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intervista - Pino Lorizio e i simboli da riabitare umanamente
a cura di Piotr Zygulski
Professor Lorizio, innanzitutto le chiediamo cosa Lei intende per simbolo, da distinguersi rispetto ai segni, alle allegorie, alle metafore e alle rappresentazioni.
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Il simbolo non si definisce, ma si abita e si racconta. Penso che dobbiamo muovere la riflessione sul simbolo a due livelli: quello che definirei “naturale” e quello che possiamo chiamare “culturale”. Al primo livello ci poniamo, per esempio, attraverso la splendida lirica di Charles Baudelaire “Correspondances”: «La natura è un tempio dove pilastri viventi si lasciano sfuggire a volte confuse parole. L’uomo vi passa attraverso foreste di simboli che lo osservano con sguardi familiari». Qui il poeta ci pone di fronte alla natura nel suo insieme, come universo simbolico, ma anche, nel prosieguo, ai singoli messaggi che le diverse espressioni naturali emanano. In questo senso il livello cosmico-naturale dell’esistenza rimanda ad altro, ad un altrove che siamo chiamati ad intravedere e che profumi, colori e suoni ci invitano a scorgere. Al secondo livello troviamo l’uomo come “animale simbolico”, ossia capace di produrre simboli, ovvero artifici o artefatti che conducano all’altrove. Mi sembra importante sottolineare come, nel simbolico-sacramentale cristiano, si intreccino le due prospettive. Si pensi alla preghiera che accompagna le offerte nella celebrazione eucaristica: il pane e il vino sono detti «frutto della terra e del lavoro dell’uomo». E in tale senso la sacramentalità incrocia l’umano naturale e culturale.
Negli ultimi decenni è cambiato il nostro rapporto con i simboli o semplicemente abbiamo cambiato simboli? La secolarizzazione prima, e la post-secolarizzazione adesso, hanno mandato in crisi il simbolico?
La tentazione a strumentalizzare i simboli non concerne soltanto la città secolare e le sue espressioni. Di fatto anche negli universi religiosi accade un rapporto al simbolico di tipo strumentale che definirei idolatrico. Piuttosto direi, continuando la riflessione precedente, che, posto che il paradigma della secolarizzazione e della postsecolarizzazione sia ancora valido (il che è discutibile e discusso), lo spostamento riguarda l’accentuazione e a volte l’esasperazione della dimensione culturale rispetto a quella naturale e dunque uno squilibrio, determinato dalla pervasività della tecnica, che comporta ovviamente un modo diverso di pensare il simbolico e i simboli stessi, più come “prodotti” che come “dati”. E tuttavia, riflettendo sull’universo mediatico e sul quel nuovo Leviatano che è il web, ci vengono incontro alcune parole, contenute anche nella nostra tradizione, assunte a significare (non so se secolarizzate o meno) il mondo virtuale. Innanzitutto, la “rete”, che siamo chiamati ad abitare e che nel tempo presente rappresenta il regno di Dio, in cui convivono pesci commestibili e altri nocivi o inutili, ma che solo al giudizio finale spetta la selezione. Quindi l’“icona”, che, come nella rappresentazione rituale cristiana, rimanda ad altro da sé e non cattura, come l’idolo, l’attenzione di chi la contempla, ma come da una schermata apre un sito o un programma, così nel presente richiama il futuro. Infine, la “parabola” che, come frontiera del vangelo, innesta il messaggio nel quotidiano e porta il mondo nelle nostre case e nelle nostre esistenze, suggestionandole, ma anche interpellandole. Come si può notare, in queste parole-simbolo, si dà insieme continuità e distanza rispetto alla loro provenienza tradizionale ed evangelica.
Un Mito – come illustra un articolo presente in questa rivista, rifacendosi a Giorgio Agamben e a Fulvio Carmagnola – instaura un certo rapporto “sacrale” che necessariamente viene “profanato”. Vale lo stesso per il simbolo? Per quale motivo?
L’espressione cultuale del mito è il rito, quella dell’evento è il sacramento. Già in questa dialettica fra l’orizzonte pagano del mitologico e quello cristiano della sacramentalità assistiamo a una metamorfosi del “sacro”, che diviene e deve divenire “santo”. Ma questa metamorfosi non costituisce affatto una profanazione, che invece si determina allorché simbolo e rito, mito e sacramento vengono decontestualizzati a orientati a processi alieni dal loro senso originario. La recente, necessitata, scelta di non celebrare l’eucaristia e i sacramenti in occasione del coronavirus nelle zone ad alto rischio, penso debba farci riflettere sul fatto che, per il cristiano, il tempio è l’uomo e il suo cuore, per cui come dice Gesù di Nazareth alla donna samaritana «è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4, 23). Certo abbiamo bisogno anche di esprimere in maniera “carnale” questa adorazione, ma, quando tale possibilità non ci è data (pensiamo al forzato digiuno eucaristico dei popoli amazzonici), non va dimenticato questo messaggio evangelico. Pertanto, custodire l’umano è il vero culto; metterlo a repentaglio per partecipare a dei riti sarebbe profanante. Del resto, di fronte a tutto il profondo significato nell’universo simbolico ebraico dell’osservanza del sabato, Gesù di Nazareth viene a dirci che «è il sabato per l’uomo, non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).
Come dobbiamo comportarci di fronte a questa “profanazione”, soprattutto in riferimento all’uso di quelli che erano simboli religiosi nello spazio pubblico e nel dibattito politico? Dovremmo rinunciare al simbolico perché sempre ideologico oppure non possiamo farne a meno?
Certamente non possiamo fare a meno del simbolico, autenticamente e non strumentalmente inteso, così come non possiamo non esprimere la nostra identità credente. A tal proposito mi preme rammentare che “Simbolo” è detto anche il “Credo”, ossia ciò che ci identifica e ci differenzia, ma in un contesto preciso e ben determinato. Il contesto laico delle istituzioni e delle manifestazioni partitiche chiede grande cautela nell’utilizzo di riferimenti simbolici di carattere religioso, onde tenerci alla larga dalla tentazione di attivare crociate o indurre comportamenti fondamentalisti. Quando anche si ricorra all’esposizione di simboli cristiani in luoghi pubblici (penso al crocifisso o al presepe), va sempre e comunque evidenziato il messaggio umano ed universale che da essi promana, mentre d’altra parte va esercitato il necessario senso critico nei confronti di profanazioni strumentalizzanti ed ideologiche. In tal senso si tratta di assumere una visione inclusiva e non esclusivista del simbolico anche cristiano e religioso in genere.
L’essere umano, oltre a creare simboli, nella storia talvolta è diventato esso stesso un simbolo, nel bene e nel male; pensiamo all’uomo vitruviano di Leonardo. Da un punto di vista cristiano, come dobbiamo porci di fronte ai vari tentativi di “simbolizzazione” dell’umano, del post-umano, ma anche della Chiesa stessa e dei suoi membri, più o meno santi? L’umanesimo integrale di Jacques Maritain cos’ha da insegnarci a tal proposito?
«Un segno noi siamo che nulla indica», scriveva M. Heidegger, ispirandosi a F. Hölderlin, e questo perché «abbiamo smarrito il linguaggio in terra straniera». Ma, oltre che «sentinella del nulla», l’uomo è anche «pastore dell’essere» e in questa continua tensione fra essere e nulla, si gioca la sua identità e la ricerca di senso cui è chiamato. Il simbolo è il crocevia fra i due abissi su cui siamo sospesi nel frattempo del nostro essere qui ed ora. La possibilità del simbolo di farci pensare (P. Ricoeur) passa attraverso la nostra capacità di recuperare il linguaggio autentico rispetto alla chiacchiera del banale. In questo senso anche il linguaggio simbolico cristiano rischia l’insignificanza e «le statue sono [diventate] cadaveri privi di vita e gli inni parole da cui è fuggita la fede» (parola di Hegel). L’universo simbolico credente chiede di essere ripensato e nuovamente abitato proprio in relazione all’umano, nella sua integralità, con fragilità e potenzialità. Ma integralità non è sinonimo di integralismo, tantomeno di fondamentalismo. In questo senso il simbolo ha a che fare col dialogo, ossia con la capacità, sulla base del logos che ci accomuna e ci rende umani, di interfacciarci con chi non condivide la nostra appartenenza, etnica, culturale, religiosa, politica … In questo orizzonte l’impegno educativo, volto alla formazione delle coscienze, diventa fondamentale e imprescindibile e richiede grande spirito critico e totale dedizione, perché, come diceva Rosmini, «solo i grandi uomini possono formare uomini grandi».