John Brinckerhoff Jackson

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Attilio Petruccioli

JOHN BRINCKERHOFF JACKSON A proposito dei paesaggi. Dodici saggi brevi

ICAR



Attilio Petruccioli

JOHN BRINCKERHOFF JACKSON A proposito dei paesaggi. Dodici saggi brevi

ICAR


Pubblicato con il contributo del Dipartimento ICAR (Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura- Politecnico di Bari) e della ricerca IMCA Nuove tecnologie per il rilevamento, l’analisi ed il monitoraggio di parametri ambientali (D.M. 593/00 art.5)

Traduzioni Gabriele Evangelisti e Attilio Petruccioli

Progetto grafico Nino Perrone

Impaginazione Paola Iacobellis

Composizione tipografica in Meta (Erik Spiekermann, 1993), Adobe Garamond (Robert Slimbach, 1989)

Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura Politecnico di Bari Via Orabona 4 70125 Bari email: a.petruccioli@poliba.it

Š Attilio Petruccioli ottobre 2006

ISBN (10) 88-95006-00-3 ISBN (13) 978-88-95006-00-0


Indice

9 Sguardi sul paesaggio quotidiano americano Introduzione

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A Proposito dei Paesaggi

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NecessitĂ delle Rovine

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Sguardi puritani al paesaggio

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Jefferson, Thoreau e oltre

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I Sacri Boschi d’America

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La visione dei nuovi campi

da: J.B.Jackson, The Necessity for Ruins, Amherst, The University of Massachusetts Press, 1980, pp. 1-18. da: J.B.Jackson, The Necessity for Ruins, Amherst, The University of Massachusetts Press, 1980, pp. 89-102. da: J.B.Jackson, Vernacular Landscape, Yale University Press, New Haven and London, 1984, pp. 57-64. da: Ervin H. Zube ed., Landscapes, Selected Writings of J.B.Jackson, Amherst, The University of Massachusetts Press, 1970, pp. 1-9. da: J.B.Jackson, The Necessity for Ruins, Amherst, The University of Massachusetts Press, 1980, pp. 77-88. da: J.B.Jackson, Vernacular Landscape, Yale University Press, New Haven and London, 1984, pp. 139-144.


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La Città quasi perfetta

da: Ervin H. Zube, Landscapes, Selected Writings of J.B.Jackson, Amherst, The University of Massachusetts Press, 1970, pp. 116-131.

103 I volti di Suburbia da: Ervin H. Zube ed., Landscapes, Selected Writings of J.B.Jackson, Amherst, The University of Massachusetts Press, 1970, pp. 113-115. 107 Una architettura diversamente orientata da: Ervin H. Zube, Landscapes, Selected Writings of J.B.Jackson, Amherst, The University of Massachusetts Press, 1970, pp. 55-72. 121 La casa che si muove verso ovest da: Ervin H. Zube, Landscapes, Selected Writings of J.B.Jackson, Amherst, The University of Massachusetts Press, 1970, pp.10-42. 145 L’abitazione mobile e come arrivò in America da: J.B.Jackson, Vernacular Landscape, Yale University Press, New Haven and London, 1984, pp. 89-101. 161 Camion City da J.B. Jackson, A Sense of Place, a Sense of Time, Yale University Press, New Haven and London, 1994, pp. 171-185.

175 Selezione di studi sul paesaggio culturale americano 179 Bibliografia completa degli scritti di J.B.Jackson sul paesaggio. 1950-1996

188 Una selezione di articoli su J.B.J.


In ricordo di John Brinckerhoff Jackson



Sguardi sul paesaggio quotidiano americano

Attilio Petruccioli

Nel 1952 un gruppo di paesaggisti inglesi, fra cui Gordon Cullen e Sheila Crowe, coniarono il termine subtopia per definire la trasformazione del paesaggio inglese: lo sfilacciamento delle città, la rottura della loro forma compiuta e la progressiva invasione della campagna, cosí da impedire la demarcazione tra un ambito e l’altro. Subtopia è arrivata anche in Italia negli anni 70 e il territorio è diventato una periferia continua; gli stessi insediamenti non si distinguono più per la forma o la qualità del tessuto, ma per la densità. Il nostro paese si è diviso in due ambiti contrapposti: l’abitato ovvero subtopia e il disabitato, ritornato a una condizione di natura, più degradata. I boschi cedui che ricoprono di nuovo le nostre colline nascondono una civiltà di percorsi, fattorie, ruderi monumentali, insediamenti e segni della limitatio. Lungo l’autostrada Milano-Venezia si sussegue invece una marmellata indistinta di insediamenti industriali, mall, compound residenziali borghesi autosufficienti, cintati e guardati da un portiere armato. Il paesaggio sinfonico del secolo scorso ha lasciato in pochi anni il posto a una composizione seriale di elementi con un basso livello gerarchico. Scomparse le strade e le piazze la gente è alla ricerca di nuovi punti di incontro. Il fenomeno dapprima inavvertito ha colto tutti impreparati: lo si avverte nelle reazioni contrastanti dei cantori post-futuristi contro le cassandre ecologiche, nell’esaltazione della velocità fine a sé stessa contrapposta alla catastrofe dietro l’angolo, tutte sopra le righe. Un fenomeno analogo hanno vissuto i paesaggi degli Stati Uniti nei primi anni 50, e anche allora il mondo si divise, senza peraltro cogliere il senso di quei profondi mutamenti. Nessuno ne capí il senso a differenza di una figura di geografo poco nota, che aveva il dono di pensare fuori dagli schemi consueti: John Brinckerhoff Jackson. Oggi JBJ è una leggenda americana, per aver insegnato a tre generazioni di americani a guardare con occhio attento, ma privo di complessi, alle

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trasformazioni del paesaggio, quello ordinario, quello del proprio cortile, accettandone anche gli aspetti antiestetici in nome della sua vitalità. Di osservatori attenti ed autonomi come JBJ ne avremmo un gran bisogno oggi nel nostro paese e con questo spirito voglio dedicargli queste due pagine. Il segreto di questo curioso investigatore di paesaggi umani, morto nel 1996 a 86 anni, è di non aver mai perso la rotta ovvero il concetto fondamentale che un paesaggio è sempre e comunque il portato di un rapporto dialettico tra uomo e natura, in cui il primo termine si costituisce come soggetto e che un “bel paesaggio” è solo quello che risponde coerentemente ai bisogni umani. Questa idea guida è subito delineata in uno dei primi saggi: To Pity the Plumage and Forget the Dying Bird, dell’autunno del 1967, che potrebbe anche essere considerato il suo testamento. “Lascia l’ampia autostrada e il suo paesaggio e segui una strada in terra battuta senza traccia di paesaggio: solo un fossato abbastanza fondo da poterci affogare – ma sembra una strada poco usata. C’è una casa grigia, dilapidata, con un mucchio di auto da rottamare sotto gli alberi mezzi morti dell’orto. Il fienile sta per crollare, il campo di granturco è smangiato dall’erosione. Mezzo miglio più avanti c’è un incrocio con un’altra casa decrepita, un cimitero invaso da erbacce e una chiesa vuota. Nel cortile di fronte una casa con mezza dozzina di roulotte. Dappertutto spazzatura e giocattoli rotti... Incroci la Terza Strada, la Seconda Strada e la Strada della ferrovia: gli edifici sono squallidi, la stazione stick style è chiusa con assi. La superficie stradale è sconnessa e piena di buchi; ci sono dei fili aerei e metà degli alberi stanno morendo. Invece delle linde casette bianche del settore più in alto ci sono fitte schiere di case popolari e duplex del 1893, qualche lotto vuoto, garage neri di grasso, drogherie d’angolo con porte a zanzariera, pensioncine. Qui abitano le minoranze locali: neri, hispano-americani, indiani o poveracci non inseriti, insieme a vecchi oziosi e vagabondi vari in cerca di lavoro nei campi o nell’edilizia. È un quartiere che si integra bene in un deserto di binari arrugginiti, di scorie, di alveo di piena. Quasi tutti vivono di assistenza, ma qualcuno lavora in uno stabilimento vicino, che fabbrica attaccapanni di ferro, carburatori per falciatrici o copertine in plastica. Checché faccia, il sottoprodotto è un liquido nerastro che scivola lungo i bordi di McKinlkey Avenue, attraversa un deposito di auto usate, passa sotto dei cartelloni pubblicitari, fino a sboccare nel fiume. I cartelloni dicono: ‘Mantenete bello l’Illinois (o l’Alabama o il Colorado); comprate una Ford; sostenete la polizia locale...’. “Ma ormai tutti dovrebbero sapere che i rottami d’auto in una fattoria o in

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un campo hanno una spiegazione economica: significano miseria. Miseria e pigrizia, o miseria e ignoranza: comunque miseria. Le auto abbandonate sono lí per essere cannibalizzate per produrre un’auto semi-decente per una famiglia che non può permettersene una, o perché un trafficante in rottami cittadino paga un piccolo affitto per parcheggiare il suo ‘magazzino’ in eccesso”. I toni dell’attacco con cui descrive la geography of dispair ricordano John E. Steinbeck, la stessa commossa partecipazione umana per i guai dei diseredati, mista a un profondo senso morale. Ma JBJ è personalità più complessa e inafferrabile: si è sempre collocato trasversalmente rispetto alle discipline canoniche ( con dispetto del mondo accademico) e non si è mai fatto rinchiudere in un preciso schema ideologico: un luterano- anarchico, un conservatore contro corrente, un aristocratico proletario... Per le sue virtù di esploratore della geografia umana è vicino all’urbanista scienziato scozzese Patrick Geddes, mentre la sua capacità sintetica di disegnare grandi affreschi storici lo potrebbe avvicinare a Fernand Braudel. Certamente un umanista originale, che è stato cowboy, professore a Berkeley e ad Harvard, turista curioso e ufficiale dell’Intelligence Service durante la seconda guerra mondiale, garagista e giardiniere negli ultimi dodici anni della vita. Pacato affabulatore quanto curioso ed educato ascoltatore, ma soprattutto elegante prosatore. Durante la guerra in Italia e nelle Ardenne ha avuto modo di affinare il metodo e gli strumenti di lettura, che non abbandonerà più. Questi passi da Learning about Landscapes sono il miglior commento: “Molto presto gli uomini hanno imparato a farsi guidare dai propri sensi; in città o in campagna aperta, i loro sensi raccoglievano costantemente informazioni – il puzzo di cordite, l’odore dei cadaveri, perfino l’odore del nemico perché ogni esercito aveva un odore specifico. C’era il rumore di diverse armi da fuoco, il rumore dei proiettili sopra la testa; il rumore dei passi, dei vicoli. Nelle notti abbastanza silenziose gli uomini di pattuglia imparavano ad ascoltare il rumore dei camion che portavano i rifornimenti di viveri a chilometri di distanza. Una luce forte o improvvisa bastava a svegliare dal sonno più profondo. In tempo di pace non si era mai data importanza alla composizione del terreno o alla densità del fogliame, ma nelle unità distaccate, sempre coscienti delle pattuglie notturne davanti a loro e del bisogno di rifornimenti, queste cose diventavano a volte addirittura questioni di vita e di morte. Anche le fasi della luna erano importanti”. “Questa sensibilità ambientale non aveva niente di strano: l’esperienza ne dimostrava presto l’importanza e tutti cercavano di coltivarla al massimo.

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Quello che la rendeva estremamente preziosa era il fatto di essere un’esperienza condivisa, di cui si parlava, che si trasmetteva ai nuovi arrivati ed era accettata da tutti come parte della loro vita di guerra. Aveva poco a che fare con il senso della natura e in realtà era basata più su rischi urbani che rurali”. Semplificando molto si può leggere il complesso itinerario di JBJ come una trama in cui strutture ricorrenti sono applicate a soggetti di paesaggio specifici. In altre parole esistono paradigmi verticali, con i quali non si è mai stancato di monitorare il paesaggio americano per 45 anni quali il luogo, il tempo e il mutamento, l’antiecologismo, il paesaggio vernacolare, incrociati a temi orizzontali dell’America quotidiana quali la casa, il garage, la strada, le mobile-home, le freeway e la strip, la main street, la piccola città del Midwest, la natura, il bosco sacro ecc. Questa trama ha subito una continua evoluzione nel tempo, ricostruibile attraverso gli articoli e gli orientamenti della sua rivista “Landscape”. Da un sottotitolo iniziale Magazine of Human Geography of South-West, dove l’area di studio era molto circoscritta, dopo appena 4 numeri elide il South- West. Il concetto di geografia umana è mutuato dalla tradizione francese degli “Annales” e un esempio illuminante è l’articolo Chihuahua As We Might Have Been sul significato culturale della linea di frontiera tra Messico e New Mexico, su come cioé una linea astratta nel deserto crei due paesaggi opposti: uno dominato dalle dinamiche economiche e l’altro dal contratto sociale. Tutti gli articoli, rivolti più al cultore che allo specialista, facevano largo uso della fotografia aerea, poiché “è dall’aria che la vera relazione tra paesaggio naturale e paesaggio umano si rivela a prima vista”. La struttura del paesaggio si rivela cioé nella divisione della terra, nella rete delle strade, dei percorsi e dei ponti; nei tipi di città: la comunità indiana, che guarda a quella americana, tracciata su una griglia, da un incasso nella roccia, il villaggio spagnolo che si distende lungo una strada o un torrente, l’agglomerato derivato da una stazione di servizio all’incrocio tra due superstrade nel deserto. “Molte questioni sono poste da questa lettura e molte variate risposte vengono in mente... ma l’interrogarsi è più importante del trovare le risposte. Significa che come il viaggiatore sull’aereo, noi abbiamo acquisito una nuova preziosa prospettiva sul mondo degli uomini e con essa la realizzazione che dovunque andiamo, qualunque sia la natura del nostro lavoro, noi decoriamo la faccia della terra con un progetto vivente che cambia e che è poi sostituito con quello della generazione successiva”. In un celebre saggio del 1953, The Westward Moving House, JBJ chiarisce cosa intenda per processo di trasformazione, progetto vivente del cambiamen-

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to. Attingendo al genere letterario della saga familiare egli narra la storia di una ipotetica famiglia di coloni, i Tinkham, e dei loro progressivi spostamenti dal New England al Midwest, al seguito dello spostamento della Frontiera. E puntualmente ne descrive il cambiamento dei costumi di pari passo con i mutamenti della società americana, attraverso la trasformazione delle loro case e del diverso significato che esse assumono nel tempo. Cosí la casa dell’avo Nehemiah: “Quindi la casa di Nehemiah è stata costruita per durare nel tempo, per essere stabile, per sopportare un peso considerevole, per non essere sottoposta a facili modifiche e ampliamenti cosí come la sua teologia, forse... Il progetto della casa era altrettanto non funzionale nel senso comune del termine”. Al contrario per il nipote Pliny, che aveva tentato l’avventura in Illinois: “Era naturale che il paesaggio che lui e gli altri fuggiaschi creavano nel West doveva essere sotto molti aspetti l’esatto contrario del paesaggio che avevano conosciuto da bambini. Le fattorie non erano raggruppate intorno alla chiesa, ma disperse nella prateria, molto lontane tra loro; la terra non veniva assegnata equamente da un’autorità benevola, ma comprata nel mercato libero; e in luogo della vita ultrafamiliare del villaggio del New England non c’era nessuna vita di villaggio”. Altrettanto nuovo era il modo di costruire. Pliny abbandonò la struttura tradizionale a telaio dei suoi antenati e (fatto significativo) le dimensioni tradizionali basate sulla campata e semicampata e usò il metodo più recente, la cosiddetta struttura baloon – il tipo di struttura che oggi si usa in ogni casa frame americana ma che era stata inventata poco più di un secolo fa. Il modo di vita di Pliny morí con lui, ma il fantasma di Pliny e la casa di Pliny continuano a ossessionarci. Per molti americani urbani rappresentano ancora un ideale nazionale. Il Thanksgiving nella cucina di Pliny, la pesca nel vecchio stagno della fattoria di Pliny e Pliny stesso dietro l’aratro tirato da una coppia di cavalli oggi fanno pubblicità alla birra, ai frigoriferi e alla “Libera impresa”. Nel settembre del 1998, al convegno-giubileo dedicatogli dall’Università di New Mexico (se fosse stato vivo JBJ avrebbe rifiutato di presentarsi), ho assistito a un esilarante intervento di David Heymann: The Eastward Moving House su una famiglia di texani arricchiti, che si trasferisce negli anni 90 nel New England. Non solo quindi il progetto vivente continua, ma può cambiare di segno. Alla fin degli anni ‘50 JBJ matura un altro aggiustamento, dove prende coscienza del fallimento delle strutture pubbliche preposte al controllo e

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al progetto del paesaggio; la cecità e l’incapacità dei cosiddetti planners di apprezzare i problemi della società rurale e delle piccole città americane di fronte a un rapido mutamento sociale. Trova astratto e dottrinario l’approccio del mondo accademico, prigioniero della illusione funzionalista che la tecnologia possa disegnare il paesaggio dell’uomo, o dell’internazionalismo, per cui le differenze geografiche possono essere ridotte a semplici formule: “Altri cercano di convincerci che lo shopping center suburbano o residenziale è il centro civico del futuro. Il signor Victor Gruen, che è comprensibilmente felice dei suoi enormi (ed enormemente popolari) shopping center di Detroit e Minneapolis, ci dice che queste aziende (o meglio i loro dintorni graziosamente trattati a giardino) funzionano sempre più come ambienti per le feste, le mostre d’arte, gli spettacoli e anche come luoghi di socialità e di gioco controllato dei bambini. Non ne dubito; ma per quanto grande, moderno, bello, lo shopping center è l’esatto contrario del Percorso. Il suo pubblico è fatto quasi esclusivamente di massaie e bambini e impone un’uniformità di gusto, di reddito e di interessi con i suoi tenaci sforzi di essere auto-sufficiente che portano a respingere automaticamente qualunque cosa venga dall’esterno”. In risposta a tutto ciò, JBJ prende decisamente posizione, in questa fase, per il changing landscape e dedica una attenzione speciale ai sobborghi, ai motel, ai camion, alle stazioni di servizio, contro il nascente movimento della beautification (leggi gentrification delle aree più povere) e contro la conservazione (leggi invenzione e replica di aree storiche mai esistite). Le argomentazioni sono troppo ben concatenate in Necessity for Ruins per tentarne qui una parafrasi o una sintesi; voglio solo ricordare come JBJ non si sia mai stancato di mettere in guardia gli americani sul fatto che, di tutte le motivazioni per conservare un paesaggio quella estetica è di gran lunga la più debole. Accentua l’interesse su quel “cortile” che architetti e planners del tempo ignorano, come le strips autostradali. “In tutte queste facciate aerodinamiche, quegli ingressi vistosi, quegli effetti decorativi volutamente bizzarri, in quei volumi aggressivi di colori, luci, movimenti che si combinano cosí graziosamente con quello che è vecchio e tradizionale, ci sono certe caratteristiche di base che ci dicono che ci troviamo di fronte a un’arte degradata e involgarita, un tipo di arte popolare camuffata da ventesimo secolo. Dobbiamo abituarci all’idea che la motivazione di base di queste aziende – motel, cinema, drive-in o night club – è il desiderio di attrarre i passanti. L’austera ambizione del mondo contemporaneo di creare un’opera d’arte che si autogiustifichi non ha spazio in questa parte di città. Qui qualunque impresa, per sopravvivere,

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deve agganciare il pubblico – e un pubblico che passa a ottanta chilometri all’ora o più. Il risultato è un’architettura etero diretta, e l’unico criterio di successo è che piaccia o meno; il consumatore, non l’artista o il critico, è l’ultimo tribunale d’appello”. I passi di Other-directed Architecture sopracitati richiamano troppo da vicino il celebre libro di Robert Venturi e Denise Scott Brown Learning from Las Vegas per ignorare la cosa. Dietro le apparenze, le posizioni di fondo non potrebbero essere più diverse: Venturi si esalta per le luci dei neon e i pastiche del Cesar’s Palace, poiché vi riconosce forme di una cultura pop che possono essere trasferite nell’architettura contemporanea più colta, al pari di qualsiasi forma storica. Venturi è un postmoderno e il suo atteggiamento sostanzialmente antistorico. L’interesse invece di JBJ è nel processo continuo della storia, in cui un particolare momento si manifesta nelle forme kitsch dei neon e dei pastiche. Egli guarda a quelle forme, che trova bruttine (aristocratico come è), con benevolenza, in quanto espressione della società e della storia americane. E ancora esalta quel settore della città americana, misconosciuto, per il quale inventa il termine di Stranger’s Path, che è il titolo di un omonimo celebre saggio. “Dunque l’inizio del Percorso è segnato da mezzi di trasporto abbandonati e da terreno intorno agli scali ferroviari. La città ci accoglie con un sorridente panorama di parcheggi, depositi, strade dissestate e invase dalle erbacce dove qua e là, tra i detriti, spuntano benzinai e piccoli ristoranti come resti di un bombardamento aereo. “Ma molti si chiederanno: quanto è importante il Percorso dello Straniero per la città moderna? Che futuro può avere? Non posso dare una risposta precisa a queste domande. Quando lo paragonavo a un fiume usavo un raffronto poco originale ma che aveva il pregio di essere appropriato e di suggerire due elementi. Il Percorso, come io lo vedo, ha la funzione primaria di introdurre nuova vita nella città, di portare la città a contatto con il mondo esterno (inutile dire che ha anche la funzione altrettanto preziosa di avvicinare il paesano, il contadino solitario, il commesso viaggiatore, il camionista o l’abitante del paesaggio disumanizzato di una fattoria commerciale, a contatto con la cultura urbana). D’accordo che questi contatti non sono sempre molto esaltanti né di scala decente e che sono sempre più limitati alla categoria inferiore di cittadini; tuttavia sono quelli che tengono in vita un numero infinito di piccoli commerci, arti e mestieri e che rappresentano quello che in fondo è uno degli scopi principali della città: servire come luogo di scambio generale. Per conto mio non posso pensare

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che nessuna grande comunità riesca a sopravvivere senza questo costante apporto di nuovi bisogni, nuove idee, nuovi costumi, nuove energie, e quindi non posso concepire una città senza qualche settore che corrisponda al Percorso”. Con il tempo la trama di pensiero di JBJ si è mossa dal concreto all’astratto, dalla descrizione di un esempio alla teoria e alla speculazione sui paradigmi verticali, espressione di uno spirito inquieto, che non smette di interrogarsi. Questo percorso si accompagna a un progressivo distacco dagli eventi contingenti, usati come pretesto per succosi ritratti del costume americano, in favore di affreschi storici, intesi come inquadramento del problema e del background, e soprattutto come presa di coscienza del significato del tempo e del processo mutazionale. Questo ultimo concetto espresso sempre tra le righe, e mai costruito come ipotesi teorica, è il più importante dono di JBJ. Robert Riley in una recensione al suo libro Discovering the Vernacular Landscape del 1984 ha notato come lo stesso concetto di paesaggio si sia articolato e complicato nel tempo. JBJ descrive almeno tre paesaggi che spesso contrappone dialetticamente. Anzitutto il paesaggio estetizzante e rinascimentale, espressione di una volontà politica autoritaria, i cui esempi sono codificati nei libri di arte dei giardini. È una concezione importata dal Vecchio Continente, che in America ebbe modo di attecchire un solo secolo e limitatamente al New England. Ha però formato una mentalità, che incoraggia pianificatori e paesaggisti verso una politica di beautification e recupero del territorio, che non conosce partecipazione, autoritaria quanto inefficace. A volte compresente, ma sempre in antitesi, è il paesaggio vernacolare e medievale. È il paesaggio precario, legato alla mobilità ed alla sopravvivenza, in cui i poveri come nomadi errano alla ricerca di un lavoro. In un famoso saggio JBJ dice che la vista di un rudere di legno abbandonato nel Tennessee o nel Mississipi non gli facevano venire in mente immagini di disperazione ma di speranza: quel rudere molto probabilmente era stato abbandonato da una famiglia migrata verso una migliore opportunità. Quella carcassa altro non sarebbe stata che il corpo della crisalide diventato farfalla. Il paesaggio vernacolare è sempre esistito anche in Europa, ma in America è stato preponderante per la formazione del paesaggio moderno. Da ultimo esiste un altro paesaggio che si nutre del secondo; il paesaggio politico e partecipato, che siamo chiamati a costruire: una organizzazione spaziale che va al di là dei propri confini e relazioni.

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Quale insegnamento possiamo trarre noi italiani dal messaggio di JBJ? Ricordo che negli stessi anni Umberto Eco raccontava in un saggio caustico ed esilarante un viaggio nella iperrealtà americana, dove c’è la Fortezza della Solitudine del Presidente Johnson ad Austin con la riproduzione in formato reale della Oval Room, i centrini ricamati con la bandiera americana e i ritratti dei presidenti fatti coi fiammiferi e dove c’e il Madonna Inn a San Louis Obispo definito “una Sagrada Familia disegnata da Arcimboldi per Orietta Berti”. Il saggio del grande semiologo era espressione di una lettura tutta estetica ed europeicentrica del paesaggio americano. Per contrasto pensiamo al contrappunto comprensivo della introduzione di Pity the Plumage. JBJ non giudica, partecipa dell’ambiente che lo circonda, ci invita ad essere indulgenti, poiché comunque esso è espressione della vita. I suoi articoli ci introducono a un nuovo e più corretto uso del termine vernacolare. Non un repertorio per citazioni colte di forme regionali, tantomeno accettazione dell’architettura contemporanea come indifferenza linguistica per il luogo e il tempo: Anyhow, Anywhere, Anytime, ma come espressione del processo di mutazione. Da questo processo implicitamente, suggerisce JBJ, è doveroso estrarre i principi per la progettazione del nostro paesaggio futuro. Personalmente nonostante la devozione e la stima che provo per lui, non riesco a condividere l’inesauribile ottimismo e confidenza nella capacità di recupero della gente. Egli è partecipe della illusione americana e protestante che il mondo attuale, cioé il mondo della produzione, possa generare qualcosa di diverso da subtopia. Il mondo della produzione è una filosofia che impregna tutta la vita: dai componenti dell’ambiente costruito che sono prodotti, a tutto l’ambiente che è prodotto anch’esso. La differenza con il paesaggio tradizionale è che esso era composto di opere, oggetti dotati di propria individualità. Un concio di pietra è un individuo, non ne esiste un altro clonato, ma un barattolo di Coca-Cola è un prodotto. Esso diventa individuo solo quando, cessata la sua funzione, diventa uno scarto: cosí mia figlia possiede un delizioso aeroplanino di latta costruito con barattoli di Coca-Cola da un barbone di Santa Monica. Il circolo vizioso dal quale purtroppo sembra non riusciamo a uscire noi progettisti, è che siamo parte di subtopia. Anche se non ci facciamo distrarre dal piumaggio e siamo commossi dal canto dell’uccellino morente, sappiamo generare solo subtopia e i suoi prodotti, dove le case e le città sono tutte eguali come le automobili, le lavatrici e i barattoli di CocaCola.

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John Brinckerhoff Jackson A proposito dei paesaggi. Dodici saggi brevi



A Proposito dei Paesaggi

da: J.B.Jackson, The Necessity for Ruins Amherst, The University of Massachusetts Press, 1980, pp. 1-18

Per più di venti anni ho trascorso molti mesi girovagando da un college all’altro per parlare a gruppi di studenti della campagna e delle città americane. Ho viaggiato in lungo e in largo nel Sud, nel Midwest e nel Sud-Ovest e mi piaceva raccontare ad un pubblico più o meno attento cosa avevo visto e come pensavo che le città e le campagne fossero diventate quello che erano diventate. Diapositive di modesta qualità servivano a illustrare le mie riflessioni. Se ricordo bene, fu nella metà degli anni ‘50, all’Università della California, a Berkeley, che cominciai questa carriera itinerante; sarò sempre grato al Dipartimento di Landscape Architecture di quella Università per l’aiuto e l’incoraggiamento che mi diede. Le conferenze divennero lezioni, le lezioni si consolidarono in un corso che da allora venne ripetuto per diversi anni di seguito. Ho parlato delle strade e dei campi, della forma dei villaggi e delle città, delle fattorie, delle fabbriche e perfino dei luoghi informali per il gioco. Con il tempo ho scoperto un interesse crescente per la storia di quelle cose e come esse abbiano favorito la formazione di [intere] comunità. Ma alla fine il problema principale era come definire la mia ricerca: quale era il comune denominatore di tutti quei luoghi e di quelle strutture? Quale teoria o quale credo li aveva generati? Qualche volta si è detto che le mie lezioni erano sulla “Scena Americana” o sull’”Habitat Americano”. Tutte le volte che ho potuto, ho contestato l’uso della parola “ambiente”. Negli anni ‘60, si ricorderà, il movimento ambientalista era in auge e sicuro di se stesso, ma io non avevo alcuna intenzione di essere identificato con esso; e questo si verifica ancora oggi. Quando, al contrario, il mio corso fu intitolato “Studi sull’Ambiente Antropico” (nome dato da Harvard), mi sono sempre preoccupato di dire che né io né il corso eravamo in alcun modo interessati alla conservazione o all’ecologia o all’esperienza del mondo naturale.

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Alla fine il mio corso fu intitolato “La Storia del Paesaggio Culturale Americano”, con il quale si intendeva l’ambiente naturale modificato dall’uomo. Non era certo questa la migliore delle definizioni, ma non sono stato capace di trovarne una migliore. Gli anni dell’insegnamento furono piacevoli e stimolanti, sebbene mi richiedessero grandi fatiche; ho imparato parecchie cose che avrei dovuto sapere fin dall’inizio, e le ho imparate da colleghi geografi o storici, o professori di progettazione ambientale e di architettura. C’era sempre sufficiente stimolo da parte degli studenti per giustificare le mie intenzioni di approfondire sempre di più l’argomento. Come la maggior parte dei nuovi arrivati, non avevo idea dei bizantinismi del mondo accademico; sembrava un vasto labirinto di dipartimenti, programmi, comitati, lotte per la promozione e per la cattedra a vita e per le borse di studio e per i fondi di ricerca nei quali gli iniziati abilmente si preparavano il rifugio per la vita, ma che erano solamente motivo di frustrazione ed angoscia per un nuovo arrivato. Confesso che era mortificante scoprire che gli studi sul paesaggio, per quanto importanti per me o ben accettati dagli studenti, non avevano alcuna legittimazione accademica. Era certamente piacevole per gli studenti ascoltare storie di strade, di campi, di città e vedere diapositive – a prescindere dalla loro qualità – di pompe di benzina e di granai. Ma dove (mi si chiedeva con molta educazione) portava tutto questo? A quale dipartimento apparteneva e che cosa poteva offrire ad un qualsiasi programma di specializzazione? E quali erano le autorità accademiche riconosciute in questo campo e quanto era estesa la loro bibliografia? In breve, esisteva qualcosa come lo studio sul paesaggio, al quale professori e studenti potessero dedicarsi? Queste erano domande ragionevoli e il motivo per cui non ne sono più disturbato è semplicemente perché non insegno più. Sta ad una più giovane generazione di entusiasti del paesaggio, mi spiace dirlo, di risolvere l’importante problema della legittimazione accademica. Ma mettendo da parte tutti questi problemi ne rimaneva uno che fin dall’inizio mi stava maggiormente a cuore: in quale maniera potevo dare un serio contributo all’educazione degli studenti? Questo è certamente ciò che si domanda ogni insegnante, ed un buon insegnante, immagino, è colui che organizza i suoi corsi in modo tale da preparare gli studenti per una vita di soddisfazioni. Ma più ho cercato delle giustificazioni per l’insegnamento del paesaggio culturale ad un certo livello, tanto più mi sono convinto che il mio corso aveva un basso livello di applicazione pratica e di valore accademico. Cosí il mio contributo alla formazione degli studenti

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fu semplicemente questo: ho insegnato loro a sviluppare un occhio critico e ad essere turisti entusiasti. Un genere di educazione imbarazzante, dal momento che ero perfettamente conscio della bassa reputazione di cui godono i turisti in tutto il mondo, e infatti io stesso ero andato molto al di là delle mie responsabilità nel denunciare come l’industria turistica sfrutti e deturpi i paesaggi. Ma ero anche perfettamente conscio del fatto che ciò che io cercavo di trasmettere agli studenti era esattamente il piacere e l’ispirazione che io avevo acquisito non dai libri, non dal college, ma da molti anni di viaggi. Ciò che trasmettevo erano quelle esperienze da turista – o i mezzi per acquisirle – che erano state per me cosí preziose. Sono passati più di cinquant’anni da quando ho consultato il mio primo Baedeker, e ancora oggi guardo ad ogni guida come ad un libro pieno di rivelazioni; provo una immediata attrazione per qualsiasi turista veda leggere le sue pagine ben stampate e la sua prosa condensata nello sforzo di interpretazione del mondo che lo circonda. Ci sono turisti odiosi cosí come ci sono bambini odiosi, ma c’è una grossa componente di snobismo, mi sembra, nel nostro criticare i turisti, la condiscendenza di coloro che appartengono -- che sono a casa -- nei confronti di coloro che vi sono stranieri senza alcuno status riconosciuto. Ma noi, prima o poi, siamo tutti stranieri, turisti, e dalla nostra stessa esperienza dovremmo riconoscere l’impulso individuale verso il miglioramento che è alle origini di tutto questo viaggiare. A rischio di esagerare, vorrei dire che l’ispirazione verso il turismo nasce dal desiderio di conoscere meglio il mondo per poter conoscere meglio noi stessi, e se offendiamo il gusto comune ciò è solo un incidente di percorso durante la nostra ricerca. L’orologio a cucù svizzero, l’adesivo delle caverne di Carlsbad da attaccare alla macchina è un tipo di diploma, una prova che almeno abbiamo cercato di migliorare. Persino troppa letteratura contemporanea sul turismo ne dà una spiegazione sociologica: la questione dell’aumento del tempo libero, del consumo, lo sfruttamento di società meno sviluppate, il potere dell’industria turistica e cosí via. Quello che sembra venire trascurato è lo scopo educativo di una larga parte del turismo, la sua vecchia e sempre valida tradizione formativa ed il contributo che il turismo ha dato non solo alla scoperta del mondo ma anche al nostro modo di interpretarlo. La nascita del turismo, circa quattro secoli fa, ha segnato l’inizio di una nuova e più vicina relazione fra le persone e il paesaggio in cui vivevano, e non sono stati il filosofo o lo scienziato ad aprire la strada, ma il viaggiatore solitario poco informato che andava all’avventura senza saperne il perché, alla ricerca di un nuovo tipo

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di piacere e di un nuovo tipo di cultura. Se proprio dovessimo nominare una persona quale padre del turismo, io credo che Montaigne sarebbe l’uomo giusto. Quale viaggiatore per il piacere di viaggiare egli era uno dei tanti, ma fu forse uno dei primi a speculare sul perché la gente iniziasse a sentire il bisogno di lasciare casa per vedere monumenti famosi e città antiche, esplorare regioni remote e osservare strani costumi. Il motivo per intraprendere un viaggio era cambiato, non c’era più l’incentivo religioso che nel passato aveva ispirato lunghi e difficili pellegrinaggi portando all’esplorazione di nuovi territori e non c’era più la ricerca di nuovi mercati o nuovi prodotti da parte del mercante; era qualcosa di diverso. Montaigne lo ha definito come il desiderio “di descrivere il temperamento delle nazioni e il loro modo di vita” – una motivazione puramente geografica. Ma egli menziona anche un motivo che non può essere identificato con il viaggiare: una più forte autocoscienza; come ha spiegato Montaigne, “l’opportunità di svegliare le nostre menti, di pulirle e lucidarle mediante il contatto con altre. Viaggiare attraverso il mondo genera una meravigliosa chiarezza nel giudizio degli uomini. Tutti noi siamo sempre confinati e chiusi all’interno di noi stessi e non riusciamo a vedere al di là del nostro naso. Questo grande mondo è uno specchio dove possiamo rifletterci per conoscere meglio noi stessi; ci sono cosí tanti diversi caratteri, cosí tanti punti di vista, valutazioni, opinioni, leggi e costumi per insegnarci a giudicare noi stessi in modo più saggio e per insegnare, al nostro modo di valutare, a riconoscere la sua limitatezza e la sua naturale debolezza”. Questo concetto, che le menti possono essere aperte ed arricchite attraverso il contatto con genti di altri paesi, differenti modi di vivere, può essere in parte ricondotto all’importanza che diamo all’educazione universitaria. Conoscere il mondo (cosí come oggi intendiamo l’espressione) significa quasi sempre possedere un certo tipo di coscienza sociale e intellettuale, una tolleranza per le idee che non ci sono familiari e per la gente che ci è straniera. Questo spiega perché‚ gli americani all’estero si abbonino al New York Times: li mantiene al corrente, questo è quello che amano credere, su tutto quello che viene detto e pensato. Ma per Montaigne e la sua generazione, conoscere il mondo aveva un significato più ricco e più specifico: significava prender parte al mondo di tutti i giorni, alla vita di tutti i giorni, al vivere, al lavorare e al celebrare. Significava conoscere le creazioni dell’uomo, le sue istituzioni, l’arte, l’architettura e qualcosa a proposito del passato. Di qui il piacere provato dai primi turisti quando, dopo giorni di duro e pericoloso viaggio, arrivavano ad una città che non avevano mai vi-

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sto prima, partecipavano ad una nuova cerimonia o conversavano con uno straniero che aveva qualcosa di nuovo e di eccitante da comunicare. Ogni scena, ogni incontro, ogni paesaggio insegnava loro qualcosa. Non erano cosí analitici nella loro osservazione come cerchiamo di esserlo noi. Facevano poche generalizzazioni sulla situazione sociale in cui si trovavano immersi e raramente erano critici in materia di arte o scienza; ma, ogni volta che leggo uno dei loro resoconti, vengo colpito dalla lucidità della loro risposta sensoriale: essi descrivono e commentano il cibo ed il vino che veniva servito loro in una taverna, la varietà degli accenti, gli strumenti suonati dai musicanti di strada, il colore ed il tessuto delle stoffe, gli odori delle stanze affollate, il suono rinfrescante delle fontane, la luminosità delle luci durante una cerimonia, il buio solitario della foresta. Queste sensazioni avevano molto a che fare col modo in cui giudicavano un paesaggio, e che lo si riconosca o meno, esse sono ancora parte delle nostre sensazioni nei riguardi di un luogo, sebbene non siano quantificabili e le descrizioni accademiche le omettono in quanto evidenza soggettiva. Auguriamoci che i turisti del futuro siano in grado di catturare ancora questi piaceri sensuali, e registrarli, dal momento che essi danno una dimensione emozionale ad ogni paesaggio e ne mantengono viva la memoria. Quando Montaigne parlava del mondo “quale specchio dove possiamo rifletterci al fine di conoscere noi stessi”, egli sceglieva la sua metafora con cura. Voleva intendere in modo molto preciso che l’aspetto della terra, il paesaggio, era simile alle sembianze del volto dell’uomo. Nel suo libro The Order of Things, Michel Foucault discute il ruolo che la somiglianza ha giocato nella cultura del XVI secolo. “L’Universo era ripiegato su se stesso; la terra faceva da eco al cielo, i volti erano riflessi nelle stelle, e le piante tenevano racchiusi dentro i loro petali i segreti degli uomini. La pittura imitava lo spazio. E la rappresentazione – sia al servizio del piacere che della conoscenza – era celebrata come una forma di ripetizione: il teatro della vita o lo specchio della natura.” Quello che il mondo-specchio rivelava era abbastanza chiaro: l’arte, l’architettura, la gerarchia dell’ordine sociale, l’ordine del cosmo stesso, tutto rifletteva la forma umana, le sue preoccupazioni, l’interdipendenza dei suoi organi e membra, la sua origine divina. La lingua enfatizzava ancora di più l’analogia: si dice “capo di stato”, “corpo politico”, “braccio della legge”, “braccia che lavorano nei campi”. Deve essere stata una visione del mondo molto sicura di sé stessa, del tutto aderente alla tradizione classica e approvata dalla Chiesa; una guida degna di fiducia per comprendere e accettare le vite umane. Credo che possiamo invidiare i tempi in cui uomini

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e donne traevano dalla vista di un paesaggio bello e prosperoso qualcosa di più sostanziale che un piacere estetico, quando al posto di un semplice panorama, vedevano l’espressione di quello che sembrava un’ammirevole ordine sociale, e se ne deduceva che l’uomo stava ancora cercando di dare risposta all’ordine divino, di portare la natura alla perfezione. La città, ricca e splendida, circondata da villaggi, castelli, proprietà che dipendevano da essa, dominava il paesaggio come un simbolo centrale di autorità. Al di fuori delle mura, nei campi del villaggio, contadini obbedienti lavoravano ai doveri loro assegnati e tutto il meraviglioso paesaggio era inquadrato dal panorama naturale all’orizzonte. Quel punto di vista del primo turista aveva certamente i suoi limiti: era generalmente un privilegio di un’esigua ma molto influente classe sociale; uomini con proprietà e stato sociale, poco preoccupati di guardare dietro la superficie delle cose, o dubitare dell’evidenza dei loro sensi; uomini con poco tempo per i misteri della natura o per speculare sui problemi o le speranze di gente oscura e poco importante, giudicando la maggior parte del mondo in termini di status, confini, privilegi, ricchezza e rango. Rispetto a tutti questi punti probabilmente ci possiamo ritenere migliori di questi primi turisti, ma dobbiamo ricordarci parecchie cose: quattrocento anni fa l’esperienza del turista era nuova e rivoluzionaria; era appena emersa da un atteggiamento di sfiducia nei confronti del mondo visibile o, nel migliore dei casi, di indifferenza verso di esso. Per quanto le loro simpatie fossero limitate, i primi turisti compirono quello che pochi avevano mai fatto prima: conoscere il mondo come strumento per conoscere se stessi, e sembra che abbiano avuto successo. E, in fine, il modo in cui hanno rappresentato le loro avventure, sia nell’arte che nella letteratura, era cosí vivo, cosí stimolante, cosí rivelatore di insospettabili bellezze ed umanità che le generazioni seguenti hanno accettato il loro concetto di paesaggio come l’unico possibile. È solo negli ultimi decenni che abbiamo cominciato a mettere in discussione i canoni di bellezza del paesaggio rinascimentale, e secoli di cieca accettazione sono ancora evidenti nella realizzazione dei nostri parchi e sobborghi e persino nelle case e nella scenografia delle autostrade. Il turismo sta iniziando solo oggi a liberarsi dalla seduzione di quelle antiche scoperte e valutazioni. Ancora oggi, per molti turisti coscienziosi, l’unico itinerario possibile è il ripercorrere le tracce del Grand Tour del XVIII secolo – i monumenti, le gallerie, le rovine, gli sguardi nostalgici a quelle cose sublimi che giovani gentiluomini dei secoli passati visitavano e ammiravano, sono gli stessi che oggi molti di noi continuano a visitare ed ammirare. Per quanto riguarda la conoscenza del mondo – di un particolare aspetto

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del mondo – è già buona cosa; oggi come nel passato il viaggiare si sta diffondendo, ma l’autoconoscenza è qualcosa di diverso. Quel mondo rinascimentale ha cessato da lungo tempo di essere uno specchio per l’uomo moderno: quando egli si riflette in esso, da lungo tempo non vede più la propria immagine, ma l’immagine di una cultura che è scomparsa. Per quanto tempo è rimasta viva questa forma classica di turismo? A giudicare dalla mia personale esperienza, era ancora senza rivali fino alla Prima Guerra Mondiale. Quelli della mia generazione (e anche più vecchi) ricorderanno con una certa difficoltà come ci s’insegnava seriamente a percepire il mondo secondo i canoni del turista tradizionale. La nostra iniziazione richiedeva la conoscenza di almeno una lingua straniera – francese, tedesco o italiano – e la familiarità con la storia alla vecchia maniera, piena di nomi e date e dinastie, e anche con la geografia alla vecchia maniera: confini, popolazione, fiumi e montagne, prodotti principali. Era di non minore importanza, in quei giorni, avere qualche conoscenza dei principali stili architettonici e degli esempi più famosi. Letture obbligatorie per il turista includevano Le Vite dei Pittori di Vasari, Le Pietre di Venezia di Ruskin e una serie di opere meno importanti sul turismo europeo, il tutto reperibile nelle edizioni Tauchnitz. Una volta acquisito questo bagaglio di conoscenze eravamo pronti per diventare turisti completi: tenere un diario, portare una Brownie e un Baedeker e un manuale di conversazione, collezionare etichette degli alberghi e mandare cartoline a casa ad amici invidiosi. Come innumerevoli predecessori avevano già fatto, visitavamo, in ogni città, la cattedrale, la galleria d’arte, il castello, il pittoresco quartiere medioevale. Facevamo escursioni attentamente pianificate in autobus o in battello, verso i vicini sobborghi per visitare il famoso palazzo, il famoso giardino, la famosa vista panoramica. Cinquanta anni fa il turista convenzionale era troppo attento alla storia per dedicarsi all’arte contemporanea o alla politica, sebbene venisse occasionalmente visitato il teatro dell’opera, purché presentasse un repertorio familiare. Le parti più nuove della città, per quanto possibile, erano ignorate; non contenevano sehenswurdigkeiten – oggetti che meritavano di essere visti. La generazione attuale non può provare che fastidio per questo tipo di turismo ortodosso, con la sua cieca venerazione dell’antico, il suo evitare tutto quello che è inaspettato, la sua ricerca di cultura. Anche a quei tempi, la tipica immagine di un turista che non conosceva la fatica – in genere tedesco – che studiava ogni iscrizione ed ogni rovina, era oggetto di scherno nel teatro o nelle vignette umoristiche. L’incentivo era l’educazione piuttosto

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che la conoscenza di sé e credo sarebbe facile mettere in relazione le mode turistiche con le prevalenti teorie educative. Il Baedeker, sia nello stile che nei contenuti, ha molto in comune con la dissertazione del dottorato sulla storia dell’arte del XIX secolo. Uno dei motivi per cui abbiamo una cosí bassa considerazione dei turisti prima della seconda Guerra Mondiale è che li associamo ai transatlantici di lusso, agli hotel molto cari, ai luoghi di villeggiatura dove chiacchieravano con granduchi russi e lord inglesi. Ma, di fatto, la realtà è che pochi di noi avevano molto denaro da spendere. Il viaggio attraverso l’oceano significava dieci giorni in una cabina angusta, il viaggio in Europa significava treni di terza classe, piccoli alberghi austeri o pensioni con il bagno sul piano e un ben più magro vitto: un’arancia o una pera per dessert. In quei tempi, prima del turismo di gruppo “tutto compreso”, i turisti dovevano sbrogliarsela da soli ed erano spesso alle prese con escursioni di fortuna, posti a sedere sulla terza balconata e spettacoli gratuiti come concerti pubblici nel parco, passeggiate serali sui viali, e giornali gratuiti nei caffè. Essere un turista significava essere un nuovo arrivato, un membro del pubblico senza alcuna esperienza. Isolato dal mondo comune grazie ad autobus e guide turistiche, il turista moderno si protegge dall’estraneità, ma ai vecchi tempi noi volevamo passare per locali, se non altro per non essere continuamente importunati da venditori ambulanti e autisti di tassí. Tendo a credere che, questo cercare di passare inosservati, combinato con l’incessante ricerca di famosi monumenti, avesse l’effetto di renderci altamente coscienti delle caratteristiche locali e ci permettesse di sviluppare una nostra coscienza delle peculiarità di un luogo e dei suoi abitanti, e di compararla con quelle di altri posti, costante argomento di discussione nelle pasticcerie frequentate da turisti. Era per certo una maniera a volte faticosa di passare una vacanza estiva: ammirare la lista dei monumenti classificati tre stelle dal Baedecker, assaggiare coscienziosamente il cibo locale, prendere lezioni di conversazione in francese, in tedesco, in italiano e cercare sempre di non assomigliare ad un turista. Ma se ripenso alle mie estati in viaggio per l’Europa, mi domando se non erano un’eccellente introduzione alla differente fase di turismo che più tardi ho imparato a chiamare “studi del paesaggio”. I nomi d’arte e di storia, le date ed i fatti, sarebbero stati praticamente dimenticati, ma l’arte nel suo aspetto meno monumentale e la storia, come memoria degli eventi, mi apparivano, cosí ho trovato, in ogni nome di strada, in ogni tetto, in ogni accento. Prima o poi questo succede ad ogni turista accorto: egli si avventura al di là dell’itinerario della guida e scopre che il mondo quoti-

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diano che lo circonda gli ricorda il mondo dell’arte, della storia, del museo; guarda fuori dal finestrino del treno e scopre con sorpresa che la campagna condivide molte delle caratteristiche della città: la parrocchia, la disposizione dei campi, l’abbaglio del sole nella strada del villaggio, sono variazioni che si possono riconoscere nelle loro controparti urbane. Città e campagna fanno parte del medesimo paesaggio. Questa nuova entità sembra di gran lunga più antica, di gran lunga più venerabile del più antico monumento. Sarebbe stato troppo asserire che tutti i turisti fossero coscienti di questo orizzonte più ampio, meno familiare. Le vecchie tradizioni erano dure a morire e la maggior parte dei viaggiatori si riferiva alle guide storico-artistiche che dicevano loro cosa ammirare, dove andare. Cibo e sistemazioni, nei villaggi lungo la strada, erano sovente cattivi e i nativi raramente cordiali, eppure, negli anni fra le due guerre, un cambiamento prendeva gradualmente piede nel comportamento dei locali, nelle zone meno turistiche, ed i turisti più avventurosi imparavano ad allontanarsi. L’aumento del numero delle automobili aveva certamente molto a che fare con questo cambiamento, e la legislazione sociale, che prevedeva vacanze pagate, portò impiegati ed operai dalla città alla campagna, dove la vita era più economica. Ma non c’era giovane americano, fresco di studi universitari com’ero io, che non avrebbe notato che parte del fermento sociale in Europa nasceva da un generale apprezzamento di quasi ogni aspetto dell’ambiente, sia urbano che rurale. Le città erano in espansione; nuovi quartieri residenziali, nuove strade, nuove aree per il tempo libero, nuovi sobborghi sfidavano canoni tradizionali. Tentativi di modernizzare l’agricoltura, di migliorare la vita nella fattoria, nei villaggi, la necessità di creare posti di lavoro e attrezzature turistiche, rendevano molte persone coscienti della condizione della campagna. Il paesaggio nazionale o regionale – il suo sviluppo o la sua conservazione – divenne un argomento di accorato dibattito. Insieme ad innumerevoli mostre ed esposizioni fotografiche che i musei dedicavano al folclore ed alla storia sociale, iniziava la violenta denuncia – politica specialmente nel Centro Europa – degli aspetti meno conosciuti dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione e della depravazione dell’architettura “moderna”. In ogni nazione l’argomento era eccitante e, da parte mia, posso solo dire che trovavo la romanticizzazione del paesaggio tradizionale, consono al mio modo di vedere il mondo. Come sarebbe stato possibile altrimenti? Era esattamente quell’aspetto del paesaggio che mi era stato insegnato ad ammirare che veniva minacciato: le vestigia di un vecchio ordine pre-industriale, pre-democratico, i frammenti di un modo di vita che erano stati descritti e ammirati dai grandi nomi della letteratura

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e dell’arte per più di quattro secoli. Non sarebbe stata possibile altra civiltà che questa. E quello che confermava il mio amore per il paesaggio era la tendenza – senza dubbio limitata ad alcuni elementi politicamente reazionari – ad analizzare i paesaggi non come semplice prodotto casuale di forze economiche o ambientali, ma come profonda espressione di caratteri etnici e culturali. Il paesaggio ancestrale creava uno speciale nutrimento per uomini e donne con caratteristiche fisiche e psicologiche comuni e questo succedeva a causa dell’attaccamento secolare alla terra; solo se radicati alla terra, con un passato di contadini o proprietari terrieri, solo attraverso l’influenza di un certo clima, di una certa topografia, poteva prendere forma un vero tedesco, un vero inglese o un vero francese. Ne seguiva che un paesaggio rappresentava un’eredità culturale da preservare ad ogni costo. Questa visione non esiste più. Per tutto il tempo in cui è rimasta in auge ha creato enormi danni, sebbene abbia aperto i nostri occhi alla varietà di ciò che ci circonda e alla insospettabile ricchezza della cultura vernacolare che ogni nazione possedeva. Abbiamo imparato a vedere la grande quantità di cose che prima ignoravamo. Credo che non ci sia stato un altro momento in cui io abbia trovato il paesaggio europeo tradizionale più soddisfacente, più bello, più ispiratore che in quelle estati finali prima della Seconda Guerra Mondiale. Le silhouette delle città antiche erano ancora indisturbate da edifici alti, non c’erano ancora massicci complessi industriali nella campagna. C’era poco traffico; i luoghi di villeggiatura erano eleganti e piccoli e ogni panorama era vicino alla perfezione, come se la volontà divina fosse stata soddisfatta e l’uomo fosse vicino a raggiungere la fine delle proprie fatiche. La mia seconda intensa esperienza del paesaggio europeo avvenne durante la Seconda Guerra Mondiale, periodo in cui ero arruolato nel controspionaggio. La maggior parte del territorio controllato dall’unità di combattimento di cui facevo parte mi era già familiare dai viaggi fatti nel recente passato, ma imparai a conoscerlo meglio e in maniera più pratica quando cercai di scoprirne gli aspetti topografici e le caratteristiche sociali più significative. Il paesaggio dove combattemmo durante l’ultimo inverno della guerra era pesantemente industrializzato, attraversato da linee ferroviarie e autostrade e canali, con molte fabbriche e miniere e città industriali con lunghe file di case operaie, ciascuna di esse con un piccolo orto. Immagino che in tempi normali le strade fossero piene di gente che andava al lavoro in bicicletta o in automobile, il fumo uscisse dalle ciminiere. Le città non erano antiche; con l’eccezione di qualche occasionale fattoria sopravvissuta in un angolo tra palazzi nuovi, esse non avevano nulla di pittoresco o di

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storico da mostrare. Per la maggior parte del tempo il cielo era coperto, pioveva o nevicava a profusione. Il bombardamento e il fuoco delle artiglierie ben presto ridussero le città in rovina. Le strade erano ingombre di macerie e l’aperta campagna mostrava miglia e miglia di linee elettriche cadute. Ovunque c’erano crateri pieni d’acqua nera, che tremava durante ogni esplosione. Gli eserciti, non solo distruggono, ma creano un proprio ordine. Era strano osservare come entrambe le parti avessero sovrapposto un paesaggio militare al paesaggio di devastazione, ma ancora più strano, pensavo, era vedere come il paesaggio militare assomigliasse, nell’organizzazione dello spazio, al vecchio paesaggio pre-tecnologico. Ciò era particolarmente chiaro dall’analisi delle mappe, sia che fosse una delle nostre che una sottratta al nemico. L’ordine spaziale tradizionale riappariva, sia pure sotto una forma contemporanea; i centri dell’autorità e del potere erano segnati con un cerchio rosso a matita e segnalati con quelle forme araldiche che i militari usano per indicarne lo specifico stato amministrativo: quartier generale, posto di comando, magazzini. Centri subordinati circondavano i centri principali – per cosí dire dipendenze feudali – con i loro propri segni araldici. Il grande reticolo dei confini divideva la campagna in innumerevoli settori, ed un sistema di differenti colori, di differenti tipi di linee, mostrava che cosa appartenesse ad ognuno di essi secondo l’organizzazione gerarchica del territorio. Cosí come nell’antico paesaggio europeo, queste divisioni territoriali avevano un significato importante e quando entravamo in possesso di una mappa del nemico che mostrava un cambiamento nei confini o nei loro occupanti, cercavamo di dedurne il significato in termini di decisione tattica. Questo avrebbe significato in altri tempi una nuova e pericolosa alleanza dinastica. La popolazione civile era quasi completamente scomparsa, ma era stata rimpiazzata da un’altra da essa molto differente: migliaia di uomini altamente disciplinati, ognuno dei quali faceva ciò per cui era stato addestrato, andava dove gli si diceva, mangiava quello che gli si dava. Molti di loro si accampavano all’aria aperta o nelle case in rovina dei lavoratori, case povere che odoravano di abiti bagnati e medicine scadute e patate marce. Gli uomini si riconoscevano non da dove vivevano ma dal loro capo; raramente conoscevano il nome della città e quando perdevano il contatto con la loro unità si sentivano perduti. Era un modo di vedere se stessi al quale erano stati abituati ed erano ostili ai gruppi di rifugiati senza un leader, o ai disertori che si accampavano liberamente fra le rovine o si nascondevano nei boschi.

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Fasto non è proprio la parola più adatta, ma mi viene in mente quando penso al dispiegamento di segnali e note che praticamente copriva ogni lampione ed ogni albero del paesaggio militare. I segnali erano spesso larghi e appariscenti, composti di simboli e acronimi e colori che dovevano essere decifrati prima di poter essere compresi. Sulle frecce direzionali erano scritti nomi in codice per le unità, ispirati alla mitologia o ai cartoni animati: “Wieland”, “Mickey Mouse”, “Gasoline”, “Alley Four”, “Walhalla West”. Bandiere e pennoni, lunghi nastri colorati e fili decoravano le staccionate e le pareti delle case come residui di un carnevale passato, una festa medievale, forse, dove ognuno appariva nel costume della sua corporazione o commercio. E, infatti, il paesaggio militare era un luogo dove l’abito, come nei tempi passati, aveva un grande significato simbolico. Non aveva alcuna importanza se l’uniforme fosse sporca o stracciata, essa rivelava immediatamente dalle spalline, dalle strisce, dalle decorazioni, molti dettagli di un uomo: la sua specializzazione, l’unità alla quale apparteneva, il suo rango; non era necessario sapere di più. Tutti questi segni e simboli che fornivano informazioni e stabilivano relazioni erano, per noi, una novità. Prima eravamo dei privati e trovavamo la nostra strada da soli, ma alla fine, credo che questo simbolismo ci piacesse. Ovviamente i simboli erano comuni nell’antichità, quando poche persone sapevano come interpretarli; essi dicevano al pubblico molto più di quanto avrebbe dovuto sapere. Nel paesaggio militare avevano un’ulteriore funzione: ci ricordavano che eravamo parte di una immensa organizzazione e l’essere capace di decifrarli dimostrava che eravamo stati iniziati ad una setta segreta, eravamo membri della società militare per giuramento. Essi c’introducevano anche all’interno della complessità e dell’estensione dell’organizzazione, la dimensione politica del paesaggio. Simboli e segnali informativi erano particolarmente numerosi laddove c’erano uomini che non erano familiari con il luogo: agli incroci o luoghi di riunione o al quartier generale. Mi è sempre sembrato che, nel paesaggio militare, i quartieri generali importanti, anche se accampati in una foresta o in un palazzo in rovina, ricoprissero il ruolo che una volta apparteneva alla città, il punto focale del potere, della conoscenza e degli avvenimenti, un luogo dove ognuno avrebbe voluto essere. Non ho mai visitato uno di questi quartieri generali senza pensare alla sua somiglianza con le città del Rinascimento descritte dagli antichi viaggiatori. C’era la stessa profusione di edifici pubblici importanti, uno accanto all’altro (tende con un segno sul picchetto e una guardia); la stessa profusione di insegne (ufficiale di picchetto, impiegati, polizia militare); gli stessi uomini importanti da ammirare. Una

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jeep, lustra in maniera impeccabile, arrivava con un comandante di un celebre battaglione, in un’uniforme pulitissima, decisamente “macho” con la sua carabina, le granate e le bombe a mano attaccate alla giacca da combattimento e i suoi stivali lucidi. Seguiva uno scambio di saluti, corretti come da prassi. Ognuno, attore o spettatore, godeva della dimostrazione di etichetta militare. Il Rinascimento abbondava ancora, anche nei comandi avanzati, dove s’incontravano eroi pieni di decorazioni e dove si tenevano le cerimonie. È stato, infatti, l’ingegnere militare del XVI secolo che ha dato forma alla città moderna: non solo l’ha fortificata, ma l’ha anche dotata di una griglia rettangolare per localizzare le varie unità militari in relazione al loro rango e alla loro posizione nella scala gerarchica, e al centro vi ha anche collocato una piazza per le parate e per i tornei – un’organizzazione usata ancora in ogni accampamento militare e praticamente in quasi tutte le città moderne. Intorno agli acquartieramenti si trovava una differente e più ampia componente del paesaggio militare e anche in questo caso io amavo immaginare che avesse una controparte rinascimentale: era rappresentata dalla campagna con i villaggi abitati da contadini sottomessi ad un signore locale. Alla fine di strade che peggioravano progressivamente e diventavano sempre più pericolose, localizzate in una remota fattoria o in una stazione ferroviaria o nelle cantine di una fabbrica in rovina – in ogni caso vicino al nemico – erano collocate le unità di combattimento, compagnie, batterie e plotoni, tutti molto più consapevoli del paesaggio militare come habitat che come entità sociale. Gli uomini, in questi luoghi, conducevano un’esistenza molto meno formale; la comunicazione fra di loro era basata più sul gesto e la voce che sul simbolo e sulla parola scritta. Insegne del rango erano decisamente meno significative e molto meno necessarie. Persino le mappe, troppo piccole in scala, troppo generiche per l’uso di uomini della fanteria, giocavano un ruolo meno importante. Era una vita molto più pragmatica, e giovani ufficiali, a volte senza esperienza, spesso condividevano vitto, alloggio e svaghi con i loro uomini. Occasionalmente queste unità avevano modo di vivere in modo confortevole ma, nella maggior parte dei casi, il loro tetto ed il loro modo di vivere era primitivo. Quello che realmente distingueva questi uomini dai loro colleghi nei quartieri generali era il loro grande senso dell’ambiente. Se gli uomini del quartier generale conducevano un’esistenza urbana, che tipo d’esistenza era quella degli uomini delle compagnie e dei plotoni? Si potrebbe difficilmente chiamarla rurale; per la maggior parte del tempo essi si trovavano in aree costruite, sebbene quelli in campagna a volte uccidevano una lepre o

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riuscivano ad impadronirsi di un pollo. Probabilmente potremmo dire che erano dei cacciatori part-time, non nel senso ovvio di cacciatori di uomini, ma nel senso che i cacciatori sviluppano un’acuta sensibilità per i messaggi dell’ambiente. In breve tempo gli uomini imparavano a confidare sul proprio senso d’orientamento; sia che fossero in città o in aperta campagna, i loro sensi ricevevano costantemente informazioni – l’odore di cordite, l’odore di corpi morti, persino l’odore del nemico, dal momento che ogni esercito ha un caratteristico odore corporale. C’erano i suoni dei diversi tipi d’artiglieria, il suono degli obici che volavano sopra la testa, il suono dei passi, il suono dei veicoli. Durante notti relativamente silenziose gli uomini di pattuglia avevano imparato ad ascoltare il suono dei camion della sussistenza che, portavano il cibo al nemico a miglia di distanza. Ogni luce improvvisa era sufficiente per far destare il dormiglione più profondo. In tempo di pace, il tempo e la topografia, per non parlare della topologia e della densità del fogliame, sono guardate senza darne valutazioni, ma nelle unità di trincea, sempre consce delle pattuglie notturne di fronte a loro e della necessità di rifornimenti, esse diventavano questione di vita o di morte. Anche le fasi della luna erano viste con preoccupazione. In se stesso non c’era nulla di inusuale in questa sensibilità per l’ambiente. L’esperienza aveva rapidamente dimostrato quanto fosse essenziale, ed ogni uomo si preoccupava di coltivarla. Quello che la rendeva preziosa stava nel fatto che fosse un’esperienza condivisa, discussa, insegnata ai nuovi arrivati e accettata da tutti come parte della loro esistenza di combattenti. Aveva poco a che fare con il senso della natura e, infatti, derivava più dai pericoli urbani che da quelli rurali. Le loro esperienze sensoriali erano raramente di alto livello: il lusso di abiti puliti, il caldo e la luce di un fuoco acceso sul bordo della strada – tutte quelle mani tese nella notte verso le fiamme! La gioia per l’arrivo dei giorni di sole in primavera. Questi erano semplicemente modi comuni di partecipare al mondo dell’esperienza sensoria ma, il condividerle, riconoscerle in altri, faceva sí che gli uomini ricordassero la loro umanità. Ancora oggi, una generazione più tardi, alcuni di loro ricordano ancora che un certo odore, un certo sapore, un cielo coperto di prima mattina, può riportare la sensazione di un evento, di un paesaggio del passato, come se fosse ieri. Questo è l’atteggiamento che dovremmo avere verso i paesaggi: non semplicemente il loro apparire, come rispondono ad un ideale estetico, ma come determinano necessità elementari; il bisogno di condividere alcune di quelle esperienze sensoriali in un luogo familiare – canzoni popolari, piatti popolari -, in un’atmosfera speciale che non si può trovare in altro luogo, uno speciale tipo di sport o gioco, giocato solo

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in questo posto. Tutte queste cose ci ricordano che noi apparteniamo – o che siano appartenuti – ad un luogo specifico: un territorio, una città o un vicinato. Il paesaggio dovrebbe stabilire legami fra la gente, il legame della lingua, dei costumi, di un certo tipo di lavoro o di tempo libero, ma soprattutto un paesaggio dovrebbe contenere quel tipo di organizzazione spaziale che rinforza queste esperienze e relazioni; spazi per l’incontro, per la celebrazione, spazi per la solitudine, spazi che non cambiano mai e che sono sempre come sono stati rappresentati dalla memoria. Questi sono alcuni dei caratteri che rendono un paesaggio unico, che gli danno stile. Quelli che fanno sí che noi li ricordiamo con emozione. Non necessariamente con una emozione piacevole: il paesaggio militare ci aveva dato un ordine spaziale tutto centrato sul movimento improvviso e violento, una serie di rapporti basati sull’anonimato e la totale subordinazione, ed una esperienza sensoriale basata sulla morte e la premonizione della morte; era la brutta caricatura di un paesaggio. Ciononostante funzionava, e persino i suoi orrori ci avevano insegnato che cosa dovesse essere un buon paesaggio e un buon ordine sociale. Dubito che avrò mai più la possibilità di contemplare il paesaggio classico europeo e le sue variazioni americane, o qualsiasi altro paesaggio, esclusivamente dal punto di vista dell’arte e della storia. Non è che non possa più apprezzarne la bellezza, e neppure pensare che non siamo più capaci di produrre una simile armonia tra l’uomo e il suo ambiente, ma forse semplicemente perché immagino che sia passato il momento in cui l’armonia possa essere il nostro criterio per il paesaggio. Ciò che noi uomini contemporanei siamo e ciò che stiamo diventando è qualcosa che non può più essere riflesso fedelmente nel paesaggio visibile. Il paesaggio militare rivelava due aspetti di umanità: non era soltanto la brutalità dei secoli bui, era anche un salto nel futuro. Quegli sforzi urgenti e incessanti di stabilire comunicazioni, i fili e i segnali e i simboli e le luci colorate, erano un presagio della nostra speranza per nuovi tipi di comunità. Quell’insaziabile desiderio di potere, di mobilità e di soluzioni definitive, sta ancora trasformando e mutilando l’ambiente. La ricerca di esperienze sensoriali del mondo, come il più affidabile mezzo per raggiungere l’autoconoscenza, è più forte che mai. I paesaggi che mostrano questi caratteri stanno diventando numerosi e credo che sia perché siamo sempre più affascinati dall’immensa metropoli, dalle regioni industrializzate, dal deserto, dalla natura selvaggia, e con parti del mondo inondate da nuove popolazioni migratrici. Sembra che stiamo vivendo in pieno un secondo e più intenso volkerwanderung, un periodo

A Proposito dei Paesaggi

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in cui i vecchi paesaggi spariscono e nuovi paesaggi che coinvolgono nuove relazioni, nuove pressioni sull’ambiente, stanno lentamente prendendo forma. Ed è per quei particolari luoghi che quelli che noi chiamiamo “studi sul paesaggio” possono essere particolarmente utili. Eppure non riesco ancora completamente a dimenticare il mio passato di turista; continuo a preferire i paesaggi che ho conosciuto e dove posso almeno in parte comprenderne l’espressione di valori culturali. La storia o la dipendenza dalla storia è ancora essenziale, anche se è una storia che si occupa del vernacolare e del quotidiano. Anche l’arte appartiene agli studi sul paesaggio cosí come io li intendo, dal momento che è soltanto quando noi cominciamo a commuoverci di fronte ad un paesaggio che la sua unicità e bellezza ci viene rivelata.

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da: J.B.Jackson, The Necessity for Ruins Amherst, The University of Massachusetts Press, 1980, pp. 89-102

Non molto tempo fa Mr. Dillon Ripley dello Smithsonian Museum di Storia e Tecnologia ha felicemente annunciato l’acquisizione di due poltrone usate da Archie Bunker e sua moglie Edith nel programma televisivo “All in The Family”. Il prezzo non fu menzionato, ma i critici si dissero compiaciuti dell’evento. Il programma non mi è mai piaciuto e cosí non sono riuscito a condividere quell’entusiasmo. Lo Smithsonian, per quanto ne so, colleziona oggetti di importanza non solo generale, come la prima macchina da scrivere, la prima bicicletta, lo Spirit of Saint Louis di Lindbergh, ma anche oggetti associati a qualche evento storico, come i vestiti indossati dalle mogli dei Presidenti durante i balli inaugurali. A quale categoria appartenevano le due poltrone di Bunker? Mr. Ripley stava supponendo che un visitatore del museo nell’anno, non so, 2079 potesse trovare le poltrone di un qualche interesse? Non sono proprio capace di indovinarlo; ma osservando la vita americana contemporanea rimango incuriosito da ciò che viene in genere considerato un oggetto storico o un monumento. Noi ammiriamo e cerchiamo di collezionare oggetti non tanto per la loro bellezza o il loro valore, ma per la loro associazione con un determinato periodo storico; e questo è comprensibile, ogni generazione ha fatto la stessa cosa. Ma da noi non sembra che l’associazione sia con il nostro passato storico-politico, ma con un tipo di passato vernacolare, privato: quello che ammiriamo è la memoria personale di un’esistenza quotidiana senza alcuna data. Le poltrone di Archie Bunker ricorderanno – perlomeno alla nostra generazione – non solo le molte ore passate davanti alla televisione, ma anche l’ambiente e le scene di un programma popolare, non necessariamente di quel preciso programma. Sembra che molto del nostro entusiasmo per la conservazione storica sia nato dal medesimo istinto: la Storia significa sempre meno la registrazione di eventi e personaggi importanti, quanto la conservazione di ricordi di

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un’antica esistenza domestica e del suo ambiente. Ciò che mi interessa è la maniera in cui questa nuova interpretazione della storia va oltre il museo o la collezione privata entrando a far parte del più ampio paesaggio rurale ed urbano. Chiunque viaggi attraverso gli Stati Uniti deve essere cosciente, credo, della diffusione di ciò che possiamo definire ambienti storici ricostruiti. Anche in piccole comunità relativamente recenti esistono gruppi che ansiosamente organizzano il restauro e la conservazione di vecchi edifici e quartieri, e si preoccupano di farli registrare al catasto storico. Ma al di là di questi esempi più o meno legittimi di interesse pubblico, incontriamo un gran numero di esempi di Villaggi Coloniali, Villaggi Pionieri, Villaggi di Frontiera e Stazioni di Guardia dell’Esercito che di fatto sono nuovi di zecca e che possiamo visitare per due dollari; il costo del biglietto ci permette di ammirare il programma di attacchi indiani o la rapina alla carrozza o la sparatoria di mezzogiorno. È difficile non trovare una cittadina posta su una delle più popolari strade turistiche che non annoveri qualche tipo di ricostruzione di ambienti storici. Alcuni sono tentativi ragionevolmente coscienziosi; altri sono totalmente falsi. Fort Worth, che ha una zona centrale decadente ed abbandonata risalente al 1920, sta restaurandosi nello stile del 1870. Un’altra città del Texas, preoccupata del fatto che una nuova strada tangenziale possa rovinare le attività di Main Street, si è imbellettata come una cittadina del 1890 in cui tutti girano in costume – ogni uomo, donna e bambino. Vicino a dove vivo io, in New Mexico, esiste un villaggio coloniale spagnolo del XVIII secolo, con feste e danze folcloristiche del XVIII secolo, che in realtà è nuovo di zecca e che spera di arrivare ad un riconoscimento da parte del catasto storico. È facile deridere villaggi nati dal nulla e musei di strada pieni di spazzatura del nostro recente passato, cosí come è facile deplorare Mr. Ripley per aver acquistato le poltrone di Bunker, o affermare che la maggior parte del restauro urbano e poco più che un complotto per alzare i valori di mercato, o una maniera per tenere lontano vicini indesiderati. Ma gli Americani non sono cosí ingenui come qualche volta crediamo, e non è sempre facile identificare la vera ragione di un restauro. Esistono, infatti, esempi che sono veri successi culturali, veri contributi al nostro patrimonio storico, e perfino il più semplice degli ambienti storici ricostruiti dimostra un sincero rispetto per il nostro passato. Gente intelligente ammira non solo Williamsburg e Stourbridge Village, ma anche Old Town Albuquerque e Disneyland. La migliore spiegazione che possa trovare per la passione nazionale per questi ambienti è la nascita di un concetto di Storia e di un

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significato di Storia radicalmente nuovi, e che rappresentano un’idea di monumento totalmente nuovo. Un monumento tradizionale, come indica l’etimologia della parola, è un oggetto che ci dovrebbe ricordare qualcosa d’importante. Ciò sta a significare che esso esiste per ricordare alla gente qualche evento verso cui hanno un certo obbligo: un grande personaggio pubblico, un importante evento pubblico, una grande dichiarazione pubblica. Un monumento può eventualmente essere un’opera artistica o una struttura pubblica; può essere perfino divertente. Ma queste sono caratteristiche secondarie. Un monumento può essere niente di più che una pietra grezza, un frammento di un muro in rovina a Gerusalemme, un albero, o una croce. La sua sacralità non è questione di bellezza, di uso o di età; viene venerato non come opera d’arte o come oggetto antico, ma come una voce del passato remoto improvvisamente diventata presente. Uno dei monumenti moderni più impressionanti è la chiesa in rovina al centro della zona più trafficata di Berlino Ovest. È un enorme rovina senza alcun fascino, ma proprio per quella ragione essa diventa un ricordo impareggiabile della Seconda Guerra Mondiale, ed è un monumento il cui messaggio non è facile da dimenticare. Ma in questo paese esistono monumenti politici che hanno la stessa capacità di ricordarci un evento o una persona. Il monumento vicino al ponte di Concord nel Massachusetts è uno di questi, e penso che l’arco di St.Louis sia un altro. Non sto parlando delle loro qualità estetiche, ma della loro capacità di ricordare, di rendere vivo qualcosa di specifico. Possiamo capire meglio il significato del monumento tradizionale paragonandolo con il secondo avviso che la compagnia telefonica ci manda quando dimentichiamo di pagare la bolletta. La nostra reazione non è quella di ammirare la costruzione semantica dell’avviso o di ricordarci nostalgicamente delle lunghe e piacevoli conversazioni telefoniche di due o tre mesi prima. Andiamo a prendere il nostro libretto degli assegni, forse con una certa irritazione, in modo da liberarci dall’obbligo ed evitare guai futuri. È ovvio che i monumenti di questo tipo sono numerosi in ogni ambiente in cui gli abitanti condividono un forte senso del loro passato religioso e politico. Questa è la ragione per cui ogni nuova rivoluzione sociale, ansiosa di consolidare la sua immagine e di guadagnarsi il supporto pubblico, produce una gran quantità di monumenti commemorativi e di simboli e di celebrazioni pubbliche. Questo è quanto vediamo in Unione Sovietica, o in Cina, o a Cuba, o nella Germania Nazista: una proliferazione di simboli pubblici di ogni tipo, non per far piacere alla gente, ma per ricordare loro ciò in cui devono credere e come ci si deve comportare.

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Cosí era anche alle origini di questo paese; un monumento alla Rivoluzione venne eretto nel 1796 a Lexington – un obelisco – e per tutto il mezzo secolo seguente i monumenti e le celebrazioni patriottiche hanno animato l’intero territorio circostante. Perfino i nomi di località aiutavano gli Americani a ricordare le loro tradizioni politiche. Una tipica commemorazione avvenne nel 1830, quando a Mount Vernon venne eretto un monumento alla madre di George Washington. Il Presidente Jackson ed il suo gabinetto raggiunsero il posto da Washington su di un battello a vapore; ci furono saluti a colpi di cannone, una parata militare, vennero recitate poesie, ed era presente una vasta folla. Possiamo immaginare che cosa udiremmo oggi se venisse onorata la madre del Presidente: molti racconti sulla loro vita intima, il sentimentalismo per la figura materna, la devozione per il figlio. Ma nel 1830 l’atmosfera era completamente diversa. Scopo dell’occasione era il ricordare alla popolazione una grande figura del passato. Il pubblico oratore cosí pronunciò: “Se scorriamo le pagine della storia, o esploriamo la terra per intero, scopriremmo che in qualsiasi epoca ed in qualsiasi clima i monumenti hanno segnato quei posti che si distinguono per essere stati luogo di qualche grande evento, o che vennero eretti a memoria delle virtù di coloro che non sono più... Quindi, per coloro che li ammirano, i monumenti sono incentivi ad imitare le virtù che essi commemorano, e a guadagnarsi, seguendo l’esempio della loro vita e del loro spirito, Gloria ed Onore.” Anche il Presidente Jackson pronunciò il suo discorso, ma nessuno fece alcun riferimento a Mary Washington. Quando andavo a scuola dovevamo leggere l’orazione di Bunker Hill di Webster ed il Gettysburg Address di Lincoln. Entrambi avevano a che fare con monumenti, ed il Gettysburg Address è la più eloquente espressione della maniera di pensare classica. Il proposito dell’Address era di dedicare un piccolo cimitero ai soldati nordisti nel luogo dove morirono; ma può essere letto come una bella e concisa descrizione di ciò che significa un monumento e come dobbiamo rapportarci ad esso con i nostri pensieri e le nostre azioni. Lasciatemi riportare il brano che si riferisce allo scopo della riunione: “Ci siamo riuniti per dedicare una porzione di quel grande campo (di battaglia) quale luogo di riposo finale per coloro che qui hanno lasciato la vita per la nazione... A noi, i vivi, deve ricordare il lavoro incompleto che coloro i quali hanno combattuto, portarono avanti cosí nobilmente. È dedicato in realtà alla grande impresa che ancora resta da compiere... “. Qui viene indicato in poche parole lo scopo del monumento: durante una occasione specifica venne intrapresa una missione, venne sottoscritto un atto di fede,

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ed il monumento è lí a ricordarcelo. Il monumento, in breve, è una guida al futuro: cosí come conferisce una sorta di immortalità ai deceduti, cosí indirizza le nostre azioni future. Per secoli questo è quanto i monumenti e le festività nazionali hanno voluto significare: ricordarci dei nostri obblighi religiosi e politici, e mantenerci sulla strada intrapresa nel passato, fedeli alla tradizione. Tuttavia, mentre parlava Lincoln, tra gli Americani stava prendendo piede una nuova filosofia della Storia e del significato della Storia. Era appena finita la Guerra Civile che si diffuse il desiderio di trasformare il campo di battaglia di Gettysburg in monumento. Era qualcosa di sconosciuto fino ad allora: un immenso paesaggio abitato e composto da migliaia di acri di campi, strade e fattorie doveva diventare un monumento ad un evento che lí si svolse. Si trattava, infatti, di una ricostruzione dell’ambiente. Non era più un ricordo, non ci diceva più cosa fare; semplicemente spiegava la battaglia. Non voglio dire che questo campo di battaglia trasformato in monumento non sia impressionante; sto solamente suggerendo che non si trattava del monumento in senso tradizionale. Un motivo di tale cambiamento è che il popolo americano non era più alla ricerca di eroi, di generali che avessero guidato i due eserciti come i soli individui che meritassero di essere onorati. Esistevano decine di migliaia di soldati, molti dei quali volontari, che avevano combattuto ed erano morti e meritavano un monumento collettivo. La storia dell’arte monumentale americana merita di essere studiata, fosse anche solo per il fatto di riassumere in se stessa un radicale cambiamento nelle attitudini della popolazione. L’espressione più nota di quel cambiamento è il Memoriale alla Guerra Civile che vediamo in quasi tutti i paesi americani. Alcuni presentano qualche ricercatezza e sfoggiano molte allegorie, ma il memoriale medio è una statua di un soldato della Guerra Civile in uniforme che imbraccia un fucile. È una figura anonima, una statua di ciò che letteralmente era un soldato sconosciuto. Sarebbe interessante conoscere di più a proposito dell’origine di questo semplice ma efficace memoriale. Sembra essere stato ben accettato molto prima che l’America erigesse altri monumenti e statue a figure anonime, ad uomini e donne che non avessero alcun speciale riconoscimento e che non potessero essere identificate con alcun evento particolare, ma a cui il popolo americano era affezionato in quanto simbolo dell’esistenza quotidiana. Probabilmente la prima fu la statua dell’anonimo Minute Man di D.C. French, eretta sul Lexington Green. Ciascuno di noi ha visto altri esempi: l’anonimo Cowboy, l’anonimo Newsboy, l’anonimo Pescatore di Glouce-

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ster. Nella città di Enterprise in Alabama esiste una statua all’anonimo Boll Weevil. Qual è lo scopo di questi monumenti? Non ci ricordano le nostre responsabilità, non suggeriscono alcuna linea di condotta. Rendono onore a certe figure oscure ma utili o a pittoreschi componenti della comunità. Ma penso ci sia di più che questo: penso che questo tipo di monumento stia celebrando un passato differente, non il passato descritto nei libri di storia, ma un passato vernacolare, un’età d’oro senza date né nomi, semplicemente la maniera in cui era, la storia quale cronaca dell’esistenza quotidiana. È più che una coincidenza che nello stesso periodo – gli ultimi decenni del XIX secolo – l’edificio pubblico americano medio iniziò a perdere un po’ della sua monumentalità da gran palazzo. Ci è difficile giustificare quelle pompose corti di giustizia ed uffici postali e municipi in termini di funzionalità. Evidentemente la gente del periodo sentí la necessità di un cambiamento. Leopold Eidlitz, celebrato architetto americano progettista del Palazzo della Capitale dello Stato di New York, scrisse più di ottant’anni fa: “Siamo alle prese con il miglioramento delle condizioni materiali dell’umanità e iniziamo a guardare alle relazioni etiche non come ferree gerarchie, ma come componenti del benessere materiale. Il prete ed il soldato non governano più il mondo. Sono relegati al ruolo di servitori del popolo ed il mercante, l’artigiano, il costruttore di ferrovie e navi... hanno preso il posto di re, vescovi e generali... La maggior parte degli edifici che richiedono l’attenzione ed i servizi dell’architetto contemporaneo sono gli edifici per gli affari... le stazioni ferroviarie, gli edifici per le assicurazioni e per uffici, negozi e nuove attività commerciali... Naturalmente continuiamo a costruire tribunali e municipi; essi... rappresentano le idee sociali e politiche vitali... Ma quelle idee sono state denudate della loro poesia... Un giudice non esplica più le proprie funzioni come nel passato, ma è relegato alla posizione di arbitro che decide sulla diatriba tra due legali contendenti... Da qui diventa una necessità che una corte di giustizia non sia altro che un comodo appartamento per una discussione legale, e che diversi di questi appartamenti siano semplicemente organizzati all’interno di una struttura rettangolare, difficile da distinguersi dagli adiacenti edifici per affari.” Eidlitz stava affermando che non avevamo più i tradizionali eroi da onorare, o i tradizionali leader; che la vita pubblica non era più governata da tradizionali principi religiosi e politici, che le decisioni private erano diventate quelle importanti. Probabilmente aveva ragione, anche se molte altre statue di eroi vennero erette dopo la sua morte. Ma divennero sempre meno popolari. Durante

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gli ultimi decenni, gli scandali pubblici e la svalutazione di figure del passato, ci hanno fatto capire che molti eroi e molti eventi non meritavano di essere celebrati, e allo stesso tempo abbiamo sviluppato un vivo interesse per l’uomo comune ed il suo contributo alla storia americana; indubbiamente la sua maniera di vivere, lavorare e celebrare ha ispirato molti di quei progetti di restauro storico che ho menzionato prima. Ma qualcosa di più della disillusione nei confronti di eroi celebrati deve avere portato al cambiamento nelle nostre attitudini nei confronti dei monumenti, ed uno degli episodi rivelatori della storia recente è avvenuto poche decine di anni fa, durante la discussione riguardo alla celebrazione di Thomas Jefferson e di Franklin Delano Roosevelt. A quel tempo tutti erano d’accordo nel dire che entrambi meritavano un monumento a Washington. Ma la discussione sul tipo di monumento rivelò come pochi avessero idee chiare sul monumento tradizionale e su quale fosse il suo scopo. Artisti e critici discutevano sull’appropriatezza dei vari stili: classico o contemporaneo? Semplice o ornato? C’erano liberali che dicevano (come d’altra parte dicono sempre in simili occasioni), perché spendere cosí tanto in una costruzione pretenziosa e senza alcun uso pratico quando lo stesso denaro può servire alla costruzione di diversi luoghi per lo svago? E ancora più significativamente, un certo numero di prominenti architetti ammise pubblicamente che non sapevano come progettare un monumento. Non si vergognavano di una simile mancanza; al contrario, la offrivano quale evidenza del loro essere con i piedi per terra, uomini pratici, insofferenti nei confronti di tradizioni ormai sbiadite. Le proposte finali erano ambienti all’aria aperta – luoghi ove la gente potesse passeggiare, sedersi, fare picnic e rilassarsi – o vaste esposizioni degli scritti e delle più celebri frasi dei due eroi, grandi pannelli dove le citazioni dovevano essere iscritte in lettere alte due piedi. Non sono certo un critico di architettura, ma tendo a credere che quando un progettista basa il suo progetto su delle iscrizioni, sta tacitamente ammettendo la sua incompetenza artistica. Da quel momento, più di venti anni fa, pare che la comunità americana media abbia abbandonato il monumento tradizionale senza rimpianti e abbia trovato nuove maniere di celebrare eventi del passato. Il modo in cui abbiamo commemorato il Bicentenario ne è una prova evidente. Lasciatemi illustrare il cambiamento attraverso il contrasto tra l’attitudine tradizionale – direi quasi sudamericana – e la nostra. La comunità o la nazione sudamericana decide di commemorare il centesimo anniversario della nascita del Presidente X. Dopo lunghe discussioni

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decide che il giorno più appropriato è l’anniversario dell’assassinio del presidente. In quel giorno inaugura uno splendido piedistallo in marmo con sopra una statua in bronzo del Presidente X con in mano una targa bronzea con su iscritte le parole “Costituzione del 1953”. Il piedistallo è decorato con statue allegoriche dell’Industria, dell’Agricoltura, dell’Educazione e del Benessere Sociale. È presente una compagine di soldati in uniforme, una parata formale fino alla fine del Viale 27 Luglio (data di nascita del presidente) e diversi discorsi centrati sulle gesta del presidente con enfasi sulla saggezza di seguire la strada da lui aperta. Il popolo canta l’inno nazionale. Quello stesso pomeriggio viene inaugurata un’area residenziale modello, chiamata Villaggio Presidente X e viene formato un nuovo partito politico dedicato a mantenere in vita i principi del Presidente X. Ma come celebriamo eventi storici negli U.S.A.? La cittadina di Centerville realizza improvvisamente che sta compiendo il suo centocinquantesimo anno di vita. (Nessuno conosce l’anno in cui vi arrivò il primo abitante, o chi fosse). Viene organizzata una riunione pubblica, nella palestra del liceo, per discutere su come celebrare l’evento. Finalmente viene deciso che sarebbe bello celebrare nello stesso giorno anche l’ arrivo del primo treno, e l’attacco degli Indiani del 1847, e di inaugurare, durante la celebrazione, le nuove case di riposo per pensionati. Con tono meno deciso viene proposto che tutti gli uomini di Centerville si facciano crescere la barba. Cosí Centerville si mette al lavoro. Vengono installati pali per legare i cavalli lungo tutto un isolato di Main Street; luci a gas sostituiscono quelle elettriche; la facciata del municipio viene restaurata cosí com’era nel 1890. Nella vetrina del droghiere vengono affisse vecchie locandine pubblicitarie di medicinali; la biblioteca organizza una mostra di vecchie fotografie. Alla fine viene costruita una capanna di legno vicino al fiume, nel nuovo Pioneer Memorial Park, alla periferia della città; eventualmente verrà usata e mantenuta dai Boy Scouts. Il 4 di Luglio c’è una sfilata di auto d’epoca, un barbecue nel parco, a cui seguono danze folcloristiche in costume, sebbene di nessun periodo in particolare. Lo storico del paese legge una poesia divertente a proposito dei bei giorni che furono, citando più nomi possibili. La celebrazione viene ricordata come un gran successo. Centerville mette sù un gran cartello sull’autostrada che dice: “Benvenuti a Centerville – Villaggio Storico Pioniere.” Il paragone non è molto esagerato; ciascuna delle due celebrazioni è indice di un diverso approccio non solo ai monumenti ma anche alla Storia. La versione sudamericana – quella che preferivamo – vede il passato come un periodo altamente strutturato, altamente politico, nel vero senso della

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parola. Passato e presente sono legati da un contratto, un accordo solenne tra il popolo e i suoi leader, e a questo patto viene data una forma tangibile in monumenti, e una forma temporale in una serie di giornate commemorative nel calendario. Il presente è una continuazione, è rivivere il passato naturalmente modificato dagli eventi intercorsi, ma alla comunità viene costantemente ricordata la sua identità e le sue antiche origini. L’enfasi viene posta sulla continuità della Storia. Dall’altra parte, la celebrazione americana contemporanea suggerisce che il passato è passato, un periodo o un ambiente difficile da definire in cui prevaleva un certo tipo d’atmosfera aurea in cui la società era caratterizzata da un’innocenza e da una semplicità che abbiamo perduto sin da allora; un periodo di solito definito come i Vecchi Giorni o, come lo chiama Eliade, “in illo tempore”, un periodo senza eventi significativi, ed un paesaggio senza monumenti. Ma entrambe le concezioni celebrano il passato e cercano di farlo diventare parte della vita quotidiana. Nessuna espressione è più comune in America che “salvaguardare le nostre origini” o “mantenere vive le nostre amate tradizioni”; ma è chiaro, penso, che la maggioranza di noi abbia cessato di considerare, alla base della nostra esistenza, un susseguirsi di eventi politici: Rivoluzione, Dichiarazione d’Indipendenza, Costituzione, Guerra Civile. Io vivo in un paese che con qualche diritto viene definito come la regione storica dell’Ovest. La sua origine risale al primo XVII secolo. Ci sono, in ogni caso, solo due monumenti ad individui in tutta la regione, e dubito che un abitante su dieci possa ricordare tre date significative della storia locale. Tuttavia, non esiste luogo più dedito al restauro ed alla conservazione ed al culto del passato come Santa Fe. Confesso di non provare alcuna simpatia per questa romanticizzazione della Storia, ma la domanda rimane: perché cosí tanta gente trae piacere e persino ispirazione dalla deliberata ricostruzione o invenzione di ambienti storici, anche quando riconoscono l’artificialità della maggior parte di essi? È semplice nostalgia, è semplice istinto turistico alla ricerca dell’insolito, oppure ha un significato più profondo? Non conosco la risposta, ma una tra quelle possibili, simile a molte risposte già offerte sulla percezione dell’ambiente, è da ricercarsi tra i differenti culti religiosi. Molti anni fa, il geografo e teologo Erich Isaac scrisse un articolo su Landscape Magazine chiamato “L’Impatto delle Religioni sul Paesaggio”. La maggioranza dei geografi ha ampiamente discusso l’argomento in termini di orientamento, montagne sacre, pozzi santi, tabù su certe piante ed animali e cosí via. Ma Isaac ha avuto un approccio differente. Il suo articolo

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descrive l’habitat di una piccola e remota tribù della Rodesia del Sud, e studia l’impatto – o meglio la sua assenza – che pratiche e credenze religiose ebbero su quell’ambiente. Giunse alla seguente conclusione: religioni che identificano la creazione del mondo con l’inizio dell’esistenza e della società umana hanno un impatto molto maggiore sul paesaggio rispetto a religioni che considerano l’inizio dell’esistenza umana come il risultato di una volontà divina. In altre parole, Isaac affermò che la società che vede la sua origine coincidere con la creazione dell’universo, che vede se stessa quale prodotto di un disegno cosmico, tende a credere che il modo per raggiungere un rapporto armonioso con l’ambiente sia quello di trasformare – o restaurare – il proprio territorio a imitazione della sua condizione originale. Siamo a conoscenza dell’elaborato simbolismo cosmico delle case, delle città e dei campi dei Dogon dell’Africa, ma lo stesso tipo di simbolismo esiste anche in zone del Sud America; ed in Cina, se ho capito bene, la dottrina feng-shui è essenzialmente la celebrazione di un ordine cosmico immutabile. Ma questa attitudine non è in alcun modo universale. Quando religioni quali quella cristiana, giudaica o islamica assumono che la vera origine dell’esistenza umana non coincida con l’inizio del mondo, ma con qualche evento o rivelazione straordinaria – un patto sacro tra l’uomo e la divinità – allora quella religione non è interessata a riprodurre alcun simbolismo cosmico nel paesaggio, ma si preoccupa che l’uomo mantenga i termini del patto, che obbedisca alla legge divina. È possibile tradurre quei concetti religiosi in concetti sociali? Possiamo dire che una società che si è creata una sua precisa origine politica o legale – come gli Stati Uniti – con il proprio compleanno ed il proprio certificato di nascita e contratto nella forma di una Costituzione quasi sacralizzata, è più facilmente attaccata a monumenti e a date che le ricordino i suoi obblighi politici? Ma una società che vede la sua evoluzione come un lento processo, iniziato con i primi insediamenti sul suo territorio, celebra più facilmente le sue origini leggendarie e semi-sconosciute nel paesaggio; non guarda indietro ad un evento specifico ma ad un periodo aureo in cui essa era un tutt’uno con il suo ambiente. Naturalmente la questione è quando e perché gli Americani hanno abbandonato il vecchio patto con la Storia ed hanno assunto un approccio differente. Questo è ciò che gli storici devono ancora spiegare; da parte mia posso solo suggerire che questi cambiamenti non sono rari, e che ogni cultura, anche la più arcaica, mostra segni d’interpretazioni contraddittorie della propria esistenza. L’evidenza suggerisce che, verso la metà del secolo

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scorso, l’America ha iniziato a pensare se stessa come una società unica che si è evoluta durante un periodo di due secoli – nozione in linea con altre teorie evolutive in voga in quel periodo. E questa è la maniera in cui ci vediamo ancora adesso: come una società che è cresciuta e si è espansa su più di un continente. Ci sono certamente degli elementi del nostro approccio odierno nei confronti della Storia – e nei confronti dei monumenti e delle celebrazioni – che suggeriscono che esista qualcosa in comune tra il nostro entusiasmo per gli ambienti storici restaurati (o inventati) e quell’altro concetto sull’origine dell’esistenza. Probabilmente non è necessario riferirsi al movimento di salvaguardia della natura come una prova di ciò che chiamiamo il disegno originale della creazione. L’istinto che genera il cambiamento è molto simile a quello che ispira i nostri restauri architettonici: restaurare il più possibile l’aspetto originale del paesaggio. È assolutamente vero che restaurare parte di una città nello stile della metà del XIX secolo non significa affatto restaurarla nella sua forma originale. Ma gli antropologi ci dicono che, nel pensiero dei più, i tempi antichi – l’età aurea, per cosí dire – iniziano precisamente là dove la memoria finisce, ovvero all’incirca al tempo dei nostri bisnonni. Forse questo spiega il nostro fascino attuale per gli anni che vanno dal 1870 al 1890. Questo era, infatti, il periodo del grande cambiamento, ma è oggi sufficientemente lontano per essere visto come un tempo antico ed essere di conseguenza il riferimento storico per innumerevoli restauri di piccole cittadine. Quando pensiamo agli immensi cambiamenti nel paesaggio americano causati dall’aumento demografico e dallo sviluppo della tecnologia, sembra assurdo dire che allo stesso tempo stiamo riproducendo o restaurando il paesaggio originale, l’immagine della creazione. Ma anche nel caso di Dogon e altre società simili, l’area trasformata in maniera simbolica era molto piccola; solo pochi luoghi significativi venivano trasformati da queste operazioni simboliche. Lo stesso succede a noi. Durante gli ultimi anni è stato creato un gran numero di siti storici: musei all’aria aperta, musei lungo le strade, riserve naturali, aree storiche; e non dovremmo tralasciare il nuovo e diffuso interesse per il paesaggio industriale: i mulini, le fabbriche, le stazioni, i ponti e le miniere del XIX secolo. Esiste perfino una commissione di archeologia commerciale che cerca di preservare vecchi distributori di benzina e facciate di negozi. Appare chiaro che l’intero movimento di restauro e conservazione sia molto più che una maniera di promuovere il turismo o di essere nostalgici su un’oscura parte del passato – anche se ambedue le cose sono vere. Stiamo

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imparando a vederlo come una nuova (o recentemente riscoperta) interpretazione della Storia. Essa vede la Storia non come continuità ma come una drammatica discontinuità, come una sorta di dramma cosmico. In principio c’era quell’età aurea, il tempo delle origini armoniose. Poi segue un periodo in cui i tempi antichi vengono dimenticati. Alla fine giunge il momento in cui riscopriamo e cerchiamo di restaurare il mondo intorno a noi in qualcosa che assomigli alla sua precedente bellezza. Ma ci deve essere quell’intervallo di negligenza, deve verificarsi quella discontinuità; è religiosamente e artisticamente essenziale. Questo è quello che intendo quando parlo della necessità delle rovine: le rovine offrono l’incentivo per il restauro e per un ritorno alle origini. Ci deve essere nel nostro nuovo concetto di Storia un intervallo di morte o di rigetto prima che ci possa essere rinnovo e riforma. Il vecchio ordine deve morire prima che il paesaggio possa rinascere. Molti di noi conoscono la gioia e l’eccitazione non tanto di creare il nuovo, quanto di resuscitare ciò che è stato trascurato, e questa eccitazione è particolarmente forte quando la condizione originale è vista come sacra o bella. Il vecchio cascinale deve decadere prima che lo possiamo restaurare e che possa vivere una sua vita differente nella campagna; il paesaggio deve essere trascurato e lacerato prima che possiamo restaurare il suo ecosistema naturale; il quartiere deve degradarsi prima che possiamo riscoprirlo e riportarlo alla luce. Cosí avviene il processo secondo cui riproduciamo lo schema cosmico e correggiamo la Storia. Stiamo forse cercando di ristabilire qualche antico mito di nascita, morte e redenzione? Qualche volta penso di vederne le logiche conseguenze: il ritorno ad una sorta di fasto o rituale connesso con molti di questi nuovi santuari storici. La parata come forma artistica o simbolo politico è tutto tranne che morta: cosí come il monumento politico, essa ha cessato di avere un significato simbolico. Ma un tipo di falsa ricostruzione storica e teatrale sta diventando sempre più popolare; non si tratta solamente delle sparatorie di mezzogiorno e delle attrazioni ai lati della strada, ma anche di guide turistiche in costume in siti storici, concerti di musica antica a lume di candela, cene e celebrazioni in stile accuratamente d’epoca, ricostruzioni di episodi storici che stanno gradualmente cambiando i nuovi ambienti ricostruiti in scene irreali, luoghi dove possiamo per breve tempo rivivere l’età aurea e purgarci dei peccati storici. Il passato ci viene riportato in tutta la sua ricchezza. Non c’è lezione da imparare, nessun obbligo da onorare; rimaniamo affascinati ed in uno stato d’innocenza e diventiamo parte dell’ambiente. La storia cessa di esistere.

da J.B.Jackson, The Necessity for Ruins

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Sguardi puritani al paesaggio

da: J.B.Jackson, Vernacular Landscape Yale University Press, New Haven and London, 1984, pp. 57-64.

La Connecticut River Valley è un paesaggio antropico di eccezionale storia e bellezza. È uno dei paesaggi storici classici degli Stati Uniti. Agli occhi della nostra generazione i suoi villaggi e la sua campagna rappresentano il New England del diciottesimo e primo diciannovesimo secolo. A coloro i quali per primi la esplorarono, almeno 350 anni fa, la valle offriva il primo rassicurante esempio del Nuovo Mondo che stavano sognando, ma di cui non erano riusciti a trovare traccia lungo le coste della Massachusetts Bay. Sedici anni dopo l’arrivo a Plymouth, i coloni trovarono la via dell’ovest in numero sempre crescente fino alla fine del XVII secolo. Nonostante le incursioni e le guerre contro gli Indiani, gli insediamenti si moltiplicarono e prosperarono, e non appena campi incolti e terreni coltivati crebbero sempre più vicini l’uno all’altro, la valle diventò qualcosa di più di un concetto topografico. Diventò un paesaggio, forse il più esteso e certamente il paesaggio antropizzato più chiaramente definito del New England. Durante l’intero diciottesimo secolo, i viaggiatori che si spostavano in carrozza tra Boston e le città, lungo il fiume Hudson, dovevano avere goduto del panorama di campi e villaggi che punteggiavano la valle, e ammirato ancora di più questi paesaggi una volta passate le aspre distese boschive del Massachusetts o le colline occidentali del Connecticut. Le loro lettere o i loro racconti spesso descrivevano la distribuzione degli insediamenti, l’abbondanza di greggi e la prosperità dell’agricoltura. La migliore descrizione ottocentesca fu scritta da Timothy Dwight nel 1796. Era stato eletto, poco prima, presidente di Yale e aveva deciso di dedicare le vacanze estive all’esplorazione dello stato di New York e del New England. Continuò ad andarvi per i dieci anni seguenti, e i quattro

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volumi del suo Travels, recentemente ripubblicato da Harvard University Press, costituiscono a tutt’oggi uno dei più preziosi racconti del paesaggio americano e dei suoi insediamenti. Dwight, teologo, predicatore e educatore, era fermamente fedele alla tradizione puritana ed ardente difensore di tutto ciò che era Americano. Le due fedi portarono ad una valutazione estremamente nuova e dogmatica del paesaggio: sebbene detestasse la cruda anarchia della società di frontiera, come quella incontrata a nord dello stato di New York, egli nutriva un insaziabile interesse verso qualsiasi aspetto del paesaggio americano che fosse sconosciuto o inesplorato, ed una immediata passione per la bellezza scenica, anche la più selvaggia. La Connecticut Valley, con i vivi ricordi del nonno di Dwight, Jonathan Edwards, e con lo splendore delle sue montagne, lo deliziava, ed esprimeva la sua meraviglia in lunghi scritti di maestosa prosa. Il capitolo che descrive la vista dell’intera Connecticut Valley dalla cima del Monte Holyoke è troppo lungo per essere riportato interamente. Dwight inizia descrivendo l’ampio fiume che scorre tra le sue rive boscose; offre poi immagini dei campi, arati ed incolti, delle strade, dove: una perfetta purezza e magnificenza è diffusa ovunque, senza che un singolo luogo sia dimenticato a rovinarne la lucentezza o a muovere il desiderio di una bellezza più perfetta. Quando [l’occhio] si posa sulle vivaci cittadine che crescono lungo le rive [del fiume], e sulle numerose chiese che punteggiano come gemme il loro territorio; quando esplora le nobili foreste che contrastano selvaggiamente con la ricchezza delle coltivazioni... e quando finalmente giunge sul Monadnock a nord-est, e sul Monte Saddle a nordovest, entrambi a stagliarsi nel cielo ad una distanza di cinquanta miglia di oscuro e brumoso splendore, molto al di sopra di qualsiasi altra cosa data a vedere; sarebbe difficile non dire che, tra quelle squisite varietà di bellezza e monumentalità, l’ammirazione per il paesaggio non è raggiunta, né il desiderio per la perfezione assoluta. Almeno due aspetti di questo paragrafo meritano una riflessione. In primo luogo, nella forma attuale esso è costituito da una singola frase di più di 250 parole. Secondo, dalla penna di un teologo del New England del diciottesimo secolo ci è giunta una delle più chiare ed eloquenti affermazioni della visione Protestante del paesaggio naturale ed antropizzato. È stato a

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volte affermato che, a causa della sua insolita sensibilità nei confronti della bellezza naturale, Dwight sia stato il primo dei Romantici Americani. Ma non c’è traccia di romanticismo nella descrizione distaccata della bellezza che aveva di fronte; non c’è malinconia che brami qualcosa in più, nessuna disperata auto-biasimazione. “L’apprezzamento del paesaggio”, afferma, “è completo”, e presumibilmente ha lasciato il Monte Holyoke con identità immutata. Quale era la natura della bellezza scenica che Dwight cercava di descrivere? Quali erano per lui i valori significativi del paesaggio? Penso si possa affermare fossero essenzialmente religiosi. Due volte in quell’unico paragrafo esprime la sensazione di aver esperito la totalità, di aver visto la più alta forma della perfezione, e l’enfasi sulla “perfetta purezza e splendore” della visione, preziosa come un gioiello, ci ricorda la visione mistica che Aldous Huxley ha analizzato in The Doors of Perception. Potremmo senza dubbio scartare quella riflessione sull’”idea” di una perfezione superiore, etichettandola quale retorica, come se l’obiettivo dell’intero panorama (cosí come lo vide Dwight) non fosse il villaggio nella vallata immediatamente sotto di lui. Tale era il cuore del paesaggio: un tessuto di campi, orti e case, con la chiesa al suo fulcro, il tutto protetto da un muro di foreste e montagne. Per il teologo calvinista, il villaggio era null’altro che il simbolo della fratellanza civica, della comunità, dell’amore reciproco, della “pura religione che respira leggi domestiche”. Il paesaggio, in breve, possedeva la qualità della bellezza in quanto rispecchiava la morale o la perfezione etica a cui tutti i suoi abitanti presumibilmente aspiravano. La perfezione, o la completezza, non risiedeva nel paesaggio vero e proprio, ma nello spirito che lo aveva prodotto e che continuava ad animarlo. Tale spirito era lo spirito Puritano, quello di una popolazione devota, nelle parole di Dwight, “alla preghiera di Jehovah”. Non tutti i paesaggi possedevano tali qualità: Dwight era critico nei confronti di altri tipi di insediamenti. Deprecava le comunità delle foreste di New York, o del Vermont, perché non avevano la medesima genesi religiosa. Per Dwight e i suoi contemporanei, un paesaggio era bello solo quando rivelava o confermava una verità morale o etica. Un simile giudizio non sarebbe congeniale alla nostra generazione, ma ha tuttavia i suoi lati positivi. Il paesaggio antropico che Dwight elogiava, non era certamente lussureggiante; non mutava, né si espandeva con eleganza; era appropriato ad un modesto tenore di vita. Ma l’umanesimo di Dwight non disdegnava mai il luogo comune, mai esaltava l’esotico ed il meraviglioso alle spese della vita di tutti i giorni. Non cercava mai di separare l’uomo

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dalla società, o di avanzare sterili nostalgie per il primitivo. Tuttavia, anche se la mancanza di tale umanesimo, poteva apparire puro sentimento per il pittoresco, egli non creava mai paesaggi solitari; includeva chiunque vi vivesse e lavorasse, come un’identità legata ad un frammento della terra stessa. In ogni caso, questo paesaggio, da nessun’altra parte più esteso che nella Connecticut Valley, era il migliore che avessimo in quei primi tempi della repubblica. Il villaggio puritano, spogliato delle sue caratteristiche religiose, fu d’ispirazione alla nuova suddivisione a griglia rettangolare del paesaggio, nata ad ovest degli Alleghenies, con la Land Ordinance del 1785. Era la società del New England del diciottesimo secolo, abitata e auto-governata da una minuta comunità di contadini indipendenti, che Jefferson e altri cercarono di riprodurre quando progettarono il sistema di suddivisione del territorio in contee che ancora prevale in quasi tutti gli Stati Uniti. Come sappiamo, il sogno di dare vita a quel progetto agrario non si tramutò mai in realtà. Tuttavia, morí solo dopo diverse decadi, e penso si possa affermare che sopravvisse ancora, sebbene in forma attenuata, fino alla fine della Guerra Civile. Ciò che eventualmente sostituí la percezione eticomorale del paesaggio fu il modo di pensare degli ingegneri. Solo adesso stiamo iniziando a studiare le origini e la crescita del paesaggio degli ingegneri, e la maniera insidiosa in cui la filosofia ingegneristica ha influenzato la nostra percezione di ogni paesaggio, anche quando lo biasimiamo. Nei primi tempi, l’ingegnere in America sembrava essere esclusivamente devoto alla comunità, perfino a quella puritana. Verso la fine dei suoi giorni Dwight notò compiaciuto la costruzione di dighe e canali in tutto il New England; allo stesso tempo Albert Gallatin, quale difensore della tradizione umanista, si fece promotore di un programma nazionale di lavori pubblici. Nonostante la maggior parte di tali lavori di miglioramento, fosse pensata quale aiuto alla crescita degli interessi commerciali e manifatturieri, Dwight e i suoi contemporanei riuscirono a trovare la loro giustificazione morale; non solo questi creavano benessere, ma scoraggiavano la pigrizia. Fortezze, porti, ponti e strade, progettati dagli ingegneri, erano interpretati quali segni di un reale interesse per la comunità ed il suo benessere. Fu non molto tempo dopo la morte di Dwight che gli ingegneri mutarono ulteriormente il paesaggio con la ferrovia. Ma anche questa trasformazione dell’ambiente mantenne, perlomeno visivamente, qualcosa di quella qualità civica suggerita dal termine ingegnere civile. Era costui che costruiva enormi viadotti e ponti, che forniva il paesaggio americano, sia

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rurale che urbano, di massicce infrastrutture la cui monumentalità ancora ci impressiona. Solamente tra il 1860 ed il 1870 l’ingegnere iniziò ad allontanarsi dalla sua fedeltà civile, e ciò successe con il suo avvicinamento all’industria. I suoi nuovi clienti, ricchi ed ambiziosi, lo mutarono nella più potente forza trasformatrice del paesaggio d’America, sebbene interamente sotto il loro controllo. Con l’avvento dell’energia a vapore, la diffusione della ferrovia e la ricerca di nuove risorse naturali, l’interesse dell’ingegnere cessò di essere civico o nazionalista e si concentrò, al contrario, sulla produzione, sulla conservazione e sull’uso dell’energia – energia ricavata dall’acqua, dal carbone, dal gas, dal legno; energia nella forma di vapore ed elettricità, e infine sotto forma di lavoro umano. Il paesaggio americano rispecchiò inevitabilmente tali sforzi: non solo nelle ferrovie, nelle miniere di carbone, nelle dighe idroelettriche, nei pozzi di petrolio, e nella moltitudine di fabbriche e città industriali. Anche la super-autostrada contemporanea esprime l’abilità dell’ingegnere nel portare energia da una parte all’altra della nazione. E non può essere dimenticato che era ossessione dell’ingegnere l’abbondanza di energia che ha notevolmente ispirato il movimento conservazionista di settanta anni fa, cosí come la nostra maniera contemporanea di interpretare le difficoltà economiche. Siamo quindi di fronte ad un’altra definizione implicita di valore paesaggistico: per l’ingegnere (e per quella parte di società che pensa come lui) un paesaggio è bello quando il sistema di flussi energetici è efficiente. È necessario sottolineare come tale punto di vista sia simile a quello dell’ecologista medio? Non era solo il paesaggio che l’ingegnere aveva modificato; veniva trasformato, e in maniera permanente, l’intero carattere della vita e del pensiero americano. Verso la fine del diciannovesimo secolo, la maggioranza degli americani abitava già in paesi e città; la maggioranza degli americani, in altre parole, aveva ormai spezzato il legame con il paesaggio rurale ed aveva iniziato a dimenticare il ruolo che l’ambiente aveva avuto nella formazione del suo carattere e della sua identità. Non voglio necessariamente sostenere che il nuovo ordine industriale abbia inevitabitabilmente impoverito la qualità dell’ambiente dell’americano medio. Al contrario, infatti, molti contadini erano felici di cambiare i loro terreni esausti e le loro squallide case per un lavoro meno stressante in fabbrica ed una casa in una città industriale. Tuttavia, l’antica alleanza era stata spezzata o annullata; non

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esisteva più la vita agraria di tutti i giorni ad insegnare fratellanza e senso di appartenenza ad una terra; senza attaccamento ad un qualche terreno, l’uomo aveva perduto un modo di vedere. E come potevano essere percepiti i valori del paesaggio, quando loro stessi non erano più di alcun insegnamento? Inoltre, il cittadino americano scoprí che tutte le esperienze significative, buone o cattive, ora avevano luogo in compagnia di molte altre persone, spesso sconosciute, ed in ambienti di proprietà o controllati, dall’autorità pubblica o da una società privata: fabbrica, ufficio o negozio, spiaggia, parco o stadio; ambienti per i quali il cittadino medio non provava né poteva provare alcun senso di responsabilità. Siamo forse inclini a esasperare le conseguenze di questa alienazione e perdita di sensibilità. Ci è difficile ammettere che la maggior parte delle qualità umane riescano a crescere anche quando non hanno radici nel terreno, come certi vegetali. Ma non ci sono dubbi che un rapporto totalmente nuovo con l’ambiente, o meglio, due tipi di rapporti, si siano evoluti durante oltre un secolo di egemonia ingegneristica. L’uno, resoci molto familiare dalla letteratura, è l’indignato rifiuto delle sporcizie, della confusione, delle masse indistinte del mondo ingegneristico, e la tensione verso la natura selvaggia. L’altra reazione, molto più generale e molto meno articolata, e perciò generalmente ignorata dagli ambientalisti, è l’accettazione della situazione, la prontezza a raccogliere qualsiasi piacere venga reso disponibile da un ambiente sempre più urbanizzato. Una persistente tradizione romantica, diffusa nel mondo accademico e nella classe agiata, trova ben poco valore in quella accettazione, e si lamenta delle autostrade intasate dai vacanzieri, degli stadi stracolmi, delle spiagge traboccanti, delle ovvie forme di ricreazione. Ma quelle che alcuni di noi chiamano “folle”, altri le definiscono come “gente”, e molti apprezzano questi divertimenti non quali surrogati dell’esperienza agraria ormai svanita, ma come qualcosa di assolutamente nuovo e gratificante. Comunque, sia nel caso di un abbandono del paesaggio ingegneristico in favore della natura più selvaggia, sia nel caso di una affiliazione ad esso, esprimiamo un’identica attitudine verso l’ambiente, e quell’attitudine è essenzialmente quella dell’ingegnere. Il paesaggio non è più il luogo in cui formiamo la nostra identità, in base alla quale soddisfiamo i nostri doveri tradizionali; è ora un luogo in cui determinate risorse possono essere comprate o acquisite gratuitamente. Il nostro obiettivo è quello dell’ingegnere:

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accumulare energia, mentale o fisica, e trasportarla poi in città. Infine, non deve essere omessa, sebbene abbastanza ovvia, un’altra caratteristica della valutazione contemporanea del paesaggio naturale, poiché anch’essa prodotto della mentalità ingegneristica. I nostri contatti con quell’ambiente non solo sono brevi e saltuari, ma anche programmati, riservati alle vacanze o ai fine-settimana, determinati non dalle stagioni ma dalla routine del lavoro urbano. Dunque, questi contatti sono eventi attesi, pianificati e ricordati a lungo. L’ambiente naturale diventa quindi lo scenario di un’esperienza, piuttosto che esperienza essa stessa. Qual è la natura di quest’esperienza? Come differisce, rispetto all’esperienza tradizionale dell’esploratore della natura selvaggia? In tre maniere specifiche: l’esperienza contemporanea non è solitaria, non è contemplativa, ed è meno interessata alla comprensione del paesaggio quale fenomeno in se stesso che alla coscienza del proprio ego. Non sono questi i luoghi in cui inoltrarsi alla ricerca dell’auto-coscienza attraverso nuovi sport, capacità di movimento e intimo contatto con gli aspetti meno familiari dell’ambiente: vento, pendio, superficie, profondità dell’acqua, altezze dello spazio; essi rappresentano, penso, gli elementi di una ricerca potenzialmente preziosa della propria identità, mediante una nuova forma d’esperienza del paesaggio e, abbastanza esplicitamente, richiedono nuovi tipi di paesaggi, in parte naturali, in parte trasformati dagli ingegneri. Queste attività sono decisamente urbane fino a che non rifiutano la presenza di altri. E fino a che questa ricerca di auto-coscienza possiede qualità religiose o mistiche, è importante tenere a mente che la solitudine non è un elemento necessario né desiderabile. Siamo spesso ancora vittime di una tradizione romantica che ha attribuito il raggiungimento di valori religiosi solo al cercatore solitario. Ma le migliaia di persone che si sono riunite sulle spiagge del Mare di Galilea non rappresentano un caso unico. Dobbiamo solo ricordare la folla che si riuní sul Boston Common per ascoltare George Whitefield, le migliaia di persone che si riunivano nelle radure delle foreste di frontiera o, in maniera simile, le decine di migliaia che si trovarono a Woodstock o a Watkins Glen per scoprire che un ambiente all’aria aperta può offrire un’esperienza genuina sia alle masse che all’individuo. Ne deriva che dobbiamo imparare ad offrire luoghi per questo tipo di esperienza. Stiamo quasi tornando al modo di pensare di Timothy Dwight:

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scoprire la bellezza dell’ambiente soprattutto in quegli ambienti dove uomini e donne raggiungono una coscienza più completa della loro stessa identità. Ma l’identità che stiamo inseguendo è, ovviamente, molto diversa da quella del duro lavoro del contadino di Dwight, e richiede uno scenario molto differente, molto più spazioso, molto meno domestico, molto meno dettagliato. È compito del pianificatore ed architetto del paesaggio pensare questi luoghi e scoprire come e dove possono essere creati artificialmente. Non mancano, ad oggi, esempi suggestivi: l’autostrada, la pista da sci, l’ampia distesa di verde pubblico, l’ampia distesa d’acqua, paesaggi fatti di spazio e libertà e imprevedibilità. L’arte del creare paesaggi può migliorarli e perfezionarli, e crearne di nuovi. Una terza definizione di paesaggio diventa quindi evidente: un paesaggio è bello quando è, o può essere, luogo di una significativa esperienza di autocoscienza, ed eventualmente, auto-conoscenza.

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Jefferson, Thoreau e oltre

da: Ervin H. Zube ed., Landscapes, Selected Writings of J.B.Jackson Amherst, The University of Massachusetts Press, 1970, pp. 1-9.

Nel corso della lunga cronaca della nostra sfiducia nei confronti della città americana, due nomi spiccano fra tutti: Jefferson e Thoreau. L’uno cercava di distruggere la città con mezzi politici, l’altro, preferendogli la natura selvaggia, scriveva e predicava attenzione verso i pericoli della città. Entrambi stabilirono una tradizione distintamente antiurbana, ancora oggi seguita da molti che nulla conoscono della sua origine. Uomo di campagna per passato e vocazione, Jefferson espresse, per tutta la sua vita, una forte avversione verso la città e la preferenza per la vita rurale. “Coloro che lavorano la terra”, scrisse, “sono il popolo scelto da Dio, se mai Egli scelse alcuno; i loro petti Egli trasformò nel Suo deposito di solida e genuina virtù”. Jefferson non cessò mai di adoperarsi a favore di un ordine dove “la maggior parte possibile della popolazione avrebbe dovuto possedere un podere. I piccoli proprietari terrieri sono la popolazione più preziosa per l’intero stato”. A questo favore per una società agraria si univa un vigoroso disprezzo per “le città quali ferite politiche”, luoghi di inutili lussurie, corrotto benessere e sfruttamento politico. Terra a buon mercato e ostilità verso il centralismo politico della città erano due dei principi base della filosofia politica di Jefferson. Thoreau, nato e cresciuto in un piccolo villaggio del New England, poi nell’atmosfera urbana di Cambridge ed Harvard, protestò in maniera più personale ed emotiva. Nonostante la sua più esplicita formulazione di antiurbanesimo sia Walden, prodotto di due anni di ritiro da qualsiasi contatto umano, quasi non esiste pagina in cui egli non esprima la sua opinione sulla vita cittadina e la sua devozione verso il paesaggio naturale. Nel saggio “Walking”, suo ultimo testamento letterario, dà voce alla sua convinzione

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in un passaggio spesso citato dai sostenitori della vita nella natura: “Desidero pronunciare una parola a favore della natura, a favore della libertà assoluta, in contrasto con la libertà e la cultura meramente civile; una parola per considerare l’uomo come un abitante o una parte o una particella della natura piuttosto che come un membro della società”. L’influenza di questi due uomini sta nell’aver consolidato una tendenza già presente tra gli intellettuali americani nell’osteggiare qualsiasi aspetto della vita della città moderna e nel predicare l’alternativa rurale o suburbana. Ma quanto l’antiurbanesimo di Jefferson assomiglia a quello di Thoreau? Quanto i due hanno, in effetti, in comune? In The Intellectual Versus the City, Morton e Lucia White ci avvertono che il sentimento antiurbano in America ha avuto differenti origini e che la città era considerata troppo civilizzata, o non civilizzata a sufficenza. La distinzione calza per Jefferson e Thoreau, e divide ancora i critici della città in due fazioni. La frase-chiave della denuncia della città di Jefferson, e del suo apprezzamento per la campagna, è senza dubbio la seguente: “la campagna produce cittadini più virtuosi”. Ciò che egli preferisce alla società urbana, non è la solitudine rurale ma la società rurale; il tipo di uomo che desidera incoraggiare rispetto al cittadino urbano, oppresso dal benessere e dalla corruzione, non è semplicemente l’abitante della campagna, ma il cittadino rurale, partecipante in maniera attiva ed efficace alla vita politica della sua comunità. È vero che Jefferson sostenne che l’uomo è più “naturale” quando vive in ambienti rurali, ma quel “naturale” aveva poco a che vedere con “natura”, perlomeno per quanto riguarda la natura più selvaggia; un uomo “naturale” era una creatura inevitabilmente sociale o, più precisamente, politica. La relazione significativa, la relazione che dava origine ad uomini migliori, era quella esistente tra uomo e uomo. Se la preferenza veniva data all’habitat rurale, ciò era dovuto al fatto che esso rendeva la relazione più facile. Per Thoreau, al contrario, la differenza essenziale tra città e campagna – o meglio, tra città e natura selvaggia – era quella tra società e natura; tra uomo quale membro della società e uomo quale abitante della terra. Lontano da scoprire qualsiasi virtù nella vita rurale, Thoreau era tanto poco tollerante verso i contadini quanto lo era verso i cittadini. “Esiste qualcosa di volgare e sbagliato nella vicinanza del gardener verso la sua mistress”, disse.

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Il contadino, in breve, è colpevole di una seria offesa: di fallire nel riconoscersi quale parte della natura. Per Thoreau la relazione significativa non è quella tra uomo e uomo, ma la relazione tra l’uomo e il suo ambiente. Se la distinzione appare accademica, era senza dubbio ugualmente accademica per quegli Americani di più di un secolo e mezzo fa, che si muovevano verso il paesaggio vergine dell’Ovest, dove credevano si trovasse il futuro della nostra nazione. Il pioniere che si insediava nel territorio nord-occidentale appena scoperto, il trapper e il boscaiolo che si spingevano oltre il Kentucky per attraversare il Mississippi, trovarono entrambi la libertà dalla città. Essi rappresentavano due diversi tipi di America non-urbana; l’una Agraria, l’altra Romantica; e nel corso del tempo entrambe le tendenze lasciarono il loro segno caratteristico sul paesaggio nazionale. La vita agraria fu la prima delle due filosofie a produrre il suo paesaggio. Il National Survey del 1785 non solo era ispirato a Jefferson, ma era chiara espressione del disprezzo jeffersoniano per un governo troppo potente e centralizzato nelle città e dell’enfasi nei riguardi del piccolo proprietario terriero. Il National Survey ha permesso e perfino incoraggiato la formazione di municipalità dotate di un proprio governo locale; ma non prevedeva alcuna soluzione per le città. Jefferson tentò di aiutare nella progettazione della capitale: i suoi schizzi, che proponevano un esteso impianto a griglia suddiviso in lotti uniformi, furono malamente rifiutati da L’Enfant, il quale aveva in mente una visione ben più monumentale. Ma a parte una o due significative eccezioni – Detroit, Baton Rouge e Indianapolis – le città costruite negli Stati Uniti, fino alla fine del diciannovesimo secolo, erano tutte conformate al sistema a griglia: erano tutte jeffersoniane. Nel suo rimarchevole studio sulla pianificazione in America nel diciannovesimo secolo, John Reps notò che la grande maggioranza delle città americane ebbe origine e crebbe sull’impianto a griglia a causa della sua facilità di controllo, semplicità di comprensione e adattabilità alla speculazione. Questi erano senza dubbio grandi vantaggi: è impossibile separare la pianificazione e la crescita della maggior parte delle città americane del diciannovesimo secolo dalla speculazione terriera. Ciononostante, l’uso quasi universale della griglia non può essere interamente compreso senza riferimenti alla più ampia griglia regionale del National Survey, il quale prescrisse sistematicamente almeno gli assi principali di ogni insediamento. Se, in termini di pianificazione, le nostre città sono poco più ampie

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dell’estensione della griglia di un villaggio, il villaggio stesso – eccetto che per le zone più antiche della nazione – non è altro che un frammento della griglia regionale: una sistematica successione di lotti uniformi, spesso terminanti in una piazza pubblica, senza alcuna particolare funzione e di dimensioni sempre uguali. L’isolato, sia a Chicago che a New York, o Iowa, rimane l’unità di base e non è altro che un preciso numero di piccole proprietà private. A causa della sua monotonia, la pianificazione jeffersoniana possiede caratteri indubbiamente utopici, infatti, è la copia di una società agraria egalitaria ed è basata sull’assunto che il proprietario terriero ricopra un ruolo attivo all’interno del processo democratico. Originariamente il sistema a griglia era dunque uno strumento per la formazione di “cittadini virtuosi”. La sua sopravvivenza sino ad oggi, testimonia la fede, una volta cosí diffusa tra gli Americani, nella possibilità di raggiungere la perfezione umana. Non era quindi solamente logico, ma anche appropriato, che il sistema a griglia, nonostante i suoi ovvi limiti e il suo abuso da parte degli speculatori, dovesse rimanere la caratteristica nazionale della progettazione dell’ambiente. È, di nuovo, il simbolo di un’Utopia agraria composta da una società democratica di piccoli proprietari terrieri. Thoreau non ebbe alcun ruolo diretto nella formulazione dell’ambiente Romantico. Rimaneva comunque il più eloquente sostenitore di una filosofia ambientale per la prima volta espressa da Rousseau e dai suoi seguaci molti anni prima. Nessun altro Americano riuscí altrettanto bene a tradurre il sentimento Romantico in un valore nazionale; nessun altro lo mise in pratica con altrettanto vigore e insistenza. L’amore per la natura di Emerson, sebbene genuino, sembrava sempre provenire da una piacevole passeggiata in campagna. Quello di Thoreau derivava da una dedizione totale alla solitaria vita nella natura. Ciò che indubbiamente diede voce al suo ideale fu il fatto che l’America della metà del diciannovesimo secolo era l’unico stato moderno dove il sentire Romantico verso l’ambiente avesse possibilità operative; dove rimaneva ancora spazio per l’uomo di frontiera e per il pianificatore di grandi paesaggi. È una delle ironie della nostra storia che l’ambiente Romantico rimanga un fenomeno urbano e suburbano. Mentre la preoccupazione di Jefferson per l’uomo quale membro della società determinò il carattere del nostro intero paesaggio rurale, il sentimento Romantico per la solitudine e per

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il contatto con la natura incontaminata era tipico del cittadino borghesemedio della costa atlantica. Delle migliaia di miglia quadrate colonizzate durante la prima metà del diciannovesimo secolo, poche, se non nessuna, furono pianificate e trasformate secondo ideali Romantici. Solamente tra il 1870 ed il 1880 diventò possibile attrarre l’interesse della società Americana verso la saggezza del preservare le meraviglie della natura dell’Ovest. L’esclusione dei caratteri di pianificazione ambientale Romantica dalla campagna agricola ebbe un fatale effetto sulla professione della “landscape architecture”. In Inghilterra, e in maniera ridotta in Francia ed in Germania, la pianificazione ambientale del diciannovesimo secolo si preoccupava dell’assetto delle campagne e del paesaggio rurale, ed è ancor oggi parte della tradizione inglese architettonico-paesaggistica. Ma l’architetto del paesaggio americano, come se fosse ancora educato da Thoreau, riesce a vedere il paesaggio solamente in termini di conservazione o ricreazione. Nella sua dettagliata descrizione del paesaggio Romantico Americano del diciannovesimo secolo, il libro di Reps, è un compendio completo della cosidetta pianificazione pittoresca del nostro paese, sebbene l’esclusione dei campus universitari sia stata una sfortunata omissione. Sembra che siano tutti lí: Mount Auburn Cemetery del 1831; Llewellyn Park di Alexander Davis del 1853; Lake Forest; i piani di Olmsted per Central Park e Riverside. Le cittadine, differenti per natura dai sobborghi, sono incredibilmente rare nella tradizione Romantica. Ovviamente non incluse sono le tenute di Hudson Valley di Downing e i cottage gotici e italianeggianti che a migliaia si trovavano lungo le strade alberate dell’America della metà del diciannovesimo secolo. Nonostante la varietà dei tipi – cimiteri, parchi urbani, sobborghi -, nonostante le differenze nelle dimensioni e nelle funzioni, ognuno di essi può essere facilmente interpretato secondo la filosofia di Thoreau. La relazione significativa non è mai quella tra gli edifici, o tra la progettazione degli spazi aperti e la città che li incornicia; è sempre quello tra progettazione e topografia, da cui le strade contorte, l’ingegnoso e spesso sensibile adattamento a qualsiasi caratteristica topografica. Da qui l’architettura “irregolare” – Gotica, Svizzera, Romanica – che, nel tentativo di miscelarsi con il suo contesto, anticipò Frank Lloyd Wright di almeno mezzo secolo. E l’uomo, visto come “parte e parcella di natura, piuttosto che come membro della società”, doveva avere una dimora il più isolata possibile dai suoi

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vicini, e alberata con generosità. L’assunto secondo cui l’uomo è sempre in lotta per la libertà dalla società e sempre alla ricerca di un contatto più vicino con la natura, produce il sobborgo Romantico, ma non produce nessuna cittadina. È interessante notare come nessuna delle comunità utopiche o religiose americane possedesse alcuna caratteristica romantica nella sua progettazione. Tuttavia, a causa della sua incapacità di capire la natura politica dell’uomo, e nonostante la sua passione per il “primitivismo”, il paesaggio pianificato dei Romantici rappresentava, perlomeno quanto il paesaggio agrario jeffersoniano, un ideale utopico. Come il paesaggio di Jefferson, esso assume che, in un ambiente favorevole, l’essere umano possa diventare migliore, o possa perlomeno essere sincero verso la sua stessa natura, raggiungendo una nuova libertà dalla città. Il paesaggio agrario era vasto, monolitico, e senza grazia; il paesaggio Romantico era frammentario, chiuso in se stesso, ed identificato dall’inizio con ideali medio-borghesi. Ma entrambi erano paesaggi ideali, e non vedremo nulla di simile a venire. La capacità ed il desiderio di creare ambienti utopici sembra siano scomparsi con il loro tramonto. È facile affermare che quei primi paesaggi utopici fossero stati superati dai cambiamenti della società americana. Ma le Utopie non dovrebbero esser assoggettate alle vicissitudini della storia. Quando una di esse muore, è per una ragione ad essa interna; e le nostre due Utopie, la Agraria e la Romantica, morirono perché non esistevano più uomini utopici ad abitarle. Ciò che giustificava la griglia, e l’ha mantenuta valida per almeno un secolo, era la ferma convinzione tra gli Americani che fosse possibile produrre un ideale conosciuto come il Cittadino Virtuoso; ciò che giustificava il paesaggismo elaborato dei Romantici era il fatto che, altrettanto fermamente, fosse possibile produrre un ideale chiamato Uomo Abitante della Terra. Thoreau e Jefferson erano ai poli opposti nella definizione della natura umana ma erano completamente d’accordo sulla possibilità di definirla e, dopo averlo fatto, di creargli l’ambiente adatto. Ciò che abbiamo perso nell’ultima generazione è la loro sicurezza e con essa la capacità – o il coraggio – di formulare Utopie. Non è di nessun’importanza cercare di resuscitare ciò che è andato perduto, nonostante possa sembrare bello e giusto; la loro giustificazione filosofica è andata perduta. Tutto ciò che possiamo fare oggi è produrre paesaggi per l’uomo impre-

da: Ervin H. Zube ed., Landscapes, Selected Writings of J.B.Jackson

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vedibile, dove libere e democratiche relazioni del paesaggio jeffersoniano possano essere in qualche modo combinate con l’intensa autocoscienza del Romantico solitario. Il paesaggio esistenziale, senza assoluti, senza prototipi, pronto al cambiamento e alla mobilità e all’aperto confronto degli uomini, sta già prendendo forma attorno a noi. Ha vitalità ma non è fisicamente bello, né socialmente giusto. Il nostro passato americano ha una lezione preziosa da darci: un coerente paesaggio evolve dove esiste una coerente definizione non dell’uomo ma delle relazioni degli uomini con il mondo e con gli altri uomini.

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da: J.B.Jackson, The Necessity for Ruins Amherst, The University of Massachusetts Press, 1980, pp. 77-88.

Come tutti sanno, negli Stati Uniti esistono luoghi il cui nome include la parola “grove” (bosco, NdT): Pacific Grove in California; Council Grove in Kansas; Webster Grove in Missouri e Asbury Grove nel Massachusetts. Ci sono molti luoghi con nomi quali Grove City, Groveton e Grove Center, ed esistono “groves” di ogni genere di alberi: Cedro, Acero, Salice, Pino, Noce e cosí via. Alcuni tra questi luoghi, sono cittadine di una certa dimensione; la maggior parte sono piccoli centri, poco più di quattro case attorno ad un incrocio stradale. La maggioranza di essi penso si trovino nel profondo Sud e nell’Arkansas, nel Texas e nell’Oklahoma. Persino laggiù sono ben nascosti tra la vegetazione. Passeggiando nelle pinete, spesso capita di vedere segnali dipinti a mano che indicano la strada per Pleasant Grove o Shady Grove. Se seguiamo il sentiero stretto e polveroso scopriamo che il “grove” è semplicemente un’altra parte del bosco. Forse c’è una radura nei dintorni, ormai divorata dalla foresta. Per anni mi sono aggirato per questa moltitudine di boschi. Molti di noi guardano all’Europa, specialmente all’Inghilterra, per origine ed influenza, quando ci si trova di fronte a qualcosa che ha a che fare con il mondo rurale. Ma a parte una tradizione romantica di boschi di origine druidica e l’Olive Grove of Academe, Plato’s Retirement di Milton, le origini inglesi hanno poco da offrire al riguardo. Ho scoperto che l’esistenza del bosco nel XIX secolo in America non aveva nulla a che fare con la moda o con riferimenti letterari. Il “grove” era di solito il posto dove aveva luogo una congregazione o una riunione nel bosco, e spesso coincideva con la presenza di una chiesa. Congregazioni e riunioni erano, e sono ancora, eventi importanti in gran parte dell’America rurale: attraggono centinaia, persino migliaia di persone e durano sovente parecchi giorni. Associamo questi incontri con i primi decenni del XIX secolo, quando essi proliferavano in tutta l’America di frontiera, ma sono 71


fenomeni ricorrenti ancora oggi. Le radure dei boschi spesso acquistano nuova vita verso l’Autunno, cosicché, in effetti, il nome del luogo diventa qualcosa di più che un semplice appellativo: indica un particolare tipo di luogo e, a molte persone, ricorda un evento importante della loro vita, una profonda e sovente decisiva esperienza religiosa. Cosa in realtà fosse, o cosa tuttora sia questa esperienza, non sono qualificato a giudicarla. Ciò che m’interessava in questa questione, e che a lungo mi aveva incuriosito, era la scelta del suo luogo: uno spazio all’aperto nei boschi di nessuna particolare qualità scenica. È vero che molti raduni religiosi hanno avuto luogo all’aperto, hanno effettivamente avuto luogo nei boschi, ma la pratica sembra essere stata più pagana che cristiana. L’antichità classica ha dedicato molta attenzione ai boschi sacri. Fraser ne scelse uno non lontano da Roma come ispirazione per il Golden Bough e Martin Nilsson, nel suo libro sulla pietas greca, ci dice che i boschi sacri erano presenti in tutto il paesaggio greco. “Molti luoghi di culto”, dice, “non avevano neppure una modesta cappella. L’immagine del dio, se ve n’era una, era posta sotto il cielo aperto..., gli alberi che crescevano nel recinto sacro erano protetti e non potevano essere tagliati; cosí un bosco, in un paesaggio cosí poco fornito di legname come la Grecia, era sovente sinonimo di luogo sacro”. Non mancavano certo gli alberi sugli Appalachi, e la prima cosa da fare, una volta che il sito per le riunioni fosse stato scelto, era quella di tagliare molti alberi e convertire i tronchi in panche per la congregazione. Forse l’origine del bosco sacro americano giace nelle nostre più profonde origini europee, più di quanto non si possa immaginare. In entrambi i casi della Grecia e del Kentucky, il “grove” aveva un’origine religiosa. Ma in seguito Nilsson aggiunge qualcosa di sconcertante: “Noi sacralizziamo un luogo collocandovi un santuario ma, in tempi antichi, la sacralità apparteneva al luogo stesso, ed un santuario veniva eretto in quel luogo perché era il sito ad essere sacro. Zeus prendeva nome dalle montagne sulle cui vette egli radunava le nuvole”. Per cui la motivazione dell’origine della sacralità di un “grove”, in America, era esattamente opposta alla ragione per la quale i greci consideravano sacri i loro boschi. Nell’antichità il luogo veniva per primo; la divinità ed il suo tempio venivano dopo. Nella cristianità era l’azione umana o divina che santificava un luogo. Per noi in principio era la parola, o il fatto. Il concetto tradizionale che certi luoghi sono, per natura, sacri, viene studiato in dettaglio da Mircea Eliade. È un’idea che influenza in maniera molto forte l’organizzazione del paesaggio umano. Un luogo sacro, sia esso un bosco o una montagna o una sorgente, diventa il cuore di un insedia-

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mento e produce di conseguenza una comunità ed un rituale quotidiano basato sulla territorialità: diventa uno spazio occupato da un gruppo ben definito di persone. Esso stabilisce una gerarchia fra i luoghi che lo circondano. Più un posto si trova vicino al luogo sacro, più esso diventa desiderabile. Lo spazio tende cosí a sviluppare uno schema centripeto nel disegno del cosmo, in quello del paesaggio e nello stesso recinto sacro. Ne consegue, penso, che questo genere di organizzazione spaziale contribuisca a determinare l’organizzazione della struttura sociale, la quale diventa gerarchica e centrata sulla nozione di autorità. Il procedere verso il sacro o verso il potere, sia che intendiamo il procedere in termini di movimento o in quello di sviluppo, assume la forma di un passaggio attraverso spazi o gradi di progressiva sacralità, fino a raggiungerne il centro. Infine, anche il tempo è organizzato per ricordarci della sacralità di un luogo: il giorno, l’anno, il corso della vita, sono misurati nei termini del passaggio ricorrente del tempo da uno spazio ad un altro secondo una logica prestabilita. Il calendario riporta la localizzazione dei corpi celesti secondo le stagioni, e determina la successione di riti e cerimonie, tappe prestabilite nell’esistenza dell’individuo cosí come in quella della comunità. La frase “essere al settimo cielo” deve avere avuto originariamente un simile significato: il punto in cui eventi temporali e spaziali coincidono per produrre qualcosa di simile alla totale felicità. Tuttavia, qui l’enfasi è ancora sul momento. Questo modo di percepire il disegno del mondo implica che la religione sia una questione pubblica, quasi politica. Indubbiamente all’inizio la cerimonia era un raduno di famiglia basato sul senso di appartenenza ad un territorio comune ma, in seguito, essa è diventata interesse di stato o dell’istituzione ad esso equivalente. La religione ha allora acquisito carattere civico ed i suoi riti sono diventati un misto di processioni attraverso luoghi pubblici e di una pubblica, generale osservanza di festività cosmiche, confermando la sacralità e la relazione esistente tra l’ordine dello spazio e l’ordine del tempo. Inoltre, tutte le comunicazioni con il divino dovevano avvenire in un luogo riconosciuto quale pubblico e sacro. Mosé proibí qualsiasi sacrificio privato: “Fai attenzione a che tu non offra e non bruci le tue offerte in qualsiasi luogo che ritenga opportuno, ma che lo faccia nel luogo che il Signore scelse”. E le Leggi di Platone erano ancora più esplicite: “Nessuno deve possedere un altare personale nella propria casa. Quando ad un uomo si impone la necessità di rendere sacrificio, egli deve andare a compierlo sull’altare pubblico”. Sospetto che questa regola avesse due obiettivi: preservare la

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unicità spaziale del santuario e preservare il calendario dalle distorsioni del calendario privato dei riti non programmati. Di conseguenza, in una società tradizionale ben strutturata, non si dà grande importanza all’esperienza religiosa privata e, al tempo stesso, non si dà molto peso a culti eretici. Ogni divinità può essere oggetto di culto, ammesso che il servizio sia fatto in uno spazio santificato; qualsiasi cosa può essere celebrata, purché la celebrazione avvenga in tempi prestabiliti dal calendario religioso. Questo concetto del cosmo, come spazio sacro e ordinato secondo principi di armonia, è stato spesso studiato; il punto che vorrei sottolineare è che l’enfasi di certe società viene posta nel concetto di priorità dello spazio. Queste sono ciò che chiamiamo società conservatrici, determinate a mantenere un ordine che esse concepiscono come divino e basate sul luogo e la sua posizione nello spazio. La questione fondamentale in una simile religione, cosí come nella vita quotidiana, è quella sullo status sociale; la domanda alla quale si cerca di dare risposta è dove? Quando la domanda assume forma differente, ed iniziamo a cercare una risposta al quando?, il quadro cambia. Tempo e ordine del tempo diventano più importanti dell’ordine dello spazio. Perché questo cambiamento avvenga, perché la preoccupazione personale per il quando diventi più forte della preoccupazione comune per il dove, è un problema al quale gli storici possono senza dubbio dare una spiegazione. Uno dei suoi primi segni è la decentralizzazione dello spazio. L’organizzazione dello spazio diventa un problema tipicamente sociale, un modo di mantenere un ordine che è sociale piuttosto che divino. L’America coloniale, in particolare le colonie del New England, offrono un eccellente esempio di questa transizione – in parte religiosa, in parte politica – tra le due attitudini. La nozione di spazio “sacro” era già presente quando il primo esploratore arrivò nel nuovo mondo, ma lo spazio, in termini politici e sociali, era ancora altamente conservatore, quasi Classico. La maniera in cui si diede inizio alla costruzione delle chiese, suggerisce il cambiamento. Fu impossibile identificare la chiesa con il tempio o l’altare, anche quando essa riprodusse fedelmente lo spazio concentrico classico del villaggio o del paese. La dottrina cristiana, essendo basata sull’onnipresenza di Dio, implicava che tutto lo spazio fosse sacro, cosí come era sacro tutto il tempo. Entrambi avevano origini storiche ed entrambi procedevano verso una conclusione storica. La chiesa fu perciò definita non come un edificio, ma come una funzione, come il suo contenuto: essa era definita come una congregazione. Cotton Mather non trovò “nessuna

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evidenza nelle Scritture che facesse credere nella chiesa quale dimora per la congregazione pubblica”. Altri erano d’accordo e sala delle riunioni fu il termine da allora generalmente adottato. Molti di noi si sono dimenticati di questa usanza, ma la distinzione viene ancora enfatizzata in qualche setta evangelica. L’iscrizione “la Chiesa di Cristo Si Incontra Qui” è comune ovunque in America, come per ricordarci che nessun luogo è sacro in se stesso; solamente il suo uso è sacro. Ma lo scopo politico della sala delle riunioni sostituí presto le sue funzioni sacre. Non era soltanto il luogo di riunione politica; su muri e porte venivano affissi avvisi legali, annunci di svendite e bollettini pubblici. La disposizione dei posti indicava lo status sociale delle varie famiglie, e l’annuale organizzazione della chiesa era un’elaborata impresa: la definizione dei posti a sedere in base al prestigio, dichiarando che la prima fila di galleria era equivalente alle prime quattro panche sulla destra, e cosí via. Il cimitero era soggetto allo stesso procedimento, cosí come qualsiasi altra processione funeraria, accademica o politica. Sebbene non avesse alcuna giustificazione religiosa, l’ordinamento dello spazio in termini gerarchici classici sembrava essere uno dei grandi interessi del XVII secolo. Per quanto riguarda l’ordine del tempo, anch’esso era esplicito e, come il sacro ordine dell’antichità, esso dava grande importanza al progresso attraverso un processo graduale riconosciuto pubblicamente fino all’ultimo stadio della redenzione: il battesimo, l’istruzione, la confessione periodica, la conversione e la comunione. Il Giorno del Signore e la sera del Sabbath, cosí come l’inflessibile orario della messa, erano momenti sacri. La messa seguiva un ordine prestabilito, e le processioni all’interno della chiesa durarono fino al tardo XVIII secolo. Messe o servizi religiosi privati erano impossibili, essendo la presenza della congregazione essenziale. Questa preoccupazione per lo spazio gerarchico e per il calendario liturgico poteva sembrare a molti abitanti del New England solo una memoria di obsolete tradizioni. La vera preoccupazione tra certi membri di ogni congregazione doveva essere centrata su quella inscrutabile domanda del quando?. L’evento conosciuto come il Grande Risveglio, durato dagli inizi del 1730 alla fine del 1740 nella maggior parte delle colonie, può essere interpretato come un tentativo di rendere il tempo l’elemento essenziale dell’esperienza religiosa. Teologicamente il Grande Risveglio fu un evento complesso. Per il laico il movimento rimane misterioso: l’improvvisa esplosione di un nuovo tipo di fede professata da congregazioni ortodosse, fede che Gaustad descrive come il dare “massima priorità ad una diretta, immediata, personale ed

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incontrovertibile esperienza di Dio... Non burocrazie ecclesiastiche, ma epifanie private.” Una gran parte del movimento può comunque essere compreso come un conflitto tra due differenti attitudini nei confronti del tempo e dello spazio: tra l’attitudine conservatrice dell’ortodosso, il quale credeva in un graduale e prestabilito progresso pubblico verso il sacro e che assegnava grande importanza all’ordine dello spazio politico e, al contrario, l’attitudine dei dissenzienti, i quali ricercavano una religione privata e subitanea ed erano indifferenti allo spazio strutturato. Ciò che indubbiamente costituiva una delle caratteristiche più peculiari della nuova fede, era la sua insistenza sulla conversione improvvisa, il suo credere che la conversione, che per l’ortodosso rappresentava un cambiamento radicale d’identità e status sociale, potesse essere accelerata. Nelle parole di un critico del 1740, essa significava “un assoluto, immediato, istantaneo evento che ci colpisce come una saetta di luce... cambiando l’intero essere umano in una nuova creatura nel tempo di un batter di ciglio”. Un altro ministro scriveva che il nuovo movimento assumeva “che questa conversione o Nuova Nascita è improvvisa ed istantanea, ed è generata da un irresistibile Grazia e Potere Divino... Dicendosi che la Creazione accadde in un istante... cosí la nostra seconda creazione, alla stessa maniera, deve essere altrettanto istantanea”. Ciononostante ricordava alla sua congregazione i principi della fede ortodossa: “La conversione”, disse, “è un processo progressivo, ed i principi e le abitudini di Grazia e Giustizia non ci vengono portati per miracolo tutto in un colpo... Le diverse Grazie della Cristianità vengono acquisite per gradi, ad una virtù ne viene aggiunta un’altra, crescendo nella vita Cristiana attraverso impercettibili passi in avanti.” Tuttavia un altro assalto all’ordine prestabilito, forse meno significativo, ma non per questo meno irritante, era l’irregolarità e l’imprevedibilità dei servizi liturgici. Invece che iniziare puntualmente alle nove del giorno di Sabbath, durante l’eccitazione del Grande Risveglio, avvenivano spesso ogni giorno della settimana, spesso al sera, e lo stesso ordine prestabilito della liturgia veniva stravolto a volte dalla lunghezza dei predicatori, altre dal comportamento entusiasta ed anarchico della congregazione. Diventò impossibile stabilire l’orario della congregazione e coordinarne lo sviluppo. Ma mentre il nuovo concetto di tempo produsse cambiamenti molto decisi basandosi su una dottrina esplicita, i cambiamenti nello spazio erano il prodotto dell’indifferenza e noncuranza nei confronti dell’ordine tradizionale. Una delle caratteristiche più discutibili del movimento, almeno

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per gli ortodossi, era il declino del concetto di territorialità, l’idea, ancora una volta ereditata da un passato remoto, che la chiesa o la congregazione fossero identificate con uno spazio definito e riconosciuto legalmente: la parrocchia ed i suoi confini. I primi fautori dell’anarchia dello spazio furono i predicatori itineranti, i quali, invitati o meno, apparivano fuori dalle parrocchie a condurre i nuovi servizi liturgici. Il corpo insegnante di Harvard fu fortemente irritato da questa condotta eretica ed a Philadelphia un giornalista denunciò aspramente la pratica. Il nuovo spirito, dichiarò, “è qui, là e dappertutto, e soprattutto odia leggi ed ordine, o legami e limiti”. Senza dubbio stava pensando alle assemblee di massa, avvenute anni prima a Philadelphia, quando Whitefield predicò a folle che Benjamin Franklin (che era presente) stimò costituite da ventimila persone. In ogni caso, lo straripamento dello spazio tradizionale della chiesa all’esterno della sua porta d’ingresso, intenzionalmente o meno, diventò presto una caratteristica dei servizi liturgici. È difficile dire se la sistemazione all’aperto avesse qualche effetto sul predicatore o sulla congregazione. Da quello che abbiamo letto, non c’era traccia di una fede di natura Romantica durante le Messe, nessuna coscienza che “i Boschi erano i primi Templi di Dio”. Tutto ciò che può essere affermato, penso, è che l’uso di spazi all’aperto indicava il rifiuto dello spazio tradizionale, che veniva senza dubbio identificato, dalle menti di molti giovani e poveri che partecipavano ai servizi, come l’ordine sociale in cui essi occupavano i gradini più bassi e meno desiderabili. Se esiste qualcosa da racimolare, dai racconti del Grande Risveglio, a proposito del nuovo rapporto con l’ambiente, questo deriva dallo studio delle metafore spaziali che venivano usate durante i sermoni. Le metafore ortodosse erano estratte per la maggior parte dalla Bibbia, ma erano anche di natura gerarchica e militare: i soldati di Dio, le armate dei santi, la guerra contro Satana. Ma con il Risveglio, strane nuove metafore entrarono in uso. “Che cosa possono voler dire”, si lamentava un parrocchiano conservatore, “quando parlano di ‘impulsi’ ed impressioni simili alle pulsazioni di un’arteria, all’acqua calda, o ai movimenti di un feto nell’utero?” Come per contrasto con la tristezza della scarsa illuminazione delle chiese la sera, la predica era caratterizzata da lampi di luce improvvisa, buio improvviso, luce improvvisa, buio più completo, spade scintillanti, cecità, salvazione dalla cecità. L’arrivo ad un luogo sacro, ad una destinazione, non era più un ovvio segno di Grazia: il nuovo simbolo era l’improvvisa presenza di una luce straripante. Non è necessario discutere gli strani comportamenti di molti dei converti-

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ti, la maniera in cui molti dei servizi fossero interrotti da pianti e lamenti. Questi fenomeni erano spesso associati con estasi religiose, e non possono essere liquidati come totale aberrazione. Una spiegazione comune era che i disturbi all’apparato auricolare, quale risultato di violente emozioni o movimenti frenetici, potessero produrre un temporaneo disorientamento rispetto all’ambiente circostante. Nella speranza di un rapido cambiamento d’identità spirituale, questo tipo d’esperienza viene deliberatamente ricercata e senza dubbio indotta artificialmente. Verso il 1750 il Grande Risveglio iniziò ad ammainare la bandiera. Non più tardi di un mezzo secolo dopo, la Nuova Fede iniziò a ripresentarsi nella vita americana, questa volta non tanto nel New England e nell’Est quanto nelle regioni degli Appalachi e nei nuovi territori oltre le montagne. Gli storici distinguono questa seconda fase, generalmente chiamata il Grande Revival, dalla precedente, e la identificano con una differente popolazione e differenti dottrine. Storicamente e teologicamente questa distinzione appare corretta ma, dal punto di vista dell’emergere, in America, di un nuovo concetto religioso di spazio e tempo e, della distruzione di “vecchi” concetti, il Grande Revival fu essenzialmente una continuazione ed un completamento del Grande Risveglio. Sia che le riunioni o le congregazioni avessero luogo in South Carolina, o nel Tennessee, o nello stato di New York, sia che fossero Battiste, o Metodiste, o una combinazione delle due, esse generalmente mostravano le stesse attitudini verso lo spazio ed il tempo di quelle della loro versione precedente, sebbene in maniera più vivida e sicura di se stessa. Il luogo della congregazione veniva scelto per convenienza e accessibilità; molte riunioni avvenivano su proprietà private, altre in fienili o in chiese la cui costruzione non era stata completata. Per dirla con Mircea Eliade, il luogo prescelto per la congregazione è completamente “indifferenziato” – né sacro né profano – e aveva ben poca importanza. Era stata introdotta una nuova disposizione dei posti a sedere. Le “sedie ansiose”, occupate da coloro che speravano fortemente nella conversione, erano il posto d’onore ed erano ovviamente temporanee. Per quanto riguarda il territorio circostante – la regione, libera da confini politici – esso era considerato come il campo naturale per il lavoro missionario. Il predicatore itinerante, che viaggiava per centinaia di miglia l’anno, diventò una figura familiare. Il tradizionale svolgimento dei servizi liturgici venne eliminato: diversi predicatori, spesso di differenti sottoculti, predicavano simultaneamente alle immense folle, anche quando le congregazioni stavano cantando i loro inni. Uno degli aspetti significativi della crescente ossessione verso la no-

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zione di tempo era la preoccupazione per l’avvento del nuovo millennio o per la fine del mondo – la fine di ogni epoca storica. La paura della dannazione e dell’inferno giocavano il loro solito ruolo importante, cosí come il fascino per la luce, ora rappresentata più che mai dal fuoco. Una descrizione di una famosa congregazione a Cane Ridge in Kentucky nel 1801 dà un’idea dell’atmosfera surreale che si viveva: “Di notte, l’intera scena era orribilmente sublime. La distesa di tende, i fuochi, la luce riflessa tra i rami degli alberi imperiosi; le candele e le lampade che illuminavano l’accampamento, centinaia di persone che si muovevano in lungo ed in largo con luci e torce, come un’armata di Gideon; le preghiere, le prediche, i canti e le urla, tutto quello che scorreva allo stesso tempo sulla terra, proveniente da direzioni diverse, come il suono di molte acque, era sufficiente per inghiottire in se stesso qualsiasi possibilità di contemplazione”. Verso la metà del XIX secolo, l’atmosfera sensazionale del luogo di congregazione si era decisamente moderata, sebbene il revivalismo continuò ad essere un aspetto importante della vita religiosa americana. La proliferazione delle sette evangeliche e la loro crescente popolarità, innescò la costruzione di molte piccole chiese rurali e ridusse il bisogno di grandi congregazioni regionali. Senza dubbio ogni parrocchia organizzava di frequente la sua cerimonia sotto l’autorità del proprio predicatore, attraendo quindi molti meno non-credenti ed estranei, e limitando la partecipazione a coloro che già avevano in comune determinate credenze e convinzioni. Infine, la più ampia circolazione di letteratura religiosa, per tacere del moltiplicarsi di predicatori educati religiosamente, ebbe l’effetto di standardizzare i servizi liturgici e di eliminare qualsiasi partecipazione spontanea. In termini spaziali i cambiamenti non erano meno evidenti: con l’arrivo di un predicatore locale stabile, il predicatore itinerante, non appartenente ad alcuna comunità locale, uscí di scena, e la vecchia nozione di chiesa o di parrocchia territoriale venne rivitalizzata sebbene in forma meno rigida. Inoltre, la dimensione stessa e la frequenza delle congregazioni necessitava di una attenta preparazione del luogo di predica; la precedente indifferenza verso lo spazio non era più possibile. Nel 1834 un bollettino ecclesiale propose linee-guida per una più efficiente organizzazione del luogo di riunione: entrambi, spazio e tempo dovevano essere attentamente strutturati. Le congregazioni dovevano essere tenute tra la fine di Luglio e la fine di Settembre, presumibilmente in maniera da non interferire con il lavoro di semina e raccolta, e il luogo doveva essere provvisto di “buona acqua, terra asciutta, ombra piacevole, comodi boschi per passeggiare e per la ricrea-

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zione, legna per montare le tende e per il fuoco, e pascolo per i cavalli”. Era inoltre raccomandato che le riunioni fossero meno frequenti, non più di due o tre l’anno per distretto. I sermoni dovevano essere più brevi e i “sacramenti dovevano essere amministrati secondo le solite formule, senza stravaganze d’alcun tipo.” Il bosco stava lentamente diventando una combinazione tra un luogo di villeggiatura estiva ed un luogo di assemblea religiosa, e con l’avvento di Chautauqua, verso il 1870, la tradizione del “grove” iniziò la sua metamorfosi finale. La rivolta contro l’inflessibilità dei tempi liturgici e lo spazio strutturato secondo gerarchie sociali durò un secolo, dopo di che il servizio religioso attentamente programmato e la sequenza tradizionale delle cerimonie iniziò il suo ritorno. Il “grove” come non-ambiente, come spazio libero da qualsiasi controllo sociale e comportamentale, stava lentamente acquisendo una nuova struttura: era prescritto un palco per i predicatori, orientato opportunamente, ed uno spazio chiuso a nicchia, contenente la “panca degli ansiosi”, separava chi intendeva pentirsi da coloro che si volevano convertire. Fuori dallo spazio dell’assemblea vero e proprio venivano organizzate aree speciali per tende familiari o per persone singole. Ma nessuna restaurazione può essere totale, il pendolo non copre mai l’intera distanza di ritorno. Nonostante la rinnovata devozione per una rigida teologia e la scoperta della causa sociale, le chiese protestanti impararono la lezione secondo la quale la vita emotiva dell’individuo non poteva essere interamente ignorata, e la professione di fede non si riconobbe mai più in uno spazio altamente strutturato. La liturgia all’aperto, anche il “grove”, ricordò agli Americani che esisteva una via d’uscita da spazi che imponevano un totale controllo sociale e comportamentale. Revival e nuove forme religiose continuano a ripresentarsi e, ogni qualvolta l’ordine spaziale si dimostra troppo restrittivo, nuovi boschi sacri o loro equivalenti verranno riscoperti ed usati. Ognuno di questi episodi rivelerà il legame che è sempre esistito tra i vari culti religiosi ed il modo in cui lo spazio ed il tempo vengono percepiti.

da: J.B.Jackson, The Necessity for Ruins

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La visione dei nuovi campi

da: J.B.Jackson, Vernacular Landscape, Yale University Press, New Haven and London, 1984, pp. 139-144.

Il posto migliore per scoprire nuovi paesaggi è l’Ovest. Non intendo dipinti su tela, e neanche panorami di piacevoli scene rurali, ma paesaggi, come stiamo imparando ad osservare: organizzazioni a grande scala di spazi antropizzati, di solito in aperta campagna. Spazi di tal sorta si possono vedere dappertutto, ma è nell’Ovest che hanno ricevuto forma e dimensioni insolite: composizioni di campi difficili da interpretare viste da terra, quando ci passiamo attraverso, ma chiaramente definite quando viste dal cielo; ed è quando le sorvoliamo che cominciamo a vedere il paesaggio americano in una nuova prospettiva. Sto pensando in particolare al mosaico di terre irrigate che sovente sorvoliamo viaggiando da est ad ovest. Ve ne sono di due generi: quelli in Nevada, Utah o Arizona, appaiono in forte contrasto con il pallido e vuoto intorno del deserto, mentre quelli visibili quando siamo sopra alcune parti orientali dello stato di Washington, o nel Texas occidentale, o in Colorado, o in Nebraska, sono di gran lunga meno drammatici; sembrano emergere gradualmente dalle grandi praterie. Per me questi ultimi paesaggi irrigati sono quelli degni di particolare attenzione. L’irrigazione non è ovviamente una novità nell’Ovest. Molti paesaggi irrigati sono nati qui per più di un secolo, ed alcuni, come quelli nelle San Joaquin e Imperial Valleys, sono ricchi e vasti. Solo l’ultima generazione ha avuto l’opportunità di vederli, nella loro interezza, dall’alto di parecchie migliaia di piedi e di percepirli come unità; per la prima volta ci siamo accorti della loro straordinaria varietà di colori, tessuti e forme. Siamo caduti nella pigra abitudine di paragonare questi paesaggi ad alcuni modelli familiari: ad un tessuto, o ad un tappeto, o al lavoro di un qualche pittore – Mondrian, o Fernand Leger, o Diebenkorn. Non abbiamo mai pensato a ciò che giace sotto il loro aspetto; questo non era parte della composizione come la vedevamo, e se abbiamo speculato sull’origine di quei paesaggi e del loro significato recondito, era per notare l’ovvio: il miracolo dell’acqua

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incanalata da un lago o da un fiume che trasformava il deserto. Abbiamo visto le enormi dighe, la rete di canali, e abbiamo riflettuto sull’organizzazione dell’uomo e delle macchine che erano state capaci di produrre quel miracolo. Ma da lí a poco ci saremmo lasciati quel paesaggio alle spalle. Viaggiavamo troppo velocemente e siamo ancora troppo veloci per riflettere su quello che vediamo sotto di noi. Ma volare sopra quell’altro tipo di paesaggi, sugli altopiani irrigati, è un’esperienza differente. È cosí esteso e tuttavia cosí semplice in composizione che possiamo studiarlo mentre guardiamo giù, percepirlo in termini non pittorici. Non vediamo più la superficie come se nascondesse sotto qualcosa, ma come se lo rivelasse. Questo nuovo tipo di paesaggio irrigato cominciò ad evolversi solo 30 anni fa e non nel deserto ma sui grandi altopiani; una regione piuttosto lontana dalle principali direttrici aeree transcontinentali, il che forse spiega il motivo per cui è rimasto a lungo sconosciuto. Il suo aspetto più caratteristico è il gran numero di campi verdi perfettamente circolari. Quasi completamente privi di strutture umane immediatamente percepibili dall’alto – case, strade, città e giardini – questo paesaggio è difficile da misurare a occhio nudo, ma ciascuno di questi campi rotondi contiene 130 acri ed è inscritto in un quadrato di un quarto di miglio di lato. In alcune zone degli altopiani questi campi rotondi sembrano non avere fine, continuando in file uniformi fino quasi all’orizzonte. Alternati ad essi ci sono campi rigorosamente rettangolari, alcuni dei quali lunghi e stretti, altri quadrati. Nessun dettaglio, naturale o artificiale, interrompe l’estensione di queste semplici forme geometriche. Le poche strade e autostrade si adattano allo schema generale a griglia. C’è una predominanza di colore verde. Il paesaggio è straordinariamente semplice ed enorme, ma a causa della sua monotonia può essere esperito meglio in velocità ed in volo. La regione degli altopiani è un’area aperta e ondulata, ad est delle Montagne Rocciose, che si estende dal confine canadese giù fino al Texas occidentale. Scarsamente abitata, con pochi paesi ed un ristretto numero di ranch e fattorie sparpagliate qua e là, una volta era dedita in gran parte alla coltivazione di grano e al pascolo di bestiame, ed è tuttora una campagna soleggiata, dal cielo terso e dalle grandi estensioni di frumento e di praterie. Le piogge sono appena sufficienti per l’agricoltura, ed esistono pochi corsi d’acqua per l’irrigazione. Ma nel sottosuolo c’è una grande riserva d’acqua, e grazie a nuove tecniche agricole ed ingegneristiche, ed alla disponibilità di energia a basso costo, questa riserva è stata incanalata e portata in superficie per l’irrigazione, e questi campi rotondi ne sono il risultato. Ce ne sono più di 10.000 nel Nebraska e nel Texas occidentali, ed

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ancora di più in alcune zone del Colorado e del Kansas. Ciò che distingue questo nuovo paesaggio irrigato da quelli precedenti, cosí come ciò che dà loro una forma circolare, è il fatto che i campi vengono bagnati non da un canale o da un sistema di dighe e canali provenienti da qualche lago o riserva. Ogni campo ha un suo pozzo centrale. Un motore, collocato all’uscita del pozzo, fa muovere, su delle ruote, un tubo d’alluminio perforato (un tubo lungo un quarto di miglio) intorno al campo. L’acqua viene dispensata in uno spruzzo uniforme, con velocità del tubo comprese tra una rivoluzione alla settimana o una rivoluzione all’ora. Mischiata all’acqua c’e spesso una determinata quantità di fertilizzante chimico, erbicidi, o insetticidi. Sensori a raggi infrarossi misurano costantemente la temperatura del terreno, cosí come gli indici di evaporazione, in modo che possa venire stabilito un determinato programma di irrigazione. Perché queste procedure siano efficaci e redditizie, deve essere nota l’esatta composizione del suolo e dell’acqua, e le variazioni metereologiche devono essere studiate e tenute in considerazione costante. Per quanto riguarda le colture stesse – granoturco, erba medica, cotone, sorgo o frumento – l’ingegneria genetica sta cercando di sviluppare piante che possano catturare la luce del sole con maggior efficienza, usare meno acqua, e allo stesso tempo incrementare il raccolto. Una volta programmati i tempi di irrigazione, un solo operatore specializzato può prendersi cura di almeno dieci campi. Questa computerizzazione dell’agricoltura irrigua non solo è stimolante a leggersi, ma amplia ed approfondisce la nostra percezione del nuovo paesaggio portandoci oltre le sue apparenze; e l’infrastruttura tecnologica e finanziaria è precisamente quella che dovrebbe interessarci. L’enorme investimento nell’ingegneria, nell’attrezzatura, nel servizio e nella manutenzione di ogni operazione, indica che questo tipo di irrigazione è di gran lunga al di là delle possibilità del proprietario terriero medio. Nel suo libro sull’agricoltura americana, Walter Ebeling cita le parole di un agricoltore che sosteneva di aver trasformato in miliardario un investitore in sistemi di irrigazione centrali del New Jersey. E mentre quest’irrigazione a spruzzo usa addirittura meno acqua per acro dell’irrigazione canalizzata tradizionale, essa è diventata cosí diffusa in certe zone degli altopiani che è solo una questione di tempo prima che alcuni pozzi diventino secchi, e quando questo succederà, vedremo campi circolari non verdi, ma desolatamente grigi. Tuttavia, quali viaggiatori in aereo, quali osservatori appassionati del paesaggio, il nostro ruolo è semplicemente quello di osservare i risultati visibili di quei progetti e problemi, e di posticipare i nostri giudizi ecologici

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e sociali fino a che non siano assolutamente evidenti. Gli americani sono capaci di prevedere il pericolo e di cercare di stargli alla larga. Possiamo imparare a generare e a far crescere piante che hanno bisogno di meno acqua; possiamo anche inventare sistemi di irrigazione centrali più piccoli e meno costosi, o altri tipi di innaffiatori. Quando i trattori vennero introdotti nell’agricoltura americana erano enormi e costosi, e sembravano voler annunciare la morte del piccolo contadino americano. Invece, essi sarebbero diventati piccoli, economici e versatili. Un continuo interesse nei confronti del paesaggio ci porterà eventualmente a cercare segni di cambiamento nel panorama sotto di noi. Se guardiamo attentamente, possiamo già osservare che il campo perfettamente circolare di 130 acri sta iniziando ad ampliarsi e ad occupare quegli angoli abbandonati a se stessi che la pompa rotante non riusciva a raggiungere. Eventualmente vedremo campi quadrati, e questo, penso, dal punto di vista dello spettacolo, sarà una perdita. Nel frattempo faremmo bene a ricordare le nuove definizioni di paesaggio – un’organizzazione antropica degli spazi – ed interpretare con occhi artistici quello che vediamo. Ovviamente là sotto stiamo guardando quello che deve essere il paesaggio agricolo più artificiale, pianificato e più minuziosamente controllato d’America. Ma l’artificialità è più o meno parte di ogni paesaggio, e quello che dovremmo inoltre notare è che questo tipo di irrigazione richiede poca se non nessuna modificazione della topografia. Questa è, infatti, la ragione per cui l’irrigazione a spruzzo è cosí popolare sugli altopiani: il terreno è ondulato sufficientemente da far sí che lo scavo di canali e l’irrigazione di superficie sia un’impresa difficile se non impossibile. L’acqua, di conseguenza, vi giunge sottoforma di pioggia artificiale, e questa pioggia, se sufficientemente moderata, penetra anche nel suolo più irregolare. Quindi, questi campi, decisamente artificiali – artificiali nella forma, artificiali nel contenuto – sono semplicemente adagiati sulla superficie e non rappresentano nessun cambiamento topografico permanente. A differenza dei campi irrigati del paesaggio tradizionale – livellato con bulldozer, fatto a fette e cicatrici dai canali – questi campi rotondi possono essere abbandonati senza lasciare traccia di se stessi, alla stessa maniera in cui i campi tradizionali possono eventualmente tornare a bosco. Con il tempo vedremo tutto questo accadere di nuovo. Forse la caratteristica più significativa di questi altopiani è la sua straordinaria auto-sufficienza, l’autonomia e l’isolamento funzionale di ciascuno di questi innumerevoli tondi verdi Come palle da biliardo, toccano a malapena i loro vicini, e sembra che non abbiano in comune nient’altro che la vicinanza. Ognuno fa il suo raccolto secondo il proprio programma

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individuale, ognuno dipende, per la propria sopravvivenza, non da un comune rifornimento d’acqua o da una tradizione agricola comune, e neanche dalle stesse stagioni, ma unicamente dal rifornimento proveniente dal proprio pozzo. Ci troviamo di fronte alla rivelazione che questi non sono campi nel senso comune del termine; queste sono aree o spazi rigidamente definiti dall’influenza o dal potere emanato da una fonte centrale. Questo è l’uso scientifico della parola campo, ma ora dobbiamo ricordarcene quando parliamo di paesaggi agricoli: la forza centrale è ovviamente la pompa, o il flusso d’acqua che produce, e questi sono campi d’energia a cui, una volta tanto, è data forma visibile. C’è indubbiamente uno sviluppo significativo quando un termine antico e familiare inizia a cambiare di significato, in quanto suggerisce che molte altre caratteristiche del paesaggio, date per scontate, stanno anch’esse attraversando un processo di trasformazione. Sarebbe sciocco dare troppa importanza allo sviluppo di un nuovo e forse temporaneo tipo di paesaggio irriguo, ma sarebbe ancora più sciocco non prestare attenzione ai molti cambiamenti accaduti durante le ultime generazioni. E questi cambiamenti non sono solamente una questione di forma e scala del paesaggio, evidenti nelle miglia e miglia di identici dischi verdi che ci passano sotto, come prodotti su una catena di montaggio, né una questione dell’invisibile potere del computer di cambiare il microclima e la crescita delle piante. Il vero cambiamento è in noi stessi e nella nostra percezione del mondo. Il volare ci ha dato occhi nuovi, e li usiamo per scoprire un nuovo ordine di spazi, nuovi paesaggi ovunque guardiamo.

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da: Ervin H. Zube, Landscapes, Selected Writings of J.B.Jackson Amherst, The University of Massachusetts Press, 1970, pp. 116-131.

“Optimo City (pop. 10783, alt. 630), situata su un piccolo altopiano che si affaccia sul ramo settentrionale del Fiume Apache, è un centro rurale capoluogo dello Sheridan County. Optimo City, chiamato originariamente, nel 1853, Fort Gaffney, è stato luogo di un sanguinoso scontro con un gruppo di Indiani che, nel 1857, saccheggiarono la città (Vedi monumento nel giardino del tribunale).Vi si trova un Manicomio statale, uno stabilimento per la lavorazione del sorgo e una fabbrica manifatturiera. Fiera Annuale della Contea e Riunione dei Cowboy il 4 Settembre. L’autostrada oggi passa attraverso una fiorente campagna di colture a frumento e pascoli.” La guida turistica dello stato direbbe queste cose di Optimo City e ne aggiungerebbe altre ancora se solo Optimo City esistesse. Optimo City, comunque, non è una cittadina, ma cento e più cittadine, tutte molto simili, sparpagliate per tutti gli Stati Uniti, dagli Allegheni al Pacifico, più numerose a ovest del Mississippi e a sud del Platte. Quando, per esempio, si viaggia attraverso il Texas, l’Oklahoma ed il New Mexico, e perfino in alcune parti del Kansas e del Missouri, Optimo City è la massa indistinta di stazioni di servizio e motel che si passano di tanto in tanto: il semaforo solitario, l’occhiata veloce ad un goffo tribunale su per una strada laterale, in mezzo a querce e sicamori, la breve congestione di furgoni sporchi di fango che ti rallentano prima di tornare sulla strada aperta. Cinque miglia più avanti inizia ad apparire all’orizzonte un identico gemello di Optimo City, e ancora una mezza dozzina di Optimo City oltre a questa, fino a che, con un certo sollievo, si raggiunge la metropoli con le sue nuove espansioni residenziali e le fabbriche e la giungla di grattacieli al centro. Optimo City, dunque, è un aspetto molto caratteristico del paesaggio americano. Ma dato che, non ci si ferma mai, se non a fare benzina, sarebbe meglio conoscerla un po’ meglio. Che cosa c’è da vedere? Non un gran che, tuttavia più di quello che ci si potrebbe aspettare. Optimo, essendo dopo tutto una piccola cittadina media immaginaria, 89


deve aver avuto una storia da piccola cittadina media, o almeno una versione occidentale della cittadina media. L’originario Fort Gaffney (nome di un qualche personaggio minore dell’Esercito degli Stati Uniti) era veramente poco più che una palizzata su un dirupo affacciato ad un guado sul fiume; nei vecchi tempi alcune strade o sentieri arrivavano alla pianura (o deserto, come veniva chiamato allora), dove perdevano coraggio e scomparivano nel nulla due o tre miglia fuori dalla città. Di tanto in tanto, anche oggi, a qualcuno capita di dissotterrare un frammento della palizzata o un pezzo di ferramenta arrugginita dai giardini sul retro delle case, vicino al centro della città, e l’istituto storico è in possesso di ciò che ritiene essere la chiave della porta principale. Ma tutto sommato Optimo City non è molto interessata al suo passato di combattente. Il forte abbandonò la sua funzione d’insediamento militare durante la Guerra Civile, e l’ultimo dei pionieri morí mezzo secolo fa, prima che qualcuno avesse il buonsenso storico di farsi raccontare qualche storia della sua vita. E quando il municipio di contea venne messo in città, il nome venne cambiato da Fort Gaffney, con la sua connotazione di città di frontiera, a Optimo, che in Latino significa (cosí vi direbbe la cittadinanza) “spero nel meglio”. Ciò di cui Optimo è veramente orgogliosa, anche oggi, è la sua funzione di municipio distrettuale. Sheridan County (e farete bene a ricordare che non fu nominata in onore di un noto generale dell’Unione, ma in onore di Horace Sheridan, uno dei primi membri della legislatura territoriale; a Optimo è ancora viva la memoria di quella che è chiamata la Guerra fra gli Stati) venne istituita nel 1870, anno in cui iniziò una breve ma accesa competizione per avere il tribunale di contea tra Optimo e l’insediamento maggiore vicino, Apache Center, lontano venti miglia. Optimo City vinse e Apache Center, un villaggio di pastori con una sola strada pavimentata, non può darsene pace. Le partite di football e di pallacanestro tra gli Optimo Cougar e gli Apache Braves sono tuttora caratterizzate da un particolare tipo di rivalità. Nonostante il più delle volte Optimo venga malamente battuta, essa si consola ricordando che è comunque la sede del tribunale di contea e che Apache Center, nonostante la forza brutale della sua squadra, ha ancora solo una strada pavimentata. Torneremo sul significato di questo vanto più tardi, per continuare ora con la storia di Optimo.

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L’Inflessibile Griglia Negli anni settanta, con l’aiuto degli ingegneri dello Stato e dell’Esercito, i padrini della città disegnarono grandi piani per la nuova metropoli. Secondo le teorie prevalenti, posizionarono una piazza, o luogo pubblico, al centro della città, dove eventualmente avrebbero costruito, nel suo centro, il tribunale, essendo questa l’unica pianificazione che gli americani occidentali avessero mai visto per qualsiasi capoluogo di contea. Le strade dipartivano dal centro di ogni lato della piazza, e si chiamavano Main Street North e South, e Sheridan Street East e West. Queste quattro strade e la piazza erano circondate da un impianto a griglia formato da viali e strade, ognuna delle quali era numerata o chiamata con lettere dell’alfabeto, e tutte totalmente indipendenti dalla topografia della città. Alcune strade sfidavano salite impossibili, dritte come frecce; altre conducevano verso un groviglio di ontani e pioppi neri nei pressi del fiume, dove si interrompevano. Stranamente, questa inflessibilità urbanistica ha prodotto effetti molto piacevoli. South Main Street, che porta dalla piazza al fiume, nei vecchi tempi era troppo ripida affinché carrozze molto cariche riuscissero a percorrerla con la pioggia, cosí alla sua fine, nella piana vicino al fiume, i mercanti di prodotti ed attrezzi agricoli costruirono i loro negozi e magazzini. Il fabbro ed il saldatore, le riserve di grano e di fieno, ed infine le vendite all’asta ed il mercato dei contadini trovarono che South Main era il posto migliore della città per i loro scopi – i quali prevedevano primariamente il commercio con contadini e rancher provenienti da fuori città. E quando, in seguito ad una non indifferente pressione sulla legislatura e molta resistenza da parte di Apache Center (che disponeva già di una ferrovia), il Southern Pacific costruí una sua succursale a Optimo, il magazzino venne costruito naturalmente ai piedi di South Main. E naturalmente il montacarichi per il grano e i recinti per il bestiame vennero costruiti vicino alla ferrovia. La ferrovia doveva far sí che Optimo si trasformasse in una città manifatturiera, ma non ci riuscí; tutto ciò che vi arrivò fu una piccola fabbrica ed uno stabilimento per la lavorazione del sorgo, per una manodopera totale di circa 150 persone. La maggior parte di questa è costituita da Messicani – a cui si fa educato riferimento con l’appellativo di “Latinos” o “Hispanos” – che si sono costruiti, vicino al fiume, piccole case instabili sotto i boschi di pioppi neri. “Se mai avessimo un’epidemia a Optimo”, dicono gli uomini del tribunale, “si diffonderebbe prima in tutte quelle baracche dei Latinos”. Ma non hanno fatto ancora niente per offrire loro case migliori, e probabilmente non lo faranno mai.*

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Centro e Periferia Deposito, mercato, fabbriche, magazzini, baracche – queste caratteristiche, unite al fascino delle rive del fiume, ai recinti per il bestiame, alla diversità della folla nei pressi della ferrovia, ai Latinos e, occasionalmente, ai rancher, hanno dato a South Main un carattere molto particolare: informale, rumoroso, colorato e, probabilmente, durante la settimana della fiera o nel periodo di carica sui battelli, un po’ di cattiva reputazione. I ragazzi della squadra di football dei Cougar hanno l’ordine di stare alla larga da South Main, ma non lo rispettano. A dir la verità, l’intera Optimo guarda a quella parte di città con indulgenza ed orgoglio; fa sentire alla popolazione di vivere in un ambiente metropolitano, paragonando South Main ai porti di New York. North Main, che sale sulle colline dietro la Piazza del Tribunale, attraverso due o tre isolati di negozi, è, al contrario, il quartiere più elegante di Optimo. Il quartiere nord-occidentale del paese, con le sue strade alberate, la sua vista panoramica verso il fiume, la pianura e la sua brezza estiva, è sempre stato identificato con il benessere e la ricchezza di Optimo. Il Colonnello Ephraim Powell (Esercito Confederato), ora in pensione, proprietario di alcuni dei migliori ranch della regione, ha costruito alla moglie una splendida casa in pietra con il tetto in ardesia ed una torre, e Walter Slymaker, proprietario di Slymaker Mercantile e del montacarichi del grano, per non essere da meno, ha costruito una casa ancora più grande un po’ più su, su Main; e cosí ha fatto Hooperson, primo direttore della banca. Ci sono, in tutto, una dozzina di queste case in pietra o in mattoni di Milwaukee, con piazze (o gallerie, come le chiamano i nostalgici) e grandi giardini, poco ordinati, tutto intorno. Vale la pena notare, tra l’altro, che il motivo d’orgoglio dell’aristocrazia locale è questo: il nonno è venuto dall’Ovest per la sua salute. Il New England potrà avere il suo “Mayflower” e il suo “Arabella”, il Texas orientale le sue Trecento Famiglie Fondatrici, il New Mexico i suoi Conquistadores, ma Optimo è fedele alla sua immagine del delicato neo-laureato arrivato in treno con i suoi libri di legge, la sua collezione di Dickens, il suo gusto per il vino, e l’abitudine di vestirsi bene per la cena. Questa figura leggendaria ha fatto il suo tempo nelle chiacchiere della società bene di Optimo, e la generazione più giovane sta francamente iniziando a dubitare della sua esistenza; ma lui (o il suo fantasma) ha avuto la sua influenza sulla cultura e lo stile di vita locale. A causa di questa immagine, Optimo guarda dall’alto verso il basso tutte quelle cittadine di minatori dell’Ovest dove si dice che Sarah Bernhardt, De Reszke e Oscar

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Wilde abbiano cosí tante volte portato, per una notte sola, il loro teatro, in teatri dell’opera ora scomparsi. Un Mondo Completo Il male – o la suggestione del male – ad un capo di Main street, rispettabiltà all’altro. Cosa succede invece su Sheridan Street East e West? Qui troviamo la maggior parte dei negozi, nei primi quattro o cinque isolati di entrambi i lati della Piazza del Tribunale. Esse formano una trincea; strette case in mattoni, la maggior parte delle quali a due piani, con elaborate cornici e lunghe finestre strette. Sono tutte spoglie di qualsiasi caratteristica commerciale moderna, rappresentata dal cromo, dal vetro affumicato e da vetrine artistiche, tutte brutte ma tutte uniformi; e cosí, su Sheridan Street, abbiamo qualcosa che raramente si vede nell’America urbana: un quartiere degli uffici armonioso, riposante e dignitoso. Solo otto o dieci isolati in tutto, di sicuro; gira qualsiasi angolo e d’improvviso ti trovi in un’area residenziale. Qui troviamo un isolato dopo l’altro di case in legno, di un piano, con alberi in facciata, palizzate o siepi; nessun marciapiede dopo il primo isolato o giù di lí; una chiesa dall’aspetto odioso (senza cimitero, ovviamente), la bottega di un meccanico nel giardino di qualcuno, la strada sporca e, se segui la strada per alcuni isolati ancora – per dire fino al 10th Street (dopo di che le strade non hanno più nome) – è facile vedere un trattore girare in un vialetto d’entrata, con ciuffetti di erba medica, tagliati da poco, attaccati alla pala verticale della falciatrice. La campagna è cosí vicina al cuore di Optimo City, che i contadini abitano in città. E la vista del trattore (come la vista di un cervo o di una volpe uscita dal bosco durante l’inverno), restaura, per un momento, il sentimento di una vecchia fratellanza che sembrava essersi perso per sempre. Ma questo è ciò che rende Optimo, le centinaia di Optimo in tutta l’America, cosí preziose; i legami tra la campagna e la città non sono ancora stati tagliati. Per quanto ciò possa essere sotto molti aspetti limitato, il mondo di Optimo City è ancora completo. Il centro di questo mondo è la Piazza del Tribunale con, al centro, a sua volta, il tribunale, potente, barbaro ed imponente. L’edificio ed il suo piccolo parco triste non solo interrompono la vista di Main e Sheridan – e questo era il loro scopo – ma interrompono anche il flusso di traffico nelle quattro direzioni. Una pigra processione di veicoli e pedoni ne è il risultato, l’animata esistenza di Optimo rallentata e resa più intensa. Le case sui

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quattro lati della piazza sono dello stile (e dello stesso tipo di architettura generale) del monumento che sta al loro centro: costruzioni in mattoni o pietra della metà del XIX secolo, cornici che sembrano falde di cappelli, ricercati sgocciolatoi sopra le finestre ad arco, quali fossero sopracciglia, pittura rosso-sangue o giallo-senape o bianca; identiche, tranne il Gaffney Hotel, di sei piani, e il classicismo della First National Bank. Ogni casa ha un portico dal tetto metallico che si estende a coprire il marciapiede, una sorta di tenda permanente che protegge il passante e, per caso, nasconde la varietà delle vetrine e delle insegne dei negozi. La passeggiata per la piazza e poi per Sheridan Street, sotto una di queste gallerie o tende metalliche, incrociando i raggi di luce accecante che filtra tra i tetti, posti ad altezze differenti, è una delle bellezze di Optimo, una delle sue amenità nel senso inglese della parola. Si inizia a capire perché la Piazza del Tribunale è una parte della città cosí popolare. I Sabato Sera – Luci Accecanti Sabato, ovviamente, è il giorno migliore per vedere il panorama completo della tipologia umana di Sheridan County. Le fila di furgoni parcheggiati sembrano mandrie al pascolo; i marciapiedi di fronte allo Slymaker Mercantile, il Ranch Cafe, Sears, il supermercato, risuonano dei passi degli stivali da cowboy; i contadini e i rancher, pollici nelle tasche dei pantaloni, formano gruppi per lamentarsi della siccità (c’è sempre un periodo di siccità) e di quelli di Washington, mentre le loro mogli vanno da un negozio al cinema ad un altro negozio. Radio, jukebox, la campana della torre del tribunale. L’odore di caffè bollente, birra, popcorn, tubi di scappamento, erba medica, letame. Un uomo sta cercando di vendere un camion pieno d’uva in modo da potersi comprare un camion di carbone da vendere da qualche altra parte. Cani, cowboy di dieci anni che si sparano con pistole a salve. Il posto è pieno di piccioni, cartine di caramelle svolazzanti, il forte e piatto accento chiamato erroneamente texano. Tutta questa gente si trova qui nel centro di Optimo per molte ragioni: prima di tutto per socializzare, per avere notizie, per spendere e guadagnare denaro, per rilassarsi. “Jim Guthrie e moglie erano in città la scorsa settimana, a visitare amici e a fare affari”, è il modo in cui la scena viene descritta dallo Sheridan Sentinel; quasi tutti gli affari di Jim Guthrie avvengono in piazza. Questa è una delle caratteristiche di Optimo e una delle ragioni per cui la piazza è un’istituzione cosí importante. Perché è in piazza

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che si insediano i più vecchi e più essenziali servizi urbani o di contea. Qui si trovano le ditte di proprietà e gestione locale, quelle dedicate quasi esclusivamente agli interessi della campagna circostante. Al piano superiore ci sono gli avvocati, i dottori, i dentisti, le compagnie di assicurazione, lo stenografo pubblico, il Consorzio Agricolo. Al piano inferiore c’è la banca, la farmacia, la tipografia del giornale, e naturalmente il Mercantile di Slymaker e il Ranch Cafe. Influenza del tribunale Perché le catene di negozi non hanno invaso questa parte della città? Alcune hanno qualche avamposto, ma la maggior parte si trovano alla fine di Sheridan o addirittura sull’autostrada federale. La presenza del tribunale ne è in parte responsabile. I servizi tradizionali vogliono essere il più vicino possibile al tribunale e i valori di mercato sono alti. Il tribunale stesso attrae cosí tanti visitatori da fuori città che il problema del parcheggio è serio. L’unica soluzione pensata dalle menti illuminate della Camera di Commercio è di demolire il tribunale, usare quello spazio per il parcheggio e costruirne un altro da qualche altra parte. Hanno già in mano lo schizzo di un architetto per un nuovo tribunale da costruire alla fine di Main Street; un cubo in cemento armato con decorazioni verticali tra le finestre – un fine esemplare di modernismo burocratico. Ma il problema è dove prendere i soldi per il nuovo tribunale, quando quello vecchio è abbastanza efficiente ed usato costantemente. Se entri in tribunale rimarrai meravigliato da due cose: l’orripilante architettura del luogo e la varietà di funzioni che ospita. Tribunale significa ovviamente aule di giustizia, e ce ne sono due. Poi c’è l’ufficio del Tesoriere di Contea, del Commissario dei Trasporti, del Comitato Scolastico, della gente del Consorzio Agricolo, della gente dell’Espansione Edilizia, dell’Ispettore Sanitario e di solito anche di un gruppo di agenzie federali – PMA, conservazione del suolo, FHA e cosí via. Infine la Croce Rossa, i Boy Scouts e l’Infermeria Distrettuale. Senza dubbio molti di questi uffici sono esempi estenuanti dell’ingerenza governativa sugli affari privati; tuttavia sono più o meno parte essenziale di quasi ogni affare del contadino, cosí come del rancher, ed il tribunale, nonostante tutte le chiacchiere a proposito del consolidamento della contea, rimane un posto estremamente importante. Cosí com’è, quel palazzo vecchio e brutto ha dato a Optimo una fortuna

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che molte città americane più grandi e più ricche possono invidiare: un centro di attività civica ed un simbolo di orgoglio civico – qualcosa di diverso dal “centro civico” moderno, tanto quanto è diverso il giorno dalla notte. Paragoniamo la serie di edifici classici calati nel mezzo di uno spazio buttato via, la pomposità senza senso di aste per bandiere, memoriali di guerra e fontane zampillanti di qualsiasi città americana, da San Francisco a Washington, con la vitalità, l’armonia e l’intimità quasi domestica della piazza del tribunale di Optimo e avremo una buona idea di ciò che è sbagliato di molta pianificazione urbana in America; la coscienza civica è stata emarginata dalla vita di tutti i giorni, confinata in una zona speciale tutta per se. Optimo city ha le sue zone, ma sono unite le une alle altre in modo organico. Senza dubbio non giungerà mai il tempo in cui la piazza verrà studiata come fosse un’opera d’arte. Perché lo dovrebbe? La cura nei dettagli, l’architettura degli edifici, le nozioni di urbanistica contenute nella progettazione della piazza, sono tutte ad un livello molto provinciale. Ciononostante, una piazza simile ha dignità e anche fascino. Il fascino è forse antiquato – un pezzo di America rurale di settantacinque anni fa – ma la dignità è qualcos’altro ancora. Deriva dalla funzione del tribunale e della piazza, e dal suo peculiare carattere nazionale. Centro Comunale L’usanza di costruire un edificio pubblico nel centro di uno spazio aperto è, infatti, una caratteristica quasi esclusivamente americana – più specificamente dell’America del XIX secolo. I vasti spazi aperti lasciati dai pianificatori europei del XVIII secolo venivano solitamente lasciati vuoti, e gli edifici pubblici – chiese, municipi e tribunali – erano affacciati su queste piazze per comandarli. Ma a loro non era permesso di interferire con lo spazio aperto originario. Anche i piani delle città americane del XVIII secolo, come Philadelphia, Reading, Savannah e Washington, lasciavano sempre la piazza o il luogo pubblico intatto. L’America spagnola, ovviamente, offre il migliore esempio tra tutti; la piazza, nove volte su dieci, è circondata da edifici pubblici, ma viene lasciata vuota. Tuttavia, quasi ogni città americana, edificata all’incirca dopo il 1820, ha deliberatamente costruito un edificio pubblico al centro della propria piazza. Qualche volta era una scuola, qualche altra un municipio, più spesso un tribunale, ed era sempre avvicinabile da tutti e quattro i lati ed era il più grande possibile.

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Perché? Perché questi pionieri, padrini delle città, andarono contro le tradizioni? Una teoria vale tanto quanto un’altra. Forse erano cosí orgogliosi delle loro istituzioni amministrative che volevano dare loro il miglior luogo possibile. Forse l’America di frontiera stava seguendo un movimento estetico, forte a quel tempo in Europa, che sosteneva come uno spazio aperto potesse essere migliorato contenendo qualche oggetto solitario e prominente – un obelisco o una statua o un arco trionfale. Qualunque fosse la teoria valida, i pionieri americani fecero meglio dell’Europa, e collocarono il palazzo più grande della città proprio nel centro della piazza. Quindi la piazza cessò di essere vista, nell’America del XIX secolo, come uno spazio vuoto; diventò un contenitore o, se preferite, una cornice. Una cornice, non solo per il tribunale, ma per tutte le attività, per la comunità. Pochi altri esperimenti estetici sono riusciti a produrre risultati pratici cosí positivi. Una società che ha da tempo cessato di aggregarsi intorno al leader individuale e alla sua residenza, e che si stava stancando rapidamente di riunirsi intorno alla chiesa o alla sala delle assemblee, improvvisamente trovò un nuovo simbolo: il governo locale, o il tribunale. Ne risultò in larga parte uno sbandieramento patriottico – come i viaggiatori europei ci hanno sempre detto – ed un’architettura di “rappresentanza” molto povera; ma Optimo acquistò qualcosa di cui essere orgogliosa, qualcosa per controbattere la tendenza americana di pensare ad ogni città come una macchina per fare denaro. Simbolo di Indipendenza A questo punto la voce di protesta della Camera di Commercio si fece sentire. “Un momento. Prima che finiate con il nostro tribunale è meglio che sentiate l’altra faccia della medaglia. Se il tribunale fosse demolito, non solo avremmo più spazio per il parcheggio di cui Optimo ha cosí bisogno, ma riceveremmo anche fondi per allargare Main Street in un’autostrada a quattro corsie. Se Main Street venisse allargata, Optimo attrarrebbe molte nuove attività che, a loro volta, attirerebbero molti turisti e altri viaggiatori – ristoranti, motel, garages e ogni tipo di drive-in. Negli ultimi dieci anni”, continua la Camera di Commercio, “Optimo ha avuto un aumento di popolazione di milleduecento persone. ‘Mille e duecento!’ Di questo passo, nel 1999, saremo una piccola cittadina di meno di ventimila persone. Ma se avessimo nuovo commercio cresceremmo in fretta e avremmo scuole migliori ed un nuovo ospedale, e la gioventù non ci lascerebbe per la città.

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O vi aspettate che Optimo vada avanti su poche centinaia di contadini e di rancher?” La voce, ora tremante per l’emozione, aggiunge qualcosa riguardo all’”eliminare” South Main mediante un terrapieno ed un parco per picnic per turisti sotto i pioppi neri dove abitano ancora i Latinos. Tutto sommato questi suggerimenti sono più che sensati. Traduceteli in termini più generali ed il senso sarebbe questo: se vogliamo andare avanti, la miglior cosa da fare è di rompere con il nostro passato, diventare, per il nostro stesso benessere, il più indipendenti possibile dal nostro habitat e, allo stesso tempo, essere quasi completamente dipendenti da qualche risorsa che non ci appartiene ancora. Qualsiasi cosa pensiate di un simile programma, non possiamo dimenticare che è stato un successo per un gran numero di città americane. Pensiamo alle comunità contadine che improvvisamente si sono trovate di fianco ad un pozzo petrolifero, o ad una grande fabbrica, o ad una Caserma dell’Esercito, e che si sono adattate, per fare fortuna, trasformandosi dal giorno alla notte, girando la schiena alle loro precedenti fonti di reddito e triplicando la loro popolazione in pochi anni! E’ vero che queste città mettono tutte le uova in un paniere, che sono totalmente alla mercé di un vasto commercio al di fuori del loro controllo. Ma pensiamo alla libertà dalle restrizioni dell’ambiente circostante; pensiamo all’eccitazione ed al denaro! Date le stesse circostanze – e il Sud-ovest riserva ancora molte sorprese – perché Optimo non dovrebbe provarci? Un Destino Comune Siccome ci sono molti diversi tipi di città, come ci sono molti diversi tipi di uomini, uno sviluppo che va bene per un tipo può portare alla morte di un altro. Apache Center (per usare quell’abbietta comunità come esempio), con i suoi recinti per il bestiame, la sua unica strada pavimentata e la sua limitata responsabilità nei confronti della contea, quale comunità, potrebbe benissimo diventare una città boom e nessuno si lamenterebbe. Optimo sembra avere un destino differente. Per quasi cento anni – un lungo periodo per questa parte del mondo – la città è stata identificata con il paesaggio circostante, come una parte essenziale dello stesso. Qualsiasi ricchezza possieda, essa è arrivata dalle fattorie e dai ranch, non dalla fabbrica o dal turismo. I banchieri e i mercanti vi direbbero che, ovviamente, senza i loro sforzi infiniti e i loro sogni, la campagna non sarebbe mai potuta esistere. I contadini e i rancher considerano la ricchezza e l’importanza di Optimo come una loro creazione. Entrambe le parti hanno ragione nel dire che la

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città è parte del paesaggio – uno potrebbe dire addirittura parte di ogni fattoria, siccome la maggior parte del commercio agricolo avviene in città. Ora, se Optimo improvvisamente diventasse un luogo turistico per dodici mesi l’anno, o la capitale del Sud-ovest, che cosa pensate possa accadere a quella relazione? Svanirebbe. I contadini e i rancher sarebbero presto soverchiati nel numero e se ne andrebbero da qualche altra parte per quel lavoro e quei benefici di cui adesso godono ad Optimo. Optimo stessa vedrebbe presto arrivare il traffico di massa, le nuove vetrine, le espansioni residenziali, gli stipendi e i conti bancari di cui non può fare a meno di sognare e, seguendo lo stesso processo, raggiungere un totale disorientamento sociale e fisico ed una perdita del proprio senso di identità. Capoluogo della contea di Sheridan? Sí, ma molto più di questo: la succursale Sud-occidentale della “American Cloak and Garment Corporation”; o la Piccola città del Grande benvenuto – 300 letti per turisti che, se vuoti per una notte su tre, minaccerebbero la bancarotta di metà del paese. Al momento, Optimo rimane all’incirca quella che è stata nell’ultima generazione. L’Autostrada Federale passa ancora lontano dal centro (che sbarramento, sia simbolico che fisico, è quel tribunale!); cosí, se volete vedere Optimo, sarà meglio che usciate in cima alla collina, vicino alla torre dell’acqua e al manicomio – ora chiamato Casa di Riposo Fair View State, e senza la sua alta ed odiosa inferriata tutta attorno. La strada polverosa diventerà North Main. La vecchia ditta di Slymaker è ancora al suo posto. La villa dei Powell, le gallerie e tutto il resto appartengono alla Legione Americana, ed un’impresa di pompe funebri si è insediata nella casa di Hooperson. Poi arriva il centro di Optimo e poi il tribunale, enorme e senza grazia, nei dettagli e nelle proporzioni più simile ad una mostruosa uccelliera che ad un monumento. Fermatevi qui. Non troverete niente che vi interessi nei negozi e nessuna perla di architettura in una strada laterale. Anche se ci fosse, nessuno sarebbe capace di indicarvene la direzione. La società storica, amministrata per la maggioranza da signore, considera l’antichità alla stregua dell’antiquariato, e l’arte come qualsiasi cosa che possa star bene sulla mensola del caminetto. Probabilmente il tempo sarà orribilmente caldo e secco, con una brezza selvaggia ma inefficace tra le querce e i sicomori. Non troverete nessun ristorante in città, di una certa atmosfera – nessun candeliere, nessun affresco sui muri, nessun bar a mo’ di Vecchia Stazione o Old Corral. Sotto un alto soffitto, con al centro un ventilatore a due pale, mangerete prosciutto e fagioli, pane caldo, tè ghiacciato con limone; e che vi piaccia, o statene sen-

La Città Quasi Perfetta

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za. Ma come compenso, al tavolo vicino ci saranno due rancher che mangeranno con il loro cappello in testa, discutendo di affari pubblici e privati di Optimo City. A sentirli parlare sembrano i proprietari della città. Questo è all’incirca tutto. C’è il mercato alla fine di South Main, le baracche dei Latinos intorno alla fabbrica, un piccolo bosco di pioppi neri ed il Fiume Apache (ramo nord), che sgocciola giù per un letto dieci volte più grande; e poi l’aperta campagna. Sarete felici di andarvene da Optimo. O vi potrebbe essere piaciuta, averla piacevolmente trovata alla vecchia maniera. Forse lo è; ma non è ancora in pericolo di morire. Come abbiamo detto all’inizio, c’è un’altra Optimo City a cinquanta miglia da là. Il paese ne è cosparso. Di sicuro sono cosí numerose che qualche volta sembra che Optimo e l’America rurale siano un tutt’uno indivisibile.

da: Ervin H. Zube, Landscapes, Selected Writings of J.B.Jackson

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I volti di Suburbia

da: Ervin H. Zube ed., Landscapes, Selected Writings of J.B.Jackson Amherst, The University of Massachusetts Press, 1970, pp. 113-115.

Chiunque sia stato da queste parti non avrà avuto difficoltà a riconoscere immediatamente questo tipo di comunità: consiste di un centinaio, o poco più, di piccole case, quasi identiche nelle dimensioni, nella costruzione, nella pianta, tanto da apparire tutte costruite nello stesso periodo. Chiusa in se stessa, nel mezzo della campagna, la comunità pare essere progettata tutta di un pezzo: nel tracciamento delle strade, nel posizionamento delle case, nella scelta del luogo per la piazza pubblica centrale si intravedono tracce di un piano generale, solitamente una modificazione dell’impianto a griglia. Ogni famiglia di questa comunità ha all’incirca lo stesso reddito, la stessa educazione, la stessa fede religiosa, lo stesso stile di vita. Alla mattina presto gli uomini escono per andare al lavoro, lasciando la casa alle donne e ai bambini; tornano a casa stanchi alla sera. Ci sono pochi lavori, se non nessuno, all’interno della comunità stessa, e un’attività commerciale quasi inesistente; un viaggio da casa per andare a fare la spesa è uno dei diversivi principali delle donne. Attività religiose e circoli femminili si moltiplicano, cosí come le organizzazioni maschili durante il tempo libero. Di rimarchevole importanza viene considerato l’abbigliamento, necessariamente corretto, sia per gli uomini che per le donne, soprattutto durante le vacanze ed i fine- settimana. Non esiste vita culturale secondo standard urbani ma, tutto sommato, gli abitanti sembrano apprezzare la routine della loro esistenza. Non obiettano apertamente l’imposizione delle convenzioni e sono sospettosi verso l’eccentricità, soprattutto quando assume forme ostentate. La vita di famiglia è il centro della comunità, ed i bambini sono educati fin da piccoli a rispettarne leggi mai scritte. I visitatori rimangono solitamente scioccati; si chiedono come i suoi abitanti possano sopportarne l’atmosfera di conformismo, e sostengono che la comunità, a causa del suo isolamento, non sia esattamente di campagna; per la sua compattezza, non esattamente urbana. Ciò che principalmente li colpisce, e che deplorano, è la sua uniformità generale: nell’architettura, nell’occupazione, nella routine,

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nell’abbigliamento, nei comportamenti. Se il lettore ha identificato questa comunità come una generalizzazione del sobborgo Americano medio- borghese, ha visto giusto, ma non ha sbagliato neppure se lo ha interpretato come un pueblo indiano del Sud-Ovest o come un villaggio di contadini in Cina, o un villaggio italiano come la Fontamara di Silone, o una comunità contadina dell’Europa orientale o dell’Asia o dell’America Latina. Queste comunità sono tutte differenti, le une dalle altre, per quanto riguarda l’economia, la proprietà terriera, la geografia, la dimensione, l’età ed il livello di progresso, ma il modo di vita è, da molti punti di vista, lo stesso in ognuna di esse. Qualsiasi sia il reddito dei loro abitanti – impiegati o operai – questi luoghi sembrano esistere perché i loro abitanti non vogliono né l’isolamento dell’aperta campagna, né l’anonimato della città; ciò che sembrano preferire è una società a scala ridotta, dove la felicità arriva (o si presume debba arrivare) dal conformarsi a una serie di tradizioni accettate a priori, e non dalla ricerca della libertà individuale. Nazioni più antiche della nostra prendono tale punto di vista come un dato di fatto e assumono perfino che contribuisca al bene generale della società. Certamente poche di esse hanno analizzato le loro comunità tradizionali altrettanto attentamente e criticamente, come noi abbiamo fatto con i nostri nuovi sobborghi. L’assenza di uomini dalla maggior parte dei villaggi agricoli Europei durante la giornata, per esempio, non pare aver prodotto niente di simile all’abbondante analisi psico- sociologica che la medesima situazione ha ispirato in America. In ogni caso, sarebbe opportuno che noi stessi studiassimo alcune di quelle comunità, in modo da capire come si siano evolute, sia fisicamente che socialmente, e quali siano le qualità che permettono loro di moltiplicarsi e durare nel tempo. Infatti, pare che i sobborghi e la vita di periferia ci accompagnerà per lungo tempo, e se imparassimo a vederle come versioni americane, in ritardo rispetto ad antiche e relativamente efficienti comunità sparse in tutto il mondo, invece che come incubi prodotti da speculazioni terriere, forse riusciremmo a dare loro una forma un po’ più elegante ed intelligente di quanto stiamo facendo adesso.

da: Ervin H. Zube, Landscapes, Selected Writings of J.B.Jackson

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Una architettura diversamente orientata

da: Ervin H. Zube, Landscapes, Selected Writings of J.B.Jackson Amherst, The University of Massachusetts Press, 1970, pp. 55-72.

Scrivendo per “Harper’s Magazine” uno degli ultimi articoli prima della sua morte, Bernard De Voto parlò di un argomento a cuore a molti americani: il crescente disordine e la bruttezza della maggior parte del paesaggio. Descrisse quello che era accaduto alla campagna del New England a causa delle invasioni turistiche e parlò delle speculazioni edilizie che si moltiplicavano lungo le sue strade, in aree intoccate fino a pochi anni prima. Nel Maine, l’Autostrada U.S. 1 fu oggetto di duri commenti: “ciò che si vedeva fino a Newburyport si è esteso fino a Bucksport; una baraccopoli longitudinale. È un pugno negli occhi, ad intermittenza, di drive-in, piccole taverne, negozi di souvenir, parchi di divertimenti, ristoranti a menù fisso e quel tipo di casupole che la mia compagna chiama cassette postali.” Le osservazioni di De Voto sono impeccabili e sono state applaudite e ripetute da migliaia di persone che viaggiano in macchina attraverso la nazione, sia per lavoro che per piacere, da esperti di pianificazione e di paesaggistica, da ingegneri autostradali e da stranieri che solo ora vedono l’America per la prima volta. E questa crescente indignazione pubblica, unita al Programma Federale Autostrade, suggerisce chiaramente che è arrivato il momento di tentare qualche tipo di riforma per la sistemazione delle fasce autostradali. L’Autostrada U.S. 1 è, infatti, di gran lunga, una delle strade più brutte d’America, e ne esiste un lungo tratto tra Washington e Baltimora che, se fotografata con un teleobiettivo, sembra riassumere in se stessa tutta la degradazione che negli ultimi anni ha assalito le nostre autostrade. Due lenti fiumi di traffico, macchine in coda che si muovono, come possono, su una strada inadeguata, in mezzo a giungle di cartelloni pubblicitari e chioschi stradali, ognuno dei quali, dotato di almeno una dozzina di cartelli in bella vista e con il suo parco macchine parcheggiato di fronte. Questa scena si estende per miglia e miglia, interrotta qua e là da una serie di semafori stradali. 107


In maniera meno evidente queste condizioni esistono qua e là anche nelle zone più popolate dell’Est e del Midwest. Anche all’Ovest le cose possono diventare piuttosto brutte, nei pressi di grandi città o lungo qualsiasi autostrada principale. Ma ciò che affligge la nazione non è la congestione del traffico, è esclusivamente la crescita fenomenale degli insediamenti ai margini delle autostrade, che preoccupa la maggior parte d’America. L’Ovest è una zona turistica, il che significa che le attività, ai bordi delle autostrade, hanno la loro clientela speciale, numerosa e generosa nella stagione estiva, ma, allo stesso tempo, la nazione sta prendendo coscienza del suo aspetto e si sta chiedendo che cosa possa fare per controllare i margini delle proprie autostrade. Molto probabilmente, in tutti gli Stati Uniti, esiste un tipo particolarmente odioso di tratto autostradale. L’Autostrada 66, per esempio, che attraversa le zone più belle del New Mexico e dell’Arizona. I suoi orrori catturano l’attenzione del viaggiatore, che finisce a guardare poco, se non per niente, il paesaggio circostante; esistono tuttavia molti turisti che cercano di percorrere strade alternative. Sarebbe difficile – anche se non impossibile – esagerare la descrizione di questo scempio. Comunque dobbiamo dare, a queste speculazioni ai margini autostradali, quello che gli spetta. È giunto il giorno di quell’appello che sono riuscite a scampare a lungo. Molti hanno provato l’esperienza di guidare per ore e ore attraverso il nulla più assoluto – deserto o prateria – che non fosse deturpato dalle baracche dell’autostrada. Come ci si sente sempre risollevati e contenti di poter finalmente vedere, all’orizzonte, l’ammassarsi di cartelloni pubblicitari, stazioni di benzina e case fai- da-te. Trappole turistiche o no, sono apparizioni benvenute, e perfino l’ordine di mangiare, entra subito, fai il pieno, ricevi gratis acqua ghiacciata ed adesivi, ha un effetto confortante. Le cronache, in genere, dicono che questa gente fa di tutto per avere il più possibile dei nostri soldi. Ma raramente è cosí; di solito sono molto gentili e servizievoli, doti che sembrano essere loro naturali. Più vistosa è la scena, più confortevole sembra, ed il suo impatto sul paesaggio circostante non disturba affatto. Un altro incontro con le baraccopoli longitudinali di Mr. De Voto avviene volando. Da qualche parte (forse nella parte occidentale del Kansas) inizia a fare buio e, all’inizio, non si può vedere altro che un variegato mondo scuro sotto un immacolato cielo di acciaio blu intenso; poi si inizia a volare sopra un piccolo disegno rettangolare di luci sparpagliate – un villaggio rurale – oltre al quale, come la coda di una cometa, si allunga una linea sinuosa di luci di ogni colore ed intensità, un fiume di luce concentrata e multicolore che in parte si muove, in parte brilla o si accende e si spegne,

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e nella notte tersa è possibile distinguere ogni suo punto colorato infinitesimale. Il fiume sfocia nelle campagne scure, nelle praterie, e scompare. Si tratta ovviamente della speculazione ai margini dell’autostrada, vista da un’altezza di diverse migliaia di piedi; il volare più bello, e a suo modo più emozionante, che l’Ovest possa offrire, perché, per la prima volta, si può vedere come il lavoro dell’uomo possa essere una decorazione della superficie terrestre. Una bellezza effimera, dunque, ed una occasionale utilità; cosa può essere detto di più di molti altri nostri prodotti? Quando gruppi politici opposti fanno a gara per condannare aspramente gli insediamenti autostradali, architettando stratagemmi legali e morali per distruggerli, mi vengono in mente quelle loro due qualità. Non sarebbe meglio – o più giusto, per cosí dire, e più intelligente – vedere se le potenzialità di queste baraccopoli da strada non possano essere, in qualche maniera, sfruttate per il profitto ed il piacere di tutti? L’apprezzamento per questa caratteristica del paesaggio americano non deve tuttavia distogliere dalla sua frequente depravazione, confusione e sporcizia. La sua capacità di procurare problemi estetici, sociali ed economici è tanta quanto il suo potenziale positivo, ed è senza dubbio questa ambivalenza che conferisce alle autostrade e ai loro margini cosí tanto significato e fascino. Ma come possiamo domare questa forza se non la comprendiamo e non sviluppiamo una sorta di amore nei suoi confronti? Non abbiamo ancora veramente cercato di capirla. Di sicuro sappiamo poco o niente su come queste espansioni ai margini autostradali – lo strip – si siano formate, o come siano cresciute. Sappiamo troppo poco (e sembra c’interessi ancora meno) sulla varietà delle attività commerciali che comprende. Perché certe attività proliferano in certe aree e non in altre, perché alcune di esse si raggruppano, mentre altre mantengono le distanze? Quali tra loro sono dipendenti da un paese o da una città vicina e quali dipendono unicamente da passanti? L’autostrada moderna è senza dubbio l’origine ed il sostentamento di ognuna di esse, ma quale cosa complessa è diventata l’autostrada; che varietà di funzioni e che varietà di utenti ne fanno uso! Per la fabbrica o il magazzino ai suoi bordi essa è essenzialmente l’equivalente della ferrovia; per il garage o la stazione di servizio significa accessibilità diretta per coloro che vi sono di passaggio. L’uomo d’affari locale la vede come il mezzo per raggiungere e sfruttare le aree suburbane e rurali adiacenti, il contadino come una maniera di raggiungere la città; il turista la vede come un’amenità, e l’autobus transcontinentale o la compagnia di trasporto come la strada più breve tra due punti molto distanti tra loro. Ciascuno di questi interessi non solo ha la propria maniera di pensare

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come l’autostrada dovrebbe essere tracciata e progettata; la interpreta come un’autostrada speciale al proprio servizio. Quali tra questi interessi sono da eliminare dal gruppo? O forse è più una questione di quali bisognerebbe salvare, siccome la realizzazione di qualsiasi programma di riforma autostradale porterebbe alla loro eliminazione quasi completa. Se ci fosse chiesto di farne una classifica, in modo da scoprire chi ed in quali proporzioni dovesse sopravvivere, potremmo dire che tutti ricadono all’incirca in due classi: attività al servizio dell’economia lavoratrice e attività al servizio del nostro tempo libero. Nella prima categoria naturalmente ricadrebbero tutte le fabbriche, i grandi magazzini, i depositi di camion, le stazioni di servizio, le rivendite di macchine usate, i centri commerciali e cosí via – la lista sarebbe infinita; nella seconda vi sarebbero i ristoranti, i bar, i night-club, i parchi di divertimento, i drive-in, i negozi di souvenir, i motel – essendo i motel principalmente associati con le vacanze; in breve, tutte quelle attività che Mr. De Voto ha enumerato e denunciato, più qualcun’altra. Ciò che è più importante è che queste due classi – il lavoro ed il tempo libero – dovrebbero essere di valore quasi uguale, sebbene ben distinte tra loro. Una ragione a favore della loro riconsiderazione è facile a dirsi: uno degli aspetti unici dell’autostrada americana moderna (aspetto spesso non considerato) è che essa è diventata il luogo dove passiamo una parte sempre più crescente del nostro tempo libero. Ricopre il ruolo che Main Street, o il Parco, o la Piazza davanti al Tribunale rappresentava per il tempo libero dei nostri predecessori pedonali: il posto dove andiamo a divertirci e a passare le nostre ore di tempo libero. L’attrazione della strada non è mai stata cosí potente, cosí irresistibile come adesso, infatti, per una moltitudine di persone, appartenenti ad ogni classe sociale, l’essere su un’autostrada, senza alcuna destinazione particolare, è un piacere senza paragoni. Stiamo esagerando? Eliminiamo dalle autostrade – da considerarsi fuori dalle grandi città e dalle aree industriali – gli automobilisti che guidano per puro divertimento, sia durante le vacanze che per prendere solo una boccata d’aria, o per farsi vedere in giro con la macchina nuova, o alla ricerca di qualche divertimento e faremmo scomparire più di un terzo del traffico normale. Questo movimento di massa sulle autostrade non è affatto misterioso: a causa di un sempre crescente tempo libero – non solo in termini di vacanze e giorni festivi, ma anche quale risultato di una più corta giornata lavorativa – e aumentando il numero di automobili, quale sarà l’inevitabile risultato? Le autostrade in uscita dalle nostre città sono piene di macchine sfreccianti dopo il lavoro e prima dell’orario di cena per andare a vedere

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quali sono le novità alla periferia della città; verso il Diary Queen, cinque miglia più a est per farsi una birra gigante; al drive-in ancora più lontano; macchine con coppie che chiacchierano, macchine sgangherate; macchine, furgoni, motociclette, motorini che vengono guidati per il gusto di guidare. “Girando su e giù per motivi che non riesco a decifrare – non per mangiare, non per andare a fare l’amore, ma solo per girare.” E questo traffico da tempo libero si moltiplica di Domenica e durante le vacanze. Sciocco o meno, pericoloso, sprecone, insalubre o che altro, queste sono le maniere in cui passiamo molte delle nostre ore libere e l’autostrada ne è un elemento essenziale. Quindi, qualsiasi programma di riforma delle autostrade, basato sulla vecchia nozione che le strade non sono altro che mezzi per un trasporto veloce ed efficiente, attraverso lunghe distanze, non prendendo in considerazione i “cercatori di divertimento” e le attività che esistono per servirli, correrà a capofitto contro una fiorente istituzione americana. La collisione porterebbe molto probabilmente alla sconfitta dei riformatori. La necessità di riconoscere l’importanza dell’arte della baraccopoli longitudinale, associata al tempo libero degli automobilisti, non deve essere sottovalutata. È molto probabile che la corrente riformatrice delle autostrade si concentri su queste attività meno organizzate e meno preparate economicamente a proteggere se stesse, sebbene questi insediamenti autostradali (o, per la precisione, questo intero aspetto della vita americana) abbiano un enorme potenziale di crescita sia estetica che sociale. Questo potenziale non è sempre cosí evidente. I bordi delle nostre autostrade sono spesso deturpati non solo dai rifiuti cadenti di ciò che potremmo chiamare l’età del divertimento pre- motorizzato – baracche, distributori di benzina, fila di casupole vuote, bar miserabili – ma anche dalla crescita di una seconda giungla di mal pianificate e mal costruite attività poco economiche. Una città americana dopo l’altra sta scoprendo con vergogna che l’avvicinarsi ad essa per autostrada, sta diventando un’esperienza intollerabilmente brutta e malsana. E la reazione a questa scoperta è spesso una condanna generalizzata della striscia autostradale locale, specialmente da parte di coloro che si possono definire di destra. Siamo diventati oltremodo pignoli, troppo conformisti su questioni architettoniche. Nella nostra recente acquisizione di una coscienza sul valore dell’architettura abbiamo in qualche modo perso di vista il fatto che esiste ancora un gusto per l’arte popolare che è ben distinto dal gusto più raffinato, e che questo gusto spesso segue le proprie regole. Non che il riconoscimento di tale distinzione possa portare automaticamente all’accettazione dell’architettura autostradale; la maggior parte di essa, in generale, è brutta.

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Ma forse ci permetterebbe di capire che l’architettura autostradale sta cambiando, evolvendosi molto rapidamente dappertutto, e ci consentirebbe di trovare certi valori – o perlomeno certe qualità – degni di essere rispettati e incoraggiati. In tutte quelle facciate longitudinali, in tutte quelle entrate folgoranti e quelle decorazioni deliberatamente bizzarre, quelle insistenti masse di colori, luci e movimenti, che stridono a paragone con il vecchio ed il tradizionale, esistono certe caratteristiche nascoste che suggeriscono che siamo di fronte non ad un’arte a buon mercato, al di fuori di ogni contesto, ma ad un tipo di arte popolare della metà del XX secolo. Dobbiamo abituarci al fatto che il motivo dello sviluppo di queste attività – il motel o il drive-in o il night-club – è il desiderio di soddisfare ed attrarre il passante. Le austere ambizioni dell’architetto contemporaneo, di creare un’opera d’arte conclusa in se stessa, non trovano spazio in quest’altra parte della città. Qui ogni attività deve ammaliare la propria clientela – una clientela che, inoltre, passa a quaranta miglia all’ora o più – se vuole sopravvivere. Il risultato è un’architettura d’opposizione, il cui unico criterio di successo, che ci piaccia o meno, è sancito dal consumatore, non dall’artista o dal critico: il cliente è la sua corte d’appello finale. Di sicuro questo vale per qualsiasi piccola attività commerciale: ognuna di esse deve essere esteticamente invitante: ma un’attività in un centro urbano può attrarre un pedone nonostante il suo aspetto sia relativamente modesto, mentre un’attività del tempo libero autostradale non solo deve catturare l’occhio dell’automobilista, ma deve anche saper offrire una sua speciale attrazione: deve suggerire piacere e divertimento. Non è sempre facile: un aspetto ospitale o poco costoso o affidabile non è sufficiente. Quello che conta, è l’assenza di qualsiasi cosa possa ricordare il mondo del lavoro presumibilmente appena lasciato alle spalle: qualsiasi suggerimento domestico, istituzionale, strettamente pratico, qualsiasi riferimento al comune o alla semplicità. Al contrario, ciò che è essenziale, sia all’esterno che all’interno, è un’atmosfera di lussuria, gioia, l’atmosfera dell’insolito e dell’irreale. L’imitazione è tanto buona quanto l’originale, se l’effetto è convincente e il cliente è felice. Vai dentro ad un “mangia-e-balla” autostradale in umore non vacanziero (come succede quando ci si ferma solo a fare una telefonata) e vieni offeso dalle decorazioni scadenti, dall’illuminazione cruda ed indiretta, dal menù e dalla musica. Ma vacci quando stai cercando un po’ di divertimento ed un diversivo dalla vita quotidiana, e tutto d’un tratto il posto sembra magico. È un tuffo in un nuovo mondo. L’efficacia di quest’architettura è, alla fine, una questione di cosa sia quell’altro mondo: se è quello che hai sognato da tempo o no. Ed è qui che inizi

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a scoprire, lungo le nostre autostrade, la vera vitalità di questa architettura dell’opposizione: sta creando un ambiente da sogno per il nostro tempo libero, che è totalmente diverso dall’ambiente da sogno della generazione precedente. Sta creando, ed allo stesso tempo rappresentando, un nuovo gusto pubblico. La maggior parte di noi si ricorderà del periodo in cui il nostro tempo libero e le nostre vacanze erano essenzialmente imitazioni della vita quotidiana di una classe sociale superiore. Se ci vestivamo eleganti in occasioni formali era perché quella gente invidiabile si vestiva a quel modo tutti i giorni, ed il nostro vestito era un’imitazione del loro. Andavamo in alberghi che sembravano un po’ il palazzo di un principe, in cinema che sembravano teatri dell’opera, in ristoranti e bar decorati con mogano, cristalli ed oro. Luoghi per divertimenti di gruppo – stadi, circhi, teatri, navi transatlantiche, perfino automobili di lusso – erano pensati e decorati per suggerire uno stile di vita migliore del nostro. Questa era l’architettura d’opposizione del periodo. Per dirla con espressione Vittoriana, il nostro tempo libero era passato a scimmiottare i nostri capi. È difficile dire quando questa imitazione di classe abbia perso la sua attrattiva. Indubbiamente la Depressione, con la riduzione del numero e della ricchezza della classe benestante, cosí come del suo prestigio, ha avuto il suo peso. Tuttavia, le sue manifestazioni architettoniche sono durate fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Le regioni più vecchie e conservatrici del paese continuarono, fino a pochi anni fa, sebbene con entusiasmo calante, a costruire molti dei propri luoghi per il divertimento nello stile Coloniale o Inglese d’Epoca – essendo l’”antico” un simbolo dell’estetica snob. Ciò che accelerò la rivoluzione dei gusti fu comunque qualcosa al di fuori del mondo dell’arte: era il fatto che la classe operaia ed impiegatizia iniziò ad avere più tempo libero rispetto alla classe professionale e dirigente, e cominciò a guadagnare di più che nel passato. Era giunta, alla fine, ad una posizione tale da poter dire la sua sul divertimento e su come dovesse essere concepito. E se ci ricordiamo come questo crescente tempo libero coincise con una diffusone sempre maggiore dell’automobile, non dovremmo avere problemi a capire quello che è successo: il nuovo ideale di divertimento diventò una bramosia per ciò che le pubblicità chiamano paradiso- delle- vacanze. Volevamo passare il nostro tempo libero non in un mondo sociale superiore, ma in un mondo spazialmente lontano. Tuttavia il paradiso- dellevacanze è raggiungibile solo una o due volte l’anno; per il resto del tempo dobbiamo trovare un sostituto, ed era in risposta a quella necessità che

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ogni luogo di divertimento pubblico, ed in particolare quelli ai margini delle autostrade, si svilupparono e trasformarono. Improvvisamente la tovaglia bianca, il cameriere in divisa, i decori Luigi XVI, vennero dimenticati. Nomi come Astor, Ritz e Ambassador sparirono dal mondo popolare e vennero rimpiazzati da Casa Manana, Bali, Scirocco, Shangri-La. I nuovi drive-in, costruiti lungo le autostrade e alla periferia di ogni cittadina, non si curavano di nomi prestigiosi come Rivoli, Criterion ed Excelsior per chiamarsi Lariat, Rocket, Cornhusker. Motel costruiti in modo da assomigliare a villaggi del New England, o a missioni Californiane, o a villaggi rurali del Sud (secondo il posto) erano messi fuori gioco da attività nuove di zecca ispirate a Futurama, Hawaii, Hollywood, Caraibi. Piscine e vegetazione tropicale li rendevano ancora più esotici. Un improvviso aumento dei viaggi durante le vacanze ed il tempo libero, automobili più grandi e confortevoli, più denaro da spendere, tutto questo contribuí al cambiamento. Per tutta la nazione, ad intervalli strategici compresi tra le cento e le centocinquanta miglia (la distanza media che poteva essere percorsa tra i due pasti), una dopo l’altra, queste nuove ed eccitanti strisce autostradali aprirono le loro attività. Qualche volta, queste attività, crebbero subito fuori dalle grandi città, ma più spesso si trovarono vicino a qualche piccola cittadina, lontana da qualsiasi altro insediamento. In ogni caso, la loro presenza influenzò le abitudini di divertimento locale, mantenendo la normale funzione di autostrada per i viaggiatori. Non si è mai verificato una trasformazione cosí totale e drammatica di una parte del paesaggio americano, un cosí improvviso cambiamento di abitudini, e neppure un simile diffondersi dell’architettura popolare. È necessario aggiungere che, a questo sviluppo, si uní un proliferare totalmente indipendente di cartelli pubblicitari ed una crescita di industrie ai bordi dell’autostrade? Che il caos ha sopraffatto innumerevoli comunità e che molto del paesaggio precedente sia stato danneggiato irreparabilmente? Queste sono le caratteristiche che non possiamo permetterci di dimenticare, quelle di cui ci dobbiamo lamentare. Ma esse non possono nascondere il fatto che, ad una nuova architettura, popolare nel più vero senso della parola, venisse data, per la prima volta, la possibilità di evolversi. Beh, la sua evoluzione non si è in nessun modo conclusa, ma alcune delle sue caratteristiche più salienti stanno già diventando evidenti. Al momento la vistosità sembra essere quella preponderante: una luminosità di colori e di progettazione che va al di là di ogni limite. Con il tempo impareremo come stupire ed attrarre, come suggerire paradisi- delle- vacanze senza basarli su terapie d’urto. Muri eretti senza alcuna ragione, facciate stracariche

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poste ad angolo rispetto all’autostrada (quando dall’altra parte mostrano la nudità dei loro blocchi di cemento), sono più o meno goffi tentativi di catturare l’attenzione del passante, scopo che deve essere raggiunto in altra maniera. A dir la verità lo stile possiede già due altre caratteristiche adatte a questo scopo, l’uso della luce e l’uso delle insegne. Luci al neon, cascate di luce, luci fluorescenti, luci a spot, luci che si muovono e cambiano di intensità e colore, costituiscono uno degli aspetti più originali e potenzialmente creativi dello stile alternativo. Sarebbe difficile trovare una formula differente per far dimenticare il mondo del lavoro quotidiano e sostituirlo con quello delle vacanze: i divertimenti notturni ed il giorno delle luci colorate. Sarebbe forse esagerato dire che la luce al neon è una delle grandi innovazioni artistiche del nostro tempo, ma possiamo chiederci che cosa avrebbe fatto un architetto gotico o barocco per mostrare le sue capacità teatrali ed illusionistiche, la sua capacità di trasformare non solo un edificio ma anche il suo immediato contesto. L’architetto contemporaneo non considera niente di tutto questo, e mentre cerca di sintetizzare tutte le arti, quelle che sceglie sono di solito gli affreschi tradizionali, i murales ed i mosaici. Matisse e Dufy avrebbero compiuto opere al neon di grande successo, e cosí avrebbe fatto qualsiasi scultore creativo. Il pregiudizio contro qualsiasi esagerazione nella commercialità delle decorazioni è cosí forte, in una parte della popolazione, che uno degli obiettivi di riforma civica è solitamente l’uso locale di luci al neon. In ogni caso bisogna essere ciechi per non vedere la fantastica bellezza di qualsiasi strada piena di luci al neon dopo il tramonto. La seconda caratteristica di base dell’architettura, altrimenti orientata, è l’uso delle insegne. Il loro scopo è ovvio: identificare e promuovere il commercio. Ma servono anche a crearne l’atmosfera, e perfino a completarne la composizione artistica. La tendenza delle insegne delle attività autostradali sembra essere quella di ingrandirsi, moltiplicarsi e complicarsi. Una delle sue ragioni viene spiegata bene da Mobilgas, in un bollettino che dice alla propria clientela perché le insegne delle stazioni di servizio della Mobil devono cambiare: “Oggi l’automobilista guida a cinquanta o sessanta miglia all’ora in aperta campagna. Spesso si trova a diverse miglia da casa e non sa dove sia la prossima stazione della Mobil. Deve quindi poterla vedere a grande distanza... Il problema della visibilità diventa estremamente importante... Il vecchio simbolo della Mobilgas era stato progettato per un tipo di stazione di servizio coloniale, che una volta si trovava solo tra il New England e New York. Ma quando la compagnia iniziò ad espandere la sua

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rete di mercato e le nuove stazioni rimpiazzarono quelle coloniali, l’insegna assunse un aspetto in qualche modo fuori dal tempo e fuori contesto.” La nuova insegna, infatti, è il lavoro di un grafico che prima lavorava da Futurama. Ma a parte questa ragione molto pratica, le insegne sono grandi perché vengono considerate decorative. Grandi piloni, muri che sembrano cadere da un momento all’altro verso il passante, servono molto spesso a bilanciare la composizione architettonica e sono parte del suo fascino fantastico ed irreale. E siccome la modestia non è di casa lungo le autostrade, non sembra che esista nulla che possa prevenire una loro ulteriore crescita nelle dimensioni. Eventualmente, speriamo, il segnale concentrerà in se stesso la maggior parte dell’attrazione dell’occhio, e permetterà all’edificio di assumere un aspetto più rilassato e convenzionale. Queste, dunque, sono alcune delle caratteristiche della nuova architettura che si allinea alle autostrade e si cura delle nostre ore di divertimento: facciate incredibili, decorazione e vegetazione esotiche, un uso esagerato di luci e colori ed insegne, ed una indiscriminata imitazione, allo scopo di produrre determinati effetti di attrazione. In nessun modo gli ingredienti di uno stile serio o durevole, ma l’idioma ha per ora solo dieci anni. Al momento riesce già, a volte, a raggiungere effetti di grande attrazione, che calzano alla perfezione con il suo scopo festaiolo. Il problema è che questi successi sono pochi di numero e distanti gli uni dagli altri. Inoltre soffrono dell’essere collocati nel mezzo della confusione. Un rimedio a questo (ed un rimedio parziale anche all’intera condizione del margine autostradale) sarebbe l’eliminazione dei cartelli pubblicitari. Non hanno nessuno scopo costruttivo, sono brutti, e mortificano le loro immediate vicinanze; non piacciono a nessuno ed hanno molti nemici potenti Se fossero rimossi, la giungla autostradale verrebbe ridotta a proporzioni accettabili e molte qualità architettoniche ed urbanistiche diventerebbero per la prima volta visibili. Tuttavia dovremmo permettere alle ditte locali di farsi pubblicità. I loro cartelloni spesso riportano informazioni che non si possono trovare altrimenti e che un viaggiatore che si avvicina alla città ha il diritto di avere; e deve essere sottolineato che la limitazione delle loro dimensioni è una proposta poco realistica. Anche i dipartimenti statali delle autostrade si stanno rendendo conto del fatto che, un pubblico, che viaggia a sessanta miglia allora, non può trarre alcun vantaggio da pubblicità progettate in maniera da essere lette a metà di quella velocità. A buon diritto ci lamentiamo delle squallide costruzioni e della mediocre

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progettazione delle nostre attività autostradali, della mancanza di qualsiasi progetto generale o di qualsiasi armonia tra le diverse aree della striscia. Ma la meraviglia è che spesso vanno bene cosí come sono. Esiste una qualche scuola di architettura nel paese, che tenga conto dell’esistenza e dell’importanza di questa architettura popolare dell’opposizione, nata per il piacere e per il divertimento di massa? Abbiamo dimenticato, sembra, che l’architettura, a volte, può sorridere ed avere un cuore leggero, e che il divertimento, non meno che lo studio o il lavoro, ha bisogno di luoghi appropriati. I pochi insediamenti, ai margini autostradali, progettati da architetti abili e creativi, sono immensamente superiori al resto e sono stati immediatamente imitati. Al momento, il complesso autostradale medio – motel, drive-in, ristorante o night-club – è stato costruito dal proprietario, senza alcun tipo di aiuto, se non il suo limitato gusto ed esperienza; nel migliore dei casi da un costruttore. Le insegne sono solitamente il prodotto di una ditta industriale che nulla conosce del luogo o della clientela. L’illuminazione stessa è il lavoro dell’elettricista locale, che guarda dei cataloghi per trovare l’ispirazione. La sistemazione degli spazi aperti è fatta dal vivaista locale, e la pianificazione, la posizione, la relazione con i vicini e con l’autostrada è poco più che il rispetto del regolamento dello zoning locale o delle raccomandazioni del dipartimento autostradale. Non possiamo meravigliarci del risultato. Entrambe le caratteristiche principali di questa architettura dell’opposizione – illuminazione ed insegne – hanno bisogno di essere progettate intelligentemente ed artisticamente. In questi campi potremmo imparare molto dall’Europa, dove architetti e decoratori non sono stati svantaggiati dal preconcetto che l’architetto non dovrebbe avere niente a che fare con le fasi promozionali del progetto. In Europa le luci al neon spesso mostrano un certo gusto per il loro colore, progettazione, sentimento. Una pista di pattinaggio ha bisogno di un trattamento differente, colori diversi, rispetto ad un ristorante o un motel; tuttavia vediamo che tutti e tre sono immersi nella stessa luce verde brillante e rosso vivo. In questo paese soffriamo anche della malattia che Victor Hugo, critico d’architettura poco apprezzato, disse aver ucciso l’architettura del mondo occidentale: la tirannia della parola stampata. La parola stampata (o dipinta o illuminata) non ha ucciso l’architettura, in America o da qualsiasi altra parte, ma, a volte, minaccia di soverchiarla, di tarparle le ali. Le nostre luci al neon, capaci di esprimere una poesia genuina, finora sono state solo capaci di strillare pepsicola, bar, stop, e la tirannia della parola, la sua povertà e monotonia, da nessun altra parte è più evidente che nell’anarchia che regna fuori da paesi e città, dove

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pochi simboli universalmente riconosciuti sarebbero sufficienti a comunicare lo stesso messaggio più rapidamente e con meno fatica per l’occhio. Ancora, i segnali autostradali europei sono più chiari e più belli e meglio comprensibili dei nostri, per non menzionare quegli stemmi tradizionali del commercio – il piatto del barbiere, il sigaro del tabaccaio, la bandiera del macellaio, la chiave del fabbro – che ravvivano le strade europee senza distruggerne l’armonia. Questo è il caso in cui l’esperto pubblicitario potrebbe darci un prezioso aiuto: progettare una serie di simboli autostradali che rimpiazzino l’incubo odierno di queste parole. Il pianificatore può offrire il suo contributo? Non è possibile introdurre ordine ed armonia anche in mezzo ad una collezione di attività eterogenee? I centri commerciali ci mostrano cose che non avremmo creduto possibili una decina di anni fa o poco più: che diverse attività possano deliberatamente insediarsi nello stesso luogo, sottoporsi a determinati controlli, pensare come una piccola comunità, e nonostante questo prosperare come mai era accaduto prima. La loro posizione ai bordi dell’autostrada ed il vantaggio dei loro grandi parcheggi li rende modello per aggregazioni simili. La maggior parte di questi luoghi di piacere autostradale è sfortunatamente sparpagliata, alcuni stretti tra depositi di camion e furgoni, altri in mezzo al niente assoluto. Dovrebbero dividere la stessa atmosfera di divertimento. Se, per dire, fossero riuniti in gruppi di sei, ad intervalli frequenti, la confusione del traffico si ridurrebbe e le attività stesse si sentirebbero più protette. Alcune di esse sembrano logicamente appartenere alla stessa categoria: ristoranti, drive-in, motel e negozi di souvenir; e per una differente (e forse più giovane) clientela: stadi sportivi, fast-food e discoteche. Per un insediamento autostradale cosí sistematico ed ordinato, un nuova tipo di zona, “la Zona dei Divertimenti”, dovrebbe essere creata e riconosciuta, e poi protetta dall’intrusione di residenze ed uffici. È nell’organizzazione e nella riabilitazione di questa incompresa e tralasciata parte della comunità che, il pianificatore, l’architetto, l’industrial designer ed il grafico pubblicitario dovrebbero collaborare. Avranno l’opportunità di farlo? Speriamo che il valore ed il fascino delle fasce autostradali non rimangano cosí oscuri, ma che vengano accettati da una più larga parte della popolazione; che la nostra professata e spesso genuina attenzione per le attività minori protegga queste attività imprenditoriali dall’estinzione e, in qualche modo, dia loro una più solida posizione all’interno della comunità. E speriamo che tutte quelle capacità architettoniche ed urbanistiche, la conoscenza del gusto e delle abitudini della gente da parte del pubblicitario, accettino volentieri l’opportunità di allargare

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i loro orizzonti e di lavorare insieme. Non possiamo contare su niente di tutto questo. Un’ondata di riqualificazione urbana sta investendo l’intera nazione ed è rafforzata dai fondi pubblici e da una sorta d’impazienza nei confronti dell’anticonformismo, sia a sinistra che a destra. Ciò che il potere locale non può raggiungere, potrà essere completato dal Programma Federale Autostrade: la sterilizzazione delle nostre fasce autostradali. Infine è una questione di quale parte si dimostri più forte: la richiesta di un efficiente e costoso sistema autostradale, progettato primariamente al servizio dell’economia lavoratrice del paese, o un nuovo e felice concetto di tempo libero, con la propria struttura economica, le sue forme artistiche ed il suo diritto ad una parte della fascia autostradale. Al momento siamo indifferenti a questo orizzonte, per la nostra cultura e per la possibilità di una sua estinzione; non è giunto il tempo di includere nei nostri interessi questa nuova parte d’America? È vero che non possiamo più entrare nei nostri paesi e nelle nostre città su viali alberati in mezzo a campi e giardini, e che spesso, al contrario, vi entriamo attraverso baraccopoli ai bordi delle autostrade, ma lo potremo fare se saremo capaci di trasformare queste entrate in viali di felicità e luce, quelli come molti altri al mondo; e non è ancora troppo tardi.

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La casa che si muove verso ovest Tre case americane & la gente che vi abita

da: Ervin H. Zube, Landscapes, Selected Writings of J.B.Jackson Amherst, The University of Massachusetts Press, 1970, pp.10-42.

I. L’Arca di Nehemiah Trecento anni fa Nehemiah Tinkham, sua moglie Submit Tinkham e sei figli, approdarono sulle terre del New England per mettere su casa in mezzo alla natura. Come i suoi antenati, Tinkham era un contadino. Portò con se qualche oggetto da casa, quelle “cose necessarie” che molti anni prima aveva suggerito un manuale di istruzioni per potenziali coloni del New England: due zappe, due seghe, due asce, martello, pala, vanga, scalpelli, succhiello e accetta. Questo era tutto ciò che possedeva, questo e le conoscenze tradizionali necessarie non solo per costruire una casa, ma anche per pulire e preparare un nuovo terreno per l’agricoltura. Non c’erano chiodi nella lista – essendo i chiodi molto costosi – e nessun equipaggiamento per il bestiame. Nehemiah acquistò presto circa sessanta acri di terra vergine a Jerusha, un nuovo insediamento ad un giorno di viaggio da Boston. Non comprò la terra da un proprietario privato, da un bianco, o da un indiano, e neppure si appropriò di un angolo della foresta del New England. La comprò dalle autorità cittadine di Jerusha, che a loro volta la avevano ottenuta dalla Corona, ed il paese gli assegnò quella terra senza alcuna possibilità di scelta. In ogni caso la sua fattoria era tanto buona quanto quella dei suoi vicini. Comprendeva tre tipi di terreno: la parte più piccola (e più preziosa) era il lotto per la costruzione della casa, di circa dieci acri, affacciato sul parco pubblico, ed era vicino non solo ad altre case ma anche al luogo dove doveva essere costruita la sala per le riunioni della comunità. La Corte Generale del Massachusetts aveva recentemente emanato il decreto che nessuna abitazione potesse essere costruita più distante di mezzo miglio dalla sala delle riunioni. Le altre due parti della fattoria erano a prato e a foresta. Il prato, posto in una valle ben irrigata e protetta, veniva progressivamente ripulito dagli alberi e seminato a grano, avena e frumento, anche se parte veniva 121


lasciato cosí com’era per farci pascolare le mucche che Nehemiah sperava di poter comprare. La foresta sulle colline rocciose serviva a preoccuparsi materiali da costruzione e legna da ardere. La grande ascia che si era portato dall’Inghilterra gli era di grande aiuto; infatti sia lui che i suoi vicini si erano originariamente insediati in una fitta foresta, e ripulirono la terra dagli alberi cosí velocemente che, una decina d’anni più tardi, dovettero andare a prendere la legna da qualche altra parte. Finché durò, questo taglio di alberi era affare comune. I vicini aiutarono Nehemiah a tagliare gli alberi più imponenti – la quercia ed il pino con cui si voleva costruire la casa – e lui aiutava loro. Le forze si riunirono per ripulire il parco pubblico, per costruire una palizzata tutt’intorno, per evitare che il bestiame vi andasse a pascolare, per costruire la sala delle riunioni ed una casa per il prete. I Tinkham dovettero temporaneamente abitare, per il primo inverno, in un rifugio semi- sotterraneo, e tutto ciò che Nehemiah poté fare, fu seminare due acri di grano – semina mai fortunata e presto invasa da erbe infestanti – piantare un po’ del poco familiare grano Indiano e preparare un piccolo orto di meli sul lotto della casa. Fino alla sua morte Nehemiah non coltivò ne’assaggiò mai un pomodoro, una patata irlandese o una patata dolce. Non provò mai il tè o il caffè, e raramente assaggiò carne fresca di manzo o maiale o agnello. La fattoria procurava alla famiglia la farina, un po’ di frutta e verdura, latte. Burro, formaggio e uova. Queste, insieme alla selvaggina, costituivano gran parte della loro alimentazione. E neppure i Tinkham possedevano un giogo di buoi o un cavallo da tiro fino a molti anni dopo il loro arrivo nel Nuovo Mondo. I campi che Nehemiah coltivò, nonostante le molte avversità, gli venivano arati dall’unica persona che possedeva un aratro a Jerusha. Tagliava il suo grano con la falce, lo trebbiava con una frusta. Era fortunato a possedere un malandato carretto a due ruote per trasportare i carichi, anche se qualsiasi viaggio lui e la sua famiglia facesse (era abbastanza raro che succedesse) veniva fatto a cavallo. Le poche strade al centro del villaggio erano dissestate e strette; tra villaggio e villaggio non esistevano strade, per lo più sentieri in mezzo alla foresta. Famiglia e Superfamiglia: Se Nehemiah avesse voluto ampliare le sue colture, se fosse stato interessato a raccolti maggiori e a vendere ai mercati cittadini per poi comprare prodotti cittadini, avrebbe viaggiato di più e avrebbe cercato di migliorare i suoi metodi agricoli. Ma era interessato innanzitutto

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a mantenere se stesso e la sua famiglia, e poi a mantenere il suo stile di vita. Era monotono, forse, ma gli faceva avere cibo, vestiti e riparo e quel tipo di vita sociale che desiderava. Le scarse comunicazioni con il mondo esterno, una grande autosufficienza, l’abitudine pioniera che tutti gli uomini lavorassero insieme a certe imprese comuni, ed infine il raggruppamento di tutte le case intorno al “Luogo per l’Assemblea di Sabbath”, aveva prodotto un villaggio molto compatto. I nostri commenti più benevoli sull’antico New England parlano della sua democrazia. A dir la verità, il suo principio guida era qualcosa di diverso. Non esisteva niente di particolarmente democratico in una società di latifondisti, piccoli proprietari terrieri e nuovi arrivati, in ordine discendente di importanza e privilegi. Non c’era niente di democratico nella legge che proibiva, a coloro che avevano meno di una certa somma di denaro, di indossare abiti costosi. Né quei tempi rappresentavano la corruzione di una democrazia precedente; già nel 1623 venne proposto che il New England venisse abitato da “Tre tipi – gentiluomini che portassero un’arma, artigiani di qualsiasi sorta, e mariti per fecondare la terra.” Alla stessa maniera, la Chiesa Puritana aveva la sua gerarchia di rispettabili, diaconi, e ministri. Nella sala delle riunioni di Jerusha, più alta era la posizione sociale, più vicino ci si sedeva all’altare. Il diritto al voto, il diritto a vivere all’interno della comunità, il diritto di parola – tutto questo era controllato gelosamente dalla legge. Tuttavia, se Jerusha non era democratica come una città americana moderna, aveva una qualità che la città moderna ha perduto. Era una specie di superfamiglia, più simile al gradino più alto di una gerarchia domestica che alla più piccola unità di una nazione quale è adesso. Nehemiah trovò in Jerusha un buon sostituto della società rurale che si era lasciato alle spalle. Non aveva mai viaggiato molto in Inghilterra, e suo padre e suo nonno avevano viaggiato ancora meno. Per generazioni di Tinkham, la famiglia ed il villaggio erano parole quasi interscambiabili. Nehemiah era parente di quasi tutti i suoi vicini, nel Vecchio Mondo, e con loro divideva abitudini e tradizioni. La gente che arrivò a Jerusha vi giunse, naturalmente, da posti diversi e da diversi stili di vita ma, come i Tinkham, ognuno di loro aveva nostalgia di casa, non tanto per la sicurezza e la civiltà dell’Inghilterra, quanto per la superfamiglia che avevano conosciuto. Che cosa avrebbe potuto sostituirla? Niente di cosí impersonale come un contratto sociale; quello che crearono fu invece il villaggio domestico con la sua gerarchia e il suo lavorare insieme ad imprese comuni. Certamente i più ovvi simboli della superfamiglia erano Dio, il severo Pa-

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dre, la sala delle riunioni di Jerusha, quale una sorta di supersalotto dove la famiglia si riuniva per pregare, e l’entusiasmo genealogico che è ancora caratteristico del New England. Ma la casa individuale non era meno importante e Nehemiah si affrettò a costruire alla sua famiglia la miglior casa possibile, in modo da riprodurre un altro aspetto del loro passato e delle loro tradizioni. Una volta completata, la casa era ovviamente la copia della casa che aveva conosciuto in Inghilterra. Era ovviamente fatta di legno, la maggior parte del quale non stagionato, con fondamenta in pietra, ed era di due piani, con un terzo usato come solaio sotto un tetto molto ripido. La Casa: Come disse Anthony Garvan nel suo Architecture and Town Planning in Colonial Connecticut, i primi costruttori (Nehemiah incluso) usavano, come unità di misura base per le loro case, la campata di sedici piedi – originariamente usata in Inghilterra perché sufficientemente grande per contenere due paia di buoi. In America venne modificata in modo che, quasi ogni dimensione della casa coloniale fosse divisibile per otto – o mezza campata. Un altro segno del conservatorismo di Nehemiah era la maniera in cui costruí la casa. La struttura in legno di quercia, che costruí laboriosamente con gli attrezzi più semplici, era un pesante e complicato pezzo di falegnameria, l’opposto di qualsiasi cosa si possa vedere in costruzioni contemporanee. Per citare Garvan, “Queste strutture... non solo reggevano l’intero peso della costruzione, ma erano anche incastrate e tenute insieme in maniera tale da poter resistere a qualsiasi spinta orizzontale degli elementi... Lo scopo della struttura era di portare il peso del tetto e delle aste di colmo, non solo di resistere alle loro spinta verso l’esterno.” La casa di Nehemiah era quindi costruita per durare, costruita per essere inflessibile, costruita per portare il suo peso, e non costruita per essere facilmente alterata o ampliata – come la sua teologia, forse. Non dipinse mai la casa, né cercò di decorarla, ma il passare degli anni le diede morbidezza e bellezza, ed ora sentiamo persone ammirarne la sua funzionalità. Hugh Morrison afferma, nel suo Early American Architecture, che il costruttore del XVII secolo era cosí lontano dall’avere una mentalità funzionale che non pensò mai di inserire dei materiali isolanti tra la struttura e le tavole esterne; mai realizzò che l’enorme camino era inefficiente, o che l’illuminazione all’interno della casa era atroce. Non capí mai che la struttura tradizionale con cui combatteva era lenta a prodursi e difficile da fare. Allo stesso modo la pianta della casa non era per niente funzionale. Il pianoterra aveva due stanze principali: una combinazione di soggiornostanza da lavoro-cucina con un grande camino, ed un salotto, anch’esso

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con camino. Il salotto era riservato a ospiti importanti e ricorrenze religiose familiari. Tra i due, una rampa di scale portava a due camere da letto dove dormiva la famiglia, e sopra di queste, raggiunto da una scala a pioli, c’era il solaio, dove dormiva il servitore. C’erano inoltre diversi altri edifici distaccati, compreso un fienile, tutti vicino alla casa. Usciti dalla porta sul retro si trovava un piccolo giardino, per lo più coltivato a verdure ed erbe, ma che conteneva anche alcuni fiori. Il prato che crediamo essere sempre stato di fronte alla casa coloniale non esisteva; una palizzata circondava il posto e teneva lontano le mucche. L’aspetto della casa era deprimente e privo di alcun fascino; le finestre erano piccole, le proporzioni delle stanze sgraziate, e l’arredo squallido e, per necessità, assolutamente essenziale. Ma Nehemiah e sua moglie Submit non vi trovavano niente da criticare. Era solida, pratica, e facile da difendere da attacchi indiani. Se qualcuno osava menzionare la sua scarsa comodità, Nehemiah citava i Romani, verso 5:3. La Sala delle Riunioni Come Salotto: Non possiamo giudicare la casa senza conoscere quali funzioni doveva servire e quali funzioni erano riservate a qualche altra costruzione. Non possiamo più parlare della tristezza dell’esistenza dei Tinkham semplicemente perché la loro casa non aveva spazio per la vita sociale. La casa di Nehemiah non può essere compresa senza sapere qualcosa dell’importanza della sala delle riunioni, in quanto l’uno era complemento dell’altra. Se la dimora offriva rifugio per le funzioni economiche e biologiche della vita domestica di Jerusha, le funzioni sociali e culturali appartenevano alla sala delle riunioni. Questa è forse la ragione per cui Nehemiah era tanto affezionato a quell’edificio pubblico quadrato quanto lo era alla sua casa; non perché avesse aiutato a costruirlo con le sue stesse mani, non perché pensasse fosse bello, ma perché era una parte essenziale della sua vita. Era la scuola e la piazza pubblica per discutere delle questioni civiche; era la sua caserma e il posto dove stivava le sue armi e munizioni. Era il luogo per le riunioni e per le celebrazioni della comunità. Ancora più importante era il fatto che essa fosse l’immagine del tipo di mondo in cui credeva Nehemiah. Qui e solo qui sentiva di occupare il suo ruolo esistenziale, anche se quel ruolo era umile. Non gli piaceva sedere per due ore in un palazzo freddo, mentre il Reverendo Jethro Tipping spiegava il Significato del Decimo Corno della Bestia (S. Giovanni, Rivelazione, 17.v. 16, N.d.T. ), ma credeva che, mentre era lí, tutto fosse a posto. Dormicchiando, durante

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le prediche, vedeva il mondo come una piramide durevole e maestosa, una successione ordinata di gradi – piccolo proprietario terriero, marito, latifondista; venerabili, diaconi, ministri; pagani, gentili, eletti – ognuno dei quali era indispensabile alla solidità della struttura e ad aiutare a sopportare il peso della Corona. Inclinato com’era a pensare in allegorie, Nehemiah vedeva lo stesso spirito manifestarsi nel paesaggio intorno a lui, nell’ordine ascendente di foreste, campi, e lotti domestici; nel paesaggio intoccato e selvaggio, nell’insediamento, e nella sala delle riunioni al centro del villaggio. In questa visione gerarchica del mondo era un figlio dei propri tempi. Ciò che lo distingueva, tuttavia, dai suoi cugini in Europa era la loro convinzione che l’ordine non potesse e non dovesse essere semplificato. Alcuni dei gradini della piramide dovevano essere eliminati a favore di una più diretta e sicura comunicazione tra quelli che stavano in alto e quelli in basso. Se questo mondo non fosse nient’altro che una preparazione per quello a venire (ed il Reverendo Jethro Tipping lo assicurò che era cosí), gli uomini avrebbero dovuto organizzarlo in maniera semplice ed efficiente. Ed, infatti, Nehemiah e i suoi compari coloni lo facevano già cosí bene, che agli occhi dei loro contemporanei del Vecchio Mondo passavano per rivoluzionari. L’Ambiente Ostile: Tuttavia, Jerusha era cosciente del fatto che fosse solo un’accerchiata isola di santità nel mezzo di una terra ostile. Quasi a tiro di pistola dalla sala delle riunioni, c’era la natura selvaggia, abitata da selvaggi. Diverse ragioni scoraggiavano Nehemiah dall’avventurarsi molto lontano o molto spesso nell’entroterra. I suoi metodi agricoli erano troppo primitivi; la manodopera era insufficiente per sfruttare tutta la terra di sua proprietà, ancor meno per acquistarne dell’altra. La mancanza di strade rendeva difficile insediarsi più distante e gli impediva di vendere a villaggi lontani. Inoltre, né lui né i suoi amici erano molto avventurosi; erano lenti ad adottare nuove tecniche e nuove idee, e, d’altronde, quelle vecchie, erano sostenute da una autorità indiscutibile. Ricordando la campagna che avevano lasciato in Inghilterra, erano perplessi dall’anarchia dell’ambiente del Nuovo Mondo. Senza dubbio, molta di questa paura per l’ambiente veniva dalle sofferenze della vita pioniera. Ma, generazioni seguenti di pionieri americani avevano poca, se non nessuna, ostilità nei confronti della natura; queste paure erano caratteristiche di Nehemiah e del suo tempo. Ciò che aiutò a rafforzarla e renderla quasi una fede fu il costume che avevano, i primi coloni, di paragonarsi ai Figli d’Israele in Terra Selvaggia. “Tu hai portato una vigna dall’Egitto. Tu hai

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trovato il pagano e lo hai salvato.” Questa era l’ispirazione biblica del motto del Connecticut, poi iscritta sul sigillo di Stato adottato nel 1644. Com’è forte il contrasto tra un simile emblema e quelli dei pionieri dell’Ovest, due secoli dopo, con i loro soli crescenti e contadini ottimisti! È possibile interpretare il paesaggio di Jerusha come lo specchio delle condizioni economiche del pioniere. Il villaggio attorno al luogo pubblico centrale e alla sala delle riunioni, le case che rivolgevano il retro alla foresta, i piccoli terreni circondati da palizzate e muri – queste sono indubbiamente caratteristiche di un’economia di sopravvivenza e di una società abituata a pensare in termini di autodifesa. Anche i leoni inesistenti e le felci soporifiche, in una forma o nell’altra, sono parte dell’ambiente di ogni pioniere. Ma non dovremmo dimenticare che Nehemiah non pensava a se stesso come ad un pioniere, ma come ad un esiliato che stava soffrendo, per tutta la vita, non solo per la sua sicurezza, ma anche per la sua santità, ed i suoi interessi non si sono mai avventurati lontano dalla fonte di quella santità: la sala delle riunioni. Non aspirò mai a molto di più che a stabilire il più solidamente possibile un ordine superdomestico. Spirò in questa valle di lacrime nel 1683, soddisfatto che fino all’ultimo dei suoi respiri almeno due cose erano permanenti: la sua identità (che si poteva cosí riconoscere nel Giorno del Giudizio) e l’indistruttibile, inalterabile casa, che lasciò alla sua vedova Submit. È stato fortunato a morire quando morí. Se fosse vissuto fino al punto di vedere suo nipote Noah crescere, avrebbe conosciuto l’inizio della fine del vecchio ordine. Noah fu uno dei primi a Jerusha a speculare sul valore di mercato dei terreni. Capí che non c’era più spazio, vicino alla piazza centrale, per altre case, e che i nuovi arrivati non erano ansiosi di far parte della comunità religiosa; erano pronti a vivere più lontano. Fu Noah che persuase il paese a costruire strade lunghe cinque miglia all’interno della foresta, e trasse un profitto non indifferente a vendere qualche terreno forestale mai usato da suo nonno. Il suo non era un mondo cosí retto come quello di Nehemiah, ma era più esteso. Includeva le Indie Occidentali e la Virginia e molte altre cittadine e fattorie di frontiera, isolate in radure remote. Includeva uomini che si spostavano a cavallo per predicare una strada della salvazione molto più corta e molto più semplice di quella che Nehemiah aveva seguito cosí onestamente, e altri che parlavano di un rapporto più diretto tra il popolo ed il governo. Noah si costruí una casa di tre piani e arredò il salotto con mogano ed argenteria. La vecchia casa, ora grigia e malandata, era abitata da una delle zie di Noah. Era piena d’orgoglio, nell’essere fedele alle vecchie tradizioni,

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ma si lamentava che la casa fosse piccola, e fece fare finestre più grandi al piano terra; e si riferiva sempre al New England come alla sua casa. II. La Casa Colonica di Pliny La prima volta che un membro della famiglia Tinkham costruí una casa fuori dal New England fu quando Pliny Tinkham si trasferí a Ovest, poco più di un secolo fa, e si stabilí vicino a Illium, in Illinois. Pliny era giovane per essere sposato e padre di tre figli, e giovane (pensavano i suoi genitori) per andare cosí lontano da Jerusha. Ma anche se non fosse stato ricco, aveva molto di più, per iniziare, di quello che avevano i suoi antenati due secoli prima. E aveva bisogno di molto di più; voleva coltivare a scala molto più grande e complessa. A parte il denaro, Pliny e sua moglie Matilda, si portarono dietro poche cose, essendogli stato consigliato di comprare qualsiasi cosa di cui avessero avuto bisogno, vicino alla loro destinazione finale. Quando finalmente arrivarono a Illium, comprarono (oltre che lo stesso repertorio di attrezzi che Nehemiah aveva nei suoi anni pionieri) un paio di cavalli, un giogo di buoi, una mucca da latte, un carro, un aratro, un forcone, una falce e dieci libbre di chiodi. Questi erano gli articoli reputati necessari dal manuale del contadino e degli emigranti che Pliny aveva consultato. Pionieri nelle Pianure: A Nehemiah, ricordiamo, la terra era stata assegnata dalla cittadinanza; l’appezzamento comprendeva tre differenti tipi di terreno. Pliny, sebbene non avesse alcuna esperienza di mercato terriero di pianura, fu obbligato a scegliere la terra che voleva e a contrattare su di essa. Alla fine comprò 120 acri da un uomo che l’aveva acquisita da una speculazione, non aveva fatto nulla per migliorarla, e ora voleva addirittura trasferirsi ancora più ad Ovest. Era un terreno eccellente: una pianura che scendeva dolcemente con un terreno molto fertile; conteneva una piccola porzione forestata e si trovava a dieci miglia a nord di Illium, su quello che un giorno sarebbe diventata una strada. Il primo vicino era ad un miglio. Come Nehemiah, Pliny, prima di tutto, costruí un rifugio temporaneo per la famiglia; solo che lo costruí di tronchi e lo fece, quindi, più grande e più confortevole del primo rifugio interrato dei Tinkham. Non dovette tagliare molti alberi per liberare il suo terreno, giacché la maggior parte era già spoglia, ma dovette sí tagliarli per la capanna di tronchi, per un fienile, un magazzino ed un recinto, per impedire agli animali di scorazzare nella

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prateria. Vide presto che il legno non si poteva sprecare nell’Illinois del Sud; ce n’era troppo poco. Ancora come i suoi antenati, Pliny si affrettò a seminare i campi che aveva preparato; ma invece di coltivare per soddisfare i bisogni della famiglia, seminò venti acri a grano, in modo da avere raccolti da vendere il prima possibile. Sotto molti aspetti il suo insediamento fu più facile di quello di Nehemiah. Pliny non aveva trovato “ostilità” da combattere. La terra era fertile e vasta, e lui aveva la tradizionale capacità di adattamento e autosufficienza che serviva in una nuova terra. Aveva un mercato in crescita non molto lontano, ed un posto dove poteva comprare qualsiasi cosa di cui avesse bisogno. E poi, alla fine, lui e Matilda erano ottimisti ed avventurosi; il fatto stesso che l’acquisto del terreno fosse stato una sorta di speculazione di mercato, li incoraggiava a considerare l’intera impresa del nuovo insediamento come una speculazione, contando sul fatto che, in tempi duri, potevano pur sempre vendere e iniziare da capo. D’altro canto, la vita dei primi anni era spesso dura. Matilda conosceva una ricetta per il pane, fatta di farina di legno di faggio, ed un’altra per un’insalata di aghi di pino freschi, entrambe da essere usate in tempi di quasi carestia. Si trovò a dover fare una varietà di lavori domestici che la gente di Jerusha non conoscevano neppure o che potevano delegare a specialisti del villaggio: la preparazione di candele, sapone e colori, dello zucchero di canna e lievito del latte. Doveva curare un orto molto più grande di quanto Submit Tinkham avesse mai visto, e mettere in conserva vegetali di cui Submit non aveva mai neppure sentito parlare. Doveva accudire la famiglia e mantenerla in salute secondo metodi rudimentali ma scientifici, mentre Submit si fidava unicamente dei metodi quaccheri tradizionali e di formule semi-magiche, o si rivolgeva a qualsiasi vicino che avesse qualche esperienza medica. Per quanto riguardava Pliny, egli non era solamente contadino, falegname, muratore, ingegnere e fabbro, ma anche un veterinario, un cacciatore, un agricoltore sperimentalista ed un mercante. Inoltre, i Tinkham dell’Illinois erano, fin dall’inizio, molto più indipendenti dei Tinkham del Massachusetts. I vicini erano amichevoli, ma pochi e lontani. La casa dei Tinkham si trovava a diverse miglia da Illium (e che distanza, attraverso le praterie fangose, li divideva dalla strada per Illium), e quando Pliny raggiunse la città, scoprí che nessuno provava alcun senso di responsabilità per il suo benessere, fosse spirituale o fisico. Il banchiere, il negoziante, il trasportatore erano sempre pronti a fare affari con lui, ma non erano interessati ai suoi problemi personali. Non c’era solo una chiesa ad Illium; ce n’erano tre. Uno dei preti fece visita alla casa dei Tinkham,

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vi pregò, lasciò qualche sermone da leggere, e non vi fece più ritorno. La popolazione di Illium era in costante aumento e cambiamento. Le chiacchiere a proposito di una nuova ferrovia, di uno stabilimento per imballaggi, di un ufficio del governo, fecero sí che la metà di loro se ne andasse a tutta velocità da qualche altra parte. Sebbene passasse diverso tempo nel tribunale ed in banca, e nonostante partecipasse ad ogni fiera, Pliny si sentí sempre un estraneo in paese. Fuga dal Villaggio: Per i suoi antenati questo sentimento sarebbe stato troppo umiliante da poter essere sopportato, ma Pliny era una persona diversa. Aveva bisogno di una società diversa, un’economia diversa, ed un paesaggio diverso, e lasciò il New England perché sapeva di averne bisogno. La famiglia dei Tinkham spiegava la dipartita del giovane Pliny dicendo che c’era più possibilità di fare denaro nelle campagne dell’Ovest, il che era vero, e che la vecchia fattoria stava diventando sterile dopo duecento anni di coltivazione, il che non era vero. Attribuivano motivi anche alla ferrovia, alla terra a buon mercato, alla crescita di grandi città – qualsiasi cosa tranne a loro stessi. Ma il fatto era che Pliny si era ribellato ai metodi agricoli tradizionali di suo padre e alla tirannia domestica tradizionale. Il vecchio Tinkham, ossessionato dalla ricerca ancestrale della sicurezza e, come i suoi predecessori, indifferente alle promesse di ricchezza, rifiutò aspramente sia di ampliare la fattoria che di migliorarla tenendosi al passo con il cambiamento dei tempi. Ciò che era stato sufficientemente buono per Nehemiah era sufficientemente buono anche per se. Inoltre, credeva fermamente che suo padre, quale rappresentante di Dio nella casa, fosse quello che sapeva di più di tutti, fosse la sommità di un prestabilito ordine domestico. Trattava Pliny come un bambino di dieci anni. Quindi, quando Pliny si trasferí ad Ovest, non fu tanto per la ricerca di un più semplice benessere, quanto per scappare dalla famiglia del Vecchio Testamento, dalla vecchia economia auto-sufficiente; in un certo senso, si può dire che si voleva allontanare dal villaggio del New England: piazza, sala delle riunioni, e tutto il resto. Era naturale che il paesaggio che lui e gli altri fuggiaschi avevano creato ad Ovest dovesse essere, sotto molti aspetti, l’esatto opposto del paesaggio che avevano conosciuto da bambini. Invece che un insediamento compatto di case intorno alla chiesa, c’erano fattorie sparpagliate nella pianura; invece della terra giustamente ed equamente assegnata da benevolenti autorità, essa veniva comprata al mercato libero; ed invece della vita della superfamiglia del villaggio del New England, non esisteva nessuna vita di villaggio. Era come se Pliny (come i suoi antenati più lontani) avesse, a sua volta,

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eliminato qualche altro gradino della gerarchia sociale, qualche barriera tra se stesso e l’esperienza diretta. Genitori, clero, aristocrazia, cittadinanza, nel vecchio senso del termine, erano abolite. E il creatore principale dell’ambiente non era più la comunità, ma l’individuo. L’indipendenza che Pliny sentiva era espressa in una canzone popolare: Ho della terra, ho chi si china nei campi Ho frutta, ho fiori L’allodola è la sveglia del mio mattino Allora siate felici, ragazzi, adesso, Ecco Dio che spinge l’aratro Lunga vita e successo al contadino! La Casa Funzionale, 1860: La più significativa delle creazioni di Pliny fu la sua casa, in quanto riuniva il maggior numero di caratteristiche rivoluzionarie rispetto a qualsiasi altra casa precedente in America. La costruí su un’altura al centro della fattoria, dove l’aria era fresca e la veduta ampia, distante dalla strada e lontano dalla vista dei vicini. Pliny e Matilda, erano d’accordo sul fatto che la loro casa dovesse essere costruita prima di tutto per la famiglia, più che per rappresentanza e sfoggio, e che dovesse essere progettata cosí che, se vi fosse stata la necessità, potesse essere venduta. Questo era il consiglio che ogni proprietario di casa aveva dato loro. Ma quello era solo l’inizio. Dopo aver letto diversi manuali di costruzione, Pliny e Matilda, decisero che la loro casa si doveva poter ampliare nel futuro, quando la famiglia fosse diventata più numerosa e quando fossero riusciti a mettere da parte più denaro; pensarono a stanze che potessero essere usate ora come camere da letto e più tardi come dispense, pensavano a porte scorrevoli che potessero dividere una stanza in due. Una casa con una pianta flessibile, una casa progettata cosí sensibilmente da poter essere usata da una famiglia e poi essere venduta ad un’altra – una casa, in definitiva, che si adattasse senza problemi a quella spinta verso l’esterno a cui la casa di Nehemiah resisteva cosí tenacemente – era in se stesso un concetto totalmente nuovo. Altrettanto nuova era la maniera in cui Pliny la costruí. Abbandonò la tradizionale struttura a travi e pilastri dei suoi antenati – e, significativamente, le tradizionali misure basate sulla campata e la mezza campata – e usò il metodo più recente, la cosí detta costruzione “balloon”. La costruzione “balloon” è il tipo di costruzione che si usa oggi in qualsiasi casa di questo paese, ma venne inventata poco

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più di un secolo fa. Il suo principio, come lo definisce Giedion in Space, Time, and Architecture, “implica la sostituzione del precedente e costoso metodo costruttivo, fatto di giunti ad incastro, con uno basato su sottili tavole a correre per tutta l’altezza dell’edificio, tenute insieme solamente da chiodatura. Mettere insieme una casa come una scatola”, aggiunge, “usando solo chiodi, doveva sembrare un’idea totalmente rivoluzionaria per i falegnami.” Ma per Pliny, il quale non si vantava mai di essere un radicale innovatore, era la tecnica logica. Richiedeva molti chiodi poco costosi, e lui li aveva. Quindi la casa era economica e veloce da costruire, ed era più grande, illuminata meglio e più conveniente della casa a Jerusha. Aveva molte stanze, e mentre Nehemiah aveva pensato soprattutto alla funzionalità sociale di ogni stanza – una per la famiglia, una per le cerimonie, una per il servitore e cosí via – Pliny pensò in termini di funzioni domestiche o pratiche: cucina, dispensa, soggiorno, stanze da letto e, naturalmente, un giardino. Cosí come aveva promesso, era una casa pensata interamente per la vita della famiglia e non per rappresentanza. Qual’era il centro spirituale della casa? A Jerusha era il salotto con la sua Bibbia e il suo camino. Ma a causa della scarsità di legno nella zona di Illium e a causa della disposizione più sensibile delle stanze, Pliny aveva solo stufe Franklin ed un forno per cucinare; due stufe erano sufficienti a riscaldare l’intera costruzione. Tutto ciò che rimaneva del vecchio salotto era una stufa Franklin nel soggiorno (o stanza per rilassarsi, come la chiamava Matilda) ed una piccola collezione di libri per la famiglia. Whittier, Longfellow e Household Words trovarono posto vicino alla Bibbia. Dire che la stanza più importante della casa dei Tinkham era dedicata alle riunioni familiari, più che agli ospiti ed alle cerimonie, significava che la casa era progettata per un’auto-sufficienza sociale. Nessuno dei Tinkham precedenti aveva avuto una vita domestica più completa ed indipendente di Pliny. Questo era principalmente dovuto al fatto che, la casa, dovesse sostituire la chiesa, la sala delle riunioni e la scuola – e qualche volta anche la taverna. Matrimoni, funerali, sepolture, affari, vacanze, gli diedero un’importanza che nessun’altra casa dei Tinkham aveva mai avuto prima e che mai ebbe in futuro. Si ampliò per includere quasi ogni altro aspetto della vita di campagna; rappresentava, alla sua maniera, l’età d’oro della casa americana. La Fattoria Funzionale: La fattoria di Pliny non solo era più grande di quella di Jerusha, ma era molto più efficiente. Nehemiah aveva fatto tutto

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con le proprie mani, eccetto raccogliere pietra e legno, ed arare. Nella fattoria vicino ad Illium, ogni fase del processo della coltivazione del grano, eccetto la pula, veniva fatto con l’aiuto del cavallo – e questo molto prima della Guerra Civile. Nehemiah non possedeva neanche una macchina per coltivare; Pliny aveva carri, aratri, coltivatori ed erpici, e dopo dieci anni, quando le strade furono migliorate, acquistò un calesse. Nehemiah aveva cercato soprattutto di soddisfare i bisogni familiari con i raccolti della fattoria, e finché le necessità della famiglia rimanevano all’incirca le stesse, anno dopo anno, non vedeva la ragione di ingrandire la fattoria o il suo raccolto. Pliny, al contrario, dopo due anni abbandonò ogni tentativo di provvedere alla sua famiglia nella maniera tradizionale; perché pascolare pecore e filare lana e tessere e tingere e cucire, quando la ferrovia portava vestiti già fatti dall’Est? Quindi, convertí sempre più terreno alle coltivazioni – grano – da vendere al mercato, in modo da avere facilmente e subito denaro in cassa. Una volta avventuratosi nell’agricoltura commerciale, Pliny non ebbe più alcuna ragione per limitare le dimensioni della fattoria; tutto quello che poteva coltivare poteva essere venduto – o almeno cosí sembrava. Il risultato fu che la fattoria iniziò ad espandersi. Comprò altre piccole fattorie, affittò terreni, vendette terra, ripulí terreni, fino a che non giunse il momento in cui non aveva più un’idea precisa di quanto possedesse. Alla fattoria che si espandeva corrispondeva l’ampliamento della casa. Nehemiah non aveva mai cambiato la disposizione dei suoi campi, essendo circondati da muri in pietra, ognuno diverso dall’altro per suolo e pendenza. Ma Pliny, usando palizzate in legno, poteva cambiare i suoi campi a piacimento, e quando acquistò grandi macchinari trainati da cavalli, riuní molti piccoli appezzamenti in pochi ma grandi. Ancora, la pianta flessibile della fattoria sembrava lo specchio della pianta flessibile della casa. Fin dal principio, Pliny non capiva la logica di avere tante terre diverse; aveva naturalmente voluto quanto di meglio si potesse permettere, ed una topografia uniforme era certamente più pratica per una coltivazione uniforme. Non credette mai alla convinzione di Nehemiah, che anche il fazzoletto di terra peggiore e meno fertile servisse a qualche scopo imperscrutabile nel disegno globale dell’esistenza. Passò molto tempo a pensare a come cambiare la fattoria ed aumentare il raccolto, rendendola cosí impersonale ed efficiente, oltre che più facile da vendere ad un altro contadino. È sfortunatamente vero che Pliny cancellò dalla fattoria, caratteristiche come la varietà e la collaborazione sociale, e la fece sembrare più un luogo di lavoro che un ambiente tradizionale; ma sarebbe sbagliato dire che

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non la amasse. Probabilmente non ebbe mai quella oscura sensazione di Nehemiah, di essere legato da un rapporto di fratellanza con un particolare appezzamento di terra. Pliny era indubbiamente più cinico. Tuttavia, lui e Matilda e i figli provavano un tipo di amore diverso, che i loro predecessori non avevano mai conosciuto. Apprezzavano ciò che in quei tempi veniva chiamato il grandioso spettacolo della Natura. Pliny andava a cavallo, cacciava e pescava nelle parti più remote della campagna, i suoi figli giocavano nei boschi e nei torrenti e, attorno alla casa, Matilda aveva piantato un piccolo bosco di robinie ed un giardino romantico di fiori selvatici e vigna. Appartenevano ad una generazione che credeva che, da un rapporto diretto con la Natura, potesse venire solo del bene; come Thoreau, consideravano l’Uomo quale parte della Natura, piuttosto che un membro della società. Mai assiduo frequentatore della chiesa, ma sempre fedele, a Pliny piaceva dire che Dio poteva essere pregato nella grande e selvaggia natura, senza il bisogno di un predicatore. Come riportava uno dei manuali degli emigranti (senza dubbio per rassicurare quei pionieri che erano abituati ad andare a Messa), “La campana che annuncia la Messa non viene udita nella vastità della nuova terra, e né l’organo, o l’inno, né il coro. Ma esiste musica nel silenzio profondo... Egli è senza dubbio in un Tempio non costruito con le mani.” La Famiglia Come Società Naturale: È difficile realizzare che sia mai esistito un tempo in cui i sentimenti fossero nuovi. Un secolo fa, tutto questo, non solo rappresentava un nuovo approccio verso l’ambiente, ma un’esperienza religiosa semplificata. Pliny amava il mondo della natura intoccata per la stessa ragione per cui Nehemiah ne era terrorizzato: gli permetteva un contatto diretto e personale con la realtà. Nehemiah aveva preferito mantenere, tra se e la fonte di saggezza, una gerarchia basata sulle Scritture e sul clero. A Pliny piaceva immaginare che lui e Dio fossero separati da poco più che un sottile velo delle apparenze. Lo stesso sentimento ispirò il suo concetto di vita domestica ideale. Ricordando la sua famiglia a Jerusha, forzatamente subordinata alle leggi del Vecchio Testamento e all’autorità patriarcale, decise di pensare la famiglia nella fattoria di Illium come un gruppo felice di liberi individui, tenuto insieme da interessi ed affetti comuni, una società meravigliosamente naturale, indipendente dal mondo esterno e non viziata da preconcetti. Quando invecchiò, Pliny ebbe di tanto in tanto il sospetto che la casa e la fattoria non fossero più in armonia tra loro. Le vecchie abitudini domestiche erano state abbandonate da tempo, ed un contatto sempre maggiore

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con l’economia nazionale, una dipendenza crescente dalla manodopera e da servizi semi-professionali, tutto contribuiva a mettere in pericolo l’unità e l’auto-sufficienza precedente. Ma fino alla sua morte, nel 1892, Pliny considerò la famiglia come la fonte di ogni virtù che ammirava: frugalità, semplicità ed indipendenza. Il libero contadino americano era il più nobile degli uomini, e pensare di lasciare la fattoria significava rischiare di perdere l’identità. La sua soluzione a qualsiasi problema, sia domestico che agricolo, era “aggiungi un’altra stanza” o “compra altra terra.” Insistette per una sepoltura domestica (l’ultima nella nazione), quale una sorta di investimento finale nella terra, un ultima semina. Non aveva dubbi che il futuro sarebbe stato proficuo per tutti. Non gli sarebbe mai passato per la testa che i suoi nipoti, non appena morí, avrebbero abbandonato la fattoria. Comunque lo fecero. Non potevano più apprezzare il tipo di vita che Pliny aveva preparato per loro. Volevano meno routine, più divertimento; non provavano nessun orgoglio nel possedere una grande fattoria e avere poco denaro in tasca, ed erano annoiati della loro identità di proprietari terrieri indipendenti. Presero rapidamente la loro strada, e la fattoria venne poi acquistata da un immigrante con quattordici figli, che coltivava cipolle, acri e acri di cipolle. Lo stile di vita di Pliny morí con lui, ma il fantasma di Pliny, e la casa di Pliny, continuano ad esserci. Per molti americani di città rappresentano ancora un’ideale nazionale. Il Giorno del Ringraziamento passato nella cucina di Pliny, pescare nel vecchio laghetto della fattoria di Pliny, Pliny stesso dietro un paio di cavalli da tiro, sono ora la pubblicità di birra, frigoriferi e della “Libera Professione”. Ma la famiglia Tinkham (che doveva sapere che cosa si lasciava alle spalle, e perché) si è trasferita da lungo tempo, e la persuasione della pubblicità, degli scrittori e dei politici non può farli ritornare alla fattoria vicino a Illium. III. Il Trasformatore di Ray L’ultima casa dei Tinkham non è ancora finita. È in costruzione a Bonniview, in Texas. Ray Tinkham spera di finirla in primavera. Nel frattempo lui e Shirley e i due figli, Don e Billie-Jean, stanno ancora vivendo nel ranch con il Vecchio. Il Vecchio, anche se vedovo, non vuole lasciare la casa di un piano e mezzo, con la grande veranda che costruí all’inizio del secolo. Si trova nel mezzo del bosco di pini neri che lui e sua moglie piantarono pensando al bosco di robinia intorno alla casa in Illinois. Cosí starà lí fino alla morte. Lui e Ray hanno un accordo scritto secondo cui il Vecchio dà da mangiare ad un certo numero di manzi, mentre

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Ray pensa alle colture. Una volta era un ranch di bestiame, ma dopo aver scoperto una grande riserva d’acqua nel sottosuolo, Ray pensa di coltivare grandi campi a grano o cotone o sorgo, a seconda del mercato. Per tutto l’ultimo mese i bulldozer di una ditta di costruzioni hanno livellato parte dell’appezzamento, sistemando le pendenze, costruendo silos e canali per l’irrigazione, installando pompe. “Sembra un altro posto”, dice il Vecchio mentre guarda il paesaggio geometrico nuovo di zecca. Spesso si chiede come venga finanziata l’impresa – e fa bene a farlo, perché Ray Tinkham ha pochi soldi e non c’è quasi istituto di credito agricolo, pubblico o privato, che non sia in qualche modo coinvolto. Ma Ray non è preoccupato, ed il Vecchio si fida di suo figlio. Adesso, è il periodo morto dell’anno, e ogni pomeriggio i due uomini ed il figlio maschio di Ray, Don, e di tanto in tanto un vicino, vanno a lavorare alla nuova casa di Ray. È costruita con i migliori blocchi di calcestruzzo, trasportati da un camion per qualcosa come duecento miglia, e sono assolutamente l’ultimissima novità in convenienza e costruzione moderna. Deve avere un tetto piatto ed un solo piano, senza pretese artistiche, ma progettata intelligentemente. Si trova su di un’altura spoglia, alla periferia della città. Ci arriva l’acquedotto, naturalmente, cosí come le condutture del gas municipali. Ray ha comprato quattro lotti di speculazione quando ha lasciato la Marina. Dalla grande finestra del soggiorno si vedrà il panorama della prateria e parte di una strana formazione rocciosa nella valle sottostante. Sarà anche possibile vedere un angolo del ranch, dodici miglia più in là; la polvere sollevata dai bulldozer è perfettamente visibile quando il vento tira nella direzione giusta. Pensando alla Casa: Dodici miglia è una distanza ideale. Significa che Ray può uscire dalla sede generale (come chiama il vecchio ranch) in meno di venti minuti, col suo furgone, e lasciarsi il lavoro alle spalle alla fine della giornata. Se i giovani Tinkham avessero dovuto continuare a vivere nel ranch, i figli avrebbero dovuto prendere l’autobus per andare alla scuola di Bonniview, e nonostante ciò, avrebbero comunque perso il gioco del dopo-scuola. Ora saranno in grado di camminare per i quattro isolati che li dividono dalla scuola, e la madre potrà essere vicina alle amiche dopo i viaggi quotidiani al supermercato. Potrà andare a bere un caffè da ognuna di loro. Ray approva tutti questi cambiamenti e conta i giorni che rimangono finché lui e Shirley e i figli avranno la loro casa. Ha perfino messo su, alla meglio, una cornice, per indicare dove sarà la grande finestra, e Shirley non si stanca mai di guardarci attraverso, verso il

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panorama delle praterie infinite e la strana formazione rocciosa poco più in là. Ray, che si è diplomato ad una scuola agraria, fa finta di non sapere niente della progettazione di una casa e lascia quasi ogni decisione alla moglie. Una mossa molto saggia, perché non solo Shirley si è letta ogni rivista di arredamento sul mercato, ma ha idee pratiche tutte sue. Vuole che la casa sia informale e non troppo grande; facile da mantenere, facile da vivere, accogliente e confortevole. Stili ed epoche non hanno nessun significato per lei, e siccome il posto sarà adeguatamente riscaldato a gas, suggerisce che risparmino soldi facendo a meno del caminetto e del camino. A quanto pare, è cosciente del ruolo che la casa può avere nella vita di una famiglia, senza pensare a quello che rappresentava nel passato. Sa che, una volta insediati nella nuova casa, i figli passeranno la maggior parte del tempo da qualche altra parte e la loro crescita dipenderà poco dalla casa o dalla madre. Darà loro un letto e la colazione, dopo di che li manderà a scuola, e nel tardo pomeriggio torneranno in tempo per mangiare, dopo aver imparato dai loro insegnanti come cucire, come essere educati, come lavarsi i denti – conoscenze che Shirley stessa aveva acquisito dai suoi genitori. Eventualmente i due figli lasceranno la casa insieme, e la loro madre ha già deciso che cosa fare delle loro camere quando accadrà. Ray, per principio, non ha mai portato del lavoro a casa, e lascia perfino i libri di contabilità del ranch da un esperto ragioniere di Bonniview. Per la nuova casa, Shirley pensa ad un piccolo spogliatoio, attaccato al garage, dove suo marito possa lavarsi e cambiarsi dopo il lavoro. Non pensa che la casa debba essere dedicata esclusivamente ai suoi interessi, anche se la famiglia la considera come il capo; senza dubbio si preoccupa come gli altri di ridurre le sue funzioni domestiche e di rendere la casa più una comodità che una responsabilità. Vuole il maggior numero possibile di accessori che si possano permettere; vuole una lavapiatti, un tritarifiuti e un inceneritore inserito a muro in cucina; vuole un termostato per la temperatura e l’aria condizionata. Vuole una lavatrice. Di fronte a queste richieste e alla riluttanza di Shirley di avere un prato o un orto – “Chi lo innaffierebbe?” – o un salotto separato per gli ospiti – “È solo un’altra stanza da pulire e significa fare da mangiare per più persone.” – Ray è tentato di chiedere che cosa si aspetti di fare con il suo tempo libero. Ma conosce già la risposta; sarà fortunata ad avere due ore libere al giorno; e Ray stesso pensa al tempo libero – tempo passato lontano dal lavoro quotidiano – come ad una cosa molto piacevole, anche se non sa esattamente dire perché, e sa che Shirley non è pigra, che la casa non deve monopolizzare il suo tempo. Non è abbastanza importante per questo.

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Le Funzioni della Casa: Ha ragione. Sarebbe assurdo parlare della nuova casa dei Tinkham come un’istituzione, quando ha cosí poco significato permanente. Che importanza per esempio può avere, per guadagnarsi il pane quotidiano, quando si trova a dodici miglia dal posto di lavoro? La sua funzione educativa diventerà sempre più debole, di anno in anno; anche i compiti ormai si fanno all’interno delle scuole pubbliche di Bonniview, e l’educazione è lasciata in gran parte nelle mani degli insegnanti. Chiunque si ammali va in ospedale, perché la medicina moderna richiede l’uso di equipaggiamenti tecnici complicati. Quale prestigio sociale avrà la casa che Ray si sta costruendo? Né lui, né Shirley, hanno pensato a fattori sociali o ad un certo snobbismo quando hanno scelto il luogo; la convenienza era tutto quello che importava. Prima o poi saranno pronti per un vialetto pavimentato di fronte alla casa, ma un giardino costoso, e che richiede tempo, viene da entrambi considerato superfluo, fino a che non sapranno quanto a lungo vivranno lí. Anche se i Tinkham hanno ambizioni sociali come chiunque altro a Bonniview, sanno istintivamente che il loro status dipende più dal circolo a cui appartengono, dalla macchina che hanno, dai vestiti che indossano, che dalla loro casa e dal suo arredamento. Non si fanno nessuna illusione riguardo al vivere per tutta la vita in quella casa che stanno costruendo. Non pensano di passare la loro vecchiaia in quella casa, ancora meno, che i figli la abbiano in eredità e vi abitino dopo la loro scomparsa. Per quanto riguarda la vita familiare che il Vecchio conosceva in Illinois – leggere a voce alta, la Bibbia, i giochi, grandi cene per le feste, serate invernali in soggiorno e cosí via – il solo menzionarle rende Shirley nervosa. L’unico momento in cui la sua famiglia passa del tempo libero insieme – tranne che per veloci cene – è quando sono in macchina. E quando i figli stanno a casa, vanno nelle loro camere separate, a guardare i loro programmi preferiti sulle loro TV portatili. La casa dei Tinkham non avrà una libreria permanente per un’eredità letteraria comune; un fiume senza fine di giornali e riviste, raramente letti, passerà attraverso il soggiorno. Il Vecchio si rammarica che i bambini non abbiano un’educazione religiosa; Shirley ha mai provato a leggere loro la Bibbia? “Per carità, Papà! Ray ed io non andiamo mai in chiesa, perché dovrebbero farlo i bambini?” Se questo deve essere il nuovo status – o la mancanza di status – economico, sociale e culturale della nuova casa dei Tinkham, che cosa la distinguerà da un motel, a cui in effetti promette di assomigliare almeno all’esterno? Principalmente questo: è l’unico posto dove certe esperienze, certe energie, vengono collezionate e trasformate per il beneficio del gruppo. È chiaro

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dalla stessa progettazione della casa: è coscientemente pensata per “catturare” il sole, il vento, il panorama, filtrare l’aria, il calore, la luce – anche la distanza, attraverso la grande finestra – trasformando e rendendo tutto questo accettabile per chiunque. La cucina è essenzialmente un meraviglioso dispositivo elettrico, che trasforma materiale grezzo o semi-grezzo in cibo; il soggiorno è il televisore, che trasforma gli impulsi elettrici in divertimento; lo spogliatoio trasforma Ray da lavoratore ad una persona differente. L’intera casa esiste non per creare qualcosa di nuovo, ma per trasformare quattro individui separati in un gruppo – anche se per poche ore alla volta. In una parola, la casa dei Tinkham è un trasformatore, e la proprietà dei trasformatori è che non aumentano né diminuiscono l’energia, ma la cambiano di forma. Non serve chiedersi che cosa questa casa riceverà dalla vita dei suoi abitanti, o come vi contribuirà. Non impone nessun codice di comportamento o nessuna regola standard; non si aspetta onestà che possa essere in conflitto con l’onestà nei confronti del mondo esterno. Nessuno potrà parlare della “tirannia” della casa dei Tinkham, o delle sue qualità domestiche irripetibili. Nessuno dei due figli la assocerà mai, con repressione o sentimentalismi, al pensiero dei vecchi tempi nella casa di Bonniview. Però serve al suo scopo. Filtra la crudezza della natura, l’anarchia della società, e produce un’atmosfera temporanea di benessere, dove l’energia può venire raccolta per tornare a contatto con l’esterno. La Funzione della Fattoria: È senza dubbio significativo che la casa debba trovarsi deliberatamente a qualche distanza dalla fattoria e che non debba avere nessun rapporto con le sue attività. Ci sono alcune somiglianze, tuttavia, tra la fattoria che Ray sta creando e la casa ancora in costruzione. Entrambe, ovviamente, non si curano della forma e organizzazione tradizionale, ed il paesaggio che Ray eventualmente produrrà sarà tanto funzionale quanto la casa che sta costruendo. Ma cosa pensa della sua fattoria? La pensa, cosí come faceva Nehemiah, come un frammento della creazione universale, che deve mantenere, trarne supporto, e tramandare alla prole? O come Pliny, come un organismo in espansione, la vittoria dell’individuo sulla Natura? Considera il suo prodotto come la ricompensa di Dio per il lavoro compiuto bene e fedelmente, o come una parte di un’impresa senza limiti offerta, da una Natura benevolente, a coloro che ne comprendono le leggi e vi obbediscono? Nessuno dei due; Ray è il primo dei Tinkham a dubitare della generosità senza fine della Natura, il primo di dieci generazioni a credere che la fattoria possa e debba produrre molto di più che nel pas-

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sato, che molta dell’energia sprecata possa essere utilizzata. Nehemiah, che risparmiava ogni spicciolo e che mai faceva debiti senza prima esaminarsi l’anima, negherebbe che Ray abbia qualsiasi senso dell’economia; si rivolta nella tomba al pensiero dei mutui, pegni e indebitamenti, e dei pochi soldi nella banca di Bonniview. Ma Ray sa qualcosa che Nehemiah non ha mai saputo e che Pliny non raggiunse: che il lavoro, il tempo e il denaro sono interscambiabili, e che la fattoria serve solo a trasformare ognuno di questi tipi di energia in un’altro. Che cosa implica questa conoscenza di Ray? Nehemiah era cosciente del fatto che il suo occasionale surplus della piccola fattoria potesse essere convertito in monete, ma non riconvertiva mai quelle monete nella fattoria. Pliny, che vendeva la maggior parte dei suoi prodotti al mercato, sapeva che per guadagnare denaro da una fattoria bisognava mettere denaro dentro di essa. Tuttavia non calcolò mai il valore del suo lavoro o di quello dei suoi figli, non teneva mai il conto del latte, delle uova e della carne che serviva alla famiglia. Si rifiutava di distinguere tra la famiglia e la fattoria; erano un tutt’uno. Infine non gli capitava mai di prevedere il costo di certi miglioramenti da ammortizzare con raccolti più grandi o spese minori. Se il prezzo del frumento era basso, perché spendere soldi in fertilizzanti? La fattoria, come la famiglia, non era qualcosa a cui pensare in termini di dollari e cent. D’altro canto, Ray sta organizzando la sua fattoria in maniera totalmente differente. La intende come uno strumento per una veloce ed efficiente conversione di energia naturale, nella forma di fertilizzanti chimici, o acqua, o carburante per il trattore, o ore lavorative, o qualsiasi altra cosa, in energia nella forma di denaro, da spendere o da investire – in energia economica, in una parola. Esistono ancora alcuni rancher alla vecchia maniera, vicino a Bonniview, che accusano il giovane Tinkham di pensare solo ai soldi. Coltivare, dopo tutto, è uno stile di vita, dicono, e la scienza e le nuove idee possono portare troppo lontano. Pensano che se non fosse andato alla scuola agraria, ma avesse lavorato con suo padre, sarebbe più rispettoso nei confronti del vecchio ordine. L’Identità della Casa e della Fattoria: Ray considera queste critiche inappropriate. Non è lui che ha inventato questo tipo di agricoltura; la sua è una volontà di accettare determinate correnti di mercato. La manodopera è costosa e difficile da ottenere, quindi ha dovuto meccanizzare e riorganizzare le sue operazioni. La meccanizzazione è costosa su un piccolo appezzamento irregolare, quindi deve ampliarsi e rischiare sui risultati. Il

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mercato fluttua, quindi deve essere pronto a convertire la fattoria in colture più proficue, o venderla ad un buon prezzo e andarsene. La fattoria non è un’unità economica auto-sufficiente, dipende dal mondo esterno, quindi deve assicurarsi buone strade e trasporti efficienti. Dunque, la nuova fattoria riproduce molte delle caratteristiche della nuova casa: accessori, organizzazione efficiente e semplificata, adattabilità ai cambiamenti, e dipendenza dalla prossimità ad una economia complessa, ai mercati, super o no. Come qualsiasi altra casa nell’America rurale, quella dei Tinkham, nei materiali, tecniche di costruzione e posizione, non ha nessun rapporto organico con l’ambiente – clima o topografia o suoli. La fattoria dei Tinkham è, naturalmente, qualcosa di nuovo, e la sua efficienza deve ancora essere provata. Ma anch’essa è abbastanza indipendente dal paesaggio semi-arido del Sud-ovest che la circonda. Ray ha cambiato la topografia, sicuro di se stesso; l’abbondanza di acqua per l’irrigazione porta ad un cambiamento del clima, ed il suolo – che anche suo padre aveva sempre pensato fosse un fattore costante – viene alterato e migliorato in una varietà di maniere efficaci. Non c’è bisogno di dire nient’altro a proposito del ruolo culturale infinitesimale che la casa ricopre per la famiglia Tinkham, ma vale la pena notare che la fattoria è, se mai fosse qualcosa, ancora meno importante a questo riguardo. Nei giorni in cui il Vecchio gestiva il ranch e aveva diverse famiglie di lavoratori che abitavano all’interno dei suoi confini, c’era qualcosa come un senso di unità tra di loro, e c’era un distinto stile di vita. I pochi lavoratori di Ray sono pagati bene e trattati bene, ma vengono e vanno come operai in fabbrica e pensano al loro capo come ad una entità astratta chiamata Tinkham Land Development Company. E, infatti, Ray si paga un salario da manager. Due pony nel recinto aspettano che Don e Billie-Jean li cavalchino. Quando la fattoria è in funzione saranno cavalcati solo nei fine- settimana ed in certe aree. Ray è stato chiaro nel dire che la fattoria non è un posto in cui Don possa giocare a fare il contadino o il rancher: “Se vuole imparare il mestiere dovrà andare alla scuola agraria come ho fatto io, e studiare chimica ed ingegneria e ragioneria.” Comunque, Don, al momento, vuole diventare un pilota di aerei. Il ranch non assorbirà ogni ora lavorativa di Ray. Spera che giunga il tempo in cui sia in grado di badare a se stesso, non solo per una notte, ma per settimane intere, mentre lui, Shirley ed i bambini, vanno a trascorrere le vacanze invernali in California. Sogna anche di avere una piccola attività in paese che lo tenga occupato. Al momento ci sono solo due operazioni che non delegherebbe a nessuno: la preparazione del terreno e la semina, e l’in-

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vestimento finanziario. La falciatura dei campi è già stata assegnata ad una ditta itinerante, che dispone di propri macchinari, e per diversi mesi all’anno i manzi del Vecchio saranno lasciati liberi al pascolo. In un certo senso tutto ciò che interessa Ray sono le prime e le ultime operazioni – l’energia che va nel suolo nel piantare e fertilizzare, e l’energia che ne viene fuori in denaro. Come fa lui, ed il resto della famiglia, a non pensare alla nuova fattoria essenzialmente come ad un impersonale ed inflessibile strumento di trasformazione? Come fa lui, e il resto della famiglia, a non essere indifferente agli aspetti tradizionali dell’agricoltura? La fattoria di Bonniview non è, e non può essere, uno stile di vita. Non è neppure proprietà negoziabile (Ray può a malapena dire che gli appartenga); è un processo, un processo secondo cui l’erba viene convertita in carne, nitrogeni in grano, dollari in gasolio e di nuovo in dollari. L’Identità di Ray: Sarebbe probabilmente giusto dire che Ray non è affatto un contadino, cosí come la sua casa non è una fattoria. Ray sarebbe il primo a essere d’accordo. In ogni modo esiste un legame, tra lui e la terra, che non può essere completamente ignorato. Egli stesso è soggetto alle medesime forze (o come le vogliamo definire) che hanno modificato cosí drasticamente il concetto della fattoria. Da un lato, l’identità di Ray, cosí come l’identità della terra, è diventata instabile e soggetta a rapido cambiamento in maniera allarmante. Il suo lontano antenato Nehemiah (o colui di cui non ha mai sentito parlare) è rimasto fedele alla sua identità di piccolo proprietario terriero per tutta la vita – e morí credendo che un giorno sarebbe resuscitato e tutto sarebbe rimasto come prima. Ma per qualche motivo, Ray è contrario a qualsiasi tipo di etichetta permanente. Non si definirebbe un contadino, per esempio; dice che è occupato in agricoltura. E chi può dire cosa starà facendo, da qui a dieci anni, quando l’avventura di Bonniview si sarà conclusa in successo o fallimento? Direttore di una ditta di trasporti, scavatore di pozzi petroliferi, proprietario di un’agenzia di macchine per l’agricoltura? Ha già pensato ad ognuna di queste possibilità. Incoraggia i suoi impiegati, cosí come i suoi figli, a chiamarlo per nome, come se fosse riluttante a qualsiasi status pubblico. Probabilmente spiegherebbe questa sua avversione per una permanente identità economica e sociale dicendo che vuole solamente essere se stesso. Ma anche quell’identità rifiuta una definizione, cosí come accade a sua moglie Shirley, anche se in maniera minore. Ray ride ai suoi incessanti tentativi di essere diversa – ora biondo-platino, ora una indiana con un taglio di capelli a barboncino; segue diete, ordinazioni postali nel “Saggezza dell’Ovest”, ve-

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ste in pantaloni e stivali da cowboy e poi ritorna alla femminilità – non esiste noia quando Shirley sta cercando di sviluppare una nuova personalità. Ma, allo stesso tempo, Ray non è sempre sicuro di se stesso. Molto più intelligente, molto più sensibile che il primo Tinkham americano, non ha ereditato niente della severa integrità e autocoscienza di Nehemiah. È facile per lui perdersi, come si dice, e diventare una persona totalmente diversa: in una contrattazione, o dopo due o tre bicchieri, o al vedere un incidente mortale. “Dovevi vederti al cinema”, dice Shirley mentre tornano a casa, “eri seduto lí, al buio, a imitare ogni singola espressione facesse sullo schermo Humphrey Bogart.” Ray non conosce la differenza tra ipnotismo e amnesia, ma gli piace parlarne; gli piace leggere romanzi di fantascienza con lavaggi di cervello, controllo mentale e identità trasmutate. “Non è scientificamente impossibile”, dice, e pensa a come lui stesso stia radicalmente cambiando la faccia della terra a piccola scala. Pensa alla nuova casa, ancora incompleta, pronta a cambiare di forma, di proprietari, di funzione, con un solo giorno di preavviso. Bonniview non e più immune alle forze spirituali di quanto non fossero Illium e Jerusha. Ray non è meno affascinato dal tentativo di conoscere la verità di quanto non fossero Nehemiah e Pliny. Se ha incoscientemente distrutto l’ordine che suo padre aveva stabilito, e ha trasformato la sua casa in qualcosa di molto diverso, molto più libero, in molte maniere molto più povero, è principalmente perché voleva eliminare qualcuno dei passaggi intermedi tra la realtà e se stesso, cosí come cercarono di fare i suoi predecessori. Vede questa relazione alla sua maniera: vede se stesso non come un figlio di Dio che vuole imparare l’ordine paterno, non come il figlio della Natura che segue l’ispirazione, ma come un efficiente ed affidabile strumento per trasformare il potere invisibile che è in lui in un potere che possa usare nel mondo che conosce.

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L’abitazione mobile e come arrivò in America

da: J.B.Jackson, Vernacular Landscape Yale University Press, New Haven and London, 1984, pp. 89-101.

L’origine di una parola spesso ci illumina sull’uso che ne facciamo. Prendiamo la parola “abitazione”. Se la usiamo come sostantivo – se intendiamo per abitazione la casa – dovremmo dire “luogo di abitazione”. Il verbo “abitare” ha un significato preciso. Da un lato significa “esitare”, “indugiare”, “attardarsi”, per esempio quando diciamo “sta indugiando troppo su cose insulse”. Abitare significa semplicemente prendersi una pausa, stare in un posto, per un indeterminato periodo di tempo; resta implicito che, eventualmente, ci sposteremo. Quindi il “luogo di abitazione” dovrebbe essere inteso quale temporaneo. L’esserci dipende da numerosi fattori esterni. Per quanto tempo dobbiamo rimanere in un posto per chiamarlo “abitazione”? Potrebbe sembrare una domanda di poca importanza, tuttavia ritengo dovremmo cercarne una risposta. Io direi che vi dobbiamo rimanere sufficientemente a lungo perché la nostra presenza diventi consueta. Un luogo diventa “dimora” quando è parte del nostro comportamento consueto. Rimanervi per una, due o tre notti non è sufficiente. Ma quando vi restiamo, perché abbiamo un lavoro fisso o siamo studenti, allora diventa un elemento della consueta, abitudinaria vita di tutti i giorni. Questa maniera di definire la parola, nasce dall’uso del verbo abitare in altre lingue. In Inglese (difficile saperne la ragione) diciamo “vivere” in un posto. Sia il francese che il tedesco usano l’equivalente del verbo abitare in maniera implicita. In francese non si dice “Où vivez vous?”, ma “Où habitez vous?”. Cosí come in tedesco non si dice “Wo leben Sie?” ma “Wo wohnen Sie?”. Entrambe le espressioni implicano un’azione abituale e, naturalmente, entrambe sono strettamente legate alle parole equivalenti a “consuetudine” o “abitudine”: habitude e Gewohnheit. Tale uso suggerisce un certo distacco dall’abitazione. Abitudini e consue145


tudini sono ovviamente importanti, e spesso molto piacevoli, ma non le consideriamo come i veri valori alla base della nostra esistenza. Ne derivano, sono acquisiti, ma ce ne possiamo sbarazzare quando ne diventiamo stanchi. E questo è vero anche nella dimora contemporanea. Comunque possa essere confortevole o conveniente, sappiamo che può arrivare il momento in cui pensiamo sia saggio cambiare: questo è forse il momento più propizio per vendere. Forse un nuovo lavoro richiede un trasferimento, o il quartiere sta peggiorando, o i figli sono cresciuti e hanno preso la loro strada. Allora andiamo alla ricerca di una nuova abitazione; e siccome ad altre persone accadono le stesse cose, un’altra abitazione che ci soddisfi non è difficile da trovare. Ciò che sto suggerendo è che la casa e l’abitazione sono due cose separate, anche se solitamente coincidenti. Questa è constatazione ovvia ad ogni americano, ma credo che un tempo non si facesse questa distinzione. Tutto questo mi porta ad una seconda parola. Chattel, un oggetto di proprietà personale che si può spostare, è in relazione a cattle (bestiame, N.d.T.) e a capital (capitale, N.d.T.), ma la relazione con cattle è la più antica delle due. In tempi remoti della storia romana, tutta la terra e tutto il potere era nelle mani di una famiglia, o clan, o tribù. Le sole cose appartenenti alla proprietà privata individuale erano pochi capi di bestiame, che il capofamiglia faceva pascolare su terra pubblica. Ciò che rendeva tale proprietà preziosa era il fatto che potesse essere gestita senza il permesso della comunità. Il bestiame poteva essere arricchito in numero, comprato e venduto, ceduto a piacere a qualsiasi figlio o figlia. Il bestiame era commerciabile, e poteva essere convertito in denaro, ed il motivo di ciò era la sua mobilità: il bestiame poteva essere spostato. Godeva quindi di due libertà molto importanti: libertà dall’autorità locale e libertà da restrizioni territoriali. Nel corso dei secoli seguirono molte altre definizioni di chattels: nel Medioevo l’abitazione era chiamata chattel in determinate situazioni. Ciò significava che se ne poteva disporre indipendentemente dalla terra a cui era spesso strettamente legata. Se, nel caso di eredità, un uomo era legalmente costretto a lasciare la sua terra al figlio primogenito, egli poteva, di sua volontà, lasciare l’abitazione alla vedova o alla figlia, oppure alla chiesa. Egli poteva anche spostarla in altro luogo. Ma questo non succedeva per tutte le abitazioni: solitamente solo quelle più modeste, quelle costruite in legno, potevano essere staccate dall’attività agricola. La fattoria o la proprietà non

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potevano essere cedute in quanto dovevano passare ai figli. Il concetto che l’abitazione fosse indipendente dalla terra sui cui poggiava, e fosse legalmente (e letteralmente) mobile, generò un tipo di abitazione ben distinto, specialmente in paesi e città: case che venivano costruite per essere cedute in affitto, o usate in modo da ricavarne profitto. Tendevano ad essere costruzioni semplici ed uniformi. Possiamo pensare a quelle antiche unità d’affitto, come l’equivalente medievale della roulotte contemporanea, e non solo per la loro mobilità, ma anche per la loro standardizzazione e costruzione, oltre che all’attrazione che suscitavano nei riguardi della classe lavoratrice con un’occupazione nelle vicinanze. Tuttavia, fin dai tempi più remoti, esistevano due tipi di case. Quella che qui chiamiamo “abitazione” era naturalmente molto più numerosa, ma è l’altro tipo che gli storici dell’architettura conoscono meglio. In termini molto semplicistici, possiamo dire che questo secondo tipo era, per vari motivi, l’esatto opposto del primo. Veniva identificato, nel corso di varie generazioni, con una famiglia, al punto che, un’altra parola per “dinastia” fosse casa (come la casata dei Windsor, o la casata dei Rothschild). Essa era il più grande e il più stabile possibile, in quanto simbolo di potere all’interno della comunità. Non era raro che le municipalità prescrivessero le grandi dimensioni e la progettazione architettonica delle case dei ricchi e potenti, e insistessero sulla necessità di un loro aspetto maestoso. Inoltre, queste case dovevano avere particolari elementi che indicassero chiaramente lo status delle famiglie che le abitavano: la presenza di una torre o di una segreta significava che il proprietario era un giudice di un certo tipo all’interno della Corte di Giustizia. Non devo aggiungere molto altro a proposito di queste case, tranne che ripetere che erano costruite in pietra. Entrambe le parole manor e mansion (maniero e palazzo, N.d.T.) derivano da una radice che significa duraturo, resistente e, nel Galles, la parola per questo tipo di casa, sia essa un maniero o una ricca casa colonica, includeva la parola stone. La storia dell’architettura ha naturalmente molto da aggiungere a proposito di queste case, rispetto all’abitazione del contadino o del lavoratore. Da un lato il cosí detto palazzo è stato ben mantenuto dalla sua famiglia, e la sua storia è documentata. Dall’altro, i vari elementi simbolici (la torre, la segreta, il fossato, la corte, l’entrata cerimoniale) sono diventati parte dello stile architettonico. Ma la differenza più sorprendente è questa: mentre la comune abitazione non ha molte possibilità di essere mantenuta e preservata per il futuro, il palazzo non soffre di tali problemi.

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È allo stesso tempo un monumento alla storia della famiglia, del suo potere e della sua ricchezza, ed una eredità che sarà onorata e preservata dalle future generazioni. Molta della storia dell’architettura domestica occidentale, specialmente in America, può essere scritta mettendo in contrasto questi due tipi di case. Esiste chiaramente una differenza tra il modo di pensare di una famiglia ricca e potente e quello di una famiglia in costante ricerca di lavoro, o con un lavoro ma costantemente in movimento. Esiste anche un’ovvia distinzione, a parte la questione sociale, tra due maniere di onorare il passato ed il futuro, di pensare alla storia. Ma la distinzione che trovo più interessante, in America, è molto più semplice: la differenza tra una casa costruita per durare, costruita come presenza permanente nel paesaggio, e la casa costruita per essere abitata per una generazione o meno, la casa che assolve una necessità temporanea nella vita di coloro che la occupano. In altre parole, ciò che penso valga la pena studiare è l’alterna fortuna della pietra e del legno quali materiali costruttivi; in particolare, lo scarso uso di legno nell’Europa medievale, il suo quasi totale rifiuto durante il Rinascimento, e il suo trionfante riemergere in America. Dovremmo esplorare lo sviluppo dell’abitazione e come giunse alla casa standard, parte della vita standard americana. La nostra tradizione, nella costruzione della casa americana, proviene dall’Inghilterra del diciassettesimo e diciottesimo secolo, e più propriamente da quella che si può chiamare Europa Atlantica (la regione boschiva europea a nord delle Alpi e della Loira). L’Europa Atlantica includeva quindi la Scandinavia, la Germania, l’Inghilterra, i Paesi Bassi e la Francia settentrionale. Un migliaio di anni fa, nonostante l’influenza dell’Impero Romano, questo era ancora un paesaggio rurale, in gran parte costituito da foreste e brughiere. Era quindi una regione di case in legno, ed una regione dove viveva la cultura del legno. Questa cultura, persiste in America e, in una maniera o nell’altra, la maggioranza degli Americani vi appartiene. Proviamo piacere a coltivare l’hobby della falegnameria e del “fai da te”, riparando strutture che segretamente sappiamo che potranno crollare o incendiarsi da un momento all’altro. Forse proviamo un grande piacere nella qualità temporanea del legno; questo è ciò che lo fa apparire vivo e sensibile.

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Ho il sospetto che sia sempre stato cosí; sembra che abbiamo sempre costruito case rapidamente e con l’idea che possiamo eventualmente cambiarle e migliorarle, oppure abbandonarle. Gli archeologi ci dicono che, sebbene le tecniche di falegnameria medievali fossero molto raffinate nella costruzione di barche, ponti e chiese, la costruzione della casa del contadino medio era sciatta, priva di qualsiasi ricercatezza. Poche erano le abitazioni che dovevano durare più di una dozzina di anni, e non era raro che si incendiasse la propria casa per celebrare una festività. Potevano essere sostituite facilmente. Tutto ciò che era necessario salvare erano i quattro pilastri angolari, le travi, ed i travicelli. I muri di frasche e terracotta, il tetto di paglia, e i pochi mobili, venivano rapidamente riprodotti. Gli Americani si rammaricano che le loro case non possano durare a lungo e, infatti, l’età media dell’Americano è maggiore di quella della casa in cui vive. Nonostante questo, le nostre case durano molto più a lungo di quelle dei nostri antenati medievali. La temporaneità era pertanto la caratteristica principale di quelle antiche costruzioni in legno. Una seconda caratteristica era la mobilità. Era semplice smantellare una casa che fosse poco più di una cruda maglia di una mezza dozzina di travi e pilastri, senza fondamenta, senza pavimento, e senza controsoffitto. Molti testi medievali raccontano di case che venivano spostate dove si trovasse lavoro, o in un fazzoletto di terra lasciato improvvisamente libero. Interi villaggi venivano spostati quando i terreni diventavano sterili o quando erano minacciati da attacchi nemici. L’immagine della famiglia contadina, radicata per generazioni nello stesso luogo, viene modificata dagli storici moderni. Come vedremo, questo era più vero per un contadino del Rinascimento o perfino del diciannovesimo secolo, piuttosto che per il contadino del Medio Evo. Sembra che il contadino dell’Europa Atlantica fosse fedele alla tradizione della casa in legno, anche in regioni dove il legno era scarso e la pietra, o l’argilla, si trovava in abbondanza, e qualcosa di quella fedeltà venne portata in America nel diciassettesimo secolo. Jefferson si lamentava che i Puritani ignoranti rifiutassero le case in mattoni per ragioni di salute, e nel 1795 l’archivista di Salem, William Bentley, annotava che, la casa di un tal Mr. Lee “era stata demolita dal pregiudizio per le costruzioni in mattoni”. Ma la preferenza per il legno non veniva condivisa dalle classi più abbienti. Il clero e l’aristocrazia medievale esprimevano di frequente la loro ammira-

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zione per la pietra. Le classi clericali, che preferivano la pietra e il mattone, erano estremamente colte, e a quel tempo senza dubbio molto influenti. Questa differenza di progettazione architettonica durò fino alla fine del Medio Evo, senza che nessuna delle due tradizioni costruttive prendesse il sopravvento sull’altra. Ma, all’inizio del sedicesimo secolo, la costruzione in mattoni riuscí improvvisamente a prevalere. I due motivi più ovvi, per tale cambiamento, furono il rinnovato interesse per l’architettura classica, ispirata dai viaggi in Italia, e la improvvisa scarsità di legno nell’Europa Atlantica. Molte foreste vennero distrutte da una popolazione in rapida crescita, lo sviluppo delle città richiedeva sempre più legno, cosí come la costruzione di flotte navali e di imbarcazioni commerciali. Infine, vi era una grande richiesta di legno per combustione nelle industrie manifatturiere. Il risultato di questi eventi fu un grande cambiamento nelle tecniche costruttive. Fu a quel punto che iniziò una campagna legislativa per la conservazione: il limite nella quantità di legno che i contadini potevano adoperare per le loro costruzioni, l’uso di differenti tipi di legno e, ciò che era più importante, la sostituzione di strutture in legno con strutture in pietra o mattoni. Sebbene questo processo fosse iniziato con la costruzione di ricercate case di città, esso si estese presto alle case delle cittadine minori e perfino a interi paesi e villaggi. La rivoluzione nella residenza del sedicesimo e diciassettesimo secolo (la quale veniva chiamata dagli Inglesi “La Grande Ricostruzione”, e dai Francesi “La Vittoria della Pietra sul Legno”) ebbe un effetto drastico sull’attitudine nei confronti dell’abitazione. Simone Roux scrive nel suo recente saggio sulla storia dell’abitazione: Era il trionfo della casa in solida pietra, la soluzione mediterranea imposta sul resto dell’Europa. [...] Stavamo ricostruendo in pietra ciò che era stato originariamente costruito in legno e terra. Una casa che pesava da quattrocento a cinquecento tonnellate, la quale doveva durare secoli senza costose manutenzioni, era da quel momento in poi simbolo di permanenza, di solidità, di rassicurante protezione. Assumeva il significato del rifugio completo, il perfetto focolare domestico, o casa, il guardiano di memorie accumulate per generazioni. La casa (in mattoni) legava la famiglia alla terra; la costruzione massiccia richiedeva notevoli sforzi finanziari, rappresentava un grande investimento verso un prestigio permanente. La casa in pietra, idealmente adattata ai bisogni di una società statica, diventò l’obiettivo di innumerevoli piccoli investimenti.

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Nessuno può dubitare che questa trasformazione della residenza sia stata estremamente benefica. La rivoluzione architettonica del sedicesimo e diciassettesimo secolo non ha prodotto solamente città, paesi, palazzi e grandi tenute affascinanti, ma ha anche sostituito le oscure e insalubri case in legno, con residenze in pietra che erano più grandi, progettate meglio, e più luminose. Tuttavia non dobbiamo dimenticare i valori che furono cosí perduti, perché, nonostante il loro squallore, le case dei contadini medievali avevano una significativa flessibilità e mobilità, e non solo perché potevano essere smantellate e ricomposte da qualche altra parte, ma anche perché potevano facilmente cambiare funzione e proprietari. Se la loro vita era breve, ciò portava a frequenti ricostruzioni. Quando la vecchia costruzione crollava, quella nuova era migliore e certamente più pulita. Infine, la natura temporanea dell’abitazione, il suo scarso valore materiale, significava che essa poteva essere abbandonata senza rimorsi, quando la terra diventava sterile, quando vi erano minacce di guerra, o quando il signore locale era troppo oppressivo. La sua precarietà proteggeva la famiglia dal rischio della sedentarietà. Se la gente non poteva combattere la malasorte, poteva perlomeno fuggirne, lasciando la propria casa ed il proprio territorio. Più veniamo a conoscenza della vittoria della pietra sul legno, più una domanda richiede una risposta: anche l’America coloniale camminava sulle orme dell’architettura mediterranea? Naturalmente nel Nord America non c’era nessuna grande opera di ricostruzione, in quanto non c’erano costruzioni, non c’erano tradizioni, tanto per iniziare. Ma è sicuramente vero che alla fine del primo periodo pionieristico, come afferma insistentemente la maggor parte degli storici americani, dalla Virginia fino al Maine, gli ambiziosi coloni iniziarono a costruire un gran numero di case urbane e suburbane nello stile in voga a quel tempo. Tidewater Virginia fu quasi totalmente trasformata dalla nuova filosofia architettonica. I latifondisti del diciottesimo secolo adoravano le massicce costruzioni in pietra o mattoni e, infatti, le autorità londinesi, verso la metà del diciassettesimo secolo, ordinarono che, ogni proprietario terriero della Virginia che possedesse più di cento acri di terra, ne dovesse costruire una di dimensioni prestabilite, e con fondamenta dello stesso materiale. Se possedeva più di cento acri, la residenza doveva essere proporzionalmente più grande. Ciò che rende la storia della regione di Tidewater particolarmente interessante è che essa diventò, molto più che il New England, l’obiettivo preferito di tutti i nuovi progettisti. La strana costituzione che John Locke diffuse dalla South Carolina, negli ultimi anni del diciassettesimo secolo, era basata su una

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organizzazione barocca degli spazi, e la progettazione di Williamsburg era calcata sul modello dell’ordine e della permanenza mediterranea. Ma questi tentativi di riproduzione di un paesaggio rinascimentale nell’America coloniale non ebbero alcun effetto. In Virginia cosí come in New England, la grande maggioranza delle case erano fatte di legno, costruite da dilettanti, e poche di esse erano destinate a durare a lungo. Tra tutti gli storici dell’architettura, Alan Gowans è colui che ha descritto più chiaramente le qualità della architettura americana medievale o tardo-medievale. Penso che la maggior parte di noi sia ora d’accordo con la sua tesi. Le condizioni economiche e sociali delle colonie erano totalmente differenti da quelle europee. L’abbondanza di terra significava che ogni colono era in cerca di un appezzamento di dimensioni sufficientemente grandi e che coloro che non ne erano soddisfatti si trasferivano in posti più promettenti dopo pochi anni. Le immense foreste assicuravano legna per le costruzioni; la mancanza di pietra adatta per la costruzione (come ad esempio in Tidewater Virginia), il costo della produzione o della importazione di pietra e mattoni, e soprattutto la scarsità di abili falegnami e carpentieri, favorirono la produzione di case in legno, messe insieme, spesso, in maniera precaria, che mancavano di fondamenta sufficienti, di materiale stagionato a difesa dalle escursioni metereologiche e di spazio per il deposito. Il risultato era una serie di piccole case in legno, costruite nella maniera più economica possibile, che si potevano facilmente smontare o trasferire, facili da modificare, e progettate in modo da soddisfare le immediate necessità di riparo e rifugio in un paesaggio da pionieri. Ma la vera novità di queste dimore non era che fossero costruite economicamente, e spostate o montate facilmente – queste, d’altra parte, erano le caratteristiche dell’abitazione medievale. La vera novità consisteva nel fatto che, queste case, fossero costruite, occupate ed eventualmente usate, come prodotti qualunque, mercanzia progettata e costruita in modo da soddisfare un mercato preciso. Che tipo di mercato era? Nel diciassettesimo e diciottesimo secolo era un mercato composto da giovani famiglie di lavoratori, che avevano bisogno di un posto dove vivere in un nuovo paesaggio. In quei tempi, si trattava solitamente di una fattoria, anche se in America era un tipo differente di fattoria; non necessariamente una casa permanente, ma semplicemente una terra che una famiglia poteva sfruttare, per un certo periodo di tempo, prima di trasferirsi là dove le prospettive erano migliori: miglior terra, maggiori profitti, migliori vicini.

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Per esempio, nel suo Economic History of Virginia in the Seventeenth Century, P.A. Bruce discute il tipo di casa costruita dai primi coloni: un piccolo, spartano rifugio con muri di tavole messe in verticale o pannelli inchiodati a tavole orizzontali, ed un tetto a falda a chiudere il rettangolo. Solitamente le case avevano due stanze ed una serie di piccole costruzioni separate, fienili e ricoveri per gli attrezzi. Il contadino, o il latifondista, iniziò a coltivare tabacco. Nel giro di due o tre anni il terreno era esaurito e non rimaneva altro da fare che trasferirsi. Bruce cosí commenta: La tendenza di abbandonare le vecchie piantagioni per occuparne altre [...] ha favorito una più veloce distruzione delle foreste, ma allo stesso tempo ha dato inizio ad un atteggiamento di indifferenza nei confronti della maniera in cui queste venivano usate. I [coloni] non recintavano le loro proprietà, non si procuravano terreni per il pascolo, né si preoccupavano di orti e giardini, o di seminare frumento. Quale conseguenza del fatto che gli abitanti avrebbero abbandonato le loro proprietà non appena avessero esaurito la fertilità della terra, molte case erano cosí fragili che [...] petizioni speciali venivano inviate al Governatore perché scoraggiasse in qualsiasi maniera la costruzione di abitazioni cosí precarie. Ciò che possiamo immaginare, da questa descrizione, è la tipica casa in legno malandata nel mezzo di campi abbandonati, che possiamo trovare ovunque nell’America contemporanea; e se conosciamo bene l’America, non ci troviamo niente di veramente triste. La casa abbandonata, nove volte su dieci, è una crisalide dalla quale i suoi abitanti sono felicemente scappati verso prospettive più allettanti. Solo nella Vecchia Guerra, con il suo sogno di permanenza, la casa o il campo abbandonato ci parla immediatamente di tragedie umane. Molte delle caratteristiche essenziali dell’abitazione americana appaiono nella descrizione di Bruce, della Virginia coloniale: la fragilità, per non dire la precarietà, della sua costruzione, la sua temporaneità, l’indifferenza nei confronti del paesaggio circostante, la solitudine e naturalmente il quasi esclusivo uso del legno. Aggiungerei due altre caratteristiche: l’assenza di spazio in casa per il deposito o l’immagazzinamento, e l’assenza di solide fondamenta. Infine c’è una caratteristica che noi tutti diamo per scontata, ma che pochi stranieri possono comprendere: la lontananza di molte fattorie e abitazioni da qualsiasi comunità.

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Ripetiamo la nota storia dell’evoluzione strutturale della classica abitazione americana: non si tratta della casa, o del palazzotto (o qualsiasi cosa essa sia), progettata da architetti, ma il tipo di rifugio in cui vivono la maggior parte degli Americani. Il primo passo è stato la casa a tavole in legno, senza fondamenta, del Sud colonialista. Il secondo passo, che va dal primo diciottesimo secolo, in Pennsylvania e che, cosí come la casa a tavole, veniva identificata con il pioniere e la comunità di frontiera, era la capanna di tronchi. Era particolarmente popolare nella Virginia occidentale e lungo tutta la frontiera meridionale. Jefferson, la cui filosofia architettonica era decisamente aristocratica e a favore della pietra e del mattone, descriveva cosí entrambi i tipi nelle sue Notes on the State of Virginia: “La maggioranza degli edifici privati della Virginia sono fatti di tavole di legno ricoperte di calce. È impossibile costruire cose più brutte, meno confortevoli e tristemente fragili”. Aggiunge: “La gente più povera costruisce capanne di tronchi posati in orizzontale, e chiude le fessure con fango. Queste costruzioni sono più calde in inverno e più fresche in estate degli edifici, più costosi, in tavole di legno.” Sembra che entrambi i tipi fossero temporanei, per poi essere sostituiti, nel giro di pochi anni, da una casa più solida e, in entrambi i casi, la loro pianta era l’immagine della semplicità stessa, senza alcuno spazio per la stiva entro l’edificio, nessuna fondamenta, nessun lavoro decente di carpenteria tradizionale, e nessuna preoccupazione estetica. Eventualmente, la capanna di tronchi e la casa in tavole di legno erano trasformate in stalla o fienile, oppure venivano lasciata crollare. Il terzo passo era naturalmente la struttura a travi e pilastri (balloon frame, N.d.T.), un’altra invenzione di frontiera. Rappresentava un radicale cambiamento delle tecniche costruttive, ed era allo stesso tempo un logico sviluppo delle costruzioni precedenti: come i suoi antecedenti, essa era facile e veloce da costruire, era indifferente a qualsiasi tradizione architettonica vernacolare locale, ed era considerata temporanea; non solo sarebbe crollata, ma sarebbe stata presto venduta e lasciata a nuovi arrivati. Solon Robinson, e altri narratori della vita dei pionieri dell’Ovest, suggerivano alle famiglie di costruire le loro case con una struttura a travi e pilastri, e il più impersonalmente possibile, in maniera che fossero cosí accettabili per qualsiasi probabile acquirente. Nel corso di poche decadi, la struttura a travi e pilastri raggiunse un certo livello di rispettabilità architettonica ma, ancora nel 1870, uno scrittore raccontava che, durante il suo viaggio attraverso l’Arkansas ed il Texas, si poteva notare a malapena la presenza di qualsiasi vera architettura, essendo quasi tutti gli edifici delle strutture a travi e pilastri.

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L’accettazione del balloon frame da parte degli architetti può forse essere spiegata con lo sviluppo di due tipi di abitazione addirittura più semplici: la casa pre-tagliata o la casa ordinata per posta, nate intorno al 1860 e ancora oggi in uso, e recentemente studiate da molti storici dell’architettura, ed il simultaneo sviluppo di un tipo di casa ancora più semplice, la casascatola. Superficialmente, ovvero vista dall’esterno, la casa-scatola assomiglia alla casa in tavole di legno. Ma mentre la casa in tavole di legno aveva, di solito, un basso muro in mattoni a isolamento dal terreno ed un muro interno intonacato, la vera casa-scatola non ha nessuna struttura, nessun isolamento, e ovviamente nessuna fondamenta. Penso che sia nata nella regione di Chesapeake Bay. Si sviluppò, molto prima della Guerra Civile, lungo il Golfo del Messico fino alla California. Horace Bushnell, nativo di Hartford, Connecticut, era stupefatto di vedere case-scatola costruite a San Francisco, intorno al 1850. Charles Dwyer, il quale scrisse un libro sulle case popolari nel 1855, notò che i lavoratori delle ferrovie e delle canalizzazioni vivevano in insediamenti di case-scatola. Cosí viene descritta la casa-scatola da Dianne Tebbets in Pioneer America: Le costruzioni a scatola sono simili alle costruzioni a tavole che si svilupparono nell’Inghilterra medievale [...] Nella costruzione a scatola [...] larghe tavole di legno vengono inchiodate verticalmente a supporti posati sul terreno, ed una tavola di 2x4 pollici è inchiodata in orizzontale in cima alle tavole verticali. Tavole verticali addizionali vengono aggiunte a formare lo spessore del muro, senza alcun altro elemento strutturale. Vengono tenute assieme dai travetti del tetto, e le porte e finestre sono posate in fori tagliati a misura nei muri [...] All’interno, i muri sono ricoperti di tappezzerie pesanti, per l’isolamento dai venti invernali. In queste costruzioni la precarietà strutturale viene controbilanciata dalla loro economicità, essendo questa tecnica la maniera più economica di racchiudere un volume. La costruzione a scatola è piuttosto nota fino al Ozarks [...] Viene preferita alla casa di tronchi in quanto considerata relativamente dignitosa. Di conseguenza, “l’abitante delle colline” che possiede denaro da spendere, preferisce la casa-scatola in legname locale, coperta da un economico tetto incatramato.

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La comunità di minatori di Madrid, New Mexico ha costruito un gran numero di variazioni della casa-scatola. Provenivano da Tucumcari, distante duecento miglia da Madrid, dove negli anni ’20 erano le case dei lavoratori delle Ferrovie Rock Island. Devo ancora vedere una casa-scatola che mi sembri stabile. L’assenza di qualsiasi tipo di struttura portante fa risparmiare denaro, ma fa sí che l’edificio s’incurvi e si gonfi riducendo la sua solidità generale. Questa è la ragione per cui la casa-scatola è costituita da una sola stanza in larghezza ed una in altezza. Viene considerata inevitabilmente come l’elemento più povero e precario della popolazione. Persino oggi, in gran parte del Sud, viene solitamente chiamata “casa d’affitto” e, occasionalmente, “la ex-casa degli schiavi” (sebbene solo poche di quelle rimaste sono sufficientemente vecchie da poter avere ospitato degli schiavi). Ho il forte sospetto che molti degli edifici cosí detti “a struttura”, che vediamo in fotografie degli insediamenti dei minatori del diciannovesimo secolo, fossero in realtà case-scatola. Una volta la casa-scatola era uno dei tipi più comuni negli Stati Uniti, molto più, credo, che le strutture a travi e pilastri. Nel Sud del dopo Guerra Civile, la casa-scatola si diffuse nelle città manifatturiere del taglio del legno, in grandi proprietà terriere ed in cantieri ferroviari. Come si può immaginare, esse proliferarono specialmente nelle città manifatturiere del taglio del legno, in quanto, tali città, si spostavano via via che le foreste si esaurivano, e avevano bisogno di un tipo di abitazione mobile. Un articolo su queste città, e sulla loro architettura, apparve sul Geographical Review del Settembre 1957. Lo scrittore identificò almeno tre tipi distinti di abitazione: il cosí detto bungalow (con un ampio portico circolare), la shot-gun e la casa a tronchi. L’autore suggeriva che la casa-scatola era caratteristica delle città industriali del legno, perché era economica e facile da costruire, poteva ospitare qualunque tipo di famiglia, ed era facile da trasportare sulla ferrovia. A causa della sua larghezza ridotta (una stanza in larghezza e due o più stanze in profondità), la casa shot-gun era particolarmente adatta per piccoli lotti cittadini, e diventò molto popolare quando divenne parte delle città industriali. L’ultimo capitolo della storia delle casa- scatola, racconta del suo uso in remote città industriali, durante la Prima Guerra Mondiale, e poi della sua utilizzazione da parte di agricoltori del Sud, del Sud-Est e della California, in continuo movimento. Siamo a conoscenza della sua diffusione e del suo sviluppo molto meno di quello che dovremmo, perché è una parte fondamentale del paesaggio americano.

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La crescita del trasporto su camion, in molti stati del sud, segnò l’inizio di una classe lavoratrice particolarmente mobile. Negli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale, l’agricoltore medio era un uomo celibe, spesso chiamato vagabondo o“uomo della coperta”. Dormiva ovunque potesse. Ma, negli anni ’20, le automobili di seconda mano diventarono relativamente economiche, ed invece che viaggiare in camion, il contadino si abituò sempre più a viaggiare in macchina, accompagnato dalla sua famiglia. Questo ovviamente creò una richiesta di abitazioni economiche e temporanee: in altre parole di case-scatola. La maggior parte di queste erano probabilmente costruite da piccoli imprenditori o speculatori; l’unica informazione attendibile che ne abbiamo, si trova in pubblicazioni del Dipartimento del Lavoro di quegli anni. Inevitabilmente, queste case- scatola erano sovrappopolate, poco manutenute e pericolose, ed uno dei piani del New Deal era la loro sostituzione. Il problema è, ovviamente, ancora presente, ma verso il 1950 un nuovo tipo di abitazione, un’abitazione incredibilmente simile al suo antecedente medievale, giunse sulla scena: la roulotte o casa mobile, e ancor più di recente il camper. Solo ora stiamo iniziando a riconoscere l’impatto di questo nuovo tipo di abitazione sulla pianificazione, sulla comunità e sul lavoro. Sono convinto che la roulotte, o un suo futuro sviluppo, nel bene o nel male, sia l’abitazione economica del futuro: precaria, instabile, poco attraente, ma economica, conveniente e mobile. La maggior parte di noi, sospetto, pensa sia più facile accettare o addirittura romanticizzare la casa-scatola ed i suoi precedenti americani, perlomeno quelle, in aree rurali, che hanno sviluppato una loro individualità e sono state assimilate dal paesaggio. Tuttavia insisto nel vedere una similitudine nascosta tra quelle precarie, malconce abitazioni americane, ognuna delle quali veniva denunciata quale deleteria e socialmente indesiderabile. Esse hanno assolto alla loro funzione di abitazione per gente che si doveva spostare verso un lavoro: agricoltori, operai edili, boscaioli, soldati, aviatori. Qualunque fosse la loro tecnica costruttiva, esse sono servite, quali abitazioni, ad anziani, a giovani coppie che iniziavano una vita insieme; e quasi sempre venivano viste dai loro abitanti come temporanee: qualcosa di migliore e di più durevole era il passo successivo. Sarebbe molto interessante analizzare l’abitazione interamente in termini socio-economici; certamente le abitazioni non si prestano ad analisi archi-

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tettoniche o folkloristiche. Ma il vero significato dell’abitazione temporanea, della casa-scatola, per fare un esempio tra i tanti, risiede altrove. Penso abbia sempre offerto, anche se solo per breve tempo, un tipo di libertà che spesso sottovalutiamo: la libertà da legami emotivi troppo stretti con un territorio, la libertà da responsabilità verso la comunità, la libertà dalla tirannia della casa tradizionale e della sua proprietà, la libertà dall’appartenenza ad un particolare ceto sociale e, soprattutto, la libertà di muoversi da qualche altra parte. Adesso che l’ambientalismo viene accettato quale filosofia di vita, i valori che riteniamo fondamentali sono la stabilità, la permanenza, il mettere radici e preservare il nostro patrimonio architettonico; e senza dubbio tutto questo è giusto. Tuttavia, ogni volta che osserviamo il nostro paesaggio in rapido cambiamento e studiamo il mutare del nostro comportamento verso la casa, dobbiamo ricordare che abbiamo una seconda tradizione architettonica, una tradizione di mobilità e di residenza temporanea che è più forte ed evidente che mai. Non tutti possono simpatizzare per questa più popolare tradizione di rifiuto dei legami e delle restrizioni del territorio, ma chiunque di noi rifletta sull’architettura e le sue svariate manifestazioni è destinato a cercare di comprendere il nuovo tipo di casa che stiamo costruendo in America.

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da J.B. Jackson, A Sense of Place, a Sense of Time Yale University Press, New Haven and London, 1994, pp. 171-185.

Oggi esistono più di 180 milioni di macchine negli Stati Uniti. Nel 1908 ce n’erano meno di 200.000. Due anni più tardi ce n’erano quasi mezzo milione. Negli anni a seguire il numero aumentò annualmente di più di un terzo. Fin dall’inizio, gli americani rimasero affascinati dall’automobile, anche se poche famiglie se la potevano permettere; quando il lavoratore medio guadagnava un dollaro al giorno, un’automobile media, che costava più di mille dollari, era chiaramente riservata al ricco. Tuttavia, il pensiero di come l’automobile si avviasse a trasformare ed arricchire la vita americana era stimolante, e seguimmo la sua evoluzione passo dopo passo. Discutevamo i record di velocità e i record di durata; applaudivamo ai miglioramenti del motore e all’audacia dei piloti. Eravamo specialmente interessati all’eleganza del suo design, e quella che ammiravamo di più era la berlina, conosciuta anche come l’automobile da turismo o da piacere. La parte ricca e sportiva della società americana adottò l’automobile per lo stile di vita, mobile e avventuroso, che rappresentava. I giornali pubblicavano inserti dei gruppi di fans, le riunioni e le corse di club automobilistici esclusivi, e riportavano chi aveva partecipato al concours d’elegance. Accademici e sostenitori della cultura rurale tradizionale cercavano di distoglierci dal mito dell’automobile. Nel 1906, Woodrow Wilson dichiarò che l’automobile rappresentava un pretenzioso sfoggio di ricchezza, che minacciava l’incitamento a tensioni di classe, ma era vero il contrario: amavamo l’automobile e sognavamo il momento in cui avremmo potuto averne una. Una massiccia pubblicità ebbe l’effetto di sollevare un interesse generale verso la produzione e la vendita di automobili. Imprenditori ed ingegneri presero presto la nuova invenzione seriamente e promossero ricerche ed esperimenti. Tuttavia la sua più grande attrazione risiedeva nel tipo di vita che essa prometteva; il secolo che nasceva stava per vedere una nuova cultura: emancipata, benestante, infinitamente mobile e promettente piaceri 161


ed esperienze sconosciute – il tutto a causa dell’automobile. Il veicolo commerciale, comunque, l’autobus, il taxi e specialmente il camion, erano esclusi da questo cordiale benvenuto. Nel 1910 c’erano solo ottomila camion nel paese, e la maggior parte erano d’aspetto cosí goffo, cosí deludenti nelle loro prestazioni, da appartenere ad un’altra categoria. Negli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale, era d’uso, tra gli automobilisti, il mostrare la loro appartenenza ad una classe speciale, dandosi un colpetto, quando s’incrociavano, alla falda del cappello (un’abitudine simile si poteva vedere fino a poco tempo fa tra i motociclisti). Ma gli autisti di camion e furgoni non erano inclusi in questo scambio di saluti esclusivi. Date le implicazioni sociali dell’automobile, è facile capire la discriminazione, poiché l’automobile rappresentava una spensierata esistenza suburbana e rurale, basata sull’unità della famiglia, l’amore per la natura, ed un buon reddito. Il camion, al contrario, rappresentava il lavoro, ed un lavoro umile. La parola camion veniva usata in tempi coloniali per descrivere un carro pesante, capace di portare un grande carico. Con l’arrivo dell’automobile, abbiamo ridefinito la parola per descrivere un autoveicolo costruito per portare un carico, e questa è ancora la definizione accettata oggi. È, in ogni caso, una misera definizione, in quanto usata per i furgoncini, i furgoni, i mini-furgoni e anche per le jeep; dovrebbero essere tutti camion. Ma nel linguaggio di tutti i giorni usiamo quasi sempre la parola camion per descrivere un grande veicolo che possa trasportare carichi pesanti, e che lo faccia per guadagnare. Il vocabolario vernacolare spesso definisce un oggetto – sia esso una casa, o una macchina, o un mobile d’arredamento – non in base a come è costruito, ma per come è usato, e la maggior parte dei camion vengono usati per fare denaro. Di sicuro ci sono eccezioni: il furgoncino, come la jeep, sta attraversando un processo di trasformazione suburbana: entrambi sono diventati popolari per le attività del tempo libero e in alcuni sport fuori dal comune. Un tempo la macchina familiare era una modesta automobile equipaggiata con qualche sedia in più, e veniva chiamato mini-furgone. Era un veicolo per fare denaro allora, ma guardiamolo adesso! Molti di quegli ottomila camion del 1910 erano piccoli furgoni elettrici, usati da attività quali lavanderie, forni, caseifici e dall’Ufficio Postale degli Stati Uniti, per fare le loro consegne seguendo circuiti prestabiliti. Costituivano un grande miglioramento rispetto ai carri trainati da cavalli, o da carrozze, o calessi usati precedentemente. Non facevano rumore, non puzzavano, erano facili da guidare e molto solidi. Nell’aspetto assomigliava-

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no al carro da traino e, anche nelle automobili, quest’ultima caratteristica (cosí ci hanno raccontato), costituiva quell’elemento duro a morire che era ancora a favore del cavallo e anti-automobile. Ma il furgone, o il camion elettrico, aveva un grande svantaggio: funzionava a batterie (grandi e pesanti, attaccate sotto il telaio), che dovevano essere spesso ricaricate. Nel migliore dei casi potevano durare per ottanta miglia senza aver bisogno di fermarsi ad una delle poco frequenti stazioni di ricarica, e l’operazione era laboriosa e costava quindici dollari. Soprattutto a causa del peso delle batterie, il camion elettrico aveva difficoltà a salire sulle colline. Infine, era costoso. Nessun lavoratore poteva pensare di comprarne uno ed entrare nel giro dei trasporti da solo. Ma poteva volere una cosa simile? Guidare un furgone elettrico per i soldi, anche se per solo un dollaro al giorno, probabilmente aveva la sua attrattiva. Era sicuro, rilassante, e senza brutte sorprese. Ma anche in quei tempi, gli americani avevano la netta impressione che fosse l’automobile a rappresentare libertà e responsabilità personale. Un veicolo come il furgone elettrico, che doveva stare in città e ubbidire ad una routine fissa, apparteneva alla stessa classe del treno: confinato ad una ferrovia e ad orari. In ogni caso, quando i camion a benzina e le automobili diventarono più economici e più efficienti, il veicolo elettrico non riscosse più alcun successo. Durò fino al 1925, nella forma di una berlina, piccola ed elegante e decisamente adatta alle signore. Poi scomparí. Rimaneva quell’altro contingente da quegli ottomila camion iniziali. Andavano a benzina e, infatti, il camion a benzina è esistito tanto a lungo quanto la macchina a benzina. Ma fin dall’inizio non sembrava promettere molto. Da un lato, non gli fu dato nessuno di quegli incoraggiamenti profusi sull’automobile dai leader sociali ed economici. Nessuno andava a vedere i camion passare per la strada, e la stampa aveva poco da dire a proposito dei modelli sperimentali che venivano prodotti da amatori: inventori, meccanici, fabbricanti di biciclette in pensione, hobbisti appassionati che lavoravano in baracche e botteghe di fabbri, o sulla strada. Alcuni fabbricanti di camion produssero una dozzina o più di esempi, poi andarono in fallimento. Non esistevano parti standard, solo parti prese da carri, o pezzi di macchinari. I camion spesso assomigliavano infelicemente al vagone ferroviario convenzionale – ruote, parafanghi e tutto – né andavano molto meglio, perché erano lenti e pesanti, molto più pesanti del carico che portavano. Ruote cerchiate in acciaio davano poca aderenza sulle lisce strade cittadine e motori poco potenti non permettevano loro di percorrere strade di campagna dissestate o fangose. Si era generalmente d’accordo nel dire

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che, tutto quello per cui questi ibridi veicoli potevano essere usati, era il trasporto di carichi dalla stazione dei treni alla fabbrica, o al magazzino, o fare consegne di routine, come il furgone elettrico, all’interno della città. I camion di quei tempi erano, di solito, proprietà di ditte di trasporto o di consegne, o di enti pubblici come la polizia, o i pompieri. Erano troppo costosi, troppo poco affidabili, per le piccola attività. Lavoravano in gruppo: ogni mattina potenziali autisti di camion andavano al deposito, dove era parcheggiata la variegata collezione di camion, e aspettavano che fosse dato loro un lavoro per la giornata. A quel tempo, la maggior parte dei guidatori non sapevano niente della manutenzione e riparazione di un camion, specialmente se era uno che non avevano mai guidato prima, e spesso alla fine della giornata riportavano il loro veicolo in pessime condizioni. In generale, il guidatore di camion era un lavoratore alla giornata, senza alcuna preparazione, facilmente rimpiazzabile. Gli veniva assegnato un camion malfatto, strumento poco familiare per fare un lavoro che per lui non aveva futuro, ed il suo status non era molto superiore a quello dell’operaio in fabbrica, o del contadino. Veniva pagato due dollari per una giornata lavorativa di dodici ore. L’industria dei camion poteva benissimo continuare in quella maniera: con flotte di camion che operavano come le vecchie flotte di taxi. Ma accaddero due cose sorprendenti. Primo, il camion diventò un pezzo di meccanica versatile e flessibile, capace di fare molto più che trasportare semplicemente carichi pesanti per tornare vuoto. Secondo, cessò di essere monopolizzato, e col tempo venne usato da molte attività commerciali minori. Diventò quindi una parte importante dello stile vernacolare americano, e cosí è rimasto fino ai nostri giorni. All’inizio le fabbriche giocarono un ruolo minore in queste trasformazioni. La maggior parte degli esperimenti venivano fatti da meccanici ed ingegneri, e furono loro che in effetti crearono un’industria completamente nuova – non un’industria a piccola scala, anzi; sono stati loro a creare il camion moderno. Molti erano contadini, in quanto i contadini si erano abituati ai motori fissi, molto prima di aver visto un’automobile per la prima volta. Erano meccanici, elettricisti, saldatori, fabbri part-time e avevano già automatizzato molto del loro lavoro. Era naturale, per loro, sperimentare e scoprire come questa nuova macchina potesse essere usata per altri scopi. Uno dei problemi era di far arrivare rapidamente i loro prodotti ai mercati della città. Gli orari ferroviari erano spesso poco convenienti e significavano tra-

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sferimenti e ritardi. È stato un fabbro di una piccola cittadina rurale del Wisconsin, ad inventare la trazione a quattro ruote, che permise ai camion di percorrere strade sconnesse e di tagliare per i campi, caricare il raccolto e portarlo direttamente al mercato. Fu un altro meccanico, di un piccolo paese, che costruí il primo autorimorchio che spesso duplicava la capacità di portata del camion. Nel 1915 vennero introdotte le ruote pneumatiche, ed un altro inventore dimenticato diede al camion dei fanali, permettendogli di viaggiare di notte; altri inventarono il camion con la ribalta ed il camion con il rimorchio basso, per carichi pesanti e per le operazioni di carico e scarico ai porti. Nessuna di queste era una grande innovazione tecnologica, ma ognuna di esse contribuí ad una ridefinizione del camion, ed eventualmente al suo essere usato per qualcosa di più che per il semplice trasporto. La sua crescente versatilità lo rendeva indispensabile nei cantieri, nella costruzione di strade, e nell’estrazione di risorse naturali altrimenti inaccessibili – in campi petroliferi e foreste che si trovavano in zone dove la ferrovia non poteva arrivare. Il Modello T della Ford, introdotto nel 1908, risultò essere particolarmente utile nelle fattorie. Era una piccola berlina, che qualsiasi proprietario ingegnoso poteva trasformare in un furgone per trasportare qualsiasi prodotto, perfino bestiame. Quando veniva attaccata una carrucola all’albero dell’asse posteriore, il Modello T poteva offrire energia per segare legna, pompare acqua, macinare il raccolto, o fornire luce elettrica in casi d’emergenza. Negli anni ‘20, diverse ditte di vendita di macchinari agricoli offrivano accessori pensati per trasformare il Modello T in un coltivatore o in un trattore; ma questi risultarono poi poco pratici. Esiste indubbiamente un assioma secondo cui, qualsiasi strumento che si è dimostrato efficace nella sua funzione originale, debba essere usato per un’altro scopo completamente differente – ed essere usato con successo. Questo è valso per il camion, anche prima che compisse il suo ventesimo anno di vita, in quanto iniziò ad essere usato come spazzaneve, come trivellatrice, come livellatrice di strade, come piattaforma temporanea per gru e come fonte di energia in casi d’emergenza. Ancora più importante, veniva usato non solo per portare un carico, ma anche per lavorare o trasformare il carico, mentre viaggiava in autostrada. La cementatrice mobile, familiare a tutti noi, apparve per la prima volta nel 1916, ed il camion frigorifero (che controllava la temperatura del suo carico) nel 1920. L’ambulanza moderna è in realtà un camion equipaggiato per offrire assistenza medica al suo passeggero. L’evoluzione del camion non è finita; e mentre l’automobile, non importa quanto lussuosa, rimane ancora fedele alla sua funzione originaria

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di trasporto di passeggeri, il camion è diventato un ufficio part-time, un laboratorio part-time, un centro operativo part-time e una dimora parttime. L’introduzione della ricetrasmittente e del telefono portatile hanno dato al camion, e alla sua guida, una maggiore libertà di movimento e di decisione, tanto che si può dire che certi camion sono veri e propri piccoli uffici, o servizi mobili, ed una larga parte del traffico urbano consiste proprio di questi luoghi di lavoro itineranti. Negli anni ‘30 il camion diventò un veicolo molto più sofisticato: più grande, più affidabile, più potente e più gradevole alla vista. Anche se i camion erano solo la minoranza dei veicoli a motore, erano diventati sempre più essenziali a molti tipi di attività, soprattutto perché potevano trasportare piccoli carichi con scarso preavviso, e potevano raggiungere direttamente il cliente. La loro accettazione finale, quale forma di trasporto commerciale per distanze minori di quelle delle ferroviarie, giunse alla fine degli anni ‘30. In quei tempi la tipica fabbrica americana era un edificio in mattoni a più piani, con molte finestre ed il più vicino possibile alla ferrovia. A quel tempo, quello era il posto migliore sia per il trasporto di materiali grezzi che per quello di prodotti finiti. La manodopera, che si era insediata nelle vicinanze, spesso andava a lavorare a piedi. Costruzioni a più piani, dovute alla mancanza di spazio, permettevano un’organizzazione verticale del processo produttivo, e permettevano l’uso della luce naturale – da cui le molte finestre. Ma verso gli anni ‘20 subentrarono ragioni per cambiarne la costruzione. Le automobili degli operai pendolari affollavano le strette strade del centro e rendevano le operazioni di trasporto un incubo per le fabbriche. Nuovi macchinari richiedevano costruzioni più solide; tuttavia non esisteva spazio per espandersi. Senza dubbio le ragioni più importante di questo cambiamento erano le nuove teorie, sull’organizzazione industriale, proposte da F.W. Taylor e dai suoi seguaci. La “gestione scientifica” di Taylor, sebbene studiata primariamente per rendere i metodi di lavoro più efficienti, presupponeva una radicale riorganizzazione dello stabilimento industriale. Proponeva una fabbrica impostata su un flusso orizzontale, continuo ed ininterrotto durante l’intero processo di produzione, un veloce via- vai di materiale grezzo e prodotti finiti, ed una grande riduzione dell’immagazzinamento e dello spazio per il deposito. La catena di montaggio, introdotta per la prima volta da Ford nel 1913, era il logico risultato delle teorie gestionali di Taylor. La gestione scientifica ebbe presto un grande successo e, poco dopo, le nuove industrie, insieme a quelle maggiori esistenti, iniziarono a trasferirsi

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dalla congestione cittadina verso la periferia dagli ampi spazi disponibili. Lontano dalle affollate strade cittadine e dalla ferrovia, fu là che sorsero molti dei tipi di fabbriche e magazzini che vediamo ancora oggi: costruzioni ad un piano, spesso senza finestre, con un vasto spazio interno, interrotto solamente da alcuni pilastri in cemento armato o in acciaio, dove una varietà di trasportatori a cinghia, carrelli di sollevamento e trattori industriali in miniatura possono circolare liberamente. La luce è diffusa, sia che fosse artificiale o proveniente da lucernai, ed il movimento è orizzontale dappertutto. A differenza di quanto accade in centro-città, nel paesaggio aperto le fabbriche non sono vicine le une alle altre. Circondate dal loro vasto territorio di proprietà, sono distanti le une dalle altre, con prati e alberi ben mantenuti. Senza cisterne dell’acqua, senza ciminiere, caratterizzate solo da un’insegna discreta vicino ad un’entrata imponente, hanno spesso un aspetto istituzionale, come se fossero centri di ricerca. Qui i camion iniziano ad entrare in scena: non un camion, ma camion a dozzine – in qualche caso grandi mezzi a rimorchio, capaci di trasportare trenta tonnellate o più – immacolati, identici, sono parcheggiati in fila, di fronte al lungo ponte di carico e scarico. Il ponte è la caratteristica della fabbrica moderna che non viene molto discussa nel giro dell’architettura, ma è non solo una parte essenziale dell’edificio, ma deve essere anche progettata e costruita con grande precisione. La sua altezza, ed il livello del camion che aspetta di essere caricato (o scaricato), devono essere le stesse; il movimento continuo orizzontale dell’interno, deve potersi estendere dentro al camion stesso. Il ponte di carico deve essere in rapporto al vasto spazio attorno allo stabilimento, dedicato al parcheggio e alla manovra dei camion, cosí come al parcheggio delle macchine degli impiegati. Infine, l’intero complesso si muoverà verso l’autostrada. I ponti di carico, insieme alle vaste aree di parcheggio, sono qualcosa di nuovo nella progettazione delle fabbriche, e quello che ne è scaturito è un impianto industriale con due facciate: una per gli uffici e l’entrata formale, l’altra per le operazioni di carico e scarico. Questa ovvia organizzazione è ora diventata comune a tutti gli stabilimenti che dipendono dal traffico commerciale su ruote: il retro buio e sporco delle fabbriche è cosa del passato. La strada, che il flusso dei camion segue prima di arrivare alla strada interstatale, passa attraverso un vasto e vuoto paesaggio di fabbriche isolate, depositi di camion, magazzini ed una gran varietà di uscite per stazioni di servizio, campeggi, e quello che una volta erano campi: un paesaggio che aspettava non di essere abitato ma di essere costruito; deserto dopo le ore

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di lavoro e dominato dal disegno curvilineo di strade esistenti e strade in costruzione, linee elettriche ed insegne che dicono “12,75 acri disponibili, zona C”, e senza un pedone in vista. Ognuno di noi è passato attraverso questo paesaggio, quando andava all’aeroporto o all’ingresso dell’autostrada. Ci siamo dimenticati di come abbiamo reagito a quel paesaggio quando iniziava a prendere forma mezzo secolo fa? Negli anni seguenti la Seconda Guerra Mondiale, eravamo alla ricerca di un nuovo mondo di pace, prosperità e divertimento, e quel nuovo paesaggio conteneva molti degli elementi che pensavamo fossero promettenti. Era il momento in cui la gente iniziò a capire quello che chiamavamo “architettura moderna” – lo Stile Internazionale, e quelle fabbriche ad un piano, spoglie di qualsiasi decorazione, funzionali nella distribuzione, ci aiutavano a capire e ad accettare il nuovo linguaggio. Commentando la fabbrica moderna orizzontale, John B. Rae scrisse che, “il magazzino moderno non è più un deposito ma un ‘capannone mobile’ per continui rifornimenti. Sempre più spazio viene dedicato a inventariare ordinazioni, a ponti di carico e scarico e a corridoi per veicoli a motore, che all’immagazzinamento vero e proprio.” Quella mancanza di spazio per il deposito e l’enfasi sul flusso continuo erano tipiche anche della fabbrica, ma l’americano medio era già abituato ad altre versioni del capannone mobile: il supermercato, il ristorante drive-in, la gran varietà di attività, dal negozio di liquori alla banca, dove i clienti, cosí come i prodotti e i servizi, erano parte di un ambiente organizzato a favore del flusso e a scapito dello spazio per il deposito, o di operazioni che richiedessero troppo tempo. Istintivamente, vedevamo, nel nuovo paesaggio e nei suoi edifici, la promessa di un futuro luminoso. Eravamo affascinati dalle nuove strade e autostrade, anti-urbane nei loro margini verdi semi-pastorali e nel loro rifiuto dell’impianto a griglia. Il cambiamento a grande scala delle nuove autostrade interstatali, con i loro svincoli a quadrifoglio, i loro sottopassaggi, i loro ponti e il loro flusso senza interruzioni, ci ricordava delle strade visionarie di Futurama, dell’Esposizione Internazionale del 1939: evitare la città, e dirigersi verso la campagna dove nuove espansioni residenziali e insediamenti di roulotte e case mobili parlavano di giovani famiglie che iniziavano una nuova vita. Quello che dava stile al nuovo paesaggio industriale era la presenza – nei parcheggi accanto ai ponti di carico e scarico, in fila lungo le nuove autostrade bianche – dei camion: enormi e luccicanti. Noi stessi, che avevamo le nostre macchine e andavamo a lavorare in macchina, provavamo una certa affinità con la cultura del camion che stava germogliando lungo le strade, identificata con il cibo del Sud, fatto in casa, e le canzoni dei camio-

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nisti nel juke-box: il camionista stava rimpiazzando il cowboy nel ruolo di eroe popolare. Mentre notavamo l’evoluzione dei drive-in, mentre guidavamo attraverso il paesaggio dominato dall’autostrada, con i suoi nuovi luoghi, le sue insegne e le sue strutture colorate, ci sembrava di osservare il nostro progresso verso un nuovo ordine sociale. Non si può dire che questa sensazione rappresentasse un conscio rifiuto del paesaggio tradizionale; ma non è del tutto distante dalla visione del futuro promossa dai progettisti. Nella visione popolare della nuova città c’erano elementi – distorti ed eccessivamente semplificati – della Città Giardino di Ebenezer Howard, di Le Corbusier, perfino di Lewis Mumford; espansioni del verde, piccoli raggruppamenti di abitazioni, autostrade curate paesaggisticamente, ed una sensibilità per le nuove forme architettoniche, per la chiarezza, accessibilità e libertà di movimento. Ma questo stava succedendo mezzo secolo fa, e né la scoperta del nuovo paesaggio né il paesaggio stesso sono sopravvissuti. L’eleganza della sua nuova architettura è ora nascosta o modificata, il paesaggio aperto di quei giorni è stato suddiviso, e perfino lo splendido spazio della nuova autostrada è diventato sempre più congestionato; flusso ininterrotto significa, sempre più spesso, ininterrotti ingorghi stradali. Le vecchie fabbriche e i magazzini vengono riscoperti, ristrutturati, abbelliti, mentre le nuove fabbriche si nascondono il più possibile dietro una natura in miniatura. Il camion, infine, viene identificato con rumore e inquinamento. Che cosa rimane? Una versione vernacolare, operaia, del paesaggio, della periferia urbana, si è spostata all’interno della città e sta distruggendo la cultura urbana tradizionale. Quando ci avventuriamo oltre il centro della città tradizionale, verso i suoi quartieri meno prosperosi, notiamo che le varie versioni del capannone mobile stanno diventando l’edificio commerciale standard, e anche l’edificio istituzionale standard. È una forma adatta ad attività che hanno a che fare col piccolo commercio – negozi, stazioni di servizio, grandi magazzini, gallerie d’arte, perfino musei e biblioteche: dipendono tutte da servizi e materiali portati loro ad intervalli regolari. Perfino le strade più prestigiose della città, con i loro alberghi, ristoranti, negozi eleganti ed uffici, operano secondo gli stessi principi ispirati a Taylor, di un continuo vai e vieni di flusso, orizzontalità, ed eliminazione di spazio per il deposito. Main Street, che fino a pochi anni fa era ancora un susseguirsi di facciate più o meno uniformi di architettura convenzionale e che manteneva ancora un’atmosfera di permanenza e limitata possibilità di cambiamento, è ora perforata da entrate per veicoli, parcheggi, garage sotterranei, vialetti di servizio, e ha l’aspetto di attività commerciali temporanee.

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Per la generazione che ricorda ancora la strada tradizionale e la sua monumentalità, questa trasformazione è uno spettacolo deprimente, e non ci aiuta sapere che, nel passato, le città hanno spesso sofferto della stessa decadenza delle loro aree centrali. In molti casi sono sopravvissute trasferendo la città centrale da qualche altra parte. In Europa la saggezza popolare dice che le città si spostano a ovest, che il centro del potere e del prestigio si muove sempre in quella direzione. Quelle città erano vittime di un nuovo tipo di traffico sulle loro strade? Con traffico non intendiamo solo i veicoli che occupano le strade, minacciando di eliminare le forme di trasporto precedenti, ma anche la gente e ciò che viene trasportato: questi sono gli elementi portatori del cambiamento. Il cavallo di Troia era stato benvenuto dagli abitanti di Troia; fu quando quel cavallo di legno fece uscire i suoi passeggeri che iniziarono a spaventarsi. Nel caso del paese o della città americana, l’automobile – specialmente il veicolo commerciale, il camion, il furgone, il furgoncino, il mini-furgone e la jeep – sono stati molto efficienti nell’introdurre un nuovo ordine spaziale. Perché quello che quei veicoli contengono (e distribuiscono) non è solo una nuova attitudine nei confronti del lavoro, nuovi usi del tempo e dello spazio, nuovi e più diretti contatti con clienti e consumatori, ma nuove tecniche per risolvere problemi. Una ragione per cui fabbriche e altre attività industriali si sono aggregate in zone speciali è che esse s’insediano dove possono usare quelle che chiamiamo “economie esterne” – specialisti e sub-appaltatori che possono prendersi la responsabilità di lavori a breve scadenza. Specialisti itineranti possono, in molti casi, offrire quel tipo d’aiuto a prescindere da dove si trovi il cliente, e di conseguenza la tradizionale concentrazione d’attività specialistiche in centro città non è più essenziale: anche il centro commerciale può servire come mezzo per unire consumatore e specialista, grazie a entità mobili che collezionano e distribuiscono e curano operazioni. Ma, a parte il suo impatto sul centro della città, il veicolo commerciale di piccola taglia sta introducendo, nei quartieri più nuovi e popolari della città, un nuovo tipo di vitalità e movimento che sembrava ormai essere scomparso. L’abitazione popolare, già ridotta nelle dimensioni, sta velocemente perdendo la sua auto-sufficienza e dipende sempre di più da servizi mobili. La strada commerciale, lungo cui si trova un capannone mobile dopo l’altro – supermercati, rivendite di macchine usate, fast-food – è in se stesso un allungato capannone mobile, dedicato ad un flusso continuo, controllato automaticamente da semafori; ed il traffico è composto in gran parte da

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attività mobili – di consegna, raccolta, trasporto e distribuzione all’interno del quartiere. L’interazione sociale si muove lungo le strade e prende la forma del viaggio o del riunirsi in parcheggi o stazioni di servizio. Al momento, rispetto alle macchine, la corrispondenza dei camion – furgoni, furgoncini, jeep e camion di media taglia per la città – si sta avvicinando al rapporto di uno ogni due. L’attività di un numero crescente di camion rappresenta un settore consolidato della nostra economia. Né si può dire che questi veicoli siano confinati al settore degli affari. Se le strade residenziali tradizionali cercano di escludere il traffico commerciale, esistono vaste aree della città dove questo traffico commerciale e di servizio a piccola scala è il benvenuto. Che cosa fa sí che quei camion e furgoni e furgoncini e macchine convertite per il trasporto si muovano continuamente? Essi rappresentano piccoli carichi da trasportare, a volte passeggeri da trasportare, ma vanno anche a fare riparazioni, installare, rimuovere, sostituire e servire piccole attività. Prima della proliferazione di questi veicoli, le aree più lontane della città soffrivano del loro isolamento sociale. Adesso sono nuovamente collegate alla città, e anche la più povera delle abitazioni è, almeno in teoria, a portata di aiuto. Spieghiamo questo non tramite un efficiente dipartimento sociale, o un efficiente sistema di trasporto pubblico, o un nuovo senso di appartenenza alla comunità, ma grazie alla presenza di un vasto settore mobile di artigiani ed operai, meccanici e ditte di manutenzione che raggiungerebbe un qualsiasi cliente e porterebbe la rassicurazione che lui o lei non è stato dimenticato. Il piccolo veicolo commerciale, o di servizio, sta aiutando a ricucire una città che una generazione di automobili aveva sfilacciato. Entrambi i tipi di veicoli, la macchina ed il camion, hanno le loro responsabilità nei riguardi del processo di decentralizzazione, ma ognuno di essi ha iniziato a mitigare l’effetto prodotto dall’altro. L’automobile sta riportando molte delle esperienze e dei piaceri (una volta identificati con la vita privata), nella vita pubblica e nel quartiere; il camion ha reintrodotto i servizi a piccola scala nella vita privata e nelle nuove comunità. Entrambe le tendenze stanno aiutando a creare un nuovo tipo di città vernacolare: poco strutturata, fluida, ed in espansione.

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“The Accessible Landscape”, A Sense of Place, a Sense of Time. New Haven: Yale University Press, 1994. Contiene i seguenti articoli: “Seeing New Mexico”, “Pueblo Dwellings and Our Own”, “Church or Plaza?”, “The Mobile Home on the Range”, “Beyond Wilderness”, “In Favor of Trees”, “The Past and Future Park”, “Vernacular Gardens”, “Working at Home”, “A Sense of Place, a Sense of Time”, “Looking into Automobiles”, “TruckCity”, “Roads Belong in the Landscape”. “In Search of the Proto-Landscape.” In Landscape in America, George E. Thompson, a cura di. Austin: University of Texas Press, 1995: 43-50. “The Past and Future Park”, Landscape Architecture 85 (1995): 22-23. “Cultures and Regionalism.” Designer/Builder 3 (1996): 4-5. “Der we als verbinding met het landschap: van her beslotene naar het open­bare.” Architect 27, no. 2 (1996): 31-35. “Discovering the Vernacular Landscape.” In Human Geography: An Essential Anthology. a cura di John Agnew et al. Cambridge: Blackwell, 1996: 316-28.

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Una selezione di articoli su J.B.J.

Bowden, Martyn J. “J. B. Jackson: A Foreword.” Monadnock 50 (1976): 9-11. Dean, Andrea Oppenheimer. “Riding in the Future.” Landscape Architecture 86 (1996): 58-63. Horowitz, Helen Lefkowitz. Saggio sui video J. B. Jackson and the Love of Everyday Places, prodotto da Bob Calo, Figure in a Landscape: A Conversation with J.B. Jackson, prodotto da Janet Mendelsohn, Claire Marino. Landscape 30, no. 3 (1990): 44-46. Meinig, D. W. “Reading the Landscape: An Appreciation of W. G. Hoskins and J. B. Jackson.” In “The Interpretation of Ordinary Landscapes”, D. W. Meinig, a cura di. New York: Oxford University Press, 1979, 210-32. Petruccioli, A. Glimpses at Ordinary American Landscapes. In Memory of John Brinckerhoof Jackson, in Spazio e Società, 87, 1999. “Most Influential Books.” Landscape Journal 10, no. 2 (Fall 1991): 173-86. Prentice, Relaine Kaplan. “John Brinckerhoff Jackson.” Landscape Architecture 71 (1981: 740-46). Treib, Marc. “J. B. Jackson’s Home Ground.” Landscape Architecture 78 (1988): 52-57. Zelinsky Wilbur. “Essays by Jackson.” Landscape 24, no. 3 (1980): 32-33.

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2006 dalla Tipolitografia Grafica&Stampa di Altamura



John Brinckerhoff Jackson è una leggenda americana, per aver insegnato a tre generazioni a guardare con occhio attento, ma privo di complessi, le trasformazioni del paesaggio; quello ordinario, quello del proprio cortile, accettandone anche gli aspetti antiestetici in nome della sua vitalità. Il tono con cui descrive la geography of dispair ricorda John E. Steinbeck, la stessa commossa partecipazione umana per i guai dei diseredati, mista a un profondo senso morale. Ma JBJ è personalità più complessa e inafferrabile: si è sempre collocato trasversalmente rispetto alle discipline canoniche e non si è mai fatto rinchiudere in un preciso schema ideologico: un luterano – anarchico, un conservatore contro corrente, un aristocratico – proletario... Per le sue virtù di esploratore della geografia umana è vicino all’urbanista scienziato scozzese Patrick Geddes, mentre la sua capacità sintetica di disegnare grandi affreschi storici lo potrebbe avvicinare a Fernand Braudel. Certamente un umanista originale, che è stato cowboy, professore a Berkeley e ad Harvard, turista curioso e ufficiale dell’Intelligence Service durante la Seconda Guerra mondiale, garagista e giardiniere negli ultimi dodici anni della vita, pacato affabulatore quanto curioso ed educato ascoltatore, ma soprattutto elegante prosatore.


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