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Dal dominio dell’astinenza alla forza dell’impotenza
di Mattia Lusetti
Il clima di libertà di espressione teologica e di opinione inaugurato da Papa Francesco ha riportato alcune discussioni al centro dell’attenzione mediatica e pure di quella di molti teologi, pastori e fedeli. Tra queste la discussione sulla revisione dell’obbligatorietà del celibato per il clero cattolico di rito latino. Che senso ha il celibato “obbligatorio”? Queste domande sono tornate in auge in occasione del Sinodo per l’Amazzonia, in seguito alle richieste di alcuni per ovviare alla scarsità di vocazioni presbiterali, e alla conseguente assenza per molte comunità della celebrazione eucaristica domenicale. Evitando le secche dell’uso dell’Amazzonia come grimaldello o come feticcio di terrore, riflettere sulla crisi del celibato credo possa aiutare ad aprire vie nuove per comprendere la castità come chiamata universale per tutti i fedeli.
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Riguardo alla questione re-introdotta al Sinodo, l’apertura all’ordinazione di sacerdoti sposati (per le chiese di rito latino) è canonicamente possibile ed è quindi fuori luogo paventare sovversioni dell’ordine ecclesiale nell’esaminare questa possibilità, come neanche considerare questa via come la soluzione certa dei problemi rilevati. La sussistenza di una crisi generale del celibato e della castità è evidente. Qui vorrei evidenziare un apporto fondamentale, frutto di “Querida Amazzonia”, riguardo alla vita del presbitero: il fatto che il proprium del sacerdozio non è «il potere, il fatto di essere la massima autorità della comunità» (n. 87), e le sue conseguenze.
La missione del sacerdote diocesano implica una vicinanza e una comunanza di vita con coloro che gli sono affidati – e a cui lui è affidato. Lo stile di vita che lo caratterizza deve quindi esprimere questa vicinanza. Conclusosi il tempo in cui si è attuata questa esigenza in senso de-sacralizzante nei simboli, nel vestiario, nelle proibizioni e nella formazione, è necessario pensare a questa vicinanza in maniera pro-attiva. Per avere l’odore delle pecore non è sufficiente cambiare vestito così come per sconfiggere il clericalismo non basta scagliarsi contro presunte o reali forme del passato incarnate in piccoli movimenti. Separare il senso del ministero sacerdotale dall’autorità come esclusivo esercizio del potere è fondamentale e in questa direzione vanno molte delle azioni dell’attuale Pontefice, ancorché poco evidenziate. La nomina di laici – uomini e donne – in posizioni che comportano l’esercizio di un effettivo potere gestionale ed economico realizza simbolicamente ed efficacemente il segnale che non sta in quell’esercizio il proprium del ministero sacerdotale del presbitero. Se l’esercizio del potere come esclusivo monopolio clericale comporta un legame da spezzare bisogna stare attenti ad un rischio tremendo. La rinuncia del potere non va declinata in senso “cataro” o pauperista, ovvero come annullamento di ogni capacità di azione ed incidenza dei singoli e delle comunità nella più vasta comunità della nazione e dell’umanità. La rinuncia al potere non è impotenza, anche se è la via della debolezza (1Cor 1,25). Nel caso specifico il sacerdote quindi non deve “limitare” il proprio agire o volatilizzare il proprio operare in un etereo spiritualismo, ma semplicemente riconoscere la potente via della debolezza nella propria prassi e inventiva – e non in una cristallizzata ed indiscussa unione data a priori tra il potere e il sacramento dell’ordine. Le conseguenze sulla comprensione del celibato saranno incalcolabilmente positive. Nella misura in cui l’ordine sacerdotale è l’esclusiva via per l’esercizio del potere il celibato rischia – ma per implicazione oggettiva della situazione – di diventare una forma sacrificale strumentale all’acquisto del dominio, nel senso deteriore sviscerato da Nietzsche e Girard. La rinuncia per ottenere il dominio può essere una via pericolosa per il singolo nei suoi rapporti con la propria storia ed identità e con gli altri uomini. Liberata invece da questa situazione la via del celibato può invece riacquistare quella percorribilità libera – del celibato pur obbligatorio – in cui soltanto questo stato può essere “salvato”. Allo stesso tempo esso può diventare una via per quella potenza nella debolezza conseguenza della forma di Cristo impressa nella vita della Chiesa e di ogni fedele.
Proprio questa rilettura della dinamica tra potere e libertà può favorire un potenziamento nella comprensibilità della chiamata di tutti alla castità. La riduzione della castità alla pura astinenza sessuale infatti sembra perfettamente congruente da una parte con la neutralizzazione del proprium cristiano verso una generica forma di dominio religioso di sé, dall’altra con una forma di esercizio di potere abilitante ad un riconoscimento esteriore da parte della comunità. Entrambe le motivazioni danno anche ragione della crisi della virtù:
- la cultura sembra spingere il dominio religioso generico verso forme alimentari di rinuncia o di ascesi fisico-estetica dove non c’è spazio per l’astinenza sessuale;
- la comunità sembra non riconoscere più la valida identità di qualcuno in base alla pubblica conformità a norme sulla vita sessuale, alle quali anzi la cultura corrente è decisamente contraria.
La prometeica dialettica insuccesso/successo della castità come astinenza (resistere o non resistere), indica che questa forma riduttiva di castità non è propriamente cristiana. La via della tenerezza e della sua espressione corporea su cui Papa Francesco insiste indicano appunto il terreno su cui si gioca la castità cristiana. La cristificazione della sessualità implica prima di tutto il riconoscimento di due aspetti intrinseci dell’umano: la fragilità e la relazionalità. Il pieno abbracciare questi aspetti è condizione perché il vivere secondo la forma e le norme che il cristianesimo (cattolico) presenta come proprie della castità sia autentico e fruttuoso e non una forma di puro controllo temporaneo o permanente. La coscienza della fragilità dell’essere-corpo come esposizione all’altro, il suo inveramento nella relazione richiedono di considerare la castità come un cammino che va vissuto nella conoscenza ed espressione emotiva e in relazioni autentiche e ricche. Essa si misura nella capacità del singolo di diventare creatore e custode di relazioni di reciproca donazione ad ogni livello e in ogni ambito. La castità perciò si attua inevitabilmente e per ciascuno in un cammino relazionale a partire dalla propria storia, una via di potenziamento autentico e non di immiserimento. La parola e la condivisione dei cammini e delle fatiche – non del controllo, ma dell’esposizione e della pazienza – è l’unica via per ricevere e cogliere il frutto di un dono universale.