WOL - Welfare On Line, N. 5, Giugno-Luglio 2012

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welfare on line Webzine dell’Associazione Nuovo Welfare Anno VIII, Numero 5, Giugno-Luglio 2012

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Foto di Marco Biondi In questo numero: “Gli interventi e i servizi sociali dei Comuni nel periodo iniziale della crisi” di Roberto Fantozzi – pag. 2 “Storia della disabilità. Dal castigo degli dei alla crisi del welfare” intervista a Matteo Schianchi – pag. 4 “Le insidie del processo di esternalizzazione dei servizi” di Mauro Ferrari – pag. 7

Le nostre rubriche: “LibrInMente” a cura di Silvia Spatari – pag. 13 “Cineforum” a cura di Matteo Domenico Recine – pag. 7

Associazione Nuovo Welfare


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Gli interventi e i servizi sociali dei Comuni nel periodo iniziale della crisi

Sin dalla prima pubblicazione da parte tario Nazionale - SSN (pari al 23,1 per cento dell’Istat del Rapporto: “Interventi e servizi so- del totale), i Comuni finanziano con risorse ciali dei Comuni singoli o associati”, WOL pro- proprie il 76,9 per cento (76,5 per cento nel pone un’analisi generale dei risultati presenta- 2008) della spesa erogata sul territorio3. ti. La spesa per l’assistenza sociale nel 2009 è Il costante monitoraggio degli interventi realiz- aumentata del 4,7 per cento rispetto al 2008. zati nei Comuni ha permesso così di mantenere L’incremento registrato è stato finanziato per un faro sempre acceso sul welfare di compe- l’87,4 per cento dai Comuni e per il 13,3 per tenza degli Enti Locali. Nel numero di WOL del- cento dalla quota del SSN, mentre la comparlo scorso anno1, ci domandavamo quali sareb- tecipazione degli utenti ha registrato un calo bero stati gli impatti sulle politiche sociali a se- dello 0,7 per cento. Il contributo alla crescita guito delle notevoli riduzioni di trasferimenti da delle aree Famiglia e minori, Disabili e Povertà, parte dello Stato previste nelle diverse mano- disagio adulti e senza fissa dimora è pari al 3,9 per cento della crescita totale, il restante 0,8 vre di finanza pubblica. Come più volte denunciato dagli Enti stessi, in- per cento è attribuibile alle altre aree di interfatti, una riduzione dei trasferimenti implica vento. una diminuzione dei servizi. La scelta dei servi- La spesa media per abitante, passando dai zi da ridurre dipende chiaramente dalle scelte 111,4 euro pro capite del 2008 ai 115,9 euro delle singole AmministraGrafico 1: Spesa dei Comuni per servizi sociali: valori medi pro-capite zioni. L’analisi qui presentata per regione anno 2009 continuerà, quindi, a concentrarsi sugli interventi e i servizi sociali che i Comuni2 erogano in riferimento alle proprie competenze territoriali. I dati che saranno analizzati si riferiscono all’anno 2009, da cui potrebbero emergere alcuni effetti delle passate manovre. È utile chiarire, dunque, che sui dati in esame le recenti manovre del Governo Monti non esercitano alcun impatto. L’indagine riferita all’anno 2008 rappresenterà il benchmark poiché non risente ancora di particolari interventi di Elaborazione Nuovo Welfare su dati Istat finanza pubblica. Nel 2009 i Comuni italiani, in forma singola o del 2009, è aumentata del 3,3 per cento. La associata, hanno impegnato per gli interventi e spesa media pro capite maggiore si è registrai servizi sociali 9 miliardi e 74 milioni di euro. ta con 294,7 euro (grafico1) nella Provincia Considerando questa spesa al netto delle com- Autonoma di Trento (280,5 euro nel 2008), partecipazioni degli utenti e del Servizio Sani- 3 Cfr. WOL Anno VII, Numero 5, Settembre 2011. Istat: “Interventi e servizi sociali dei Comuni singoli o associati” - Anno 2009 del 12 Aprile 2012 su www.istat.it.

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Le stime sono state effettuate sulla base delle risposte date dai Comuni e dagli altri Enti di rilevazione ai quesiti sulle fonti di finanziamento e si riferiscono al 87,5% della spesa complessiva.

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mentre il valore più basso, pari a 25,5 euro, è trasporto sociale e i diversi tipi di assistenza stato rilevato in Calabria (30,3 euro nel 2008). domiciliare. Con riferimento, in particolare, È opportuno ricordare che quando si osserva la all’assistenza domiciliare a carattere esclusispesa sociale e si eseguono confronti spazio- vamente sociale (escluse le prestazioni sanitatemporali, incrementi o decrementi di spesa rie), nel 2009 i Comuni hanno garantito una non rappresentano comunque né pregi né virtù spesa media per utente con disabilità di 3.469 delle singole Amministrazioni Locali. Quello che euro. Il numero di disabili assistiti a domicilio bisogna verificare, infatti, è la qualità della risulta in aumento, passando dai circa 46.000 spesa sostenuta e quali gli effetti reali prodotti utenti nel 2008 ai 48.661 nel 2009. La quota dalle singole politiche adottate. Questo non restante della spesa per le politiche sulla disagiustifica, comunque, la presenza di significati- bilità si compone di trasferimenti in denaro ve differenze sul territorio nazionale, dove si (24,3 per cento) e di costi di gestione per le evidenzia una costante distanza tra Nord e strutture (24,7 per cento). Sud. La spesa per interventi destinati all’area AnziaDell’intero ammontare della spesa sociale so- ni assorbe il 20,4 per cento della spesa comstenuta dai Comuni è utile osservare anche la plessiva. Di essa il 52,4 per cento è destinato a ripartizione fra le diverse aree destinatarie de- interventi e servizi, il 27,2 per cento è erogato gli interventi. sotto forma di trasferimenti in denaro e il 20,4 Il grafico 2 mostra l’andamento della riparti- per cento è dato dai costi di gestione per le zione delle spese sostenute dai Comuni negli strutture comunali. Nell’ambito degli interventi anni 2003-2009. Le singole quote destinate ai e servizi, la principale voce di spesa è dovuta diversi interventi presentano un an- Grafico 2: Spesa dei Comuni per servizi sociali per area di utenza (anno 2008) damento pressoché costante, ad eccezione della spesa per Anziani che nel corso del tempo ha visto progressivamente ridurre il proprio peso sul totale (era il 25,2 per cento nel 2003, è il 20,4 per cento nel 2009); gli incrementi più significativi nella distribuzione si registrano invece per Famiglia e minori, Disabili e Povertà, disagio adulti e senza fissa dimora. Nel 2009 il 39,8 per cento della spesa Elaborazione Nuovo Welfare su dati Istat complessiva è impegnata nell’area Famiglia e minori, di questa il all’assistenza domiciliare a carattere esclusi56,4 per cento è assorbita dai costi di funzio- vamente assistenziale. namento delle strutture, dove gli asili nido Le politiche per Povertà, disagio adulti e senza fissa dimora costituiscono l’8,3 per cento del rappresentano la componente principale. La seconda area di utenza per livello di spesa è totale. Gran parte della spesa riguarda i trasfequella dei Disabili, con il 21,6 per cento del to- rimenti in denaro verso le famiglie (il 54,4 per tale. Essa si compone per il 51 per cento di in- cento nel 2009, erano il 56,8 per cento nel terventi e servizi, come il sostegno socio- 2008) e principalmente i contributi economici educativo scolastico, l’inserimento lavorativo, il

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per l’alloggio e quelli a integrazione del reddito familiare. Per le attività generali o rivolte alle Multiutenze è destinato il 6,3 per cento della spesa totale. In fine gli interventi per gli Immigrati e le Dipendenze, rispettivamente con il 2,7 per cento e lo 0,9 per cento, risultano le aree a cui vengono destinate le minori risorse. Il quadro mostrato dai dati fin qui esposti permette di avanzare alcune riflessioni. Le manovre di finanza pubblica, per il 2009, non sembrano aver ancora generato effetti sulla riduzione della spesa. È opportuno sottolineare, però, che l’incremento di spesa registrato è stato sopportato per la quasi totalità dalle singole Amministrazioni Locali, senza aver gravato sulla compartecipazione degli utenti. Questo primo quadro non è ancora sufficiente, però, per determinare complessivamente gli effetti delle manovre di finanza pubblica. Prima di giungere a conclusioni definitive, sarebbe necessaria, infatti, un’analisi più dettagliata sul numero di utenti raggiunti dai servizi all’interno delle diverse aree di intervento. Nel numero di WOL del 2011 avevamo anche pronosticato l’intensificarsi della spesa per l’area della Povertà, disagio adulti e senza fissa

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dimora. Come mostrato in precedenza, l’aumento atteso si è verificato. Considerato l’acuirsi della crisi economica ci si attende che in futuro questa area continuerà ad assumere un peso sempre più rilevante. Il costante divario − in termini di spesa – tra il Nord e il Sud dell’Italia continua a manifestarsi in modo sempre più evidente. Infatti, mentre nella Provincia Autonoma di Trento si è registrato un aumento della spesa media procapite, in Calabria nel 2009 si è avuta una riduzione del 16,4 per cento. Infine, come premesso inizialmente, bisognerà continuare a monitorare sia le dinamiche future della spesa per servizi sociali che il numero di utenti servito. Il perdurare della crisi, infatti, metterà sempre più a dura prova le fasce più disagiate con il rischio di veder aumentate disuguaglianze già esistenti. Roberto Fantozzi* Esperto di statistica, svolge la propria attività presso l’Istat e collabora da tempo con l’Associazione Nuovo Welfare. *

Storia della disabilità. Dal castigo degli dei alla crisi del welfare

Dato alla stampe di recente, “Storia della disabilità. Dal castigo degli dei alla crisi del welfare” (Carocci Editore, giugno 2012. pp. 248, € 18) costituisce l’ultima pubblicazione di Matteo Schianchi, già autore nel 2009 de “La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizi e realtà”. Riportiamo di seguito una breve intervista rilasciata in esclusiva per WOL dallo stesso autore. Un testo di storia della disabilità è certo poco comune, come mai questa scelta? Dell’interesse di un approccio storico alla disabilità, al di fuori della mia formazione e delle mie personali ricerche, ne argomento nell’introduzione. Difficile sintetizzare in poche battute, anche perché a quella introduzione ci tengo in modo particolare, però si può dire che gli studi storici possono contribuire (insieme ad altre discipline) a modificare lo sguardo sulla disabilità su cui le conoscenze sono sempre troppo limitate e, mi si passi l’espressione, zoppicanti.

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Si scrive sempre per qualcuno, chi sarebbero i destinatari del libro? Ho cercato di non pensare troppo a tale questione, che è decisiva. Il mondo della disabilità non affronta, generalmente, le questioni storiche e, altrettanto generalmente, chi si occupa di questioni storiche non si occupa della disabilità. Allora ho cercato di “farmi portare” dai temi che scoprivo e affrontavo. Di sicuro, un solo testo non può essere esaustivo di tutte le questioni, e non ho neanche le competenze per farlo. Se devo pensare ad un lettore è una persona interessata a porsi domande e problematiche relative alla disabilità, senza trovare facili

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soluzioni e risposte immediate (che non ci sono) poiché sono molte di più le domande formulate che non le risposte. Quali sono in sintesi i temi affrontati dal libro? I capitoli seguono in parte una scansione cronologica. Si parte con alcune tracce di disabilità in talune civiltà antiche per poi passare alla vicenda dei disabili nel mondo greco-romano. Il terzo capitolo affronta il tema della rappresentazione della disabilità nell’Antico e nel Nuovo testamento in una prospettiva storica e non religiosa. Il quinto capitolo affronta la realtà sociale della disabilità in epoca medievale e moderna. Gli ultimi due capitoli (8 e 9) ricostruiscono la vicenda della disabilità nel Novecento, spingendosi fino ad uno sguardo complessivo della nostra contemporaneità a partire dall’analisi di alcuni temi, per esempio è stato interessante ricostruire la storia dell’associazionismo italiano. Ci sono poi alcuni capitoli intermedi che trattano alcuni temi specifici, affrontati seguendone lo svolgimento nelle diverse epoche storiche. Il quarto capitolo si occupa della questione dei mostri dalle civiltà greco-romane fino al Novecento. Il sesto capitolo affronta lo sviluppo delle pedagogie speciali per tutti i tipi di disabilità per poi proporre una carrellata dei provvedimenti legislativi presi in Italia nel Novecento in tema di scuola e disabilità. Il settimo capitolo è incentrato sul tema del «mostrare i diversi» dalla presenza dei nani nelle corti occidentali antiche e moderne e della spettacolarizzazione dei fenomeni da baraccone tra Ottocento e Novecento. Chiude una sostanziosa bibliografia. Sono dunque affrontate tutte le tipologie di disabilità? Mi occupo di disabilità fisiche, sensoriali e intellettive. A seconda delle diverse epoche è stato possibile affrontare meglio alcune di queste tipologie. Per esempio, mi sono reso conto delle enormi lacune storiografiche che esistono attorno alla disabilità intellettiva che, pur essendo quella maggiormente affrontata nella lette-

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ratura contemporanea (specie da un punto di vista medico e pedagogico) non lo è quasi per niente da un punto di vista storico. È questa un’altra spia del fatto che, spesso, quando non sono i diretti interessati, per varie ragioni, a fare ricerca sul passato della disabilità, ne abbiamo scarsissime conoscenze. Volutamente non mi sono occupato delle disabilità psichiatriche poiché su questo tema gli storici, a partire dalle movenze dell’antipsichiatria, da Foucault, dalla critica delle istituzioni totali, hanno fatto, contrariamente alle altre disabilità, ricerca storica anche all’interno dell’accademia.

L’analisi si spinge fino ad uno sguardo molto attuale, la “crisi del welfare”. L’ultimo capitolo affronta alcune questioni relative alla contemporaneità. Non potevo non affrontare, brevemente, questa crisi. Rispetto ai secoli precedenti viviamo in una situazione paradossale: la disabilità è parte dello stato sociale, si sanciscono diritti, c’è la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, eppure si corre il rischio di un arretramento. La crisi del welfare riguarda tutti, anche il mondo della disabilità ed è una crisi che riguarda non lo spread, né questo o quel governo, ma il potere della politica di governare la società senza sottostare unicamente alle leggi di mercato. I tagli, i decreti sono ovviamente molto concreti, ma il problema più profondo è che la politica deve scegliere: diritti o barbarie? Quando non si scelgono gli uni (comprese le modalità di renderli concreti), automaticamente (e spesso con molte mistificazioni) si sceglie l’altra. Ci sono temi o questioni che ti hanno particolarmente sorpreso nelle tue ricerche? Tutto il lavoro di ricerca per scrivere è stato molto appassionante e mi ha permesso di conoscere e approfondire molti argomenti. Ci sono però aspetti che mi hanno davvero entusiasmato. Anzitutto la scoperta di un articolo di Marinetti, il padre del futurismo, scritto nel 1916 in cui dice “donne dovete sposare i mutilati di guerra” perché sono i portatori di una nuova filosofia ed estetica non solo del corpo,

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ma di tutto l’uomo. Tolta la retorica tipica di quell’epoca, mi sembrava di leggere un testo di cyberpunk degli anni Novanta! Mi affascina poi sempre il discorso sui fenomeni da baraccone, sui cui ho fatto un approfondimento che va dalle civiltà antiche al Novecento. Mi affascina perché mi pare completamente inumano ridere delle deformità altrui, mostrarle a fini economico-spettacolari, eppure per secoli questo spettacolo è stato del tutto normale, per le corti e per i ceti popolari. E poi le questioni culturali e simboliche mobilitate dai fenomeni da baraccone sono davvero innumerevoli e, come sempre, non riguardano solo la disabilità. E l’immagine della copertina? È un particolare di un quadro di Hieronimous Bosch, un pittore geniale, che adoro, e decisivo anche attorno alle rappresentazioni della disabilità. Peraltro, nel testo cito numerosi dipinti (molti dei quali in questi due anni di scrittura del testo ho visto dal vero) che a mio parere costituiscono una notevole fonte per studiare l’immaginario e le rappresentazioni anche in fatto di disabilità. Chi ha studiato la copertina aveva l’imbarazzo della scelta e l’opzione su Bosch mi è andata benissimo. Ci sono già stati dei riscontri di critica e di pubblico? Il libro è uscito da neanche un mese e, per parlarne, un libro deve essere letto, discusso. Certo i mesi estivi non aiutano molto, ma il libro non “scade”. Posso però essere contento di una bella recensione (di Goffredo Fofi su Avvenire), di un certo interesse da parte di alcuni studiosi, ma anche di persone legate al mondo della disabilità e di docenti universitari che

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hanno deciso di inserirlo nei loro programmi di esame. Come inizio non è male. La cosa che più mi interessa è, in futuro (anche in presentazioni che si stanno pensando di organizzare), poter discutere non tanto del libro, ma dei temi affrontati. Prossima tappa? Sto lavorando ad una ricerca di dottorato (che svolgo in Francia) in storia sociale della disabilità tra Ottocento e primi del Novecento con un interesse specifico sull’Italia e sulla città di Milano in particolare. Si tratta di un caso specifico che vorrei usare come “banco storicosociologico” per cercare di fare emergere questioni storico-sociali e culturali più ampie. È infatti in quest’epoca che tutto il mondo della disabilità, emblematicamente rappresentato dalla questione degli infortuni sul lavoro, diventa sempre di più fenomeno intrinseco delle società umane, frutto dei “meccanismi sociali”. In questa fase, le disabilità non sono facilmente collocabili all’interno del sistema di divisione del lavoro che fonda, ancora oggi, le nostre società. Da qui una storia di meccanismi sociali e culturali che cercano di leggere e interpretare il fenomeno in modo articolato. Matteo Schianchi* Laureato in storia contemporanea, oltre ad avere un diploma in “Histoire et civilitation” conseguito presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, è traduttore di saggistica francese per alcune case editrici e svolge attività di formazione per studenti e insegnanti sulla didattica della Storia. Ha partecipato agli Europei e ai Mondiali di nuoto con la nazionale italiana di sport per disabili.

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Cineforum

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a cura di

A Simple Life

Matteo Domenico Recine

A Simple Life narra di Ah Tao, costretta da eventi familiari luttuosi e avversi a prestare servizio fin dall’adolescenza presso la ricca famiglia Lee (o Leung) come amah (domestica). Dopo un infarto, e dopo aver compreso di non essere più in grado di servire in modo efficiente il proprio padrone, la donna decide di farsi da parte e di ritirarsi in un istituto per anziani. Il film inizia subito prima di questa fase, mostrando l’improvviso e brusco passaggio dalla quotidiana routine tra Ah Tao e Roger, fatta di pasti impeccabili, sguardi, piccole abitudini, a un nuovo mondo, a cui non solo lei, ma anche e forse soprattutto lui sono costretti ad abituarsi. Roger è infatti l’unico della propria famiglia a non essersi trasferito negli Stati Uniti e, seppure solitario, ha in Ah Tao il principale legame con il proprio passato e la propria storia. Questi decide di prendersi in carico il compito di trovare una sistemazione dignitosa per Ah Tao e, invertendo i ruoli, ad accudirla nell’ultima fase della propria vita. Il film si sofferma molto sulle condizioni di vita degli anziani in istituto – apparentemente squallido e grigio, eppure pieno di vita, grazie ai degenti e alle infermiere – e sul rapporto tra Ah Tao e Roger. A Simple Life si rivela in parte, come da titolo, un film dallo sviluppo semplice, lineare, ma con un non detto tipicamente orientale ed estremamente affascinante, perché costringe lo spettatore a riflettere anche sui dettagli minimi, alla ricerca di qualche significato. La storia, il passato di Ah Tao, appena suggeriti, rivelano tanto della propria dedizione a Roger e alla sua famiglia e consentono di comprendere il senso di gratitudine e l’obbligo morale della riconoscenza che Roger prova nei suoi confronti: una vita apparentemente semplice, eppure così densa. Oltre alla bravura della regista, capace di affrontare un tema così dolente e delicato senza mai scadere nel banale, da segnalare le ottime prove recitative da parte di Andy Lau e – in particolare – di Deanie Ip (Ah Tao). Un film di Ann Hui. Con Andy Lau, Deanie Ip, Wang Fuli, Qin Hailu, Paul Chiang. Titolo originale Táo Jie. Drammatico, durata 117 min. - Hong Kong 2011. - Tucker Film uscita giovedì 8 marzo 2012.

Le insidie del processo di esternalizzazione dei servizi 1. Breve introduzione al tema Nel recente dibattito sulla sostenibilità del welfare, a fronte di significativi e importanti grida di allarme rispetto al futuro del welfare1, oppure, più nello specifico, alle competenze profesPensiamo ad esempio al contributo rappresentato dal “manifesto per un welfare del XXI secolo” (http://www.espanet-italia.net e www.rps.it), o al ruolo che stanno assumendo in Italia i diversi forum del terzo settore nazionale e locali (si vedano ad esempio il “libro verde del terzo settore”, e il documento “quale futuro per il welfare?”, in www.forumterzosettore.it). 1

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sionali di alcuni lavoratori dell’ambito sociale2, viene riservata scarsa attenzione alle continue ridefinizioni dei ruoli in corso fra coloro che agiscono e si fronteggiano nel welfare locale. Utilizzando materiali empirici derivati da alcune ricerche sul campo prenderemo in considerazione i “giochi relazionali” che vedono protagonisti gli attori coinvolti nei processi di programmazione (in prevalenza operatori pubblici) Si veda ad esempio il recente contributo a cura di Facchini (2010).

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e nei processi di gestione (in prevalenza operatori del privato sociale3) dei servizi sociali. 2. Processi di esternalizzazione e nuovi rischi Gli studi organizzativi ci insegnano che nei sistemi di relazioni in corso fra soggetti collettivi si generano scambi (Bruni e Gherardi, 2007; Lanzara, 1993). All’interno, fra i diversi segmenti di cui si compone l’organizzazione (i vari settori, i diversi reparti), e fra questi e l’esterno (le altre organizzazioni presenti nelle sfere pubbliche locali e sovralocali). Questi scambi avvengono sicuramente su un piano formale, e nel campo del welfare locale vengono definiti come accordi, convenzioni, patti, incarichi, accreditamenti, partenariati, ecc. Ma accadono anche su di un piano informale, o della vita quotidiana, legato alle interazioni fra i diversi tipi di soggetti che abitano le organizzazioni (Berger e Luckmann, 1969; Goffman, 1969; Mangham e Overington, 1993): vale a dire che amministratori, dirigenti, operatori, tecnici, cittadini - utenti e non - mettono in atto processi quotidiani di riconoscimento e/o di disconoscimento4 reciproco. Un piano che sovente porta i diversi tipi di attori a mettere in atto modi di intervento e di costruzione di relazioni diversi, e talvolta assai differenti, da quelli ufficiali5. Possiamo considerare questo doppio binario comunicativo come la trasposizione nelle dinamiche del welfare locale delle categorie introdotte fra gli altri da Schein (1990), che invita a distinguere fra “teorie esposte” e “teorie agìte”, in cui le prime rappresentano il livello formale, il “come” le organizzazioni si presentano; mentre le seconde rappresentano Con questa precisazione intendiamo affermare che da un lato alcuni operatori pubblici seguitano a gestire servizi (si pensi ad esempio alla vicenda dei consultori delle ASL lombarde), e dall’altro operatori del privato sociale programmano, o partecipano a fasi importanti della programmazione locale, senz’altro riguardo ai servizi della propria organizzazione ma anche, a volte, con riferimento a servizi pubblici, per delega da parte delle istituzioni. 4 Non è questa la sede per un approfondimento dell’ambivalenza del termine “disconoscimento”, che qui intenderemo comunque come una delle forme di affermazione di un “sé” individuale o collettivo, rispetto ad altri sé presenti nello stesso campo. E che considereremo quindi come una sorta di riconoscimento – che può di volta in volta presentarsi come provvisorio, conflittuale, rivendicativo, competitivo, identitario. 5 Ne abbiamo discusso (Ferrari, 2010) a proposito di quelle che abbiamo definito come “pratiche di sconfinamento”. Riprenderemo fra poco questo tema. 3

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le pratiche della vita quotidiana che gli attori utilizzano con i propri interlocutori interni ed esterni: per scambiarsi informazioni, per programmare e gestire servizi, o più in generale per risolvere problemi imprevisti. L’ipotesi su cui ci muoviamo è che in tutte le interazioni che avvengono nei processi di esternalizzazione, così come in quelli di reinternalizzazione (Gatti, Rossi, 2010), transitano, insieme agli accordi formali, competenze e storie, relazioni e saperi. Così come transitano anche rappresentazioni reciproche, e processi di attribuzione di titolarità, che confermano, o smentiscono (rinforzano od ostacolano) ciò che nei documenti viene sancito. Vedremo ora, nei prossimi paragrafi, due esempi.

2.1. Esternalizzazioni: primo tempo Utilizzeremo, per esemplificare questa nuova distribuzione di ruoli fra soggetti pubblici e del privato sociale, il caso di una esternalizzazione in un distretto: riporteremo uno schema, esito di una ricerca condotta a Parma6, città capoluogo dell’Emilia Romagna, e riferita in particolare all’area immigrazione del Comune e del piano di zona. Fino a qualche anno fa i servizi venivano gestiti con la logica del “global service”, secondo la quale viene appaltata la gestione complessiva del servizio: al Comune rimane una funzione detta Ivc (indirizzo, verifica e controllo7). Nella realtà quotidiana le cose vanno in maniera ben diversa. In caso di dubbi l’operatore della cooperativa infatti non si rivolge al proprio responsabile – il presidente della coop – ma lo scavalca e chiede consulenza al referente comunale, il quale viene paradossalmente confermato nel “vecchio” ruolo di gestore del servizio, non potendo svolgere un ruolo che è insieme nuovo e indefinito. Come esemplificato nello schema sotto riportato (figura 1), per ogni contatto settimanale (cioè per ogni richiesta di chiarimenti) fra un operatore della cooperativa che gestisce il campo nomadi e il proprio presidente ne corrispondono cinquanta con il referente comunale. In altre parole quella delle nuove funzioni assegnate ai referenti comunali sembra una 6 Si tratta della ricerca di dottorato svolta in quattro distretti delle regioni Lombardia ed Emilia Romagna, ora riportata in Ferrari, 2010. 7 Si tratta dell’equivalente del “P.A.C.” - programmazione, acquisto, controllo – come viene definito nelle ASL lombarde.

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retorica mal riuscita alla prova dei fatti. Le due questioni della partecipazione e della gestione esternalizzata sembrano in questo contesto non essere così analiticamente separate: i fornitori di servizi nella pratica lavorativa non gestiscono né riflettono autonomamente, non disponendo che di una piccola parte del bagaglio di competenze ed esperienze del loro omologo comunale; così che coloro che gestiscono servizi per conto dell'ente locale si sentono e agiscono – e vengono rappresentati - in questo caso come “dipendenti impropri” del Comune che li ha ingaggiati. Ma ancora più significative per le nostre riflessioni sono le considerazioni che possiamo trarre da questa esperienza. Abbiamo visto che da un lato è presente l'opzione esplicitata nei documenti strategici del Comune sul possibile utilizzo degli strumenti amministrativi più idonei ad un determinato servizio, e tra questi la scelta di esternalizzare servizi (attraverso accreditamento, convenzioni, appalti). Dall’altro lato, relativamente ai processi di governance, la vicenda sembra assumere altri aspetti ancora più ambivalenti. Infatti, se le relazioni all’interno dei tavoli tematici avvengono non tra co-progettisti - le cooperative sociali e l'ente locale - ma tra “fornitori” e “appaltatori”, inevitabilmente il ruolo dei soggetti presenti ai diversi tavoli diventerà ambivalente. Da un punto di vista analitico potremmo argomentare che rispetto alla partecipazione, quindi ad una delle basi portanti dell’idea stessa di governance, questo modello porta con sé una questione di asimmetria partecipativa: esiste cioè la concreta possibilità che fra i rappresentanti del Comune titolare ed i soggetti fornitori si instauri un rapporto diretto, rapporto che inevitabilmente si proietterà all’interno dei tavoli tematici del piano di zona; elemento questo che indebolirebbe di riflesso la relazione con gli altri soggetti ivi presenti; in specifico si tratterebbe, data l’intensità delle relazioni fra i due soggetti, di una asimmetria informativa, dato che le informazioni che i fornitori portano al tavolo potrebbero essere le uniche disponibili. Inoltre queste informazioni potrebbero essere fortemente orientate al mantenimento del contratto (sovrastimando le esperienza positive, sottostimando quelle negative), alterando in questo modo la possibilità

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da parte di altri attori di intervenire con proprie autonome valutazioni sui servizi erogati; infine, e lo vedremo nel prossimo paragrafo, si potrebbe instaurare progressivamente una asimmetria di ruoli, dato che chi gestisce un servizio entra in diretto contatto con soggetti e dilemmi tipici dei soggetti cui si riferisce (come nel caso citato di un campo nomadi), divenendone progressivamente il più titolato a relazionarne, ad esprimerne questioni rilevanti, valutazioni specifiche; al punto da sfuggire alla possibilità di valutazione da parte dell’ente titolare del servizio. La contaminazione fra partecipazione e contrattualizzazione trova in questo modello esternalizzante una accelerazione che da un lato può pregiudicare il ruolo di garanzia che dovrebbe venire svolto dall'ente locale, e dall’altra parte, ossia per i soggetti che si affacciano alla partecipazione, crea da subito differenze che possono rivelarsi perniciose. Quindi, se nello spazio nel quale si pratica la partecipazione vengono elaborati non solo significati ma contratti, per i soggetti potenziali fornitori diventa indispensabile partecipare, rendersi visibili, cercando di negoziarne gli esiti a proprio favore8; ma per tutti gli altri soggetti (compresi alcuni attori interni all'ente che li promuove) la ribalta dei tavoli tematici potrebbe svuotarsi di senso. La commistione tra partecipazione e gestione, insomma, in questo caso sembra presentarsi come una deriva contrattualistica impregnata quantome-no di ambivalenze. Inoltre, se il gioco delle parti tra Comune e cooperative è schiacciato su un esito contrattuale, questo può comportare che rappresentazioni divergenti, critiche o poco rassicuranti, corrano il pericolo di non venire ammesse, e privare così la discussione di elementi di potenziale arricchimento.

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2.2. Esternalizzazioni: secondo tempo Con il procedere del tempo, è assai probabile che la situazione che abbiamo descritto nel paragrafo precedente si evolva nel senso indicato dalla figura 2: vale a dire che, pur in assenza di indagini empiriche al riguardo, possiamo stimare il persistere di una situazione assai differente da quella riscontrata durante quello che abbiamo definito come “il primo tempo”. Gestire un servizio significa disporre di conoscenze sulle storie dei cittadini-utenti che vi afferiscono, sulle questioni organizzative interne da risolvere (dalla costruzione del budget alla definizione delle competenze necessarie), sulle relazioni esterne al servizio (dalla costruzione di reti di prossimità alla possibilità di esplorare nuove modalità di erogazione del servizio, alle partecipazioni locali fino ai partenariati di livello sovralocale). Al punto che il servizio ed i suoi referenti (coordinatori-presidenti ed operatori) potrebbero limitare le relazioni con la committenza pubblica ai soli momenti indispensabili: produzione di stati di avanzamento, relazioni di monitoraggio, stipula di contratti; ma senza avvertire la necessità di scambiare saperi, come avveniva nel “primo tempo”, poiché questi vengono elaborati all’interno del soggetto gestore. Questo è il motivo per cui abbiamo proposto nella figura 2 un rovesciamento dell’intensità dei contatti fra i tre tipi di attori: se prima lo scambio avveniva in prevalenza fra referente comunale e operatore della cooperativa, e su questo flusso intenso si costruivano, transitavano saperi e sviluppi del servizio, ora è all’interno del servizio, fra operatori e coordinatori, che avvengono le maggiori frequentazioni. Con alcune conseguenze teorico-pratiche di grande rilievo rispetto agli assetti del welfare ed ai giochi fra gli attori: 1. Saperi. La costruzione di saperi avverrebbe dunque all’interno del soggetto gestore, che diviene nel corso del tempo baricentrico rispetto all’erogazione del servizio: chi volesse disporre di conoscenze rispetto a quella specifica area tematica, rispetto agli utenti, rispetto a quel fenomeno sociale, dovrebbe necessariamente rinegoziare un transito inverso, vale a dire la socializzazione di queste competenze acquisite; cosa che difficil-

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2. Ruoli. Assisteremmo dunque ad un processo di ridefinizione di ruolo da parte dei diversi attori: senz’altro la committenza potrà definire un proprio nuovo ruolo, diverso dal precedente, ad esempio elaborando contenuti, mantenendosi costantemente aggiornata, posizionandosi in maniera decisa sul versante programmazione-valutazione; ma al tempo stesso dovrà misurarsi e negoziare il proprio ruolo con coloro che nel frattempo si considereranno con qualche ragione i veri “esperti locali” della materia9. 3. Filiere. Una conseguenza di questo processo potrebbe risiedere in una sorta di accorciamento della filiera fra gestori di servizi e decisori politici10, a cui si contrapporrebbe una filiera lunga e poco definita (tratteggiata nella figura 2) fra tecnici appartenenti alle diverse organizzazioni: se lo spessore, cioè la reputazione, del referente tecnico si assottiglia, potrebbero riemergere antiche modalità di relazione diretta fra livello politico e soggetti gestori, e viceversa rarefarsi l’esigenza di frequentazioni assidue fra operatori del privato sociale e del pubblico. 4. Il terzo settore. Il contrappeso a quest’ultima considerazione è nel ruolo del terzo settore, al tempo stesso enfatizzato e relegato a mero produttore, ma impoverito sul piano della mancata valorizzazione della dimensione mutuale, solidaristica e di advocacy originaria11. Non dimentichiamo che queste considerazioni dovrebbero avere implicazioni significative anche sul terreno della formazione: continueremo a formare assistenti sociali che si occupano solo di ”casi”, invece che di soggetti abili nel programmare e valutare? 10 Questa considerazione è emersa con forza durante un seminario rivolto a dirigenti della Regione Sicilia nella primavera del 2011. 11 In questo senso la retorica dominante ad esempio della Regione Lombardia sulla propria presunta rivoluzione del 9

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5. Partecipazione. Non va dimenticata nemmeno una conseguenza che attiene al sistema di welfare locale: sarà sempre meno interessante partecipare ai diversi tavoli del piano di zona, se questi sempre più si caratterizzeranno per essere una sorta di collage fra interessi differenti, che semmai potranno in quelle sedi venire ricomposti, ma non ridiscussi. In altre parole, a chi interesserà partecipare, se non ai diretti interessati a scambi di tipo negoziale (Bobbio, 2005)? In altre parole, cosa ne sarà delle istanze dialogicodeliberative in contesti caratterizzati da tensioni contrattualistiche? Una deriva contrattualistica dei tavoli tematici corrisponderebbe alla deriva tout court dei tavoli, cioè dei più significativi esperimenti di partecipazione che abbiamo conosciuto in questi anni12. 6. Competizioni. Infine, non va sottovalutata la considerazione che il terzo settore non si presenta come un insieme omogeneo, quanto piuttosto come un complesso assai variegato sia per le forme organizzative (organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, cooperative) sia per le diverse aggregazioni politico-culturali di riferimento; quello del terzo settore è esso stesso un ambiente turbolento, con soggetti spesso in competizione fra di loro per l’acquisizione delle scarse risorse disponibili, talvolta indispensabili per la propria sopravvivenza13. L’aprirsi di nuovi welfare porta con sé un pericolo reale, o forse semplicemente l’affermazione della marginalità della dimensione pubblica dei servizi. 12 Abbiamo già discusso di un’ipotesi di declino della governance in Ferrari, 2010, nel senso di una tendenza all’attenzione ai processi gestionali invece che a quelli partecipativi da parte di pressoché tutti i diversi tipi di attori; ma la formulazione che qui presentiamo approfondisce ed aggrava lo scenario, aggiungendo elementi di preoccupazione per i processi di governance in corso. Notiamo che ciò avviene proprio mentre sta giungendo a maturazione una riflessione ampia sulla partecipazione del terzo settore alla costruzione del welfare (vedi le “Linee guida definizione criteri per partecipazione terzo settore” elaborate dalla Agenzia per il Terzo Settore, al seguente sito: http://www.agenziaperleonlus.it). 13 Aggiungiamo di sfuggita che un ulteriore tema che si sta affacciando nel quasi-mercato dei servizi alla persona è dato da processi di invasione e di fusione: nel primo caso si tratta di soggetti che si propongono ai territori in cui i servizi vengono erogati, forti della loro potente dimensione extralocale; nel secondo di processi che vedono di nuovo come protagonisti soggetti cooperativi di medie-

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spazi di mercato potrebbe significare una enfatizzazione delle componenti meglio attrezzate alla competizione. 7. Titolarità. Lungi dall’essere dipendenti impropri dell’ente pubblico committente, i soggetti gestori arriverebbero ad incorporare, de facto, anche una larga parte della titolarità del servizio, poiché aldilà delle attribuzioni formali, giuridiche, diventerebbero i veri protagonisti della scena del welfare: saranno semmai i dipendentireferenti pubblici a perdere contatto con la vita quotidiana del servizio, al punto da dipendere dai gestori per ottenere informazioni, valutazioni e proposte sul suo svolgimento. In questo modo il proprio ruolo verrebbe schiacciato in una dimensione di tipo procedurale, amministrativo14. Notiamo peraltro come dalla parte più critica degli stessi soggetti del terzo settore venga una richiesta di maggiori competenze tecniche pubbliche, con le quali sia possibile confrontarsi15. Abbiamo sintetizzato nella vignetta che segue questo concetto, dove la titolarità è incorporata in una figura femminile, e la porta aperta delle esternalizzazioni rappresenta un’insidia, una corrente, una tendenza, che scompagina le carte, disperde saperi (figura 3). Eppure lei non pare turbata, anzi sembra lasciarsi cullare, come inebriata dalla nuova retorica del mercato.

A ben vedere, ciò che viene messo in gioco non riguarda solamente la titolarità dei soggetti grandi dimensioni, spesso capaci di incorporare piccole realtà cooperative locali. 14 E così troverebbe conferma l’assunto di Merton: agli addetti alla produzione, esecutori di procedure, non viene richiesta alcun capacità di interpretazione, adattamento, progettazione, ma semplicemente di eseguire ordini, e comportarsi come “incapaci addestrati” (Merton, 1971). 15 Ringraziamo Valeria Negrini di Federsolidarietà per le riflessioni.

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pubblici. L’indebolimento di un ruolo di garanzia rispetto all’intero sistema di welfare infatti porterebbe – forse sta già portando – ad un indebolimento del potenziale deliberativo del terzo settore, ed in ultima analisi ad un allontanamento sempre maggiore dei cittadini dalla possibilità di partecipare al processo di costruzione partecipata dei servizi. Dal punto di vista delle categorie entro cui comprendere questo processo faremo nostre le considerazioni espresse fra gli altri da Lorenz (2010): “Il neoliberalismo ha cercato di trasformare gli utenti mainstream dei servizi sociali in consumatori che avrebbero dovuto eliminare la mediazione fornita dagli assistenti sociali e richiedere un nuovo mercato diretto di servizi o fare ricorso a un volontariato preprofessionale e agli sforzi dell’autoaiuto”. Quello che ci sembra evidente è che a perdere dignità potrebbe diventare non solo il cittadinocliente, isolato e considerato come consumatore invece che potenziale cocostruttore di servizi, come riferisce ad esempio Campedelli (2010): “da protagonista della propria salute, (…) passa a cittadino cliente consumatore delle prestazioni di un produttore, indifferentemente pubblico o privato, che le offre in un mercato più o meno regolato”. In gioco è quindi la stessa possibilità che le relazioni fra saperi tecnici, cioè fra soggetti programmatori e soggetti gestori, possa avvenire con caratteristiche generative: il rischio insomma è che venga inibita una capacità di “produzione sociale fra pari” (collective capability, come la definisce Lanzara, 2011). Come abbiamo appena ricordato si tratta di una preoccupazione che riguarda, con sfumature diverse, tanto i referenti tecnici pubblici quanto i soggetti del privato sociale: i primi potrebbero perdere un ruolo noto, di gestione diretta, senza acquisirne uno nuovo, di garanti della programmazione e della governance; i secondi, oltre alla perdita di potenziali alleati istituzionali, potrebbero a loro volta vedere schiacciato il proprio ruolo in quello di meri erogatori (“produttori”, “fornitori”) di servizi. Da un lato quindi il terzo settore si vedrebbe

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privato16 di interlocutori con i quali spesso è possibile comprendersi, riflettere, riorganizzare i servizi: rischia cioè di indebolirsi la possibilità di interagire con coloro che finora sono stati mediatori interni alle istituzioni, capaci di traslare le riflessioni e gli scambi fra agenzie diverse all’interno delle organizzazioni pubbliche17, con i vertici politici, modificando traiettorie e procedure. Dall’altro lato, il pericolo per il terzo settore sta nella impossibilità di divenire fecondi oltre i confini delle proprie organizzazioni: se i saperi che vengono elaborati non trovano riconoscimento pubblico, non divengono “bene comune”, le proprie finalità statutarie verrebbero ridotte alla mera erogazione di un servizio, e ne sortirebbe l’effetto di una delega senza appello, senza la chiusura del circuito virtuoso che vede come orizzonte la promozione della cittadinanza ed il protagonismo delle comunità locali18.

Mauro Ferrari* Ecco una definizione più compiuta del concetto di “privato”, stavolta etimologicamente nei termini di assenza. 17 Altrove (Ferrari, 2010) abbiamo assegnato a questo ruolo la definizione di relè organizzativi, mutuandola da Crozier e Friedberg (1990), dove per relè si intendono servizi specializzati il cui compito è prendere contatti con il segmento di ambiente con cui sono in contatto, e di trasmettere all’organizzazione le informazioni e gli scambi intervenuti. I relè sono, quindi, “rappresentanti del segmento di ambiente cui si rivolge l’intera organizzazione (...). Vengono scelti per informare l’organizzazione della situazione che caratterizza i loro segmenti rispettivi e delle conseguenze che derivano da essa (...). Sono rappresentanti dell’organizzazione e dei suoi interessi presso i loro segmenti di ambiente”. 18 Non discuteremo in questa sede dell’utilizzo strumentale dei soggetti gestori del terzo settore in funzione meramente economica (l’ingaggio di operatori a costi più bassi e con contratti precari) che pure appartiene all’orizzonte neoliberale. 16

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PhD in sociologia, è docente a contratto di Analisi e Programmazione delle politiche pubbliche nazionali e locali presso l’Università Cà Foscari di Venezia, e presso lo stesso Ateneo di “Welfare e lavoro per progetti” (Master “Fenomeni migratori e trasformazioni sociali”); di “Immigrazione e lavoro sociale” presso il Master in Studi Interculturali, Università di Padova. Tra i suoli lavori “La frontiera interna. Welfare locale e politiche sociali”, AUP, Firenze-Milano, 2010. mauro.ferrari@unive.it

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LiBrInMenTe Lo squalificato di

Silvia Spatari

Yozo è nato in una famiglia benestante, nelle campagne del Giappone tradizionalista e sovra-ritualizzato di inizio Novecento. Fin dall'infanzia si sente disorientato dal genere umano e non riesce a capire la vera natura che si annida sul fondo delle persone e della loro società. Tutto ciò che sente “sono gli attacchi d'apprensione e terrore all'idea d'essere l'unico individuo assolutamente diverso dagli altri”. E allora, per sedare la paura, si ingegna a indossare la maschera del buffone; e mentre maneggia l’imperscutabilità altrui attraverso il vetro spesso di sorrisi penosi e pagliacciate di maniera, continua a cercare invano il nesso con la società degli esseri umani. Sgomentato dalla logica incalcolabile del mondo cerca rifugio nell’irrazionalità dell’alcol, delle droghe, dei rapporti consumati senza vero sentimento o comprensione. Ma questa non è una storia di perdizione: pur se segnato da un destino tragico, il protagonista non cede mai all’autocommiserazione né al rancore dell’escluso. Piuttosto, con una sensibilità squisitamente orientale, prova il morso della vergogna per non essere riuscito a cedere alle lusinghe del conformismo e per aver fallito, ai suoi stessi occhi, nella qualifica di essere umano. Scritto da uno dei più controversi e tormentati autori giapponesi del Novecento, Lo squalificato è un libro elegante e lucidissimo, assai attuale anche per noi Occidentali: è infatti il romanzo dell'incomprensione, dell’incomunicabilità verso gli altri ma anche verso sé stessi. Perché Yozo, ossessionato e sfinito “oltre ogni sopportazione dal proprio compito di essere umano”, alla fine mancherà proprio di cogliere la sua intima e commovente umanità. Osamu Dazai 2009, Feltrinelli € 7,50

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Hanno collaborato a questo numero Roberto Fantozzi Mauro Ferrari

Matteo Schianchi

Matteo Domenico Recine Silvia Spatari Foto

Marco Biondi Redattore

Zaira Bassetti

Impaginazione Zaira Bassetti Redazione

Piazza del GesĂš, 47 - Roma Potete inviarci le vostre osservazioni,

le critiche e i suggerimenti, ma anche gli indirizzi e i recapiti

ai quali volete ricevere la nostra webzine alla nostra e-mail: info@nuovowelfare.it

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