12 minute read

Editoriale - Nipoti di Maritain n. 09

di Rosario Sciarrotta

Se non tengo presente l’universo, perdo il senso delle proporzioni

Advertisement

(Italo Calvino)

Francesco di Sales sosteneva che è presente nell’uomo un’inclinazione naturale ad amare Dio; nell’anima esistono due parti: l’una profonda e l’altra di superficie. Henri Brémond, agli inizi del Novecento, in un’opera fondamentale che ricostruisce la formazione del pensiero religioso della Chiesa di Francia attraverso l’utilizzo della storia letteraria, attribuisce alla finezza del Santo e Dottore della Chiesa la capacità di avere introdotto una distinzione di fondamentale importanza nel cogliere le dinamiche dell’interiorità spirituale. I nostri appetiti, le sensazioni, la parte superficiale di ciò che siamo, non si esauriscono in una dimensione orizzontale, quasi impaurita nell’aprirsi alla profondità interiore. La parte profonda costituisce «oasi, fortezza e centro del nostro vero io […], un santuario. Là risiede invisibile colui che cerchiamo invano nella regione dei nostri sentimenti [la parte superficiale]» (1).

Gli interventi presenti in quest’ultima pubblicazione di Nipoti di Maritain sono stati maturati nel periodo dell’emergenza sanitaria legata al Covid-19 ancorché i temi scelti dai Lettori della pagina facebook della rivista fossero stati individuati diverso tempo prima. Tuttavia Celibato e Castità, Simbolico nel post-secolare e Sacramentalità – questi i temi scelti – ad una riflessione ex post sembrano essere quasi “caduti a fagiolo” poiché, mi pare, abbiano rivelato un’efficace complementarietà tra essi nonché una straordinaria e coerente trama col periodo che tutti abbiamo vissuto alla luce di quanto accaduto. Si potrebbe in un certo senso affermare che il numero 9 è anche “figlio” della pandemia.

Il distanziamento sociale continua. I luoghi del vivere collettivo si sono andati desertificando in questo lungo arco dell’inverno, poi della primavera e adesso dell’incipiente estate del 2020. L’uscire fuori quotidiano si è rovesciato d’improvviso in un forzoso entrare e restare dentro casa per un tempo indefinito. À rebours. “Fuori” è rimasto il lavoro, gli incontri, il traffico, il movimento della vita collettiva. Ora, ci mette timore il respiro degli altri, la superficie degli oggetti, l’aria che respiriamo. Il lessico della pandemia ha imposto il suo nuovo ventaglio di parole e di simboli. La pandemia ci ha sorpreso come la fuga dall’Egitto. Questa Pasqua 2020 è stata una “Pasqua degli azzimi”. Personalmente credo che il tempo vissuto in casa, per chi l’avesse voluto, si sia potuto trasformare nel più importante periodo di Esercizi spirituali mai praticato. «La solitudine ha la straordinaria proprietà di non isolarci, ma di proiettare tutto il nostro esserci nella straordinaria prossimità dell’essenziale di tutte le cose» diceva Martin Heidegger. Questo è senz’altro vero da un punto di vista filosofico, ma assume una verità più profonda se inquadrato nell’ottica della teologia cristiana e soprattutto e in una prospettiva assolutamente nuova verificatasi nella nostra vita. Il nostro Egitto al contrario va interpretato come una possibilità, che è stata e viene offerta alla nostra riflessione, di “meditare” il lungo tempo disponibile come un Tempo di rientro nel tempio della Parola. Non è detto che la costrizione in casa non possa originare una relazione “comunque” liturgica tesa sul filo del dialogo e della preghiera con Dio. La lontananza dai luoghi di culto non spegne il valore della relazione. Quando l’amore è autentico, il desiderio dell’altro cresce nell’orizzonte della speranza. È quanto affermano, seppur con sfumature diverse, Mattia Lusetti, Giacomo Tarullo, Omar Vitali e Michele Di Gioia con i loro contributi al dibattito su celibato e castità nella Chiesa cattolica latina. Lusetti richiama l’attenzione del lettore sulla verità fondamentale della castità cristiana quale chiamata universale per tutti i fedeli, sulla dinamica potere/libertà insita nella realtà del celibato del clero latino («separare il senso del ministero sacerdotale dall’autorità come esclusivo esercizio del potere è fondamentale») e sulla necessità di una cristificazione della sessualità la quale implica prima di tutto il riconoscimento di due aspetti intrinseci dell’umano: la fragilità e la relazionalità. Gli fanno eco Tarullo e Vitali, il primo chiedendosi come può un “casto” generare vita mentre il secondo, dopo aver debitamente distinto i due concetti, pone l’accento sul valore della dimensione “donativa” – per dirla con Marion – della castità. Il fil rouge che lega i quattro Autori si può ravvisare nella parola-chiave “relazione” e in tutte le sue declinazioni. Ciò è particolarmente evidente nell’intervento di Di Gioia che invita a una riflessione schietta ed onesta a partire dal sensus Ecclesiae. Egli richiama l’attenzione sulla necessità del sentire cum Ecclesia partendo dalle suggestioni generate dall’Esortazione post sinodale Querida Amazonia nello spirito più genuino degli insegnamenti del Concilio Vaticano II.

Il tendere all’orazione rappresenta una prassi e un destino della condizione umana, a patto che si riconosca alla Grazia la sua onnipotenza misteriosa e salvifica. L’orazione, pur modulandosi negli atti del pregare svolti nel silenzio o nel veicolo vocale della liturgia (comunitaria come personale), è alla ricerca di un obiettivo ulteriore: perseguire la permanenza degli stati. In questa ottica i dibattiti sul Simbolo e sulla Sacramentalità sono indissolubilmente legati. Michele Lanza ci introduce nel tema della “profanazione” del Mito il quale, nel momento stesso in cui viene composto, «è già un rendere meno sacro qualcosa». Gli fa eco Alessio Policarpo col suo contributo sulla «potenza profanatrice dell’arte moderna»: l’artista odierno, con scaltro calcolo, impiega a suo favore le strategie del marketing, alimentando il clamore e lo scandalo, come garanzia di promozione commerciale. Samuele Del Carlo ci ricorda invece che «l’uomo è una foresta di simboli», è costitutivamente un essere simbolico e la sua ricerca di senso è una perenne ricerca di ordine. Ma poiché un ordinamento simbolico ingiusto può causare infelicità, ha abolito anche l’ordine insieme all’ingiustizia, condannandosi all’inerzia. L’uomo contemporaneo ha nostalgia di senso, di ordine mentale e spirituale, di una mèta e tuttavia i simboli sembrano essere diventati oggi solo quelli del denaro e del lavoro: di una schiavitù. Gli idoli descritti in tutto l’Antico Testamento confermerebbero il loro ottimo stato di salute – nonché la loro impressionante longevità! – ma tant’è. Sono diventati vuoti, ripetuti senza senso e senza essere vissuti, tutto è fast food. Si potrebbe parlare di un vero e proprio “ossimoro del destino simbolico”.

Le riflessioni sul Simbolo hanno una confluenza naturale nel dibattito sulla Sacramentalità. A posteriori non posso non rilevare come la scelta dei temi da parte dei nostri Lettori sia stata in qualche modo profetica. Mai, come in questo periodo, abbiamo ricevuto sui social un torrente in piena di celebrazioni in streaming, di libretti liturgici, di giaculatorie e proposte di “salvezza”. Ritengo che noi non possiamo di certo rimuovere l’insidia virale, non possiamo pretendere che Dio ci preservi dai rischi insiti nell’esistenza, noi dobbiamo pregare di salvarci con Dio e dentro l’esistenza che ci è dato vivere. Ciò, tuttavia, può trovare una giusta comprensione epistemologica se inquadrato nella corretta ottica. Quanto ai Sacramenti Omar Orrù ritiene che si continui a giudicare il tempo presente rimpiangendo con nostalgia i “tempi d’oro” delle chiese piene, che si sia di fronte ad una “spettacolarizzazione” della fede e i Sacramenti vengano visti solo come mero veicolo di socialità. Tutto ciò obnubila una realtà profondissima che il Concilio Vaticano II ha ribadito con grande forza: è la Chiesa – in e con tutte le sue componenti – il Sacramento per eccellenza. Ma avere piena coscienza di essere immersi in tale realtà è tutt’altra storia. Ciò potrà avvenire soltanto se i Cristiani abbandoneranno una fede adolescenziale per vivere una relazione autentica con Dio. Quasi in una naturale prosecuzione si colloca la riflessione di Lorenzo Banducci circa la staticità della fede cristiana – appunto – e la perdita di senso nonché sull’assoluta necessità di investire con coraggio nella formazione dei Laici. Resta però indiscutibile che la Buona Notizia è ontologicamente provocante: ci chiama avanti, ci spinge a trovare vie sempre nuove, a cominciare dai “modi” con cui comunicarla. Questo tema si trova al centro del contributo di Giovanni Piccinno che identifica una delle cause dell’attuale gap generazionale nel problema del ‘linguaggio’ e della sua conoscenza, in particolare nell’iniziazione cristiana dei ragazzi. L’autore ci ricorda come «in primis, parlare, cioè dare un nome alle cose, è letteralmente chiamare all’esistenza, abbandonando la posizione (ferma) di partenza» e come, in questo senso, la parola sia “in-formativa”. Con verve provocatoria Luigi Previtero si chiede invece quale sia il ruolo dei Sacramenti nella vita della Chiesa nell’era digitale. Posto che Cristo è il compimento della Rivelazione di Dio che si fa conoscere agli uomini assumendo la stessa loro natura e che i sacramenti siano in qualche modo l’estensione della Rivelazione di Dio, essi sono dunque da comprendere come segni corporei che Dio utilizza per parlare con gli uomini che conoscono attraverso i sensi. In un’epoca dove tutto è social ma sempre meno “sociale” per cogliere i sacramenti c’è bisogno di lasciarli esprimere in tutti i registri comunicativi propri del rito. Un ostacolo a ciò l’autore lo identifica nell’attuale gnosticismo, per cui ravvisa il bisogno di far parlare i riti e i simboli e lasciando che venga coinvolto tutto l’uomo, anche la sua parte meno razionale.

Non poteva esserci conclusione più degna di questa grande ed articolata parentesi che l’intervista rilasciata al nostro Direttore al teologo Giuseppe Lorizio, secondo il quale «l’espressione cultuale del mito è il rito, quella dell’evento è il sacramento» e questo – in quanto simbolo – non si definisce, ma si abita e si racconta. Riflettendo sul passo evangelico di Gv 4,23 il professore afferma che «custodire l’umano è il vero culto; metterlo a repentaglio per partecipare a dei riti sarebbe profanante». Si pone l’accento sulla necessità di “far parlare i simboli” poiché da questo dipende l’esperienza del sacro. Da quest’ultima suggestione e da molte altre è nata così l’idea di lanciare il questionario “Nella Chiesa che cambia? Il cambiamento del sentire, della pratica e delle abitudini religiose dei cattolici in Italia al tempo del COVID-19”; in tanti hanno partecipato e in molti si sono interessati, al punto che la visibilità dei risultati sulle testate italiane ha travalicato le nostre stesse più rosee aspettative!

Nella sezione dedicata a Maritain Andrea Bosio presenta la questione dell’influenza che il pensiero del filosofo francese ebbe sul cosiddetto Codice di Camaldoli e soprattutto quanto peso ebbe il suo richiamo ai cattolici a un’azione concreta nella vita sociale, civile e politica. Maritain contribuì a fornire al cristianesimo democratico quell’ossigeno filosofico – e teologico – di cui era stato privato durante la lotta al “modernismo”. Il Codice di Camaldoli fa suoi questi spunti e guarda alla società e alla cristianità italiane che emergono dalla tragedia del Ventennio fascista attraverso questi occhiali peculiari. L’obiettivo del Codice – per dirla col Maritain dell’Umanesimo integrale – è uno «Stato laico cristianamente costruito», che riconosca così anche i diritti dell’uomo, «nel presupposto che la stessa libertà della Chiesa non potesse fondarsi su una sorta di orgogliosa separatezza, come se la libertà religiosa fosse scindibile dalle libertà civili» (G. Campanini).

Tra le altre rubriche segnaliamo l’interessante presentazione di Christian Polli sull’idea di Dio nel Risorgimento attraverso figure quali Mazzini, Pellico, Manzoni e Berchet; la teologia poetica del romanticismo che presenta un Dio come divinità creatrice del giorno del riscatto per l’identità nazionale. Michele Lasala propone invece una riflessione sul valore della “persona” in Stefanini, il quale sottolineava l’urgenza di recuperare la sfera spirituale contro la minaccia derivante da tutte quelle metafisiche che inghiottivano e annullavano la singolarità dell’uomo. Rocco Gumina infine si interroga circa il ruolo e il contributo dei cattolici nella crisi delle Istituzioni. Partendo da alcune illuminanti parole del filosofo francese Marion che spingono all’azione e alla voglia di futuro (parole in netta antitesi – verrebbe da dire – con quelle gattopardiane di Tomasi di Lampedusa che guardò all’Italia con occhi sempre realistici e onesti, siciliano – non posso qui non ricordarlo – come l’Autore e come chi scrive). Gumina apre il suo contributo rilevando come dato oggettivo l’indebolimento del valore simbolico e dell’efficacia reale delle istituzioni e tuttavia «pare profilarsi il tempo per un’azione volta a risignificare il valore simbolico delle comunità e degli enti chiamati a sostenerla». Questo tempo però «abbisogna di una riflessione culturale sui motivi simbolico-essenziali che sostengono lo stare insieme». In questa direzione la testimonianza cristiana può favorire processi finalizzati a sviluppare quella consapevolezza politica e civica che i singoli cittadini radunati insieme come “popolo” devono “ri-trovare”, partendo da una parola chiave: “cura”. In questo termine solo i singoli potranno ritrovare la dimensione prettamente umana, fatta di storie e di volti, gli stessi che formano poi un popolo. Gumina invita tutti a fare un “esodo”: dalla “eteroglossia” dei singoli alla “omoglossia multiforme” della comunità.

Chiude il numero la consueta recensione, questa volta curata dal nostro Direttore, che propone la lettura di un testo di Riccardo Bravi su “Claudel e il teatro del mondo”. Il letterato francese, fra tratti ora rinascimentali ora barocchi, rappresenta la sua visione dell’Europa in decadenza tra le due Guerre Mondiali, senza riuscire a scorgere nelle avanguardie culturali una significativa via d’uscita da questa impasse. Anche qui il tema del Simbolo calca la scena. Di particolare interesse credo risulti l’accenno alla riflessione teologica di Claudel e soprattutto l’accostamento con Von Balthasar – che personalmente invito ad approfondire – specie per ciò che riguarda l’“ambiente drammatico” di entrambi gli Autori. Si riconosce come l’Europa si sia «mummificata in un istante e non riesce più a muoversi, né a reagire». A partire da questa morte della cultura europea, ormai svuotata, il francese fa dialogare terra e cielo, atteggiamenti differenti nei confronti della storia e della politica, interessi di parte in un unico orizzonte globale in cui vengono compressi paesi ed epoche diverse.

«Se non tengo presente l’universo, perdo il senso delle proporzioni». Le parole di Italo Calvino che hanno fatto da incipit a questa presentazione dovrebbero costituire – mi si lasci passare l’idea – quasi il “metro”, l’unità di misura con cui questo numero di Nipoti di Maritain dovrebbe essere letto. Con un respiro ampio e con orizzonti larghissimi. Del resto il nostro orizzonte non può non essere l’universo. Perciò ci interroghiamo, perciò siamo ancora capaci di stupirci portandoci sempre e di nuovo una mano sulla bocca: siamo ancora capaci di ad-orare. Dunque l’atto del pregare è in vista del perdurare dello stato di adorazione. Non ci interessa lo scopo determinato e l’eventuale soddisfazione del medesimo, quanto piuttosto il passaggio ad una condizione profonda e senza scopo della relazione con Dio. Questo il minimo comune denominatore di tutti i contributi presenti. Un amore e un’adorazione senza contropartite, senza nulla pretendere e desiderare per noi. Forse, è proprio questo il centro del centro, l’essenza della preghiera, la sua gratuità senza se e senza ma.

Note

1 - H. Bremond, Histoire littéraire du sentiment religieux en France dépuis les guerres de religion jusqu’à nos jours, I, Paris 1916, p. 124.

This article is from: