di intolleranza anti-musulmana che si è diffuso nel Paese, ha garantito appoggio al premier Thein Sein e accusato l'Nld di simpatie filo-islamiche.

Ge. Co.

TUNISIA/1

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Pastore e due soldati uccisi dai jihadisti

sorse alla macchina militare - chiedono i movimenti - «invece di sprecare soldi nelle guerre, ce li diano ochabamba, in Bolivia, ha ospitato il II Vertiper proteggere l’ambiente». E per questo, centrale è ce dei popoli sul cambiamento climatico. la difesa dei beni comuni e la costituzione di un TriDieci punti hanno articolato le proposte che bunale internazionale sulla giustizia climatica e la i movimenti intendono portare alla Cop 21, la ConMadre terra. Un progettoche mira a «decolonizzaferenza delle Nazioni unite sul tema, che si svolgerà re» le risorse naturali e le visioni che considerano i a Parigi dal 30 novembre all’11 dicembre. Il presipopoli del sud come «guardiaboschi» dei paesi del dente boliviano Evo Morales le ha consegnate al senord. gretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon durante la «No all’aumento del debito estero, no all’impunicerimonia di chiusura, nella giornata mondiale dei tà dei ricchi e delle multinazionali - ha detto il minipopoli indigeni. Il documento ha portato a sintesi il stro degli Esteri cubano, Bruno Rodriguez, e ha aclavoro di 12 tavoli di lavoro a cui hanno partecipato cusato i paesi capitalisti che «impongono livelli di delegati dei cinque continenti. Al centro, la richieproduzione e consumo insostenibili». Dello stesso sta di giustizia ambientale, che verrà sollevata a Patenore l’intervento della delegazione cilena, che ha rigi dai presidenti socialisti denunciato «il riformismo dell’America latina presenti che continua a legittimare il al vertice dei popoli: il camcapitalismo». Al Vertice dei biamento climatico - hanpopoli è arrivato anche il mesno ribaditotutti - è una consaggio dell’ex presidente uruseguenza del capitalismo, e guayano Pepe Mujica che ha le grandi potenze devono invitato a voltare pagina e a assumersi le proprie responispirarsi al modo in cui i poposabilità. li indigeni proteggono la terra «I grandi inquinatori - ha per preservare la vita delle detto il presidente ecuadoriaprossime generazioni. no Rafael Correa - devono ri«Solo con la coscienza dei conoscere il danno provocapopoli sarà possibile salvare il to ai nostri paesi, perché venpianeta», ha detto il presidenga quantificato e i paesi ricte venezuelano Nicolas Maduchi paghino il debito ecologiro e si è impegnato a garantico contratto: bisogna evitare re che la Cop21 «sia il vertice Dai cinque continenti, che aumenti perché altrimendei popoli organizzati». Il suo ti saremo tutti poveri. Tutti omologo boliviano ha affermovimenti e associazioni ha aggiunto Correa - siamo mato: «Il pianeta ha un limite hanno consegnato a responsabili e dobbiamo prodi sopportazione e lo stiamo teggere il pianeta, ma ci sono raggiungendo. Ogni tre minuBan Ki-moon una persone più responsabili per ti muoiono 10 persone a cauproposta per il buen vivir la contaminazione del suosa delle malattie legate alla lo». Le multinazionali che incontaminazione dell’acqua. E quinano, devono pagare: «Immaginate cosa succecon l’aumento della temperatura della terra di due derebbe - ha detto ancora Correa - se i grandi inquigradi centigradi, moriranno 10 persone al minuto». natori fossero Bolivia, Ecuador, Venezuela e gli Usa Ma quanto peserà la voce dei movimenti e delle possedessero l’Amazzonia: da tempo ci avrebbero assoziazioni alla Cop21? «Non possiamo illuderciinvaso. Invece, se una multinazionale distrugge la che il nostro discorso di merito trovi soluzione al natura non va in carcere. Si tratta di un problema vertice di Parigi», ha detto il sindaco di Bogotà, Gupolitico. Gli Stati uniti devono firmare il protocollo stavo Petro, delegato per la Colombia. E ha aggiundi Kyoto». to: «Abbiamo proprio bisogno del discorso politicaAl primo punto, il documento di Cochabamba mente corretto dell’Onu? Meglio sarebbe convocapone la necessità di adottare un nuovo modello glore a Parigi le moltitudini dell’Europa, dell’Africa, bale di civiltà: senza consumismo, corsa alla guerra, dell’Asia e rilanciare una nuova comune come quelmercantilismo e capitalismo, ma proiettato verso la la di Parigi in cui è nata la parola socialismo. Oggi è costruzione e il consolidamento di un ordine moncominciata una nuova era e a Parigi può esserci diale basato sul «buen vivir». Invece di destinare riuna nuova opportunità».

Ritrovato dall’esercito il corpo senza vita di un pastore rapito da un gruppo di terroristi nella zona militarizzata del monte Semmama, vicino Kasserine. L'organizzazione terroristica Uqba bin Nafi aveva annunciato la sua esecuzione su Twitter lanciando un avvertimento a pastori e guardie forestali di non collaborare più con le forze dell'ordine. In scontri armati sul monte Semmama due soldati tunisini sono morti e 4 sono rimasti feriti.

TUNISIA/2

Tensione a Sabratha, al confine con la Libia Tensione, rientrata in serata, ieri, tra il governo di Tunisi e le milizie libiche di Tripoli. Al centro della vicenda: alcune decine di lavoratori tunisini trattenuti nella città libica di Sabratha, al confine, come rappresaglia o un tentativo di scambio dopo l’arresto, il 10 ottobre, del responsabile del Consiglio municipale di Sabratha, Houcine Dhaouadi, a Tunisi. La notizia, data dall’agenzia turca Anadolu, è seguita in serata all’annuncio della liberazione dei lavoratori tunisini della tv di Tripoli. Nessuna conferma dell’intera vicenda da Tunisi.

ALGERIA

Capo islamista in onda Chiusa la tv El Watan Il governo algerino ha ordinato la chiusura della tv privata El Watan per aver mandato in onda una dichiarazione contro il presidente Abdelaziz Bouteflika del leader islamista, Madani Mezrag, capo dell'Armèe islamique du salut (Ais), vecchio braccio armato del dissolto Fis.


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il manifesto

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STRAGE DI STATO

TURCHIA · In piazza contro il governo, secondo giorno di sciopero generale dopo il massacro di Ankara

«Noi conosciamo il nome dell’assassino» Giuseppe Acconcia

M

arce e sit-in - tutte con i cartelli con su scritto: «Noi conosciamo il nome dell’assassino» - hanno accompagnato il secondo giorno di sciopero generale, indetto da sindacati e ordini professionali in Turchia. A tre giorni dal doppio attentato contro i pacifisti presso la stazione di Ankara che ha causato 97 vittime, altri 53 feriti sono in condizioni davvero critiche, secondo il ministero della Salute. Nonostante i divieti delle forze di sicurezza, una delle marce che si è tenuta ad Istanbul è stata attaccata dalla polizia. Le forze dell’ordine hanno impedito ai manifestanti di seguire il percorso del corteo e raggiungere il luogo dell’iniziativa. Ieri mattina, molti contestatori sono stati fermati mentre stavano per salire sul traghetto Kadikoy-Eminonu che unisce la parte asiatica a quella europea della città. Poliziotti in borghese sono stati ripresi mentre strattonavano i manifestanti. Il condirettore dell’Ordine degli architetti e un esponente della Piattaforma di solidarietà con Taksim hanno reagito all’attacco della polizia. Altri cortei si sono svolti a Cerrahpasa (vicino alla Facoltà di medicina) e Sirkeci, in due strade del quartiere di Fatih verso piazza Beyazit. Anche durante queste marce alcuni manifestanti sono stati arrestati dalla polizia. 1500 persone sono rimaste bloccate nel cortile dell’Ospedale della facoltà di Medicina. Anche nel corteo di Sirkeci, trenta uomini delle forze di sicurezza in borghese, insieme a squadre della polizia anti-sommossa, hanno circondato i contestatori che gridavano: «Erdogan assassino!», «Siamo in lutto, protesta e sciopero». Numerose proteste contro il massacro di Ankara si sono svolte a Izmir, seconda città del paese, Malatya e Adana nel Sud-est. Qui la polizia ha usato ripetutamente gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti. Ad Antalya un gruppo di trenta avvocati è stato brutalmente attaccato. 150 persone sono

SOPRA E ADESTRA, PROTESTE AD ANKARA. SOTTO, TENSIONE A ISTANBUL FOTO LAPRESSE

Davutoglu: abbiamo una lista di 16 kamikaze ma non possiamo arrestarli accorse per fermare la violenza della polizia che ha disperso la folla. Tra le mille polemiche per il lancio di lacrimogeni sui feriti, subito dopo l’attentato, da parte delle forze di sicurezza, il premier ad interim Ahmet Davutoglu starebbe per annunciare i nomi dei kamikaze di Ankara. Il leader Akp ha rivelato di avere anche tra le mani una lista di sedici sospetti kamikaze, tenuti sotto stretto controllo, contro cui non può però intervenire per le vie legali se non quando abbiano tentato di commettere un attentato suicida. «Se li arrestassimo prima che entrano in azione ci sarebbero ritorsioni», ha denunciato il premier. I kemalisti di Kilicdaroglu non hanno gradito l’annuncio. E han-

GUERRA ALL’ISIS, IN SIRIA QAEDISTI IN SCACCO

Offensiva irachena con il sostegno russo

S

i apre una nuova fase nella battaglia di Baghdad contro lo Stato Islamico, stavolta sotto l’ala russa e non Usa. Ieri il premier al-Abadi ha annunciato il via ad un’operazione militare nella provincia di Salah-a-din, parzialmente occupata dai miliziani dell’Isis. A sostenere le truppe via terra ci sarà l’aviazione, guidata dal centro direzionale di Baghdad inaugurato da russi, iraniani e siriani. Mosca compie il primo passo dentro l’Iraq, a cui potrebbe seguire l’intervento dell’aviazione, preventivata proprio dal governo iracheno. Secondo Hakim al-Zamili, capo del comitato parlamentare della Difesa, il bombardamento di un convoglio Isis (che si pensava trasportasse il “califfo” al-Baghdadi) è stato possibile grazie alle informazioni dell’intelligence russa al centro direzionale congiunto. Dall’altra parte del confine, in Siria, l’ingombrante presenza russa provoca le prime conseguenze sul campo di battaglia: ieri due colpi di mortaio sono caduti fuori dall’ambasciata di Mosca a Damasco dove si erano radunati centinaia di siriani a sostegno dell’intervento russo. E se i ribelli moderati scompaiono gradualmente dalla scena, a pagare il prezzo più salato dei raid russi è al-Nusra, molto più colpito dell’Isis perché la priorità, per Damasco, è liberare dalla presenza qaedista le zone costiere e nord-occidentali, per poi spingersi verso il califfato, a est. Ieri il leader del Fronte al-Nusra, al-Jolani, in un messaggio audio, ha posto una taglia di tre milioni di dollari sulla testa di Assad e una di due milioni su quella del leader di Hezbollah, Nasrallah. Ha poi promesso nuovi attacchi contro le forze governative «per fermare il piano di stabilire uno Stato alawita dal sud di Damasco a Latakia». (ch. cru.)

Colpi di mortaio sull’ambasciata russa a Damasco per colpire raduno di pro-Assad

no chiesto l’avvio di procedimenti legali contro i sospetti terroristi. Chp ha fatto appello alla magistratura perché intervenga. Anche il numero due del partito nazionalista (Mhp), Oktay Vural, ha chiesto spiegazioni al governo sul mancato intervento per prevenire attentati kamikaze arrestando i sospetti. «È irragionevole che lo stato possa arrestare i giornalisti sospetti e non i terroristi», ha aggiunto. In vista del voto del primo novembre, continuano le polemiche sulla ridistribuzione dei collegi elettorali nelle aree dove vige il coprifuoco e ci sono pericoli consistenti di incolumità dei cittadini. La Commissione elettorale (Ysk) aveva rifiutato lo spostamento di due seggi a Sirnak che sono però stati ugual-

mente riallocati. Questo potrebbe creare gravi disagi nell’espletamento del diritto di voto per gli elettori kurdi. Le polemiche sono scoppiate in particolare perché a Cizre, città per nove giorni sotto assedio da parte delle forze di sicurezza turche, e roccaforte della sinistra filo-kurda (Hdp), non sarà allestito nessun seggio nei quartieri di Cudi, Nur e Sur. Simili decisioni sono state prese nei seggi di Hakkari, Silopi e Sirnak. Proprio ad Hakkari, dodici affiliati del Partito di Ocalan (Pkk) sono stati uccisi dalle forze di sicurezza in raid dell’aviazione turca al confine con Iran e Iraq. Le ragioni sono sempre legate a possibili attacchi dinamitardi durante il voto. La questione non sembra preoccupare i rappresentanti locali del Partito della pace e della Democrazia (Bdp), espressione amministrativa di Hdp, che contano sulla capacità di mobilitazione dei kurdi che il 7 giugno scorso si sono recati alle urne nonostante i gravi attentati di Diyarbakir. Anche i feriti avevano deciso in quell’occasione di andare a votare fasciati o in barella. Infine, molti esponenti della sinistra turca hanno criticato l’accordo discusso da Erdogan a Bruxelles con Unione europea e governo tedesco per contenere la crisi dei rifugiati siriani. L’intesa con la Turchia (considerato un paese di approdo «sicuro» per i rifugiati secondo il testo dell’accordo) prevede procedure facilitate dei visti per i turchi che vogliano raggiungere l’Europea ma in realtà impedisce la mobilità ai rifugiati siriani, per la maggioranza kurdi, che resterebbero bloccati in Turchia in immensi centri di detenzione.

INTERVISTA · Sami Zubaida: «Usa sprovveduti»

«Erdogan tra golpe e governo di coalizione» Giuseppe Acconcia

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bbiamo raggiunto al telefono a Londra uno dei più importanti storici del Medio oriente, l’iracheno Sami Zubaida, esperto dell’Università di Birkbeck di Turchia e kurdi. È autore di testi importanti per lo studio dei meccanismi di funzionamento dello stato in Medio oriente, tra questi citiamo Islam, il popolo e lo stato: idee politiche e movimenti. Dopo i gravi attentati di Ankara. Qual è la strategia di Erdogan in vista del voto del primo novembre? Colpire i kurdi in termini elettorali galvanizza i nazionalisti turchi e potrebbe far aumentare i voti del partito di Erdogan (Akp). Questa strategia sta sfuggendo di mano e potrebbe non funzionare. Il Partito democratico dei Popoli (Hdp) potrebbe mostrarsi come vittima del terrorismo di stato. Non bisogna mai sottostimare però il sentimento anti-kurdo tra i nazionalisti turchi contrari a qualsiasi tipo di separazione o autonomia dei kurdi. Queste esplosioni non diminuiscono il sentimento anti-kurdo nell’elettorato nazionalista. Negli anni passati anche la sinistra nazionalista ha sedimentato un sentimento anti-kurdo. E così il nazionalismo turco è anti-kurdo anche a sinistra e vede nella forza di Hdp una minaccia all’unità territoriale turca.

DIYARBAKIR · La popolazione ormai in mobilitazione permanente

Il Kurdistan turco sotto assedio Valentina Quitadamo DIYARBAKIR

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ella notte di lunedì a Diyarbakir è circolata la voce della fine del coprifuoco, dichiarato ormai da quattro giorni nel capoluogo del Bakur, il Kurdistan settentrionale, sottoposto al controllo turco. Le notizie in questo senso si sono rincorse per tutta la giornata. Ieri mattina appariva chiaro che la fine del blocco di polizia ed esercito nel quartiere centrale di Sur era limitato all’accesso in città, la Porta della Montagna. In una settimana tre cortei sono arrivati fin qui, nelle immediate vicinanze delle millenarie mura nere in basalto patrimonio dell’Unesco, provando a sfidare il coprifuoco e denunciando nel contempo le responsabilità del governo nella strage di Ankara. «Katil Erdogan» («Erdogan assassino») è stato infatti uno degli slogan più gridati e non sono mancate canzoni di resistenza partigiana kurda che si sono alzate dalla piazza e nei momenti di silenzio del corteo. Gli scontri della giornata di ieri sono proseguiti da dopo l’arrivo del corteo, alle porte della città vecchia, per tutta la notte. Una eco di scoppi in lontananza ha ricordato la guerra continua che sta investendo la città e il Kurdistan: una guerra tra Kurdistan e governo turco. Blindati pattugliano le strade, carri armati nelle zone del coprifuoco sparano sulle abitazioni, le forze speciali interven-

gono con l’obiettivo di uccidere civili, cecchini sono appostati sui tetti degli edifici più alti, strategici per poter colpire gli abitanti dai vecchi ai bambini che girano per le strade del loro quartiere. Sono un centinaio i fermi di questi giorni tra cui un reporter di Reuters, strattonato in piazza, e altri stranieri rilasciati in nottata. La denuncia più forte che la popolazione civile ha urlato in questi giorni in manifestazioni, sit-in e conferenze stampa è sulle responsabilità del governo turco. La cosa più impressionante però è l’assoluta assenza di bandiere di partito, come segno di lutto. «Non ce n’è bisogno», ci hanno detto le persone in strada. In altre parole, il popolo kurdo è uno e difende le stesse ragioni. Anche ieri si sono verificati scontri diffusi nelle zone di Kosuyolu Parki, Ofis, Baglar e Sur. In quest’ultimo ancora non è chiaro - per l’impossibilità delle comunicazioni a causa del durissimo coprifuoco – stabilire il numero delle vittime. Spostandosi per le vie delle città,

l’odore acre e il fastidioso fumo, invisibile agli occhi, dei lacrimogeni, sono stati per ore una costante. Passeggiando per le strade, capita di sentire detonazioni di granate, che ben presto persone comuni hanno imparato a riconoscere e distinguere; nonostante questo, ad ogni colpo, per un attimo, le teste si girano insieme, per provare ad indovinare la direzione degli spari. Attraversando il quartiere di Ofis, siamo passati dal punto di ritrovo degli studenti ai molti condomini-fortino delle forze di polizia e di sicurezza che il governo ha edificato in alcuni punti della città. Non è stato difficile notare l’accerchiamento da parte della polizia al palazzo del Dtk (Congresso democratico del Popolo) dove 501 esponenti di cooperative, centri culturali, case del popolo, non riconosciuti dallo stato, si ritrovano in un’assemblea che discute e traduce in pratica i principi dell’autonomia democratica di Ocalan. La polizia non permette l’accesso al palazzo e un assembramento di protesta fuori viene presto caricato con lacrimogeni. Gli occhi bruciano, le narici cominciano a chiudersi, i mezzi della polizia girano con il portellone aperto e il mitra spianato. Qui sembra che le persone non ci facciano più caso, ma scambiando poche parole con loro è chiaro che invece i kurdi vogliono un altro modo di vivere. I kurdi si sono già messi in marcia. rojavaresiste.noblogs.org

Chi sono i veri responsabili degli attentati di Ankara: elementi di Akp con lo stato profondo (inclusi i Servizi segreti)? È possibile. La sola certezza fin qui è che si sia trattato di un attentato suicida. Se fosse completa responsabilità dello Stato islamico (Isis) ci sarebbe già stata una rivendicazione. D’altra parte, è possibile che si sia trattato di un’azione congiunta delle forze di sicurezza e dello stato profondo. Eppure non è credibile che questi elementi colpiscano loro stessi come è avvenuto ad Ankara. A mio avviso, le responsabilità devono essere ricercate tra gli islamisti turchi. Come nelle sparatorie di Diyarbakir dello scorso giugno potrebbe essere responsabilità degli Hezbollah kurdi? Gli Hezbollah kurdi sono fortemente contrari a Pkk e Hdp. Sono anni che assassinano e attaccano kurdi laici e di sinistra. Se lo stato profondo e Akp sono coinvolti in questo attentato, lo hanno organizzato in cooperazione con islamisti radicali, come Hezbollah. Non avrebbero potuto fare da soli. Questi attacchi potrebbero rafforzare la base elettorale di Hdp in vista del voto? Ormai Hdp è diventato il rifugio per ogni turco laico, liberale e di sinistra, contrario ad Erdogan. I kurdi conservatori che prima votavano per Akp ora votano per Hdp. Una parte centrale del voto che ha permesso la vittoria elettorale (del partito filo-kurdo, ndr) il 7 giugno scorso è venuto dai conservatori. Quale è lo scenario in caso di sconfitta di Erdogan? Lo scenario possibile oscilla tra un colpo di stato e un governo di coalizione. Akp sarà sempre il primo partito turco e non potrà certo stare fuori dal governo. Il partito di Erdogan dovrà trovare un accordo con i kemalisti (Chp) e i nazionalisti (Mhp) per formare un nuovo governo, soprattutto in un contesto di così alta tensione politica. Che ruolo avrà il Pkk che ha dichiarato il cessate il fuoco? C’è un disaccordo tra i leader del Pkk in merito a cosa fare in questa fase. Il gravissimo attentato di Suruç ha dato un pretesto a Erdogan per attaccarli. Questo ha provocato una grave spaccatura nella leadership del partito. C’è una relazione tra la guerra civile siriana e gli attentati? L’intervento russo in Siria preoccupa moltissimo i turchi perché sta azzerando il loro piano di stabilire una zona di controllo in Siria dove operare liberamente. Le autorità turche continuano a combattere contro i kurdi perché il Pkk vuole arrivare a controllare il confine tra Turchia e Siria. Come stanno agendo gli Usa? Gli Stati uniti non hanno una politica coerente in Medio oriente: reagiscono agli eventi. Pare ci sia un tacito accordo tra Washington e Mosca che va contro gli interessi turchi. Gli Stati uniti appoggiano la Turchia attraverso la Nato. Anche Washington ora sa che le cose non possono andare avanti così e cerca una soluzione politica temporanea per unire gli sforzi contro Isis. La Turchia può aggiungersi alla lista degli stati falliti, come Siria e Libia? No, la tradizione statale e le istituzioni turche sono forti. Non esiste nessuna possibilità remota di fallimento dello stato turco. La Turchia non è la Siria.


MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE 2015

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ISRAELE/PALESTINA

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«Le continue provocazioni del governo israeliano, la colonizzazione e la fine dell’illusione del processo di pace, sono le ragioni della nuova rivolta» HEBRON, RAGAZZE PALESTINESI PARTECIPANO AGLI SCONTRI SOPRA, SOLDATI ISRAELIANI. FOTO REUTERS

INTERVISTA · Michel Warschawski: «La condizione peggiore è quella dei palestinesi di Gerusalemme»

«Tutta questa violenza è figlia di Netanyahu» Michele Giorgio GERUSALEMME

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er il primo ministro Netanyahu l’escalation di attacchi palestinesi è soltanto una nuova campagna terroristica lanciata per odio nei confronti degli ebrei e non avrebbe legami con le politiche di Israele nei Territori occupati e a Gerusalemme. A contestare questa tesi non sono soltanto i palestinesi – il segretario dell’Olp Saeb Erekat ieri ha addossato tutte le responsabilità alle «politiche israeliane di occupazione, delle colonie e di Apartheid» ma anche alcuni intellettuali ebrei come il saggista Michel Warschawski, più noto in Israele come Mikado. Lo abbiamo intervistato ieri a Gerusalemme. Per molti leader politici israeliani, a cominciare dal primo ministro, questo conflitto non ha radici che scendono profonde negli anni passati. Come se fosse sorto appena qualche giorno fa... Tante persone, anche all’estero, hanno la memoria corta. La violenza palestinese alla quale assistiamo da qualche giorno a questa parte non è fine a se stessa, immotivata, come cercano di far passare i leader israeliani. Piuttosto è il risultato di qualcosa di profondo. Perchè è divampata adesso? Le ragioni sono soprattutto due. La prima è che è terminato il tempo che la popolazione palestinese aveva messo a disposizione del presidente dell’Anp Abu Mazen per negoziare e raggiungere un accordo con Israele. Credo che i palestinesi, incluso Abu Mazen, abbiano compreso che non c’è alcun partner israeliano che voglia negoziare sul serio e non solo portare avanti trattative senza futuro. Siamo alla fine dell’illusione del cosiddetto processo di pace. La seconda ragione è la lunga serie di gravi provocazioni compiute dal governo israeliano a danno dei palestinesi, a partire da quella avvenuta sulla Spianata

delle moschee di al Aqsa, senza dimenticare la continua espansione delle colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme. Se mettiamo insieme queste provocazioni con la fine dell’illusione del processo di pace, si ottiene la reazione vista in questi ultimi giorni, che è stata spontanea. Netanyahu ripete che il suo governo non modificherà lo status quo della Spianata delle moschee. I palestinesi e il mondo islamico non gli credono. Le provocazioni compiute da organizzazioni e gruppi che, spesso appoggiati da ministri e deputati, cercano di imporre la sovra-

nità israeliana ed ebraica sulla Spianata hanno contribuito ad innescare questa Intifada. Su questo non ci sono dubbi. Non dimentichiamo anche i continui raid della polizia in quel sito sacro per i musulmani di tutto il mondo, che hanno generato sdegno persino tra i palestinesi cristiani. Se queste provocazioni sulla Spianata delle Moschee non cesseranno, ogni scenario sarà possibile. Per questo motivo persino un leader arabo moderato come re Abdallah di Giordania è intervenuto con forza su Netanyahu per dirgli di mettere fine alle violazioni sulla Spianata che

possono creare una valanga devastante. Dati diffusi nelle ultime ore dicono che l’80% degli attacchi avvenuti a Gerusalemme nelle ultime due settimane sono stati compiuti da giovani palestinesi residenti nella città. Cos’è Gerusalemme oggi per un palestinese? È la situazione peggiore in cui un palestinese che possa vivere dopo Hebron (città della Cisgiordania meridionale divisa in due, ndr). Se da un lato l’annessione unilaterale a Israele della zona araba della città (occupata militarmente nel 1967, ndr) ha dato

alcuni benifici ai palestinesi che vi abitano, come l’assistenza sanitaria israeliana, dall’altro più di una generazione di palestinesi di Gerusalemme ha dovuto sopportare un’aggressione incessante nei loro quartieri, finalizzata a isolare le aree arabe e a circondarle di colonie israeliane. Con l’obiettivo di rendere Gerusalemme una città solo israeliana. I palestinesi (di Gerusalemme) sono al centro di questi piani e, allo stesso tempo, sono isolati dal resto della Cisgiordania a causa del Muro di divisione costruito da Israele tra la città santa e i Territori occupati. Il silenzio della sinistra israeliana è assordante. Se parliamo del Partito laburista e di Peace Now, possiamo affermare con assoluta certezza che non esistono più, sono svaniti nel nulla. Pensate, Yitzhak Herzog, leader di quel partito che si fa chiamare ancora laburista, è impegnato in una gara a destra con Netanyahu. Sostiene che il primo ministro sia incapace a «fermare il terrorismo e riportare la calma nel Paese». Quella che un tempo era nota come la sinistra moderata nei fatti non esiste più. Certo, c’è sempre la sinistra radicale ma riesce a mobilitare soltanto alcune centinaia delle migliaia di persone che un tempo si vedevano alle sue manifestazioni. Perchè il mondo, soprattutto quello occidentale, non comprende e non appoggia più le aspirazioni dei palestinesi? Esiste una differenza tra l’opinione pubblica internazionale e la cosiddetta comunità interna-

zionale. La prima contesta le politiche del governo israeliano ed è largamente impegnata a favore di una soluzione per questa terra fondata sulla giustizia e i diritti. La comunità internazionale, composta da governi ed istituzioni ufficiali, è fortemente condizionata da Benyamin Netanyahu. Fa i conti con un premier e il suo governo che senza problemi fanno capire che non terranno conto dell’opinione degli stranieri e che continueranno certe politiche. Il mondo dovrebbe sfidare, mettere in discussione questo atteggiamento del governo Netanyahu, invece non lo fa e si accontenta di pensare che in fin dei conti Israele è una roccaforte di stabilità in una regione in crisi, dove agiscono movimenti estremisti come l’Isis. Netanyahu lo sa, punta la sua politica estera proprio sui timori degli occidentali e, anche grazie a questo, riesce a tenerli dalla sua parte.

MICHEL WARSCHAWSKI

INTIFADA · Attacchi con vittime da entrambe le parti e scontri. Tel Aviv accusa l’Anp: «Ha perso il diritto ad esistere»

Coltelli, bugie e paranoia. Tornano le «punizioni collettive» Chiara Cruciati BETLEMME

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a mattinata di violenze che ha insanguinato Gerusalemme getta benzina sul fuoco del conflitto. Ieri, sull’onda degli attacchi nella Città Santa, il premier Netanyahu ha annunciato «misure aggressive»: esercito nei centri città, quartieri palestinesi di Gerusalemme Est circondati da forze di sicurezza, demolizione delle case dei responsabili di attacchi entro pochi giorni e ritiro del diritto alla residenza (i palestinesi di Gerusalemme non sono considerati cittadini israeliani) alla famiglia dell’aggressore. Misure, queste ultime, vietate dal diritto internazionale perché forme di punizione collettiva e subito messe in pratica: ordini di demolizione sono stati spiccati contro le case di cinque palestinesi responsabili di attacchi nei giorni scorsi. Ma Netanyahu guarda oltre: il prezzo degli attacchi non sarà pagato solo «dai terroristi», ma anche dai complici, da «chi li incita». Ovvero l’Autorità nazionale palestinese (Anp). Il premier punta il dito sul presidente Abbas: «Basta dire bugie, basta istigare», ha tuonato prendendosela con una leadership debolissima, in silenzio da giorni, lontanissima dalla base. Fuori intanto è guerra: ieri due palestinesi, Bilal Ghanen di 23 anni e Baha Elayyan di 22 sono entrati in un autobus israeliano nel quartiere di Armon Hanatziv a Gerusalemme. Brandendo un coltello e una pistola hanno ferito 10 israeliani e ucciso un uomo di 60 anni e una donna di 45. L’intervento della polizia li ha fermati: sono morti sotto i colpi degli agenti. Poco prima un 50enne palestinese, Alaa Abu Jamal, ha investito con l’auto il 60enne israeliano Yeshayahu Kirshavski, uccidendolo. Mentre tentava la fuga è stato colpito da una guardia privata ed è morto. Nel pomeriggio un quarto palestinese è stato ucci-

Due israeliani uccisi e dieci feriti in un bus a Gerusalemme. Morti anche gli attentatori. Vademecum dei palestinesi per evitare le aggressioni «preventive»

so a Betlemme dall’esercito israeliano: Moataz Zawahre, 27 anni, del campo profughi di Dheisheh è stato centrato al petto da una pallottola. Netanyahu ha bisogno di mostrare il pugno di ferro, punzecchiato da ogni seggio della Knesset e dai colleghi di governo: il ministro della Pubblica Sicurezza Erdan ha proposto la semplificazione delle procedure per poter ottenere licenze di porto d’armi, così da militarizzare ulteriormente i civili, mentre la vice ministro degli Esteri Hotolevy ha chiesto il blocco dei fondi all’Anp, colpevole – se-

condo Tel Aviv – di aver ordito gli attacchi tanto da «aver perso il diritto di esistere». Non tacciono le opposizioni: il leader laburista Herzog ha suggerito «un’aggressiva guerra militare, la chiusura del Monte del Tempio e dei quartieri palestinesi di Gerusalemme»; e l’ex ministro degli Esteri Lieberman ha proposto la reintroduzione del governo militare nel Triangolo (zona abitata per lo più da palestinesi israeliani) e nella Città Santa, come fu nel decennio successivo al 1948. Non sono mancati scontri in Cisgiordania e a Gaza: proteste a Betlemme, Qalandiya e nella Striscia dove 200 manifestanti hanno marciato verso il valico di Erez. I soldati hanno aperto il fuoco ferendone 5. Nelle stesse ore 20mila palestinesi scendevano in piazza a Sakhnin, città araba in Israele, a difesa di al-Aqsa e Gerusalemme. A preoccupare è anche la reazione della base israeliana, preda di una paranoia esplosiva. Ieri si sono ripetute aggressioni contro palestinesi, da Haifa a Tel Aviv, con gruppi di israeliani che convinti di aver di fronte potenziali aggressori hanno picchiato per primi. Ieri a Kiryat Ata un israeliano ebreo è stato ferito in un accoltellamento perpetrato da un altro israeliano, convinto che la sua vittima fosse un palestinese. Una caccia alle streghe giustificata dalla paura che il governo ha coltivato. Si gira armati pronti a farsi "giustizia" preventiva: aggressioni nei villaggi palestinesi in Cisgiordania e tentativi di linciaggio in Israele. Un’atmosfera che ha spinto gruppi palestinesi a pubblicare vademecum per evitare di essere aggrediti: non mettete le mani in tasca, fermatevi subito se ordinato da agenti, non indossate giacche. Nel silenzio assordante della politica, il popolo palestinese è solo, incapace di fronteggiare la disperazione di chi si fa ammazzare pur di compiere un accoltellamento. E se la Cisgiordania reagisce come fa da anni, con lancio di pietre e manifestazioni, è nella Città Santa che avvengono gli attacchi individuali, e a Tel Aviv: una moltitudine di persone senza identità, mai trattate come israeliane e ormai dimenticate dalla leadership palestinese.


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CULTURE

ARTE FIAMMINGA

Un quotidiano spinto all’eccesso «Uncovering Everyday Life»: al museo Boijmans di Rotterdam un viaggio nelle viscere delle Fiandre, insieme a mendicanti storpi, ciarlatani, ubriaconi, prostitute. Da Bosch a Bruegel Arianna Di Genova

«VENDITORE AMBULANTE», PANNELLO CHIUSO DEL «TRITTCO DEL CARRO DA FIENO» DI HIERONYMUS BOSCH, PRADO, MADRID; SOPRA, DETTAGLIO DA «BORDELLO» DI MONOGRAMMIST AP, 1540

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n una grande casa di piacere, formicolante di persone, i piani dell’azione si susseguono incalzanti: c’è chi beve, chi si ingozza, chi suona, chi si prende per i capelli e chi allegramente fa l’amore, dando sfogo a qualsiasi fantasia erotica. In lontananza, seduto su una soffice nuvola, c’è Dio, che non può fare a meno di voltare le spalle a tutta quella depravazione umana. Siamo nel 1540 e un misterioso incisore ci catapulta al centro di un bordello di Anversa, mentre poco oltre, in una sorta di teatro caleidoscopico della quotidianità, vanno in scena scomposte danze contadine, abbuffate di paese, ruberie e anche assassinii. In un altro angolo della sala, gli invitati ad una festa di nozze ballano dimentichi delle preoccupazioni: una sola persona resta seduta, immobile. È la sposa stessa e un’iscrizione ci dice che è un po’ appesantita nei suoi movimenti, dato che con molte probabilità è già incinta. Non è una supposizione scandalosa: tra i lavoratori della terra e le famiglie rurali mettere in dubbio la verginità della novella moglie del vicino di campo era un divertimento assicurato e gli sketch comici passavano di farsa in farsa, di piazza in piazza.

NELLA CITTÀ DI DEN BOSCH

Hieronymus torna a casa, 500 anni dopo

Fra terra e cielo La grande mostra appena inauguratasi al museo Boijmans van Beuningen di Rotterdam Uncovering Everyday Life. From Bosch to Bruegel (visitabile fino al 17 gennaio, a cura di Friso Lammartse e Peter van der Coelen), attraverso quaranta dipinti - con alcuni prestiti eccezionali, come il Trittico del Carro di fieno di Bosch, mai uscito prima dal Prado di Madrid - e altrettante stampe, racconta una storia che corre parallela a quella che attraversava l’Europa del tempo. Lascia in pace i santi, scende dalle pale d’altare, esce dalle cappelle delle chiese, abbandona le corti e inventa una via Crucis tutta secolare, abitata da personaggi - oggi outsider un tempo comunissimi - come i pellegrini, venditori ambulanti, ciarlatani, puttanieri, ubriaconi, lebbrosi, ladruncoli, donne lascive, servette, giocatori d’azzardo, mettendo in mezzo anche esattori delle tasse e avvocati arraffa-soldi. È una specie di controcanto alle gesta gloriose delle guerre di conquista che re e principi andavano combattendo. A essere pedinata da pittori e incisori è l’assoluta insensatezza del vivere, trascinando il proprio corpo verso i piaceri forti e l’eccesso, con emozioni bestiali, incuranti del futuro e del «decoro». Lo sguardo è fisso sulla terra, la tentazione celeste sembra ormai evaporata, rotolata via ad una distanza siderale. Se c’è, è un monito terribile, lascia immaginare supplizi terrificanti per questa continua disobbedienza all’anima e alle sue esigenze spirituali. La rassegna

SCAFFALE

Da Vermeer a Frans Hals, gli «olandesi» del Secolo d’Oro «La pittura olandese del Secolo d’oro» di Claudio Pescio (Giunti editore, pp. 240, euro 39, prefazione di Philippe Daverio), è il libro che ha appena preso posizione sugli scaffali italiani, portando alla ribalta un’arte ossessionata dal realismo e dai piccoli gesti della quotidiana. Un’arte che procedeva in controtendenza rispetto ai furori barocchi che attraversano l’Europa. Vermeer, Rembrandt, Frans Hals, Carel Fabritius, Pieter de Hooch, Jan Steen e in generale l’arte olandese del Secolo d’oro hanno conosciuto uno straordinario successo negli ultimi anni, grazie a mostre come quella di Bologna del 2014 e quella, precedente, delle Scuderie del Quirinale a Roma. Hanno contribuito alla sua fortuna anche film come «La ragazza con l’orecchino di perla» (regia di Peter Webber) e best seller come «Il cardellino» di Donna Tart, entrambi incentrati su due capolavori dell’arte olandese seicentesca. Il fascino è tutto in quella pittura non da pale d’altare, ma laica, che racconta storie di tutti i giorni, ritraendo un brulicare di umanità di ogni classe sociale. In attivissimi centri urbani - Amsterdam, L’Aja, Leida, Utrecht, Haarlem - i borghesi diventano i protagonisti degli stessi quadri che poi finiscono per comprare, spodestando sovrani, santi ed eroi mitologici. È l’inizio della modernità, è da lì che parte un percorso che porterà a Turner, poi a Courbet, ai realisti francesi e, infine, agli impressionisti. Nel libro si incontrano artisti che fanno i pompieri o i birrai e protagonisti di mostre oggi visitatissime - Vermeer per esempio - che muoiono in miseria.

olandese sceglie di indagare gli inizi, i primi passi della nascita di un genere che sgusciò via dalla morsa della religione e costruì i suoi stereotipi per confermare il presente, la situazione economica e sociale del XVI secolo nelle Fiandre. Secondo i curatori della mostra, quell’everyday continuamente ribadito nei vari personaggi disegnati ad uso e consumo del loro pubblico somiglia a un Grande Fratello «dalle cattive maniere, politicamente scorretto». Ci si prende gioco della caricatura di sé e si mettono alla berlina i propri e altrui vizi. La quotidianità debordante è lo specchio deformato di una comunità che non può che compiacersi di aver guadagnato un posto di primo piano in quel volgere dal Medioevo alla nuova era, incamminandosi verso le Riforme che scossero alle radici, sottoposero a un terremoto (soprattutto etico) il rapporto fra uomo e Dio. Se l’apice di questo «modello artistico», con la perfetta messa a pun-

Mentre sfumano le varie celebrazioni olandesi di Vincent Van Gogh (ultima, la mostra ad Amsterdam nel museo omonimo che lo vede competere con il norvegese Edvard Munch, visitabile fino al 17 gennaio prossimo), l’anno 2016 cambia registro e sarà dedicato al pittore Hieronymus Bosch. L’occasione è il cinquecentenario dalla sua morte (unica data certa in mezzo a una biografia costellata di «buchi», su cui gli studiosi si interrogano da anni). Le manifestazioni culturali di «Hieronymus Bosch 500» vedono protagonista la città di Den Bosch (anche ’s-Hertogenbosch) nel sud dell’Olanda: è qui che nacque il pittore - vi prese anche il nome intorno al 1450. Il pittore infatti nacque e produsse i suoi capolavori a Den Bosch da cui prese il suo nome d’arte, Bosch. Fu fra le suye strade che presero forma le sue visioni allucinate in cui demoni e torturatori castigano i peccatori di tutte le classi sociali. L’anno dedicato al pittore avrà inizio sulla piazza del mercato di Den Bosch, dove sorgeva il suo atelier. L’evento principale sarà la mostra «Bosch - Visioni di un genio», che si terrà presso il Noordbrabants Museum, dal 13 febbraio all’8 maggio 2016. In esposizione, si potranno vedere venti dipinti (tavole e trittici) e diciannove disegni: è la più grande retrospettiva mai realizzata su questo artista. Tra gli appuntamenti, rientra anche il programma di rassegne che i musei principali della regione del Brabante presenteranno nell’arco del 2016, intitolato «Bosch Grand Tour». Tredici le mostre, suddivise per sette musei in quattro città, un vero e proprio viaggio alla scoperta dell’arte, del design e della culturadi Den Bosch, Breda, Eindhoven e Tilburg. La Bosch Experience, invece, proporrà un tour alla scoperta della città: sarà inaugurato nel primo weekend di marzo con una grande festa. Info: www.bosch500.nl

to di un nuovo codice visivo, venne raggiunto da Bruegel il Vecchio, il viaggio nelle viscere dei Paesi Bassi dovrà partire da quel monumentale Trittico di Hieronymus Bosch dove un carro che trasporta fieno fa da spartiacque fra due «momenti esistenziali», scivolando verso l’apocalisse. Intorno, sotto, davanti e dietro, pullula la vita ordinaria (e allucinata) del popolo. Il Trittico, una grande allegoria morale e satirica che le più recenti datazioni collocano nell’ultimo anno di vita del pittore (morto nel 1516), venne comprato da Filippo II, ma ebbe una esistenza dissestata: venne smembrato, più volte copiato e infine ricomposto nei suoi pannelli al Prado, nel 1914. Quel pellegrino-vagabondo malconcio, vestito di stracci, pensieroso e spaventato che appare sulle «ante» esterne chiuse, rappresenta il cammino incerto lungo le strade del mondo. Anche il ponticello davanti a lui non sembra granché solido; alle sue spalle, si consuma una rapina, forse ci sarà una impiccagione, mentre l’odore del peccato si espande nell’aria. Sarà lo stesso peccato - con più malizia e minor senso di colpa - che vedremo prendere possesso della realtà nelle tante raffigurazioni dei bordelli che circolavano all’epoca, divertendo con la loro licenziosità trasversalmente la nuova borghesia, i bottegai e i «rurali».

I nuovi interpreti Per cercare di comprendere l’ossessiva e stralunata imaginerie di Bosch si è detto di tutto, anche che l’artista non disdegnasse la compagnia dei membri delle sette sataniche. In realtà, con la sua linea incisiva e moderna, i suoi colori ariosi, non ha fatto altro che dare vita, trasformandolo in visione, a ciò che accadeva nei Paesi Bassi , quando si veniva perseguitati sulle pubbliche piazze con esorcismi violenti o si assisteva a brutali saccheggi delle città e paesi. Bosch non era un precursore del Surrealismo ma un contemporaneo pervaso da una fervente fede alla fiamminga. La stella che splenderà nel firmamento concettuale della sua maturità sarà quella castigatrice Nave dei folli di Sebastian Brant, illustrata magistralmente da Dürer e poi riprodotta da lui stesso. I nuovi attori della scena sociale sono ormai mercanti nelle taverne, avvocati rapaci, monaci fissati col sesso, contadini ingenui che ogni volta che vanno in visita in città vengono derubati (è una delle tipizzazioni più in voga, proposta da numerosi quadri e stampe). L’esposizione al Boijmans ha uno dei suoi punti di forza in una serie di incisioni poco viste prima d’ora e nella sezione dedicata a Lucas van Leyden, presente con una ventina di stampe. Adolescente prodigio, nato a Leida nel 1494 (morì poi nel 1533), ebbe un rapporto intenso di allievo e maestro (anche interscambiabile) con Dürer. Il suo interesse, nelle opere proposte a Rotterdam, è tutto focalizzato sulle partite di carte che non hanno nulla dell’innocente passatempo, ma sono metafore del desiderio erotico. Dietro gli sguardi di fanciulle e giovani al tavolo, si covano amori clandestini e corteggiamenti proibiti: triangoli passionali e mariti cornuti vanno di pari passo con la vincita o la perdita alle carte.


MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE 2015

oltre tutto

Benedetto Vecchi

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el prossimo futuro non ci saranno soldati cyborg sui campi di battaglia. Produrre Terminator o Robocop è infatti per il momento impossibile. Troppi gli imprevisti, alte le possibilità di insuccesso. La mente umana non è ancora riproducibile da un software. Quel che negli Stati Uniti, Russia e Cina stanno ipotizzando sono però soldati che restano svegli per una settimana, senza che il corpo ne risenta e perda in «efficienza». Allo stesso tempo, un progetto congiunto tra le due sponde dell’Atlantico ha avuto la bizzarra idea di provocare artificialmente la scomparsa della notte, ipotizzando un sistema di specchi nell’atmosfera per deviare la luce solare e illuminare così a giorno regioni intere del pianeta. Due progetti tuttavia fantasiosi. Il secondo infatti è stato abbandonato per le proteste di ambientalisti e scienziati della natura. Il primo necessita di farmaci e droghe che richiedono ancora anni di perfezionamento per evitare collassi nervosi e disfunzioni del corpo. Per il momento, tuttavia, ci sono prigioni militari e non (Guantanamo è una di queste) dove i detenu-

CULTURE IL MIMESIS FESTIVAL A UDINE Dal 19 al 25 ottobre tornano gli appuntamenti del «Mimesis Festival» di Udine. Quest’anno il Festival, organizzato dall’associazione «Territori delle idee», è dedicato al tema della «società globale». Tema che sarà affrontato già dal

primo incontro pubblico, martedì 20 ottobre, con la conferenza di Luciano Violante. Ma la vocazione sociale sarà una costante di tutto il Festival, che, da mercoledì 21, nelle librerie di Udine, proporrà dibattiti su tematiche di stretta attualità, come il ruolo delle banche, l’infanzia,

L’obbedienza del Golem Sono solo alcuni degli esempi di una tendenza a cancellare il confine tra veglia e sonno citati da Jonathan Crary nel saggio 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno pubblicato da Einaudi che inaugura la nuova collana I Maverick (pp. 134, euro 18). La globalizzazione, afferma il docente statunitense di arte moderna, sta prefigurando una società organizzata per produrre e consumare 24 ore al giorno per 7 giorni la settimana, cioè una realtà a ciclo continua dove il sonno e il riposo sono ostacoli all’accumulo di ricchezza. Con malizia, infatti, l’autore ricorda che da sempre i risultati conseguiti nelle ricerca scientifica condotte da militari sono state poi riversate nella vita civile. E se questo è facile esemplificarlo con l’energia atomica, i microprocessori, i nuovi materiali resistenti, meno evidente, ma pur sempre certo, è come la ricerca militare sul funzionamento del cervello sia stata poi riconvertita dall’industria farmaceutica per produrre nuovi farmaci o sostanza psicoattive. Crary non ha inoltre timore ad affermare che dietro tutti i tentativi di aggirare il sonno come bisogno rigenerativo del corpo umano ci sia l’obiettivo di un umano addomesticato alle necessità del capitalismo. Dunque, non è l’ombra di Terminator quella che si staglia dietro questi progetti, bensì quella del Golem, l’inquietante figura che nella Praga di inizio Novecento eseguiva con diligenza e ferocia la sua missione purificatrice. 24/7 non è però una ricercata apologia del sonno inteso come il tempo sottratto al capitale. Crary è consapevole che il confine tra

A SINISTRA "GIORNO E NOTTE" DI MAURITS CORNELIS ESCHER ACCANTO UN FOTOGRAMMA DEL FILM «LA JETÉEE» DI CHRIS MARKER SOTTO CESARE BERMANI CON PHILOPAT

Vite condannate a un eterno presente aveva la ambivalente funzione di riposo, ma anche come un feticcio da usare come fattore che disciplina la vita al lavoro.

La superficie globale

tempo di lavoro e tempo di vita è stato ormai cancellato e che il riposo, dunque il sonno, è ormai ridotto a una funzione meccanica di recupero delle energie. Anche perché una volta sveglio il singolo è avvolto, risucchiato in un flusso ininterrotto di mail, sms, immagini, informazioni. La globalizzazione, annota Crary, stabilisce cioè il dominio indiscusso di un eterno presente, dove il passato è un ammasso di rovine dal quale tenersi a distanza e il futuro è avvolto da una nebbia dalla quale tenersi, anche qui, a debita distanza. Il mondo del 24/7 è cioè una realtà dove il tempo non prevede nessun divenire. L’esemplificazione dell’eterno presente è ovviamente la Rete, che annulla appunto le differenze temporali e rende insignificanti quelle spaziali. Il giorno di Roma, o Milano, è la notte di Los Angeles o di Pechino, ma quel che viene deciso in un luogo alla luce del sole è inviato come ordine a chi ha organizzato il flusso lavorativo per eseguirlo in piena notte.

La società del controllo Il saggio è una incalzante rassegna di come il capitalismo, nella sua forma neoliberale, sia riuscito, per aggirare l’ostacolo costituito dai limiti imposti dal lavoro vivo – la tripartizione della giornata, tra otto ore di lavoro, 8 ore di tempo libero e le restanti otto ore di sonno – abbia appunto a proiettare sul pianeta la sua pretesa di cancellare o annullare differenze temporali e spaziali. Per organizzare la resistenza, aggiunge però Crary, non serve certo invocare il tempo della natura per contrapporlo a quello sociale. È infatti caratteristica dell’umano piegare la natura ai suoi fini. Con un movimento teorico inaspettato, visto che viene da chi si occupa prevalentemente di storia dell’arte, Crary invita a misurarsi con le analisi di Marx e delle teorie sulla vita quotidiana di come Henry Lefebvre. E se l’autore del Capitale ha messo al centro della sua critica all’economia politica il tempo – quello del lavoro -, Lefebvre negli anni Sessanta e Settanta del Novecento stigmatizzava le tesi di chi considerava il tempo libero e il sonno come tempo sottratto al capitale. Anche fuori le mura della fabbrica o dell’ufficio, il tempo è ormai colonizzato dal capitale. La critica al consumismo

ha proprio l’elementare constatazione che la catena del valore non riguarda solo la produzione, bensì anche la circolazione e il consumo di merci. Da qui la centralità sulla società dello spettacolo e di

quel passaggio dalla società disciplinare a quella del controllo che autori come Guy Debord o Gilles Deleuze hanno ripetutamente messo al centro della scena pubblica. Già perché anche il sonno

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l’immigrazione e la funzione dei media. Ogni giornata si articolerà in tre diversi momenti: gli incontri in collaborazione con le scuole la mattina, le conferenze nel primo pomeriggio e le presentazioni la sera in libreria. Il programma completo è consultabile nel sito Internet: www.mimesisfestival.it

SAGGI · «24/7» di Jonathan Crary per Einaudi

Un avvincente affresco di un mondo che considera il sonno un ostacolo all’accumulo della ricchezza ti sono segregati in celle continuamente illuminate e sottoposti al controllo di psicologi, neurologi e neuropsichiatri per capire come reagisce il corpo umano a una condizione di giorno perpetuo. Una sottile forma di tortura per ridurre sensibilmente la resistenza di chi vi è sottoposto e capire dunque il modo per manipolare emozioni, decisioni, comportamenti dei singoli. Il soldato dell’avvenire sarà flessibile e duttile come la creta per essere plasmato ad operare in situazioni che non prevedano dubbi, libero arbitrio, autonomia individuale, pronto cioè a obbedire a qualsiasi comando.

il manifesto

24/7 è una piccola miniera di preziose pagine quando l’autore passa in rassegna il ruolo svolto dai materiali audiovisivi diffusi a livello planetario – film, musica, ma anche videoclip – grazie alla Rete come un sofisticato sistema di sincronizzazione delle coscienze e di annullamento della memoria che ha come primo, dirimente e imprevisto effetto collaterale di caduta tendenziale dell’innovazione e di cancellazione delle identità locali. Quella di Crary è però una non sempre convincente visione della globalizzazione come una superficie liscia e senza alterità. E segnata anche dalla convinzione che tutto ciò abbia a che fare con la possibilità di un consumo just in time e h.24. Il regime h 24, come d’altronde di deduce anche dalle pagine che l’autore dedica all’analisi critica di un film – La Jetée di Chris Marker – e di un quadro – Il cotonificio di Arkwright di Joseph Wright of Derby –, vuol certo rendere omogeneo il tempo a livello planetario

per sviluppare un ciclo integrato tra produzione, circolazione e consumo. Nel primo caso, significa forme radicali e tuttavia sofisticate di processi lavorativi diffusi su tutto il pianeta. Sulla logistica – movimento di merci e gestione delle materie prime – non c’è molto da dire, basta solo ricordare che i trasporti su strada, ferrovia, su acqua e nei cieli sono organizzati per garantire i movimenti delle merci come un flusso continuo. Sui consumi, poco da aggiungere al fatto che il commercio e elettronico e la presenza di centri commerciali aperti 24 ore al giorno per sette giorni la settimana sono ormai la regola in molti paesi. E tuttavia non siamo in presenza di un moloch inattaccabile e impermeabile. Le strategie della «economia dell’attenzione» e i dispositivi giuridici per garantire l’innovazione e la precarietà del lavoro vivo, testimoniano che non tutto funziona così linearmente e che quella superficie liscia prospettata da Crary è invece piena e costellata da alterità. Perché il diritto all’ozio e a una vita affrancata dalla necessità continua ad essere uno dei diritti che nessuna colonizzazione della vita sociale riesce ad addomesticare.

INCONTRI · Oggi all’Università di Salerno la laurea ad honorem a Cesare Bermani

Un intellettuale dai piedi scalzi Giso Amendola

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resso l’Aula Magna dell’Università degli Studi di Salerno, si tiene oggi la cerimonia per il conferimento della laurea ad honorem in Sociologia e politiche per il territorio a Cesare Bermani. Un evento, in fondo, che contiene evidentemente un paradosso: un riconoscimento accademico oggi «celebra» un percorso di vita, di ricerca e di militanza che di accademico ha davvero ben poco, quasi niente. Proprio per questo, però, l’occasione diventa non rituale: il tentativo di inserire all’interno di una vita accademica ripiegata troppo spesso su se stessa, di un momento di confronto con un percorso, come quello di Cesare Bermani, ispirato a una concezione radicale e conflittuale della libertà di ricerca. Tanto per cominciare, libertà dai confini disciplinari: la cui forza appunto «disciplinare», ma nel senso che Foucault attribuiva al termine, si sta oggi riproponendo in modo sempre più rigido, grazie al tipo di valutazione che ha preso il controllo dell’intera ricerca accademica. La ricerca di Bermani presenta, al contrario, un esempio di critica radicale all’idolatria delle classificazioni e al paralizzante incantesimo dei metodi che ne deriva. E forse, il modo migliore per onorare questa capacità di infrangere i recinti, è proprio questa laurea honoris causa in sociologia, che è apparentemente laterale rispetto al Bermani «storico delle tradizioni popolari», esponente di primo piano della «storia orale», e via classificando. Ma segna evidentemente la necessità oggi di aprire le scienze sociali non solo e non tanto alla dimensione storica, come si di-

Le inchieste militanti sulla Resistenza, i «subalterni», i conflitti di classe del secondo dopoguerra rebbe con formula abusata, ma più precisamente alla dimensione della subalternità e delle soggettività «altre». Soggettività che, pure cancellate dai canoni della storiografia ufficiale, compresi quelli della sinistra ufficiale, costituiscono la carne e il sangue di ogni inchiesta sul sociale che non voglia ridursi a una ingegneria sociologica che espunge programmaticamente la dimensione del conflitto e della soggettivazione politica. Sguardo radicato nel conflitto di classe, da un lato; dall’altro lato, consapevolezza della ricchezza e dell’eterogeneità della società, sempre striata da soggettività mai riducibili schematicamente

ad unità compatte e maggioritarie. Come scrive Raffaele Rauty nella prolusione che aprirà la cerimonia di laurea, «Cesare Bermani è testimone di una scelta di classe irreversibile, di una tradizione di ricerca sostenuta da un legame inscindibile con le espressioni orali, da una filologia inflessibile (…), consapevole, come ogni grande ricercatore che prima di “parlare” alla società è bene provare ad interpretarne le espressioni, anche le più ripiegate e apparentemente contraddittorie». Si leggano gli studi sulla Resistenza, a partire da quelli su La Volante rossa (ultima edizione per Colibrì, 2009), caratterizzanti dall’inossidabile rigore della raccolta e della registrazione delle fonti (il registratore, appunto, simbolo ben noto delle imprese dello «storico scalzo» Bermani), ma anche dalla solida scelta politica di rifiutare qualsiasi riduzione della Resistenza a sola lotta di liberazione nazionale, per difen-

derne invece la dimensione di guerra civile e di classe; oppure si seguano, nei saggi de Il nemico interno (Odradek, 2003), le tracce d di una rivolta infinita, che rinasce in forme sempre diverse e non riportabili a nessuna oziosa linearità storica, a partire dalla guerra di liberazione, attraversando l’antifascismo rilanciato dalla generazione del 1960, per giungere alla rottura del ’68. Apprenderemo, da questo straordinario «archivio» delle lotte, la capacità di legare insieme, nella ricostruzione della ricchezza del «sociale», soggettività e conflitto, fino a costruire un lungo, coerente attacco alla storia monumentale, e un vero e proprio modello di storia delle controcondotte. Bermani ci ha insegnato che, a saper ascoltare le storie dei soggetti, si riscopre continuamente che il soggetto altro non è che, marxianamente, relazione sociale; e che, reciprocamente, non c’è nessuna inchiesta sul sociale, nessun lavoro sociologico, che possa permettersi di cancellare le voci delle soggettività. Per quanto le loro vite siano tenute ai margini dalle concezioni vincenti e ufficiali della storia, in prima linea quelle segnate dalla visione omogenea e lineare del «progresso», i subalterni possono parlare. Ed è particolarmente significativo che questa laurea a Bermani e a tutti i ricercatori scalzi venga da Sud, dal Sud delle inchieste di De Martino, e anche dal Sud di quel Gramsci non ufficiale, non «nazionalpopolare», ma ricercatore della ricchezza delle esperienze autonome benché subalterne «ai margini della storia»: un Gramsci «altro» che è uno dei meriti non minori di Cesare Bermani averci aiutato a riscoprire.


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il manifesto

MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE 2015

VISIONI

Festival •

Ventesima edizione per la più grande manifestazione sudcoreana dedicata alla produzione orientale. Presentati ben 302 film provenienti da 75 paesi In anteprima alcune immagini dai nuovi progetti di Lav Diaz, intorno alla rivoluzione filippina del 1896-1897, e di Wang Bing con il dramma della comunità Ta’ang tra Birmania e Cina

A SINISTRA UNA SCENA DA «BAAHUBALI: THE BEGINNING» DI S.S. RAJAMOULI», A DESTRA «THE BATTLE OF GWANGIU» DI YI JI - SANG

Giona A. Nazzaro BUSAN

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a ventesima edizione del Festival di Busan, svoltasi dal primo al 10 ottobre, è stata preceduta da numerose polemiche. La decisione dell’anno scorso da parte della direzione di non ritirare dal programma il documentario The Truth Shall Not Sink With Sewol sul disastro del traghetto Sewol nel quale hanno perso la vita 295 persone, come richiesto tra gli altri anche dal sindaco della città Suh Byung-soo (anche membro del comitato organizzativo del festival), ha fatto sì che il Kofic (Korean Film Council) abbia scelto di ridurre del 45% la cifra stanziata a favore della manifestazione presentando come motivazione ufficiale la necessità di rafforzare i festival di Bucheon e Jeonju. Nell’ambiente del cinema coreano questa decisione è stata letta come ritorsione nei confronti del festival e del suo direttore Lee Yong-kwan per avere rifiutato di oscurare il film denuncia di Ahn Hae-ryong e Lee Sang-ho. Alle pressioni esercitate nei confronti del direttore di rassegnare le sue dimissioni, il festival ha risposto affiancandogli l’attrice Kang Soo-youn. Eppure, nonostante i presagi foschi, i numeri hanno dato ragione al festival. Stando a fonti dell’industria, come l’Hollywood Reporter, quest’anno Busan ha avuto una presenza record di ben 227377 persone con 302 film provenienti da 75 paesi. Principale punto di riferimento per il cinema asiatico, nonostante la forte concorrenza di Pechino, Hong Kong e Tokyo, il festival di Busan, che si svolge principalmente nel Busan Cinema Center, situato nell’area di Centum City comprendente anche i centri commerciali ultramoderni Lotte, Shinsegae e il Bexco, dove si svolge l’Asian Film Market, non nasconde la propria ambizione di essere una Cannes asiatica. Con una skyline di alberghi ultramoderni affacciati direttamente sul mare, tale da fare impallidire la Croisette, Haeundae Beach è il luogo nel quale si ritrovano registi, programmatori, giornalisti, produttori, compratori e venditori serviti da un impeccabile servizio navetta che fa la spola con il Busan Film Center ogni dieci minuti. Fra i momenti più forti di un mercato che a detta degli addetti ai lavori è stato più ricco del solito, la presentazione dei work in progress di Lav Diaz e Wang Bing. Il regista filippino, accompagnato dalla produttrice Bianca Balbuena, dall’attrice Hazel Orencio e dal produttore associato Paolo Bertolin, ha presentato A Lullaby to the Sorrowful Mystery. Progetto ambizioso, ma a giudicare dalle poche immagini viste, già capolavoro sublime, il film si presenta come un intreccio di motivi ispirati alla rivoluzione filippina del 1896-1897 con-

Il cinema asiatico si specchia a Busan Dall’India il kolossal «Baahubali: the Beginning» di S. S. Rajamouli, una versione estrema e psichedelica delle opere di Cecil B. De Mille Rassegne/ «LA GLACE ET LE CIEL» CHIUDE CINEMAMBIENTE

L’Antartide di Claude Lorius, l’avventura e i danni del progresso Antonello Catacchio TORINO

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omenica si è conclusa nel capluogo piemontese l’edizione che ha portato CinemAmbiente alla maggiore età. Confermando che a 18 anni si deve ormai contare solo su se stessi, visti i tagli riservati alla manifestazione. E il pubblico ha risposto con entusiasmo. La serata finale è stata all’insegna dei premi, tanti, un po’ a tutti, ma non per ecumenismo, bensì per sottolineare un’edizione davvero ricca e un’attenzione che non è solo legata alle problematiche ambientali, che investono il nostro vivere sul pianeta, ma anche al linguaggio cinematografico. Luc Jacquet, Oscar per La marcia dei pinguini, chiamato a concludere la manifestazione con la presentazione italiana del suo nuovo film La glace et le ciel, ha ottenuto il suo riconoscimento tra gli eventi speciali. Jacquet non è un documentarista che si innamora di un tema e cerca di raccontarlo col cinema, lui ama davvero la ricerca e il cinema. Anche con questa nuova avventura siamo in Antartide. Il protagonista uno scienziato: Claude Lorius, 82 anni, di cui 10 trascorsi in Antartide, spesso in condizioni estreme. La prima volta è nel 1956. Poco più che ventenne Claude si offre volontario, insieme a due altri colleghi, per andare alla fine del mondo e restarci per un anno intero. In quel periodo le macchine belliche studiate per la seconda guerra mondiale (con la propaggine della Guerra Fredda) offrono possibilità prima impensabili. Il mondo sembra offrire risorse immense e inesauribili. Come oggi sappiamo, però, il progresso ha il suo prezzo. Ma non è il problema di quella spedizione che punta verso Sud affrontando subito l’oceano (a Suez ci sono impicci) e dopo un mese e mezzo di navigazione ecco Tahiti e il giovane Claude ca-

pisce perché molti marinai hanno perso la testa buttando tutto alle ortiche per vivere in quel mondo paradisiaco. Poi li aspetta una realtà meno paradisiaca: l’Antartide. Dopo essere sbarcati la marcia dura 28 giorni per raggiungere la base Charcot. Quando c’è vento può arrivare anche a 200 chilometri l’ora e la temperatura nella cabina dei mezzi di trasporto è -18°. E questa è l’estate. I tre rimangono lì un anno, sanno che non hanno alcuna possibilità di essere soccorsi in caso di bisogno. Vivono in 28 metri quadri a una temperatura media di 8°. E fanno rilevazioni. Devono descrivere e comprendere. Ma, quando possono, si divertono a battezzare monti e colline (oggi è contemplato il monte Lorius). E scoprono che il ghiaccio è come un libro. Anno dopo anno la neve si deposita, si comprime, e racchiude dati. Con il carotaggio nasce il termometro isotopico, in base alla presenza di Idrogeno si può stabilire la temperatura anno dopo anno. Il destino di Lorius è segnato, nel corso degli anni compie 22 missioni. Scopre anche che nel ghiaccio c’è aria, quindi si può conoscere non solo la temperatura, ma anche la qualità dell’aria di migliaia di anni. E nel 1984 una missione di sovietici, statunitensi e francesi arriva a compiere l’impresa titanica: raccolgono campioni di ghiaccio che risalgono a più di centomila anni fa. Ma la scoperta è inquietante: glaciazioni e riscaldamenti si sono susseguiti ordinatamente nei millenni in base alla distanza dal sole, ma nell’ultimo secolo l’uomo ha fatto impennare la CO2 e questo sta riscaldando, artificialmente e drammaticamente il pianeta. Jacquet con immagini di repertorio e magnifiche riprese originali racconta questa «maledetta« avventura scientifica in modo affascinante e comprensibile. Con Lorius che è il più deluso di tutti per avere avuto ragione.

tro la Spagna. Diviso in tre parti, il film ripercorre la storia della canzone di Jocelynang Baliwag diventata inno della rivoluzione, la ricerca disperata da parte di Gregoria de Jesus del corpo di Andres Bonifacio, il viaggio di Simon e Isagani, la figura di Bernardo Carpio e il mito di Tikbalang/Engkanto, metà uomo e metà cavallo. Altro progetto molto atteso e discusso, Ta’ang di Wang Bing si candida sin d’ora come uno dei film più importanti dei prossimi anni. La comunità Ta’ang, situata lungo la frontiera della Birmania e la Cina, vive un drammatico esodo a causa dei ripetuti scontri con l’esercito birmano. Stretti fra una frontiera e una guerra, si trasformano nell’ennesimo popolo senza terra. Il film, che può contare già su un centinaio di ore di girato, dovrebbe essere finalizzato per i primi mesi del 2016. Affronta una pagina buia della recente storia sudcoreana, la cosiddetta quinta repubblica, The Battle of Gwangju di Yi Ji-sang. Diretto con uno stile astratto e stilizzato, con gli attori che mimano l’utilizzo delle armi da fuoco invece del tutto assenti, il film è un omaggio viscerale alle vittime della repressione militare seguita al colpo di stato del 12 dicembre 1979 per mano del maggiore generale Chun Doo-hwan. In seguito alle proteste esplose nella città di Gwangju contro la chiusura dell’Università di Chonnam, l’intera cittadina si unisce agli studenti. Per nove giorni, dal 18 al 27 maggio, studenti e popolazione civile tengono in scacco l’esercito. Repressa nel sangue, si sospetta che il numero delle vittime sia oltre 2000, la strage e lo sdegno che seguirono, aprono di fatto le porte alle elezioni democratiche del 1987. Film lunghissimo e ossessivo, improntato a un sentimentalismo al tempo stesso patriottico e anarcoide, con numerosi riferimenti alla comune di Parigi, incuriosisce per come reinventa la lezione di certo cinema politico giapponese (si pensa inevitabilmente a Kijo Yoshida) pur restando un oggetto fuori norma, eccessivo. Restando in

ambito scolastico, Reach for the Sky, di Choi Wooyoung, mette in luce il sistema iper competitivo del sistema scolastico sudcoreano. Pur strutturato in maniera narrativamente tradizionale, il film ha il merito di mettere in luce un meccanismo serrato e abbastanza spietato nel quale i risultati scolastici sono propedeutici all’inserimento nella società produttiva. Il cinema indiano si presenta teso fra passato, presente e futuro. E se un film come Kothanodi di Bhaskar Hazarika, parlato in lingua assamese, ripropone per il pubblico di oggi quattro fiabe tradizionali incentrate sul tema della maternità, O Kadhal Kanmani di Mani Ratnam si offre come melodramma di formazione indirizzato a un’ipotetica giovane classe media tutta in divenire. Lui, tamil, progettista di videogiochi, lei studente di architettura e rampolla di una famiglia ricchissima, si amano e decidono di convivere per non danneggiare le loro rispettive possibilità sociali con il matrimonio e le inevitabili conseguenze che ne deriverebbero. Amore libero, insomma. Il film evoca chiaramente un mondo che esiste solo come sogno (utopia?) di una possibile, ideale classe dirigente «giovane» cui si chiede solo un minimo di rispetto della tradizione prima di andare avanti a realizzarsi nel mondo. Esempio lampante della gentrificazione di classe portata avanti da un certo cinema bollywoodiano, il film si rivela compiutamente nei lunghi titoli di coda animati che mostrano i protagonisti raggiungere il successo a Parigi (lei), a Hollywood (lui). Accolto da un entusiasmo da stadio, Baahubali: the Beginning di S.S. Rajamouli, terzo campione d’incassi di tutti i tempi del cinema indiano, e primo film in lingua telegu a raggiungere un simile risultato, è un kolossal in piena regola. Proiettato nell’enorme spazio all’aperto del Mountain Cinema, il pubblico si è esaltato urlando il proprio apprezzamento di fronte alle prodezze di Baahubali/Shivudu (Shiva nella versione hindi), interpretato da Prabhas. Come in una versione psichedelica del cinema più estremo e decorativo di Cecil B. De Mille, riconfigurato alla luce delle evoluzioni digitali post-Matrix, ma conservando un fortissimo rapporto con la tradizione grazie a interpretazioni massimaliste (solo secondo il gusto occidentale, però) e fortemente teatrali, Baahubali: the Beginning è un’esperienza di cinema a suo modo estrema. Film genuinamente primordiale nella caratterizzazione dei conflitti, nel quale i sentimenti sono tutti fondativi, la storia di Baahubali/Shivudu che riconquista il trono strappato al padre con l’inganno è di quelle che riportano il cinema a un candore delle origini dove Henry King e Douglas Fairbanks non hanno mai smesso di vivere. Dal versante del cinema di genere europeo, invece, si segnala la sorpresa britannica The Hallow di Corin Hardy, regista già candidato alla regia del remake de Il corvo, prodotto da Ed Pressman e benedetto dall’autore del fumetto James O’Barr. Boschi e fate maligne, argine estremo contro l’avanzare dell’odiata modernità.


MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE 2015

il manifesto

VISIONI

JOHN RIDLEY Lo sceneggiatore vincitore dell’Oscar per «12 anni schiavo» dirigerà il film sui riots del 1992 a Los Angeles, la rivolta esplosa nella comunità african american contro le violenze della polizia dopo il pestaggio di Rodney King e l’assoluzione dei poliziotti responsabili. Ridley regista di« All Is By My Side», biopic su Hendrix, è anche autore della serie tv «American Crime».

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CINEMA DAYS 315 mila spettatori nelle sale nel primo giorno, poco meno di un milione d’incasso. Sono i risultati al botteghino della prima giornata di CinemaDays, la nuova festa del cinema che fino a giovedì 15 ottobre permette al pubblico di acquistare un biglietto a 3 euro (esclusi eventi speciali e film in 3D). I dati Cinetel testimoniano un 104% in più di presenze e l’8% in più per gli incassi sul lunedì precedente.

INTERVISTA · Stefano Piccoli e un lavoro su Vittorio Arrigoni

Guerriglia Radio, un fumetto per «restare umani» Andrea Voglino

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INCONTRI · Yorgos Lanthimos, il mio «The Lobster» una variazione sull’amore

La provocazione crudele di ogni mondo imperfetto Giovanna Branca

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remio della giuria a Cannes 2015, The Lobster di Yorgos Lanthimos era stato dato da subito tra i favoriti: il suo humour nero, si diceva, avrebbe sicuramente colpito i fratelli Coen, quest’anno presidenti della giuria. Se ad accomunare i registi c’è anche un certo gusto per il grottesco, molto più accentuato nel giovane filmmaker greco, le analogie però finiscono qui. È molto più facile rintracciare un percorso fatto di temi e

In sala domani, il film immagina un ordine sociale dove i single sono trasformati in animali. Protagonista Colin Farrell prospettive ricorrenti nella filmografia dello stesso Lanthimos, che negli anni ha costruito «un universo fatto di situazioni, dice, spinte fino all’estremo, in cui si piegano le regole e si creano mondi ’altri’». Dalla famiglia di reclusi di Kynodontas - premio Un Certain Regard nel 2009 - alle impersonificazioni dei defunti in Alps - premio Osella a Venezia per la migliore sceneggiatura nel 2011 - fino appunto a The Lobster ( nelle nostre sale domani col titolo L’aragosta), in cui veniamo trasportati in una società, spiega Lanthimos, «regolata da leggi diverse dalle nostre». «Ci sono alcuni che si conformano a queste leggi e altri che vi si oppongono,ma in fondo i problemi che si presentano in questo cosiddetto mondo parallelo ,riguardano anche il nostro». L’aragosta del titolo è ciò in cui chiede di essere trasformato il protagonista un uomo di mezza età interpretato da Colin Farrell che per l’occasione sveste i panni del sex symbol e indossa una pancetta - se dovesse fallire nell’obiettvo principale posto da questo distopico mondo alternativo: fomare una coppia. In The Lobster, i single vengono infatti portati in un albergo dove hanno un tempo limitato per trovare l’amore. Se falliscono saranno tramutati in un animale a loro scelta. Nei boschi tutto intorno vivono invece i single fuggiti dall’hotel, organizzati in una forma di resistenza in cui vige la legge opposta: quella di non innamorarsi mai. «Il mio film esplora le relazioni, ma soprattutto l’amore. Esiste il vero amore? E come si fa a riconoscerlo, o a sapere come trovarlo?». Grottesco, umorismo nero e crudeltà caratterizzano l’ universo di The

Lobster, e Lanthimos tra le sue influenze cita Bunuel: «uno dei registi che amo di più insieme a Bresson e Kubrick». Ma soprattutto nel suo lavoro il regista greco mette al centro la la manipolazione del linguaggio, «un aspetto essenziale della vita in quanto mezzo di comunicazione» dice. Se nella famiglia di Kynodontas le parole sono usate per indicare cose diverse rispetto alla loro accezione «normale» in The Lobster le persone possono diventare animali. «L’uso che faccio del linguaggio risponde all’idea che delle realtà diverse si possono esplorare in maniera più complessa e profonda rispetto all’esperienza quotidiana». Delle realtà che sono sempre spietate e, appunto, distopiche in quanto «un mondo perfetto sarebbe meno interessante da raccontare. Sono molto più rivelatrici le cose che non funzionano. Con i miei film voglio sollevare delle domande, sul nostro modo di comunicare, su come siamo stati educati, su come la nostra società è organizzata». Un altro aspetto ricorrente del suo lavoro è la recitazione straniata e straniante, in cui gli attori sembrano al contempo dentro e fuori i loro personaggi: «Mi piace che gli interpreti siano molto diretti, che non facciano niente di particolarmente elaborato», spiega il regista, che con The Lobster per la prima volta a lavora con un cast

e una produzione internazionali (insieme a Colin Farrell ci sono Rachel Weisz, John C. Reilly e Lèa Seydoux, insieme alla magnifica Ariane Labed, moglie del regista). «Non avendo mai lavorato insieme a loro in principio ero preoccupato e non sapevo cosa aspettarmi - racconta Lanthimos - Appena abbiamo iniziato a girare è stato subito chiaro il loro interesse e la loro dedizione verso il materiale che gli avevo sottoposto, per cui era come essere con i miei amici in Grecia. L’aspetto produttivo è stato più complesso perché avevamo un budget più alto e di provenienza internazionale, e per me ha significato meno flessibilità rispetto a quando giravo con i miei collaboratori abituali, con cui potevo fare quello che volevo.» Ad oggi Lanthimos vive lontano dalla Grecia da circa quattro anni, e non prevede di tornarci a breve. I suoi progetti futuri saranno anch’essi realizzate all’estero. «Al momento - dice il regista - stiamo lavorando a due nuovi film: uno inglese in costume che si svolge ai tempi del regno della regina Anna e poi un thriller psicologico sovrannaturale». Il processo di scrittura avviene però sempre a stretto contatto con l’amico Efthymis Filippou: «Si comincia parlando di temi e di situazioni molto astratti. Poi una volta che nasce un’idea cerchiamo di costruirle intorno una struttura, una storia che ci dia il modo di esplorarla».

uno degli appuntamenti più interessanti di «Le strade del paesaggio», Festival del fumetto in programma fra il 9 e il 25 ottobre a Cosenza quello con il cartoonist capitolino Stefano Piccoli. Il suo ultimo lavoro Guerrilla Radio - Vittorio Arrigoni, la possibile utopia, targato Round Robin Editore e in uscita a giorni, è incentrato sulla figura dell’attivista ucciso a Gaza nel 2011. L’autore del volume racconta la genesi di questo nuovo progetto all’insegna del «comic journalism» nato con la collaborazione della famiglia di Vik. Con «Guerrilla Radio» hai azzardato un salto in contesti narrativi molto distanti da quelli abituali. È facile immaginare la difficoltà di «entrare nel personaggio». Ho speso oltre un anno per «appropriarmi» della vita di Vittorio e capire quali fossero davvero le cose da raccontare e quelle superflue. Poi mi sono «allenato» a disegnare ambientazioni che restituissero verosimiglianza alla Palestina. Ma a rallentarmi, in realtà, è stato il timore di raccontare questa storia. Il timore del giudizio e della reazione di fronte a un fumetto che nasce da una vicenda reale, non da una fiction. Questo, non tanto rispetto al lettore generico, ma rispetto ai familiari di Vittorio, ai suoi amici, a coloro che lo conoscevano e lo apprezzavano, magari per aver condiviso il proprio percorso con lui. Mi pare di capire che la famiglia Arrigoni ti abbia supportato molto nella realizzazione del volume. Raccontaci com’è andata. Prima di cominciare a lavorare, ho contattato la madre di Vik, Egidia Beretta, che su di lui ha già scritto Il viaggio di Vittorio ( Baldini & Castoldi, 2013), e sua sorella Alessandra. Non avevano mai avuto esperienze nel campo del

«Avevo timore a raccontare questa storia, perché è una vicenda reale non una fiction»

SOPRA ALCUNE TAVOLE DI «GUERRIGLIA RADIO», IN BASSO L’AUTORE STEFANO PICCOLI

fumetto. Ma una volta entrate nel meccanismo, mi hanno appoggiato al 100%! Con Alessandra mi ci sono incontrato di persona, illustrandole per bene tutto il progetto. Con la signora Egidia ho invece instaurato un fitto rapporto epistolare e telefonico attraverso il quale ha potuto supervisionare l’intero libro tavola per tavola, ogni capitolo, ogni dialogo. Intervenendo su alcune correzioni dei testi, se necessario. E mi ha scritto l’introduzione. A parte il lavoro di Vittorio Arrigoni, qual è l’aspetto dei contributi esterni raccolti durante la lavorazione che ti ha sorpreso di più? Non saprei dirtelo, considerando che ogni contri-

MUSICA · La kermesse pugliese sempre sotto la direzione artistica di Livio Minafra

Suoni e ritmi del mondo si incontrano a Talos Gianluca Diana RUVO DI PUGLIA

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ono stati i suoni dei Balcani a concludere l’edizione 2015 del Talos Festival. L’apertura della serata è stata affidata ad Hysni (Niko) Zela & Albanian Iso Poliphonic choir, formazione composta da sette vocalist capaci di trasportare il pubblico in una dimensione affascinante ed inattesa. L’intreccio ritmico proposto dal settetto si è poi fuso con il pianismo del giovane polistrumentista Robert Bisha, albanese anch’egli ma residente in Italia. A seguire il live set della Fanfara Tirana e poi i Transglobal Underground: l’incontro tra i suoni della tradizionale brass band e l’electro folk dei secondi è risultato azzeccato, amalgamandosi in un suono coeso e ritmico che ha portato ad una

Occupano un posto speciale il live set del quartetto di Pasquale Iannarella e il piano solo presentato da Franco D’Andrea conclusione danzante e festaiola del Talos. Anche qust’anno Talos ha espresso i suoi contenuti artistici in due distinte sezioni: una corposa «Anteprima» (30 settembre-7 ottobre) e il Festival Internazionale (8-11 ottobre). Nella prima parte dedicata alle espressioni artistiche locali, sotto i riflettori gruppi composti per lo più da giovani musicisti, tra cui il combo della ConturBand, banda di strada che fa ben sperare per la genuinità della musica espressa. Nella se-

conda sezione tra i nomi di rilievo che si sono alternati, si sono messi in luce il duo composto da Sclavis/Rabbia, il solo per contrabbasso ad opera di Barry Guy, il solido quartetto di Pasquale Innarella con il progetto intitolato Uomini di terra. Omaggio a Giuseppe Di Vittorio. Fra i migliori concerti del Talos, occupa un posto speciale il piano solo di Franco D’Andrea, autore di un set misurato ed elegante, capace di volare tra melodia e ritmo con estrema sapienza. Periodo fertile per il compositore di Merano, il quale di recente ha pubblicato ben tre dischi a suo nome, dal titolo Three Concerts Live at Auditorium Parco della Musica, contenente altrettanti concerti tenuti all’Auditorium romano con tre formazioni diverse: da solo, in trio con Douglas e Bennink, col sestetto: «Sono stati - spiega D’Andrea - il risultato di una ’carta bianca’ che mi è

buto arricchisce e completa il libro. I primi ad accettare sono stati Maso Notarianni e il fumettista Claudio Calia. Ma la disponibilità è stata unanime. Quindi il volume ospita le firme di musicisti come Zulù della 99 Posse, reporter come Barbara Schiavulli, Filippo Golia della Rai e Mirka Garuti, con un lungo pezzo che ripercorre tutte le sedici udienze del processo Arrigoni, amici di Vik come Gabriele Corno e Meri Calvelli, rapper come Kento e vignettisti come Carlos Latuff. C’è anche Michele Giorgio de il manifesto, presente con i suoi scritti per ben tre volte. Dall’assassinio di Vik sono passati quattro anni, ma la situazione in Palestina è rimasta pressoché immutata. Qual è la tua opinione sulla scena politica attuale? È la stessa che avevo nel 2009 durante Piombo Fuso. La stessa che avevo la scorsa estate durante Margine Protettivo. La stessa di sempre, in termini di colonizzazione israeliana. Fintanto che esisteranno quei sessanta chilometri di muro e filo spinato e quel blocco navale imposto a sei miglia nautiche dalla costa di tutta la Striscia, fintanto che non verranno rispettati gli accordi di Oslo del 1994, le numerose risoluzioni dell’ONU e i diritti umani dell’intera popolazione palestinese (nella maggior parte dei casi nemmeno legata ad Hamas), la mia posizione verso la politica dello Stato d’Israele non potrà cambiare. E come Vittorio, sostengo anche io la soluzione dei due Stati.

stata data. La mia idea era di fare qualcosa in cui la gente mi sentisse suonare per loro. Accanto a pezzi di Monk e di qualche altro autore, c’è la tutta la mia musica». Di grande impatto anche l’esibizione della MinAfric Orchestra accompagnata dal quartetto vocale delle Faraualla. L’ensamble capitanato dai due Minafra, Pino e Livio si è mossa tra jazz, sud del mondo e stralci di improvvisazione, con consapevolezza e buon gusto. Un bilancio finale positivo per la rassegna, che ha rischiato di essere cancellata a causa di difficoltà economiche sopraggiunte durante la fase organizzativa. Grazie ad un coinvolgimento della intera cittadinanza si è riusciti comunque a farla partire, come sottolinea lo stesso Livio Minafra: «Nonostante tutte le difficoltà siamo riusciti ad esserci ancora. Abbiamo creato un entusiasmo operativo che ha coinvolto la popolazione locale, giovani e meno giovani, ristoratori ed albergatori ed associazioni locali che hanno contribuito ognuno a proprio modo. È un contagio sano, che può portare se sviluppato adeguatamente, a trovare risorse ulteriori per il futuro del nostro Festival».


il manifesto

RI-MEDIAMO

Sciogliere l’Auditel Vincenzo Vita

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a prossima settimana sarà presentato un film documentario curato da Giuliano Gargia: «La scomparsa dell’Auditel». L’autore è tra coloro che in varie sedi sottolineano da tempo l’anomalia dello strumento italiano di rilevazione dell’ascolto televisivo. Insieme – tra gli altri - a studiosi come Francesco Siliato e Roberta Gisotti (suoi due puntuali volumi sulla materia), Renato Parascandolo e Glauco Benigni. Il caso è di nuovo deflagrato grazie ad una preziosa inchiesta del Corriere della sera, condotta da Massimo Sideri. E si ricordano i precedenti. E sì, perseverare non è considerato diabolico. Anzi, come ha dichiarato la stessa società dell’Auditel, si sarebbe trattato di un mero errore. Accidenti. Il campione delle 5.600 famiglie interessate dalle rilevazioni dovrebbe naturaliter essere segreto. Eppure i nomi viaggiano. E’ accaduto in passato. Ma ora l’affare è diventato abnorme. Le quattro mail partite per sbaglio portano con sé – si dice - circa la metà del medesimo campione. Auditel addio, insieme al fornitore Nielsen. Gli «errori» reiterati sono, del resto, l’epifenomeno di una scelta di fondo grave e sbagliata. Intanto, nel consiglio dell’Auditel siedono i diretti interessati (Rai, tv private con Mediaset nella parte del leone, gli investitori pubblicitari -Upa, AssoComunicazione, Unicom- insieme alla minuscola quota assegnata agli editori): controllori e controllati coincidono. Inoltre, l’analisi dei dati riguarda la carta geografica ingiallita del villaggio globale, appena allargata con l’entrata di Sky e di Discovery, senza – però - il nuovo continente della rete. Insomma, Cristo si è fermato al video classico, che non dà conto della reale evoluzione degli stili e delle forme del consumo. La rottura dell’abitudine del palinsesto orario e l’ubiquità delle piattaforme diffusive renderebbero doveroso lavorare per un’altra era. Tipologie e soggetti mutano e i consumatori ambiscono a produrre, a divenire prosumer. Quindi, va ripensato il meccanismo nel suo insieme. I «bachi» sono solo un’avvisaglia di una crepa assai maggiore. Ancora. La rilevazione va affidata ad almeno due strutture, in concorrenza. E senza conflitti di interesse nei consigli di amministrazione, con una netta separazione dei ruoli. E’ argomento, peraltro, che starebbe in capo all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Chissà se l’Agcom romperà la consegna del silenzio. Non è argomento per esperti o appassionati. In verità la conta degli ascolti è il cuore dell’economia politica del settore. Da lì emergono salite e cadute di mercato, il costo dei contatti pubblicitari, gli equilibri di potere. L’Auditel è stato il perno del duopolio Rai-Mediaset, relegando alla periferia delle «altre» le emittenti estranee all’ordine costituito. C’è chi si è sbizzarrito su certe stranezze, come ad esempio i 400.000 utenti stabili attribuiti a lungo ai concerti lirico-sinfonici. Sarà. L’Auditel, dunque, si abbatte e non si cambia, per riprendere uno slogan del ’68. Un po’ estremo, ma pertinente. Ultimo e, ovviamente, non ultimo. Fino a quando si continuerà a pensare all’ascolto solo in termini quantitativi? E il gradimento, il giudizio sulla qualità? Che ne è del «Qualitel», il meccanismo pensato proprio per superare il pallottoliere? Che qualcosa non andasse era cosa nota. Non per caso sono state immaginate piccole riforme tanto nell’ampiezza del campione quanto nella tecnologia utilizzata. E’ tardi. Serve un colpo di spugna. Ora. Non potrebbe essere un emendamento da inserire nel testo in discussione in parlamento sulla Rai?

L’abolizione del bicameralismo fondata sulla necessità di approvare le leggi più velocemente senza un doppio esame desta qualche preoccupazione visti alcuni casi di attualità. Parliamo di quello che è successo alla Camera dei deputati in relazione al progetto di legge recante il titolo «Norme per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della Canapa». Un titolo più che incoraggiante, ma la soddisfazione è durata lo spazio di un mattino. Infatti è bastato andare a leggersi l’articolato approvato dalla Commissione Agricoltura e inviato alle Commissioni competenti per i pareri dovuti, per scoprire una vera enormità. Infatti il testo all’articolo 9, primo comma, prevedeva la collocazione in tabella I (quella delle droghe cosiddette pesanti) della «canapa sativa,

MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE 2015

COMMUNITY

CAMPANIA

Mercoledì 14 ottobre, ore 19 LA VALIGIA DELL’AUTORE Primo ospite de «La valigia dell’autore», ciclo di incontri letterari a cura di Ilaria Urbani, Stefano Piedimonte con il suo ultimo racconto «Miracolo in libreria» (Guanda).  Caffè letterario Intra Moenia, piazza Bellini, 70, Napoli Giovedì 15 ottobre, ore 20 ART WAR Sarà un film tedesco a inaugurare la 20esima edizione di artecinema: «Arta war» di Marco Wilm, presentato in collaborazione con il Goethe-Institut di Napoli, ritratto di una generazione di giovani egiziani che attraverso l’arte dei graffiti e la musica rap combattono per la democrazia e libertà di espressione.  Teatro di San Carlo, via San Carlo, 98, Napoli

EMILIA ROMAGNA

Venerdì 16 ottobre, ore 18.30 CRESCERE Incontro con Ibu Robin Lim, ostetrica, scrittrice, poeta, ambientalista, fondatrice e direttrice delle case della nascita Bumi Sehat a Bali, in Aceh e Filippine pronto soccorso ostetrico nelle catastrofi, valorizzando le risorse locali. Durante l’incontro dal titolo: «Custodi della nascita», ascolteremo le sue esperienze.  Il Melograno, via Pietralata, 31, Bologna Venerdì 16 ottobre, ore 18.30 EQUO SOLIDALE A partire da questo venerdì si apre il ciclo di incontri sul commercio equo made in Italy. Attraverso gli agrumi, le mozzarelle e il pomodoro visiteremo la Calabria (Goel bio), la Campania (Le terre di Don Peppe Diana) e la Basilicata e la Puglia (Funky Tomato) per conoscere tre esperienze virtuose. Primo appuntamento a tema: «Il commercio equo made in Italy: liberi da sfruttamento, mafie e devastazione»  Bottega, via Altabella 7/b, Bologna

LAZIO

Mercoledì 14 ottobre, ore 12 SHAKESPEARE Si tiene l'incontro «Shakespeare cinema e teatro», organizzato in occasione della presentazione alla Festa del cinema di Roma dei film «A midsummer night’s dream» (Julie Taymor) e «La stoffa dei sogni» (Gianfranco Cabiddu). Intervengono Antonio Monda, direttore artistico della Festa del cinema di Roma, il compositore premio Oscar Elliot Goldenthal, e i due registi Julie Taymor (Across the Universe), e Gianfranco Cabidddu (Disamistade, Faber in Sardegna).  La Sapienza, Aula Levi del dipartimento di Storia dell’arte e spettacolo in via dei Volsci 122, Roma Venerdì 16 ottobre, ore 18 DEMOCRAZIA E FALLIMENTO Presentazione del volume «Come la democrazia fallisce» di Raffaele Simone. Discutono con l'autore Peppino Caldarola e Walter Tocci.  Libreria IBS+Libraccio, via Nazionale 254/255, Roma

TOSCANA

Giovedì 15 ottobre, ore 21 LAVORO Dall'inizio della crisi generale (2007) ad oggi, in Italia, la disoccupazione è passata dal 6,1% al 12,7% del 2014. I disoccupati di Viareggio e Versilia, hanno deciso di organizzarsi per creare lavoro per vivere. «Con il secondo incontro - spiegano in un comunicato - abbiamo costituito il Comitato disoccupati organizzati. Abbiamo in mente idee, proposte, iniziative». Prossimo incontro domani sera.  Cro Darsene, via Coppino, 245, Viareggio Tutti gli appuntamenti: eventiweb@ilmanifesto.it

le lettere

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La post-democrazia Stanno stravolgendo la Costituzione. Per superare il bicameralismo paritario, impongono un debole Senato delle Regioni, privato del governo del territorio, e danno alla sola Camera la potestà di conferire la fiducia al governo. I deputati saranno nominati dai segretari di partito. La minoranza più grossa avrà la maggioranza falsa ma decisiva del 55 per cento dei seggi, con cui potrà eleggersi il Presidente della Repubblica e condizionare la composizione della Corte Costituzionale. Il governo avrà il potere sostanziale di far approvare senza emendamenti i propri disegni di legge e il potere legislativo della Camera sarà solo nominale. Si passa dalla postDemocrazia alla postCostituzione. A meno che la società civile non ritrovi le energie per contrastare con determinazione democratica la deriva postcostituzionale, attraverso i necessari referendum per abrogare la regressione dilagante. Pino Striglioni Genova Marino, il de prufundis Pd Un Sindaco, buon chirurgo che taglia le unghie a «parentopoli», affida alla Magistratura la verifica su appalti, subappalti ed acquisti, che, compie viaggi come gli altri e non più degli altri, e comunque reo per aver nella Città Eterna, sede della cristianità, «regolarizzato» il rito civile pro

omosessuali, in carica ancora con l’aperto Sinodo e nella imminenza del Giubileo, non poteva «resistere». Il coro degli oppositori, fra chi ne ha ignorato il difficile compito e chi legato ai sottofondi della speculazione mafiosa e parassitaria, tutti smaniosi di succedergli hanno reso visibile il loro gioco perverso e strumentale, rendendo indirettamente e senza volerlo onore ad Ignazio Marino. Spuntata così la campagna di sfiancarlo, additandolo come «incapace» di condurre sulla retta vita la macchina amministrativa capitolina. E pensare che anche Allende fu fatto saltare perché «incapace». Si ritiene che il de profundis dato dal Pd al suo Sindaco ne segnerà anche per esso una sconfitta e il successo di un bravo e capace Sindaco grillino, sperando che non faccia la fine o di Marino o di Pizzarotti. Giacomo Grippa Lecce La fuga dei giovani I giovani fuggono dall’Italia in cerca di un’occupazione e a Londra vivono ormai 250 mila italiani, quasi gli abitanti di una città di media provincia. Al di là del reiterato rilancio della notizia sulla stampa borghese e di provincia, le ragioni per cui i nostri giovani emigrano in Gran Bretagna sono da ricercarsi in una semplice comparazione: il nostro paese, che storicamente brilla per il basso tasso di attività della forza lavoro, ha poco meno di 22 milioni e mezzo di occupati; la Gran Bretagna, che ha pressoché la nostra popolazione, vanta 30 milioni di occupati. Dopodiché, questa considerevole differenza è la naturale spiegazione del dilagare del lavoro sommerso e in nero nel nostro paese, tanto che gli ultimi dati sull’occupazione, come ha ben rilevato Marta Fana il 6. c.m., non a caso vedono l’esplosione della vendita dei buoni lavoro (+ 73% rispetto al 2014) . Proprio perché i buoni lavoro hanno perso la caratteristica dell’occasionalità riservata inizialmente ad alcuni comparti lavorativi (l’agricolo, i servizi alla persona, le imprese di pulizia, ecc.) e ad alcune specifiche fasce di lavoratori (studenti, pensionati), la loro progressiva estensione a qualsiasi attività normata dalla legge, li ha fatti diventare lo strumento perfetto per mascherare il ricorso al lavoro nero. Il trucco è semplice: i lavoratori e le lavoratrici vengono fatti lavorare in nero, poi gli vengono distribuiti un certo numero di voucher alla settimana o al mese, di modo che se dovesse arrivare un’ispezione gli stessi non risulterebbero totalmente in nero. Se questo è lo stato e

la prospettiva del nostro mercato del lavoro, altro che fuga dei cervelli! Gian Marco Martignoni L’arroganza dell’industria Nel 2015 ricorre il centesimo anniversario della prima Guerra Mondiale, che è stata una guerra di trincea contraddistinta da pesanti battaglie di trincea con altrettanto pesanti perdite di vite umane, ma anche contraddistinta dalle decime, cioè la fucilazione a sorte, in genere a seguito di sconfitte, dei soldati italiani rei solo di avere seguito gli ordini dei loro comandanti e questo solo per dare l’esempio agli altri militari sopravvissuti. Da allora molte cose sono cambiate, ma non l’arroganza e la presunzione degli alti vertici della società italiana. E ne sono un esempio le affermazioni di alcune settimane fa del presidente della Confindustria, seguite a ruota da quelle del presidente del Consiglio, contro i sindacati. Certo i sindacati avranno anche le loro colpe, ma è soprattutto grazie alle loro lotte che i lavoratori italiani hanno potuto avere migliori condizioni di lavoro e migliori salari, che hanno fatto sì che potessero aumentare gli acquisti e quindi dare un impulso al rinnovamento dell’industria e dell’economia italiana. Non così si può dire di molti esponenti dell’industria e della politica italiana che, come i comandanti della prima guerra mondiale, si sentono sempre nel giusto e mai si sognerebbero di fare un esame di coscienza per valutare i loro errori e potersi migliorare, ma trovano più semplice e comodo addossare le colpe agli altri delle loro mancanze ed errori. Ancora una volta viene dimostrata la miopia, l’arretratezza e la “bigotteria” di una certa parte dei rappresentanti dell’industria

FUORILUOGO

La canapa tessile dà alla testa ai deputati Leonardo Fiorentini compresi i prodotti da essa ottenuti, proveniente da coltivazioni con una percentuale di tetraidrocannabinoli superiore all’1 per cento, i loro analoghi naturali…». Una previsione sconcertante, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale del 2014 e del dibattito internazionale sulle droghe che è orientato verso ben altre direzioni. Questa norma davvero allucinante era peraltro presente nei numerosi progetti di legge, da cui nasce la discussione, presentati dagli onorevoli Lupo, Zaccagnini, Oliverio e Bianchi

nel 2013, prima della sentenza della Corte, quando era vigente la tabella unica di tutte le sostanze stupefacenti prevista dalla Fini-Giovanardi. Ha però destato qualche sospetto in più di un osservatore il fatto che, nonostante il testo sia stato emendato in varie parti durante la trattazione in commissione, nessuno si sia accorto di tale errore che riportava l’orologio indietro, a prima della decisione della Corte Costituzionale che nel febbraio 2014 aveva decretato l’incostituzionalità della legge con il ritorno alla Iervolino-Vassalli che prevedeva

tabelle diverse per le droghe pesanti e quelle leggere. E’ addirittura incredibile che neppure i funzionari della Camera si siano resi conto del pasticcio che stava prendendo corpo. Dopo l’estate il caso è divenuto di pubblico dominio quando in Commissione Affari Sociali la relatrice ha verificato l’incoerenza del nuovo testo unificato rispetto alle attuali previsioni del 309/90. Le reti antiproibizioniste si sono allertate e così Maria Stagnitta presidente di Forum Droghe ha denunciato «una controriforma sul piano penale fatta dalla Com-

missione Agricoltura in barba alla Commissione Giustizia e al ministro Orlando». Daniele Farina deputato di Sel preannunciava battaglia in Commissione Giustizia ed altrettanto faceva l’on. Ferraresi del Gruppo 5 stelle. A quel punto i deputati del PD della commissione Agricoltura Oliverio e Terrosi tentavano di ridimensionare il tutto assicurando una modifica «tecnica», da apportare in seguito all’esame delle altre commissioni. La scorsa settimana finalmente è arrivato il parere, non tecnicamente ma politicamente tranciante, della

italiana, ben lontana dalla, in un certo senso, illuminata società industriale del nord Europa. Giacomo Moretti Torino La Bibbia degli atei La nuova guerra della Spianata delle Moschee, che Israele chiama Monte del Tempio, insieme alla deprivazione di acqua imposta ai Palestinesi, sono i due strumenti che Israele sembra aver adottato per portare a termine l’impresa sionista di conquistare tutta la terra tra il Giordano ed il Mediterraneo al Popolo Ebraico, a cui la avrebbe promessa nientemeno che Dio, alcuni millenni orsono. Per stramba che sembri questa interpretazione della Bibbia, è quella adottata come base dagli Ebrei israeliani ( che costituiscono l’80% circa dei cittadini di Israele: il rimanente 20% è costituito da Palestinesi Arabi ed alcune altre etnie molto minoritarie) per affermare il loro proposito di creare lo Stato Ebraico per i soli ebrei: gli altri abitanti debbono andarsene, con le buone o con le cattive. Tale dottrina è dunque diventata dottrina politica, perseguita con costanza da oltre i 67 anni. La cosa più assurda è che tale dottrina politica è adottata e proclamata non solo dagli ebrei religiosi a tutti i livelli possibili di fondamentalismo e settarismo, ma anche dagli israeliani del tutto secolarizzati, molti dei quali nettamente atei, che evidentemente hanno machiavellicamente deciso che tutto ciò che giova alla Nazione Ebraica, (il Popolo di Israele variamente definito con criteri etnici e/o religiosi) può essere utilizzato per la causa della Nazione, il loro reale idolo-dio. In spregio dei diritti umani e della moderna cultura democratica. Paola Canarutto, presidente di Eco, Giorgio Forti di Ec.

Commissione Giustizia che ha richiesto l’eliminazione del comma incriminato. Anche la Commissione Ambiente della Camera ha proposto modifiche, in particolare per evitare l’utilizzo come biomassa delle piante di canapa utilizzate per la bonifica dei siti inquinati. Quindi l’8 ottobre la commissione Agricoltura ha preso atto e modificato di conseguenza il testo. E’ auspicabile che l’Aula approvi le norme per sostenere una produzione storica dell’Italia eliminando sanzioni e controlli, certificando soltanto la provenienza del seme per garantire la buona fede del coltivatore. Anche questa vicenda surreale conferma l’urgenza di una modifica radicale della legge 309/90. (leggi il dossier su canapa sativa su www.fuoriluogo.it)


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il manifesto

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Lettera alla sinistra italiana NO TAV

Tre processi che parlano dell’Italia DALLA PRIMA Livio Pepino

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are compagne, cari compagni, la sconfitta del governo greco guidato da Syriza davanti all'Eurogruppo ha portato la sinistra europea a domandarsi quali possibilità abbia un governo guidato da un partito di sinistra, o un governo in cui un partito di sinistra sia coinvolto come partner di minoranza, di portare avanti una politica di miglioramento della condizione sociale di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, e delle piccole e medie imprese, nel quadro dell’Unione europea e dei trattati europei. La risposta è chiara e brutale: non esistono possibilità per una politica tesa al miglioramento della condizione sociale della popolazione, fintanto che la Bce, al di fuori di ogni controllo democratico, è in grado di paralizzare il sistema bancario di un paese soggetto ai trattati europei. Non esistono possibilità di mettere in atto politiche di sinistra se un governo cui la sinistra partecipi non dispone degli strumenti tradizionali di controllo macroeconomico, come la politica dei tassi di interesse, la politica dei cambi e una politica di bilancio indipendenti. Per migliorare la competitività relativa del proprio paese sotto l’ombrello dell’euro, restano al singolo paese sottoposto alle condizioni dei trattati europei solo la politica salariale, la politica sociale e le politiche del mercato del lavoro. Se l’economia più forte, quella tedesca, pratica il dumping salariale dentro un’unione monetaria, gli altri paesi membri non hanno altra scelta che applicare tagli salariali, tagli sociali e smantellare i diritti dei lavoratori, così come vuole l’ideologia neoliberista. Se poi l’economia dominante gode di tassi di interesse reali più bassi e dei vantaggi di una moneta sottovalutata, i suoi vicini europei non hanno praticamente alcuna possibilità. L’industria degli altri paesi perderà sempre più quote sul mercato europeo e non europeo. Mentre l’industria tedesca produce oggi tanto quanto produceva prima della crisi finanziaria, secondo i dati Eurostat, la Francia ha perso circa il 15% della sua produzione industriale, l’Italia il 30%, la Spagna il 35% e la Grecia il 40%. La destra europea si è rafforzata anche perché mette in discussione l’Euro e i trattati europei, e perché nei paesi membri cresce la consapevolezza che i trattati europei e il sistema monetario europeo soffrano

Oskar Lafontaine di alcuni difetti costitutivi. Come dimostra l’esempio tedesco, la destra europea non si preoccupa della compressione dei salari, dello smantellamento dei diritti dei lavoratori e delle politiche di austerità più severe. La destra vuole tornare allo Stato nazionale, offrendo però soluzioni economiche che rappresen-

L’euro sta de-industrializzando gli stati europei a vantaggio della Germania. Syriza dimostra l’impossibilità di un governo di alternativa. La sinistra italiana deve unire le forze e lavorare a un nuovo sistema monetario tano una variante nazionalistica delle politiche neoliberiste e che porterebbero agli stessi risultati: aumento della disoccupazione, aumento del lavoro precario e declino della classe media. La sinistra europea non ha trovato alcuna risposta a questa sfida, come dimostra soprattutto l’esempio greco. Attendere la formazione di una maggioranza di sinistra in tutti i 19 Stati membri è un po’ come aspettare Godot, un autoinganno politico, soprattutto perché i partiti socialdemocratici e socialisti d’Europa hanno preso a modello la politica neoliberista. Un partito di sinistra deve porre come condizione alla sua partecipazione al governo la fine delle politiche di austerità. Tuttavia ciò è possibile solo se in Europa prende forma una costituzione monetaria che conservi la coesione europea, ma che riapra ai singoli paesi la possibilità di ricorrere a politiche capaci di aumentare la crescita e i posti di lavoro; anche se la più grande economia opera in condizioni di dumping salariale. Presupposto imprescindibile a questo scopo è il ritorno a un sistema monetario europeo (Sme) migliorato, che consenta nuovamente di ricorrere alla rivalutazione e alla svalutazione. Tale sistema restituirebbe ai singoli paesi un ampio controllo sulle rispettive banche centrali e offrirebbe loro i margini di

manovra necessari per conseguire una crescita costante e l’aumento dell’occupazione attraverso maggiori investimenti pubblici, così come per contrastare, tramite la svalutazione, l’ingiusto dumping salariale operato dalla Germania o da un altro Stato membro. Questo sistema ha funzionato per molti anni e ha impedito l’emergere di gravi squilibri economici, come ne esistono attualmente nell’Unione europea. Rivolgendomi ai sindacati italiani, tengo a sottolineare che lo Sme non è mai stato perfetto, dominato come era dalla Bundesbank. Ma nel sistema Euro la perdita del potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori attraverso salari più bassi (svalutazione interna) è maggiore. A me, osservatore tedesco, risulta molto difficile capire perché l’Italia ufficiale assista più o meno passivamente alla perdita del 30% delle quote di mercato delle sue industrie. Silvio Berlusconi e Beppe Grillo hanno messo sì in discussione il sistema Euro, ma ciò non ha impedito all’Eurogruppo di imporre il modello delle politiche neoliberiste alla politica italiana. Oggi la sinistra italiana è necessaria come non mai. La perdita di quote di mercato, l’aumento della disoccupazione e del lavoro precario, con la conseguente compressione dei salari, possono rientrare nei miopi interessi delle imprese italiane, ma la sinistra italiana non può più stare a guardare questo processo di de-industrializzazione. Lo sviluppo in Grecia e in Spagna, in Germania e in Francia, dimostra come la frammentazione della sinistra possa essere superata non solo con un processo di unificazione tra i partiti di sinistra esistenti ma soprattutto con l’incontro di tante energie innovative fuori dal circuito politico tradizionale. Solo una sinistra sufficientemente forte nei rispettivi Stati nazionali potrà cambiare la politica europea. La sinistra europea ha bisogno ora di una sinistra forte in Italia. Vi saluto calorosamente dalla Germania e vi auguro ogni successo per il processo di costruzione di una nuova sinistra italiana. * Oskar Lafontaine è stato ministro delle Finanze ed è l’ex presidente del Partito socialdemocratico tedesco (Spd e del Partito della Sinistra (die Linke)

Quattro giorni dopo sarà il Tribunale di Torino a pronunciarsi nei confronti dello scrittore Erri De Luca, tratto a giudizio – moderna versione di caccia alle streghe – con l’accusa di istigazione a delinquere (sic!) per avere dichiarato in una intervista: «La Tav va sabotata. Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti». Dal 5 all’8 novembre poi – inedito cambio di registro – sarà il Tribunale permanente dei popoli (organismo di opinione erede del Tribunale Russel) ad occuparsi, a seguito di un ricorso del Controsservatorio Valsusa e di alcuni amministratori della Val Susa, in sintonia con il Movimento No Tav, della vicenda del treno ad alta velocità Torino-Lione e a dire se in essa ci siano state e ci siano violazioni di diritti fondamentali di singoli e della comunità della Val Susa da parte degli enti promotori dell’opera e delle apposite società di attuazione, del Governo italiano (in particolare nelle persone di alcuni funzionari preposti alla realizzazione), della Commissione petizioni del Parlamento europeo e del coordinatore dell’Unione europea per il Corridoio mediterraneo. Vicende profondamente diverse tra loro da cui traspaiono, come si è detto, due diverse concezioni del governo della società e dei fenomeni sociali. C’è, da un lato, l’idea – propria dei poteri forti e assai diffusa, oltre che nella politica, anche nella magistratura – che le società si governino in modo centralizzato e autoritario, con la stessa logica con cui si governavano un tempo le colonie, e che il confitto sociale sia un elemento di disturbo inaccettabile praticato da «nemici» meritevoli solo di repressione. Ne è corollario una singolare concezione della violenza, ritenuta per definizione estranea ai comportamenti delle istituzioni (anche i più arbitrari e lesivi di diritti fondamentali: alla salute, al lavoro, alla stessa vita) ed enfatizzata in modo abnorme nelle condotte di chi si oppone alle prevaricazioni e in difesa dei propri diritti. Solo così si spiega l’insistenza nel sostenere l’accusa di terrorismo, all’evidenza abnorme, a fronte di un fatto certamente illecito ma di dimensioni modeste, come ricostruito dalla Corte di assise di Torino, nella sentenza di primo grado, con parole di elemen-

il manifesto DIR. RESPONSABILE Norma Rangeri CONDIRETTORE Tommaso Di Francesco DESK Matteo Bartocci, Marco Boccitto, Micaela Bongi, Massimo Giannetti, Giulia Sbarigia CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE Benedetto Vecchi (presidente), Matteo Bartocci, Norma Rangeri, Silvana Silvestri

tare buon senso («pur senza voler minimizzare i problemi per l’ordine pubblico causati da queste inaccettabili manifestazioni, non si può non riconoscere che in Val di Susa e a fortiori nel resto del Paese - non si viva affatto una situazione di allarme da parte della popolazione e se il

contesto in cui maturò l’azione (degli imputati) non era oggettivamente un contesto di particolare allarme, neppure l’azione posta in essere rivestiva una «natura» tale da essere idonea a raggiungere la contestata finalità»). E solo così si spiega l’accusa di istigazione al sabotaggio, pressoché ignota nella storia della Repubblica, preludio – se si seguisse tale impostazione – al rogo di intere biblioteche, colpevoli di accogliere celebrati volumi di teoria politica ben più «incendiari» delle parole di De Luca. C’è invece, dall’altro lato, l’idea – su cui si fonda il ricorso al Tribunale dei popoli – che le grandi opere e le pratiche che le accompagnano, in Val Susa e nel mondo, non esauriscano i loro effetti nella costruzione di un megaponte o nel traforo di una montagna o nell’abbattimento di una foresta ma incidano sui meccanismi complessivi di funzionamento delle istituzioni e della stessa democrazia; che i diritti fondamentali delle persone e dei popoli siano più importanti della pretesa di autonomia da ogni vincolo dell’economia (e, per essa, dei decisori politici, delle imprese, dei grandi gruppi finanziari); che – come ha scritto G. Zagrebelsky – «nessuna votazione, in democrazia (salvo quelle riguardanti le regole costitutive o costituzionali della democrazia stessa) chiuda definitivamente una partita» e che quella evocata da una tale concezione «sarebbe semmai democrazia assolutistica o terroristica, non democrazia basata sulla libertà di tutti»; che per le decisioni delle istituzioni e di chi le amministra non possa esserci una garanzia di impunità. Nel giro di poco più di un mese questi processi si concluderanno e le loro conclusioni – pur di diverso peso istituzionale (ché la sentenza del Tribunale permanente dei popoli, qualunque essa sia, avrà effetti culturali e politici ma non giuridici) – peseranno sul futuro del Paese e delle sue politiche. Intanto in Val Susa i lavori del Tav assumeranno sempre più i tempi e le modalità della autostrada Salerno-Reggio Calabria mentre continuerà – con la consueta determinazione – l’opposizione di una comunità che non ha alcuna intenzione di rassegnarsi (nell’interesse proprio e dell’intero Paese.

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tiratura prevista 39.334


pagina 16

il manifesto

MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE 2015

L’ULTIMA

storie

A Lety, nella Boemia meridionale, sorgeva durante la Seconda guerra mondiale un campo di concentramento per Rom e Sinti, di transito per i campi di sterminio di Auschwitz. Ora in quel luogo è stata costruita una mega-porcilaia. Contro la vergogna del campo dimenticato di Lety centinaia di parlamentari, intellettuali e cittadini, tra i quali anche il premio Nobel Dario Fo, stanno firmando una petizione internazionale che chiede la demolizione dello stabilimento d’allevamento Jakub Hornacek PRAGA

L

a storia del campo di concentramento di Lety non è certamente una novità nella politica ceca. Il tutto comincia nel 1992 grazie a una ricerca del tutto casuale dello storico americano, ma di origini boeme, Paul Polansky. «Cominciai a sentir parlare del campo di Lety, nel periodo in cui conducevo delle ricerche sulla genealogia della mia famiglia - racconta Polansky - All’inizio ero soltanto curioso, perché girava voce che fosse un campo di lavoro nel quale i Rom dovevano “imparare a lavorare”. Solo che grazie alle fonti d’archivio scoprii che molti degli imprigionati avevano già un lavoro. E poi trovai le foto di bambini e ragazzi malnutriti, e cominciai a capire».

Il Protettorato fantoccio dei nazisti

Memoria DA ALLEVAMENTO

Nelle ricerche d’archivio Polansky, che ha fatto del campo di Lety uno suo tema di ricerca personale, scoprì il regime particolarmente brutale del campo, che era di transito per i campi di sterminio come Auschwitz. Il campo fu aperto dalle autorità del Protettorato di Boemia e Moravia, l’entità-fantoccio del regime nazista, nel 1940 e all’inizio non fu molto popolato. Le cose cambiarono nel 1942, quando anche LETY, sul territorio del Protettorato furono REPUBBLICA emanati decreti per la deportazione CECA. dei Rom e Sinti. Se prima del decreto IN ALTO, furono internati nel campo poco più CIPPO di un centinaio di Rom, dopo il decreACCANTO to il numero superò 1,2 mila persone, ALLA MEGA praticamente il doppio rispetto alla caPORCILAIA, pacità ufficiale del campo. IN RICORDO Nel campo le condizioni erano terriDEL CAMPO bili a causa di malnutrizione e cattive DIMENTICATO. condizioni igieniche. «Le informazioni A DESTRA, sulle condizioni nel campo, che ho troLE BARACCHE vato negli archivi, sono terribili, i vecDEL LAGER chi e i bambini venivano sistematicaNEL ’43. mente uccisi, perché non potevano esSOTTO, sere considerati neanche come bassa PROTESTA ROM manovalanza - afferma Paul Polansky DAVANTI in un’intervista rilasciata al periodico ALL’INGRESSO ceco A2larm - E quelli che sopravvisseDEL GRANDE ro alle sevizie furono mandati a TereALLEVAMENTO

zin o ad Auschwitz, dove furono o uccisi o di nuovo impiegati come schiavi». Più di trecento persone morirono direttamente nel campo a causa delle sevizie dei carcerieri e soprattutto delle epidemie di tifo, che si svilupparono nel campo e portarono alla sua chiusura e distruzione nel 1943. Un particolare, che si rilevò particolarmente importante per la memoria del campo, fu che la sua gestione non fu affidata alle autorità di occupazione, come per esempio il noto campo di transito di Theresienstadt, ma al Protettorato della Boemia e della Moravia. Il personale usato per la gestione del campo non fu perciò tedesco ma ceco. Per i Rom, che si battono per la memoria di Lety questo fattore è fondamentale per l’evolversi della situazione dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Mentre l’Olocausto e la durezza dell’occupazione nazista venivano ricordati anche in una chiara retorica anti-germanica, un campo gestito direttamente dalle autorità ceche fu rimosso dalla memoria collettiva. L’oblio, che cadde sul campo di Lety, i cui internati venivano usati per i lavori pesanti nelle fo-

reste circostanti, fu talmente forte, che nel 1972 fu costruito sul posto un allevamento intensivo di suini.

I soldi che non si trovano Dopo la rivelazione dell’esistenza del campo, che fu a lungo relativizzata da praticamente tutta la stampa ceca, il governo ceco promise alle associazione dei Rom e allo stesso Polansky di ri-

solvere la questione dell’allevamento suino entro il 2020. La data stabilita era sembrata una forma neppure tanto velata di rimando alle calende greche. Tuttavia il tempo sta ormai per scadere. Per cui i firmatari dell’appello chiedono al governo del premier ceco Sobotka di porre fine al «locucidio», cioè all’annientamento della memoria di questo luogo di sterminio dovuto al-

la presenza dello stabilimento industriali con connotazione e rimandi tanto infamanti. Oltre all’appello internazionale, Lety sono negli ultimi mesi oggetto di diverse mobilitazioni cittadine e antirazziste, tra cui anche un blocco simbolico avvenuto in maggio 2014, nel ventesimo anniversario della pubblicazione del lavoro di Paul Polansky.

«L’area diventi memoriale» Gli attivisti chiedono al governo di rispettare finalmente i patti presi e di convertire l’intera area in un memoriale. Attualmente al ridosso dello stabilimento suino esiste solo un piccolo monumento di commemorazione delle vittime sorto nel 2010. E come ricorda Polansky la prima commemorazione delle vittime nel 1994 alla presenza dell’allora presidente Vaclav Havel fu inondata da un insopportabile miasma.Il problema tuttavia sembrano le risorse. Una stima precisa non è stata fatta, tuttavia alcuni parlano di costi totali per più di cento milioni di euro. Una mega-cifra improbabile, che alla fine nessun governo risulta capace politicamente di accantonare in favore di un luogo di memoria dei Rom, la comunità di gran lunga più discriminata in Repubblica Ceca. E neppure l’attuale esecutivo a trazione socialdemocratica sembra avere intenzione di cambiare granché. «Sarei più contento di destinare questi fondi all’educazione dei bambini Rom o al miglioramento delle condizioni di vita nelle località socialmente escluse. Di soldi infatti non ne abbiamo troppi», ha detto il premier ceco Bohuslav Sobotka ammettendo che il problema rimane attualmente inevaso. Ora i firmatari dell’appello propongono di usare i fondi europei destinati all’integrazione dei Rom, che tra l’altro rappresentano la grande maggioranza dei fondi usati in Repubblica Ceca in favore all’integrazione e all’eliminazione delle discriminazioni verso questa popolazione. È tuttavia sintomatico che si chiede nuovamente all’Unione Europea di supplire alla mancanza di coraggio politico di praticamente l’intera classe politica ceca.


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