WOL - Welfare On Line, N. 6, Novembre 2013

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WOL welfare on line Webzine dell’Associazione Nuovo Welfare Anno IX, Numero 6, Novembre 2013

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Foto di Marco Biondi In questo numero: ““Tra il dire e il welfare”: brevi riflessioni” - di Roberto Fantozzi - pag. 2 “Dalle discriminazioni ai diritti. Rapporto UNAR - Dossier Statistico Immigrazione 2013” di Alessandra Cardellini - pag. 5 “Il processo di pianificazione condivisa all’epoca della Smart City” di Valentina Piersanti - pag. 9 Le nostre rubriche: “Cineforum” a cura di Matteo Domenico Recine - pag. 4 “LibrInMente” a cura di Silvia Spatari - pag. 8

Associazione Nuovo Welfare


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“Tra il dire e il welfare”: brevi riflessioni La presentazione al Salone dell’editoria sociale 2013 del libro “Tra dire e il welfare”1 è stata l’occasione, e l’input, per discutere e approfondire lo stato di salute del Welfare State italiano. Il libro ripercorre i mille volti di un sistema di protezione sociale articolato tra Stato centrale ed Enti locali; figlio di leggi che negli anni hanno aggiunto nuovi strati a quelli già esistenti senza mai, però, riformare nel profondo l’architettura del sistema stesso. Nella realizzazione del volume, infatti, l’obiettivo degli autori è stato quello di offrire un’analisi che: «non prescinde dal contesto generale delle politiche sociali e del welfare – in particolare ne osserva e ne compara dinamiche e dimensioni – ma ruota intorno alla sua dimensione più eminentemente locale, che riguarda i servizi sociali di cura, educazione e prevenzione erogati dai Comuni, ma anche dal Terzo settore e da altri soggetti». Sulla base di questi presupposti, il dibattito tra i presenti2 ha permesso di ripercorrere le alterne vicende del welfare italiano, mettendone in risalto sia i punti di forza sia quelli di debolezza. Questo articolo non vuole essere un resoconto dell’iniziativa, ma, cogliendo alcuni spunti

1 F. Paini, G. Sensi: “Tra il dire e il welfare”, Altraeconomia, 2012. 2 Hanno partecipato al convegno l’autore Giulio Sensi, Franca Maino, Emiliano Monteverde e Pietro Barbieri, moderati da Marco Accorinti.

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emersi dalla discussione e altri presenti nel volume, saranno sviluppate diverse considerazioni. In particolare, un capitolo del libro è dedicato ai “10 luoghi comuni sul welfare”, primo tra questi il “welfare sociale costa troppo”. È un’idea ormai consolidata, o quasi, che il peso del welfare sul bilancio pubblico sia eccessivo e quindi una “anomalia” da correggere con interventi immediati e non più rinviabili. Alcuni confronti con i Paesi europei permetteranno di evidenziare senza alcuna difficoltà questa “eccezione” tutta italiana. Osservando, tra il 1995 e il 2010, gli andamenti della spesa per prestazioni sociali (in denaro e in natura) in termini di euro pro-capite (figura 1), l’anomalia italiana appare subito evidente. Non è quella che ci aspettavamo, anzi, risulta chiara l’infondatezza dell’affermazione che il welfare costa troppo. Per gli anni presi in esame (2010 ultimo anno disponibile), il dato italiano si colloca costantemente al di sotto della media europea, superiore solo a quello della Spagna. Nel 2010, ad esempio, in media, in Italia ogni residente riceveva 5.879 euro l’anno, a fronte dei 7.850 euro in Germania, 8.137 euro in Francia e 9.479 euro in Svezia. Conducendo la stessa analisi in termini di spesa in rapporto al Pil, il quadro rimane sostanzialmente invariato. Prima della crisi il dato italiano risultava superiore unicamente a quello spagnolo e dal 2007 è superiore a quello registrato in Spagna e nel Regno Unito. Nel 2010, la Francia con il 32% registrava il valore più elevato tra i Paesi in esame, con un divario di 3,4 punti percentuali rispetto a quello italiano. Lo scenario appena descritto vede l’Italia, in confronto agli standard europei, registrare un livello di spesa sociale relativamente minore, pur in presenza di alcuni fattori di rischio più


welfare on line diffusi che altrove, come la maggiore longevità della popolazione. È opinione di chi scrive che una singolarità italiana va, invece, ricercata nella quota di spesa sociale destinata alle prestazioni in denaro rispetto a quelle in Kind (natura, ovvero servizi). Infatti, mentre nei principali Paesi europei la quota di prestazioni in natura è pressoché uguale, se non maggiore – come in Svezia o nel Regno Unito – rispetto a quella in denaro, in Italia si registra un fenomeno contrario, come evidenziato nella Figura 2. Nel nostro Paese l’elevata spesa di prestazioni in denaro è imputabile all’erogazione delle pensioni, anche questo aspetto richiederebbe un ulteriore approfondimento che non verrà qui affrontato. La quota di spesa destinata in servizi, invece, è prevalentemente da imputare alle prestazioni sanitarie, seguite dall’educazione; la restante parte è ripartita tra le diverse forme di Assistenza, erogate – nel nostro Paese – in prevalenza dai Comuni. In diversi articoli di questa rivista3 è stata costantemente monitorata l’indagine, realizzata dall’Istat, “Interventi dei servizi sociali dei Comuni singoli o associati”. Dall’analisi dei rapporti pubblicati è emersa, negli anni, la presenza di un divario, mai sanato, tra i servizi forniti nei Comuni del Nord rispetto a quelli del Sud. Questo aspetto introduce il secondo dei “10 luoghi comuni sul welfare” ovvero: “Le persone del Sud sono più assistite”. Osservando sia i dati della spesa sanitaria sia quelli dei servizi sociali erogati dagli Enti locali, l’affermazione precedente non trova mai conferma. Ad esempio, per il 2010, la spesa media pro capite in servizi dei Comuni, a fronte dei 117.8 euro erogarti mediamente in Italia vede le regioni del Sud collocarsi tutte al disotto di questa so3

Ad esempio si veda: WOL Anno VIII, Numero 5, GiugnoLuglio 2012; Anno VII, Numero 5, Settembre 2011.

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glia. La spesa in servizi più elevata (304.4 euro) si registra nella provincia di Trento mentre, la Calabria, con soli 25.8 euro, è la regione con la minore spesa. I servizi erogati non devono, però, essere visti unicamente come un costo a carico della collettività; bisogna evidenziarne anche tutti i benefici che ricadono sia sulla popolazione, che riceve i servizi, sia sul sistema economico. In una recente ricerca della rete “Cresce il welfare, cresce l’Italia”4 è stato mostrato come incrociando i dati dell’indagine “Interventi dei servizi sociali dei Comuni singoli o associati” con la percezione delle condizioni di salute degli abitanti (rilevata in EU-Silc) delle diverse regioni, emerge chiaramente una correlazione negativa tra spesa nei servizi sociali e il grado di disuguaglianza nella salute percepita dai cittadini. In altri termini, nelle regioni in cui si investe di più in cura e servizi sociali si registra una diminuzione nella disuguaglianza nella percezione delle condizioni di salute. Ciò significa che non ci sono grandi differenze tra chi percepisce di stare in salute e chi percepisce condizioni negative. Questa relazione, quindi, appare particolarmente evidente per quelle regioni (tutte concentrate nel Centro-Nord ad eccezione della Sardegna) che di più hanno investito per potenziare il sistema dei servizi offerti sul territorio. Quanto fino ad ora mostrato potrebbe indurre a pensare che, tutto sommato, il welfare italia4

AA.VV. :“Il welfare è un costo? Il contributo delle politiche sociali alla creazione di nuova occupazione in Europa e in Italia”, Cresce il welfare, cresce l’Italia, 2013. Il documento può essere scaricato integralmente sul sito dell’Associazione Nuovo Welfare (www.nuovowelfare.it).


welfare on line no avrebbe bisogno solo di maggiori finanziamenti da veicolare nei territori più in difficoltà. In realtà non è così. Quello di cui ci sarebbe bisogno è, innanzitutto, rivedere l’intera architettura del sistema, ridisegnandola sulla base dei nuovi bisogni dei cittadini; poi, cambiare l’approccio verso il welfare, non più visto come un sistema di erogazione “a fondo perduto” ma come un impianto capace di generare ricadute positive sul sistema economico. Oltre ai principali effetti legati al benessere delle persone, infatti, bisognerebbe saper sviluppare poten-

zialità, come quelle occupazionali5, presenti già nel sistema stesso ma che, ad oggi, non sono ancora sufficientemente valorizzate. Roberto Fantozzi* 5

Ibidem.

* Esperto di statistica, svolge la propria attività presso l’Istat e collabora da tempo con l’Associazione Nuovo Welfare.

Cineforum a cura di

Matteo Domenico Recine Mood Indigo - La schiuma dei giorni Il nuovo film di Michel Gondry, regista francese dalla precisa cifra autoriale ma dalla resa discontinua, si confronta con una storia, narrata nel romanzo “La schiuma dei giorni” di Boris Vian, suggestiva, drammatica e dai toni spiccatamente surreali. Si narra di Colin, giovane dalla consistente disponibilità economica, che vive una vita oziosa e solitaria nel proprio attico sui tetti di Parigi, con la sola compagnia del generoso e raffinatissimo cuoco Nicolas, seguace dell’opera di Jules Gouffé, e dell’egoista Chick. Quando questi informa Colin di essersi fidanzato con Alise – una nipote di Nicolas – lo stesso Colin viene invaso dalla volontà di innamorarsi. Durante una festa, incontra Chloé, con cui scatta immediatamente una reciproca simpatia, che porta i giovani a frequentarsi e infine a fidanzarsi. Piccoli elementi di disturbo, nell’apparente idillio, cominciano però a comparire. Chick, ad esempio, è sempre più isolato e ossessionato dalle opere di Jean Sol Partre, non potendo fare a meno di indebitarsi pur di possedere tutta la sua opera, impedisce a lui e ad Alise di sposarsi. Da questo momento in avanti tutto tende al declino: durante il viaggio di nozze Chloé si ammala, costringendo Colin non solo a investire tutto il rimanente denaro nelle cure per la moglie, ma persino a cominciare a lavorare, come covatore di bulbi di fucili. Nonostante tutto l’impegno, suo, di Nicolas e del medico, il Professor Manducamanica, non c’è rimedio al male di Chloé. Chick e Alise, invece, muoiono a causa dell’ossessiva passione del primo per Partre, ormai del tutto fuori controllo. Il romanzo di Vian ha suggestioni visive affini al modo di fare cinema di Gondry, perciò le scelte di quest’ultimo si sposano molto bene coi toni dell’opera. Lo stop motion, le continue trovate grafiche, il virare dalla commedia al dramma. L’opera di Vian, e quella di Gondry di rimando, hanno inoltre una forte componente di critica sociale e intellettuale, basti pensare alla critica al lavoro, al collezionismo maniacale di Chick e alla figura di Partre, chiara presa in giro di Sartre. Forse, proprio a causa di un impianto così affine, al regista è mancata la volontà di imprimere una sorta di attualizzazione del testo. Nonostante ciò, e nonostante le debolezze del film – ad esempio il casting, non del tutto in tono con la storia – gli essenziali restano tali, a oltre sessant’anni di distanza dal romanzo: il welfare state, così com’è congegnato, non tutela chi non ha disponibilità economica. Dalla malattia alla morte, è un costante declinare non solo economico, ma morale. Il lutto, in particolare, si addice solo ai ricchi; per chi non ha adeguata disponibilità, non è concessa pietà neppure per il funerale. Nel complesso, il film è imperfetto, ma pieno di fascino visivo e di spunti di riflessione. Un film di Michel Gondry. Con Romain Duris, Audrey Tautou, Gad Elmaleh, Omar Sy, Aïssa Maïga. Titolo originale L'écume des jours. Drammatico, durata 125 min. - Francia, Belgio 2013. - Koch Media; uscita giovedì 12 settembre 2013.

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Dalle discriminazioni ai diritti. Rapporto UNAR - Dossier Statistico Immigrazione 2013 Il 13 Novembre, a Roma, un folto pubblico ha partecipato, presso il Teatro Don Orione, all’atteso appuntamento annuale di presentazione del “Dossier Statistico Immigrazione 2013. Rapporto UNAR. Dalle discriminazioni ai diritti”. La conferenza stampa si è svolta in contemporanea a livello nazionale e nelle singole realtà regionali, su invito della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità. A Roma apre i lavori Franco Pittau, Presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS, che tratteggia con le sue parole gli aspetti di continuità e innovazione del fenomeno migratorio e della ricerca sullo stesso. Continuità perché, nonostante la crisi e seppur in misura minore rispetto agli anni precedenti, nel 2012 l’immigrazione ha comunque visto un incremento quantitativo. Innovazione perché, quest’anno, a patrocinare la ricerca è stato l’UNAR - Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, laddove negli anni passati i committenti erano stati la Caritas Italiana in collaborazione con la Fondazione Migrantes e la Caritas diocesana di Roma. Franco Pittau, fondatore del Dossier nel 1991, rende conto di questo cambiamento ricordando il pensiero di Monsignor Luigi di Liegro: “sono gli operatori sociali ad avere il compito di aprire piste innovative, per poi chiamare le istituzioni per realizzarle. Quindi il suo desiderio prosegue Pittau - oggi è esaudito perché il Dossier esce sotto l’egida del Ministro”. La collaborazione con l’UNAR sposta l’asse di riflessione sui diritti e sulla tutela dei migranti, delineando una traiettoria che vuole essere il cuore dell’interesse politico sulla migrazione, come sostenuto anche da Cecile Kyenge, Ministro per l’Integrazione, che chiude la giornata con il suo intervento. Il passaggio ancora da realizzare, espresso da più voci, resta quello di costruire una mentalità in cui l’altro possa essere considerato come me, dal punto di vista dei diritti, delle tutele e delle pari opportunità. In questo senso, lo slogan del Dossier è: dalle discriminazioni ai diritti. La ricerca, ogni anno, si propone di scattare una fotografia del fenomeno migratorio, i cui elementi sono i dati sul contesto internazionale ed europeo, nonché italiano, sullo stato

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dell’arte dell’integrazione, sul mondo del lavoro, con delle specifiche sui contesti regionali. Nel mondo vi sono 232 milioni di migranti; nell’Unione Europea gli stranieri residenti sono 34,4 milioni, pari al 6,4% della popolazione complessiva (dato Eurostat 2011). L’Unione Europea si conferma, insieme al Nord America, come l’area continentale con la maggior presenza di immigrati internazionali. L’Italia si è affermata come area di sbocco per i flussi migratori internazionali soprattutto dal 2000, ma si è determinato un aumento della presenza immigrata anche nel periodo della crisi: da 3,4 milioni di cittadini stranieri residenti nel 2007 a 4.387.721 nel 2012, pari al 7,4% della popolazione (Istat 2012). Tuttavia, non tutti i progetti migratori vanno a buon fine: nel 2012, 180.000 persone hanno perso il permesso di soggiorno e sono state costrette a rimpatriare. Il Dossier stima che la presenza regolare complessiva nel 2012 si aggiri intorno ai 5,2 milioni di persone straniere, con un’incidenza sulla popolazione totale al di sopra della media europea. L’area di maggiore insediamento di persone immigrate è il Nord con il 61,8% del totale, segue il Centro con il 24,2% e il Sud con il 14%. Quanto ai flussi e alla presenza di stranieri irregolari, invece, oltre alla necessità di una maggiore attenzione al rispetto dei diritti umani, nel Dossier si evidenzia come le misure di contrasto adottate siano costose e scarsamente efficaci, anche nel caso di trattenimento presso i Centri di identificazione ed espulsione (tra il 2005 e il 2012 è stato allontanato il 40,5% delle persone rintracciate in posizione irregolare e nel 2012 il 51,8%). In Italia, dopo 5 anni di presenza regolare, è autorizzata per i soggiornanti non comunitari una permanenza a tempo indeterminato. I soggiornanti di lungo periodo autorizzati rappresentano il 54,3% del totale, ovvero oltre due milioni di persone; mentre le acquisizioni di cittadinanza nel 2012 sono state 65.000, e 385.000 nel periodo compreso tra il 2001 e il 2011. Uno dei principali fattori di crescita della popolazione straniera nel 2012 sono state le nascite avvenute sul suolo italiano da genitori di cittadinanza straniera (79.894; erano meno di


welfare on line 30mila nel 2000), cui si affiancano i 26.714 figli di coppie miste, che acquisiscono di diritto la cittadinanza italiana. Per quanto riguarda i minori, il Dossier stima che i soggiornanti non comunitari siano 908.539, il 24% del totale, e ipotizza che siano almeno 250 mila i comunitari. Gli studenti stranieri iscritti alla scuola nell’a.s. 2012/2013 rappresentano l’8,8% del totale. Per i ricongiungimenti familiari sono stati rilasciati 81.322 visti nel 2012; i motivi familiari incidono ormai per il 40% sui soggiornanti titolari di un permesso a scadenza, laddove i motivi di lavoro incidono per il 48,5% (e per il 44,3% sui nuovi ingressi). L’occupazione degli immigrati è aumentata, in termini assoluti e di incidenza percentuale sull’occupazione complessiva, anche negli anni di crisi (2008-2012) e, mentre gli italiani occupati sono diminuiti di circa 1 milione di unità, gli stranieri sono cresciuti del 31,4%, arrivando così a incidere per almeno il 10% sull’occupazione complessiva. Altro fattore di crescita è rappresentato dalle donne comunitarie che arrivano in Italia per prestare servizio come “badanti”. Il Dossier ha riscontrato un’accentuazione di dati che parlano di integrazione, come l’aumento dei matrimoni misti, stimati a 18.005 (8,8% del totale), e come l’aumento del numero dei lungo residenti, rappresentativi della tendenza all’insediamento stabile. Tuttavia, nonostante questi dati possano sembrare rassicuranti, il processo di integrazione lascia ancora a desiderare, mostrando dei vuoti considerevoli. In questa direzione, il Dossier raccoglie una sfida importante: descrivere le condizioni e le dinamiche dei flussi migratori seguendo un approccio che consenta di analizzare la tutela dei diritti umani e delle pari opportunità, allo scopo di evidenziare di conseguenza le discriminazioni. Nonostante la presenza immigrata porti innegabili fattori di crescita economica e demografica - una valutazione comparativa condotta su costi e benefici ricavati dalla presenza straniera rivela che l’Italia ottiene ogni anno un beneficio di 1,4 MLD di euro permangono chiusure e barriere verso le persone immigrate

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e di origine straniera. L’UNAR ha rilevato, nel corso degli anni, un numero crescente di segnalazioni e sono risultati molti i casi riconosciuti di vera e propria discriminazione in vari ambiti della vita sociale (nel 2012, 1.283 casi seguiti, di cui il 51,4% di discriminazioni su base etnico-razziale). Le aree di maggiore difficoltà sono quelle della sistemazione abitativa, si stima che il 20% degli immigrati viva in condizioni di disagio o di precarietà alloggiativa. Essere straniero può comportare discriminazioni: per esempio, risulta difficile poter sottoscrivere un normale contratto abitativo, o ottenere un mutuo dalle banche a condizioni praticabili. Da alcune indagini condotte dalla Banca d’Italia (2009, 2011) si rileva come le case destinate agli immigrati siano vecchi appartamenti, già rifiutati dagli italiani e immessi sul mercato da proprietari che non intendono sostenere le spese di ristrutturazione. La via d’accesso all’affitto risulta accidentata, con alti costi, irregolarità contrattuali, difficoltà di reperimento degli alloggi e pregiudizi degli intermediari (agenzie) o proprietari con cui si tratta. Uno dei principali fattori di difficoltà ad accedere alla casa è spesso la reticenza di proprietari ad affittare ad immigrati, come anche raccontato dalla stessa Ministro Kyenge in un aneddoto durante il suo intervento. Inoltre, una ricerca commissionata all’Istat dal Dipartimento delle Pari Opportunità, nel Luglio 2012 mostra come circa un quarto degli intervistati preferirebbe non avere come vicini immigrati di determinate nazionalità, come Romeni e Albanesi, mentre più della metà indica i Rom. Sempre lo stesso studio evidenzia aspetti discriminatori da più della metà del campione (55,3%): a parità di condizioni di disagio, per


welfare on line ottenere una casa, gli italiani dovrebbero avere la precedenza sugli stranieri. L’inserimento lavorativo, non sempre con regolare contratto, si realizza nei settori meno apprezzati e meno retribuiti, che espongono i lavoratori stranieri a più alti tassi di infortuni e non prospettano avanzamenti di carriera. Nel 2012, sono 962 mila gli stranieri sovraistruiti, ovvero che presentano un livello d’istruzione più elevato in confronto a quello richiesto dal lavoro svolto. Si tratta del 41,2% del totale dell’occupazione straniera, una quota più che doppia rispetto a quella degli italiani. In un’ottica di genere, emerge il dato che testimonia di circa la metà delle donne straniere sovraistruite, fenomeno meno accentuato per gli uomini (34,8%), anche se in crescita. Ciò è dovuto al fatto che, anche tra gli immigrati, le donne sono mediamente più istruite degli uomini e contemporaneamente più relegate in settori a bassa qualifica, come nei servizi per le famiglie, dove la quota di sovraistruite è pari al 55,1%. Se per gli italiani la sovraistruzione riguarda soprattutto la fase di ingresso nel mondo del lavoro, per gli stranieri il fenomeno tende a protrarsi nel tempo. In generale le comunità ucraina, polacca, romena e filippina presentano le quote più elevate di occupati sovraistruiti. L’inserimento nel sistema socio-previdenziale è caratterizzato da difficoltà e discriminazioni sia a livello nazionale che comunale, come attestato da varie forme di discriminazione di cui si sono rese protagoniste le istituzioni pubbliche. I giudici di merito, la Corte di Cassazione e la stessa Corte Costituzionale si sono pronunciati su diverse forme di esclusione dei cittadini stranieri: il bonus bebè; il sostegno per chi vive in case in affitto; le prestazioni sanitarie e in caso di disabilità; l’assegno per famiglie numerose; l’iscrizione anagrafica; l’accesso al pubblico impiego; l’accesso alle libere professioni; l’ammissione al servizio civile. Come sottolineato dal Dossier, anche la pesantezza della burocrazia è essa stessa una discriminazione. Per quanto riguarda il fattore religione versus integrazione/discriminazione, se da un lato, la succitata ricerca dell’Istat rivela che la maggior parte degli italiani è favorevole ad una convivenza religiosa - anche se permane una preoccupazione verso l’apertura di luoghi di culto nelle vicinanze dell’abitazione: più se si tratta di moschee (41%) che di altri spazi religiosi (27%) - dall’altro lato, permane una lentezza del sistema giuridico nel giungere ad una for-

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mulazione organica di una legge sulla libertà religiosa. Dopo tante legislature e proposte non si è ancora giunti all’approvazione di una legge che superi la normativa dei Patti Lateranensi del 1929 sui culti ammessi e il sistema di intese con le religioni diverse dalla religione cattolica. Una difficoltà notevole rimane quella di reperire edifici di culto adeguati, anche se non mancano le buone prassi, le occasioni di incontro e di dialogo. Il superamento delle discriminazioni nell’ottica delle pari opportunità implica importanti e urgenti riforme, come ad esempio l’acquisizione del diritto di voto alle elezioni amministrative. Su questo punto, secondo quasi la metà degli intervistati della succitata Ricerca Istat, sarebbe utile concedere il diritto di voto agli stranieri, a patto che siano residenti da un certo numero di anni in Italia, pur senza avere la cittadinanza. Come sottolineato dal Ministro Kyenge e ribadito da più voci, prioritaria resta la riforma sulla cittadinanza, sia per agevolare le procedure per le prime generazioni, sia per facilitarne l’acquisizione ai loro figli che, pur nati in Italia, rischiano di vivere da stranieri nella loro terra d’origine. Questa riforma non va avanti, nonostante siano state presentate 14 proposte di legge giacenti in parlamento e il 72,1% degli italiani intervistati si sia dichiarato favorevole. Il Ministro rassicura che i lavori sono in corso e che si sta pervenendo ad una sintesi; sottolinea, inoltre, la necessità di semplificare e snellire l’iter della cittadinanza per agevolare il percorso e l’integrazione delle persone sul territorio. Dunque, se nel Dossier Statistico Immigrazione 2011 patrocinato da Caritas-Migrantes si poteva ancora leggere che l’immigrazione stava diventando un fatto sempre più strutturale, un anno dopo essa diviene una realtà stabile sul territorio italiano, che richiede il necessario passaggio da un modello dell’emergenza ad un modello dell’integrazione. Su questa linea procede l’intervento conclusivo del Ministro Kyenge, che realizza, con le sue parole, un ulteriore passaggio: dai dati statistici alle riforme giuridiche, per arrivare ad una politica di integrazione e di coesione sociale nella garanzia delle pari opportunità per tutti i membri della collettività. Ringrazia più volte le scuole presenti in sala e ribadisce l’importanza che gli attori politici si alleino con le agenzie educative per lavorare al cambiamento culturale, che passa necessariamente attraverso una


welfare on line corretta comunicazione, lavorando su stereotipi e pregiudizi, uscendo fuori da eccessi di emotività quando si parla di immigrazione. Viene ripreso da più parti il concetto espresso dal Codice Deontologico della Carta di Roma - un protocollo per richiedenti asilo, vittime della tratta, rifugiati e migranti, redatto dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana ovvero del parlare civile sull’immigrazione, nell’intenzione di superare termini razzisti e xenofobi come clandestino, zingaro, “vu cumpra”, ecc. La linea proposta dal Ministro sembra riassumibile nella locuzione “vana lex sine moribus” usata da Benedetto Croce per ricordare che le norme da sole non sono sufficienti per ottenere comportamenti virtuosi e che, per garantirli, servono etica, educazione alle norme e al cambiamento dei costumi civili. Viene infine auspicata una più ampia diffusione dei dati riportati dal Dossier, che rappresentano uno spaccato della realtà, la cui traiettoria

di sviluppo verrà tratteggiata da una politica dell’integrazione che punterà ad un necessario cambiamento culturale, capace di spostare l’asse delle percezione: l’Altro visto non più come un detrattore di passaggio ma come una persona con cui crescere. La presentazione del Dossier e le varie voci che ne hanno declinato i dati lasciano il lettore/ascoltatore con una sensazione ambivalente: da un lato la vecchia stanchezza per le difficoltà nel salpare in questo lungo viaggio di integrazione, dall’altro una speranza, perché ora nel cielo scuro appare una stella polare da seguire, anche se la terra è ancora lontana. Alessandra Cardellini∗ *

Psicologa, psicoterapeuta, si è specializza in Religioni e Mediazione Culturale con un Master alla Sapienza. Ha lavorato in Olanda con ragazzi a rischio sociale delle seconde generazioni; attualmente lavora con rifugiati politici e richiedenti asilo con disagio psicologico.

LiBrInMenTe Sei come sei di Silvia Spatari

L’undicenne Eva Gagliardi ha capelli crespi e talento nella scrittura. Ha anche una vita decisamente travagliata per la sua tenera età: a volte derisa, più spesso compatita o additata come “diversa”, Eva è rea di essere figlia di due padri, di una coppia omosessuale in un Paese che non possiede ancora i mezzi giuridici e culturali per riconoscere le tante forme dei desideri familiari. Quando un’inaspettata tragedia colpisce i Gagliardi, Eva verrà strappata alla propria famiglia e per riappropriarsi dei suoi affetti dovrà affrontare un intenso cammino fatto di luoghi e di ricordi. Scritto con un linguaggio accurato anche se un po’ monocorde, Sei come sei è metà romanzo di formazione e metà cronaca di un viaggio avventuroso lungo la dorsale italiana. Racconta di orfani e discriminazioni, evitando con agilità sia la trappola delle svenevolezze alla Dickens sia certe posizioni oltranziste che fanno tanto controcultura anni sessanta, e allo stesso tempo supera l’ovvia tautologia del titolo sia ragionando sulla relatività esistenziale e sul potere dei legami affettivi, che scardinando l’ordinamento giuridico e la tradizione. In questa dolorosa storia di diritti negati sembrerebbe anche esserci un lieto fine, ma il condizionale è d’obbligo in un Paese in cui il dibattito sui cosiddetti matrimoni gay e sulle famiglie omogenitoriali è ancora a livello larvale, più un’arma - spuntata - di propaganda elettorale che una riflessione consapevole sulla portata dei diritti individuali. Melania G. Mazzucco Einaudi, 2013 € 17,50

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Il processo di pianificazione condivisa all’epoca della Smart City Se prima della Smart City la “partecipazione” era un fattore rilevante ma non ineludibile della pianificazione territoriale, con la Smart City non c’è programmazione se non con il coinvolgimento attivo di cittadini, organizzati o singoli che essi siano, imprese e stakeholders. Il processo di pianificazione condivisa all’epoca delle città intelligenti impenna l’intensità della partecipazione, che non ha più come obiettivo quello di partire da un hearing della cittadinanza per provvedere ad una “avveduta” programmazione territoriale, ma riconsegna all’intelligenza della città (intesa quindi come l’insieme dei soggetti che vivono la città: amministrazioni, imprese, cittadini, ecc.) la corresponsabilità delle singole progettualità e del disegno di sviluppo complessivo. Il ribaltamento concettuale è dirimente: gli stakeholder non sono più intesi come “portatori” di interessi, spesso divergenti, da condurre a sintesi, ma partner e promotori di iniziative coordinate. Cosa vuol dire far partecipare cittadini e stakeholders alla pianificazione della Smart City? Chi deve (e può) prendere parte a tale processo? in quali fasi? a che livello? con quali scopi? Quali sono gli strumenti più indicati a ciascun target e ai diversi momenti della definizione di un piano di trasformazione della città? con quali costi e con quali risorse? Sono questi alcuni degli interrogativi che trovano risposta all’interno del Vademecum per la pianificazione della Smart City, presentato a Smart City Exhibition in ottobre. Il testo raccoglie i contributi, le opinioni e le esperienze delle città promotrici dell’Osservatorio Smart City di ANCI allo scopo di avviare una riflessione comune e uno scambio di strumenti operativi per gestire il percorso di trasformazione della città in Smart City. Cosa vuol dire far partecipare cittadini e stakeholders alla pianificazione della Smart City? Se ancora poche sono le città che hanno avviato uno specifico iter di programmazione nell’ambito della Smart City, molte sono invece le esperienze territoriali e settoriali di processi di policy making aperti e inclusivi, promosse e portate avanti dalle amministrazioni in diversi contesti: dagli ultimi PAES alle AGENDA 21, i piani strategici, ecc.

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Per delineare, dunque, le modalità con cui una città coinvolge, ascolta, co-progetta con i propri cittadini il proprio futuro intelligente, l’Osservatorio ANCI riparte da alcuni importanti punti fermi che derivano dal “vissuto partecipativo” delle città promotrici: 1. un processo partecipativo è un dialogo, l’oggetto deve essere significativo e controverso e il dibattimento deve avvenire in un contesto strutturato e professionalmente facilitato, deve essere finalizzato alla presa di decisioni, possibilmente consensuali e condivise; 2. l’adozione da parte delle amministrazioni locali di metodi di consultazione o coprogettazione sono funzionali a migliorare la “performance” democratica del governo locale e indubbiamente il livello di consenso e di fiducia rispetto agli amministratori; 3. se la partecipazione, tuttavia, non è reale e non produce un cambiamento, determina un effetto elastico, quanto meno in termini di senso civico e responsabilità sociale, nonché uno scollamento significativo dall’operato del management pubblico; 4. lavorando con i cittadini, le organizzazioni della società civile, le aziende e gli altri stakeholder, è stato possibile migliorare le prestazioni e la qualità dei servizi pubblici e dei progetti di sviluppo; 5. l’avvio di un processo partecipativo deve necessariamente essere accompagnato dalla cessione di quote di potere decisionale da parte di chi ne è titolare ad altri soggetti (coloro che sono chiamati a partecipare); 6. partecipare non vuol dire informare, può sembrare scontato ma è importante sottolinearlo: non si possono chiamare eventi partecipativi le iniziative in cui a fronte di una problematicità o un progetto si convocano i cittadini per informarli della situazione e di cosa s’intende fare. La possibilità di far delle domande alla fine di un convegno non è partecipazione; 7. gli strumenti di progettazione partecipata richiedono un processo di apprendimento collettivo che deve interessare le diverse componenti della società civile, della cittadinanza e del sistema politico amministrativo locale;


welfare on line 8. la partecipazione alle decisioni e il coinvolgimento dei cittadini portano potenzialmente a dei vantaggi significativi: • producono decisioni migliori perché il dialogo e il confronto portano ad integrare conoscenze, saperi, bisogni e interessi; • legittimano le istituzioni politico amministrative e la loro azione; • promuovono lo sviluppo di cultura civica (cittadini attivi, responsabili, informati) e di capitale sociale; • creano fiducia e rispetto reciproco fra membri della comunità e fra questi e chi governa; • arricchiscono il circuito della sovranità, lo rendono più complesso, in qualche caso forse anche più confuso, ma certamente più ricco, articolato, capace di una maggiore rappresentatività; • sviluppano e producono programmi e iniziative maggiormente efficaci ed efficienti, e caratterizzate da un supporto più ampio; • generano una maggiore comprensione di questioni pubbliche, preoccupazioni, priorità e soluzioni; • aumentano l'apprendimento reciproco attraverso la condivisione di informazioni, dati ed esperienze; • garantiscono che le decisioni e le politiche includano conoscenze e competenze che altrimenti potrebbero essere trascurate/non considerate. La scelta del metodo Dall’analisi delle diverse esperienze delle città e dei molti contributi metodologici sottoposti all’Osservatorio da parte di esperti afferenti a differenti discipline (urbanistica, design, sociologia, informatica, consulenza e project management, ecc.), è stato possibile ricavare una mappatura piuttosto articolata delle diverse tecniche che una città può effettivamente adottare per coinvolgere cittadini, esperti e stakeholders nel percorso di pianificazione della Smart City. All’interno del Vademecum il gruppo di ricerca dell’Osservatorio ha operato un primo sforzo di sistematizzazione delle metodologie più comunemente usate nell’ambito della partecipazione, al fine di trasformare l’insieme dei diversi contributi in uno strumento utilizzabile dalle città stesse nel momento in cui si trovano a scegliere in che modo includere nei propri pro-

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cessi decisionali i diversi target di rifermento. Nel lavoro di sistematizzazione fatto, abbiamo scelto di suddividere i metodi in sette gruppi, secondo il momento della pianificazione al quale essi si adattano meglio. Di seguito per ciascuna “famiglia” di metodi vengono riportate le descrizioni sintetiche. Metodi per l’ascolto. Rientrano in questo gruppo le tecniche che supportano la città nell’individuazione delle problematiche e nella comprensione di come queste siano percepite dagli stakeholder e dai comuni cittadini, e le metodologie partecipative utilizzate nella mappatura delle risorse e degli asset di sviluppo del tessuto urbano. Le metodiche che afferiscono a questo primo gruppo possono essere impiegate nelle fasi preliminari, quando si tratta di avviare un processo inclusivo, individuare i possibili interlocutori e capire quali siano i temi su cui lavorare. Fanno parte di questo grappolo di tecniche le diverse indagini campionarie sulla cittadinanza, anche nella loro versione elettronica. Molti sono, infatti, gli strumenti che vengono utilizzati dalle città per interagire con i propri cittadini attraverso l’uso di questionari strutturati somministrati via web anche nell’ambito di analisi di CRM. Per rimanere ancora sul versante web è utile rilevare che molte delle città dell’Osservatorio integrano i propri processi di coinvolgimento con strumenti web, tra le altre Napoli, Desio, Livorno, Padova e Ravenna che puntano a comunicare con i propri cittadini attraverso blog o forum. Alla scelta del blog spesso si associa un uso dei social network che – seppur lentamente – matura verso una reale partecipazione, rottamando pian piano le funzioni informative e autocelebrative. Ci sono poi una serie di tecniche e strumenti che lavorano sull’ascolto dei reclami, sulle segnalazioni e sulle petizioni. Anche in questo caso si va dalle semplicissime, ma sempre efficaci “scatole dei suggerimenti”, alle video-cabine, ai servizi di segnalazione via mail dei siti istituzionali, alle ben più tecnologiche App che agevolano i cittadini nella segnalazione di problematiche del territorio. Meno tecnologici, ma non per questo poco innovativi, sono invece tutti gli strumenti più radicati sul micro-livello territoriale. L’unità d’azione è quella del quartiere e le metodologie che si applicano nei quartieri urbani sono diverse: da mini workshop, alle camminate, sino


welfare on line ai contratti di quartiere. Nelle esperienze più avanzate il lavoro di ascolto nei quartieri è associato a metodologie di costruzione degli scenari a cui seguono interessanti sperimentazioni di co-design e alle volte co-gestione del bene comune. Una fetta importante delle esperienze di ascolto fa poi riferimento a tecniche di consultazione per piccoli gruppi (focus group, consulte, tavoli di lavoro tematici) e momenti più assembleari come i forum civici. Metodi per la comunicazione e l’engagement. In diversi momenti della pianificazione della Smart City è necessario comunicare ad un pubblico più vasto i processi in corso, le soluzioni immaginate, i concetti stessi che sono alla base del lavoro di trasformazione. È necessario creare dei momenti in cui, attraverso il protagonismo dei cittadini, si rinforza la richiesta di partecipazione. Rientrano in questa famiglia di metodi molte delle più innovative tipologie di un-conference (il bar e il fail camp, technology festival, etown meeting). Interessanti sono anche gli eventi che utilizzano canali quali you tube o dirette streaming per diffondere i risultati di eventi fisici. Ci sono poi diverse esperienze basate sui forum civici (Barletta e Fabriano per fare un esempio hanno strutturato i propri piani strategici attraverso l’attivazione proprio dei forum civici) e altre, conferenze aperte, che scelgono per i momenti convegnistici un format di pochi interventi lasciando al pubblico la possibilità di intervenire in ogni momento, e non solo alla fine dell’incontro. Si crea così un’atmosfera libera e aperta, che facilita il confronto e la ricchezza della comunicazione (Grosseto con Smart citizens – idee che fanno parlare e Milano con APP4me, ne sono un esempio interessante). Al confine tra le metodologie di comunicazione partecipativa e la co-progettazione si pongono anche gli urban center, ne stanno nascendo diversi in Italia, l’ultimo a Brescia. Sono luoghi (reali e virtuali) pensati per favorire la costruzione di politiche urbane autenticamente condivise giocando sulla valorizzazione del ruolo proattivo dei soggetti portatori di interessi diffusi. Le “case della città” hanno nella loro mission la funzione di sistematizzare l’informazione, la comunicazione e la partecipazione dei cittadini in merito ai temi del territorio che cambia e della città che si trasforma. Metodi per la definizione delle visioni. La

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Smart City si progetta a partire dalla definizione condivisa di una visione di città futura. Per far questo le città hanno a disposizione un buon ventaglio di tecniche ed esperienze che hanno il comun denominatore di lavorare sulla costruzione di scenari. Si tratta di metodi normalmente molto strutturati che favoriscono riflessioni e dibattiti sulle possibili evoluzioni future dei vari aspetti che caratterizzano la città (nel caso delle Smart City: ambiente, mobilità, energia, contesto sociale, welfare, ecc.). Alcune di questa tecniche lavorano sui desiderata, altre invece sugli scenari possibili e probabili (date le carte in tavola), altre ancora integrano la scenaristica economica e tecnologica nella riflessione pubblica. In alcuni casi, dopo la definizione degli scenari si cerca una decisione convergente: “qual è la città che vogliamo?”, e poi si lavora per la generazione di idee e la ricerca di soluzioni operative: “in che modo possiamo realizzarla?”. Appartengono a questo tipo il delphi, l’EASW, lo scenario bulding exrcise, l’expert panel. Questo tipo di tecniche ha avuto un largo uso sia nelle esperienze di pianificazione strategica che nei processi di Agenda 21. Metodi per la generazione delle idee. I metodi di generazione delle idee seguono i momenti di ascolto e le fasi di analisi. Partono da questi per individuare, ricercare e suggerire le soluzioni migliori ad un dato problema. Un primo insieme di tecniche che rientra nel gruppo dei metodi per la co-generazione delle idee è costituito dai più semplici strumenti utilizzati dalla città per raccogliere idee dai cittadini in modo per lo più libero e destrutturato: call for ideas, banche delle idee cittadine o anche i contest di raccolta idee per la Smart City e la formula dei premi e dei concorsi. Interessanti in termini di capacità di stimolare la produzione libera di idee anche le esperienze di open space technology e del planning cells. Altri metodi vengono presi in prestito da campi affini, come le arti o il design industriale, e spesso si sovrappongono ai metodi della coprogettazione. Esistono anche processi che incoraggiano le persone e le organizzazioni a pensare in maniera diversa, e istituzioni che giocano un ruolo fondamentale nell'animare l'innovazione adottando prospettive esterne. Molte e diverse le esperienze italiane che, contaminando gli obiettivi della partecipazione cittadina con i linguaggi della creatività, riescono a produrre delle soluzioni di grande interesse per le città. Residenze creative, spazi di co-


welfare on line working e atelier, sketchmob, challenge: il filo rosso che accumuna queste metodologie sta nell’incontro di soggetti diversi, imprese, cittadini, amministratori, designer, progettisti, programmatori e giovani creativi. Metodi per la co-progettazione e il codesign. Quando dalle idee e dalle visioni si deve arrivare ad una vera e propria progettazione, in un caso, e alla realizzazione di prototipi, nell’altro, i metodi “generativi” non sono più sufficienti, è necessario utilizzare dei metodi più strutturati e degli strumenti che permettano di passare dall’immaginare al fare. Sia che si parli di co-design, sia che si parli di coprogettazione l’idea centrale è che i beneficiari, gli utenti o i “consumatori” di un prodotto, di un servizio, di un luogo o ancora di un’iniziativa, siano parte attiva nella sua progettazione fattiva. Tra i metodi legati alla progettazione condivisa i più utilizzati dall’analisi delle esperienze italiane risultano il GOPP, il metaplan, il planning for real, l’action planning, la charrette e i laboratori di quartiere. Di grande interesse sono anche le molte sperimentazioni che stanno nascendo in Italia relativamente al living Lab, strumento e luogo per stimolare e accelerare l'innovazione industriale e sociale attraverso la partecipazione diretta degli utenti nello sviluppo e nella validazione delle innovazioni, e ai fab lab: palestre per inventori, laboratori di creatività, piccole botteghe che producono oggetti grazie alle nuove tecnologie digitali. Metodi per deliberare e prendere decisioni. Tra le metodologie partecipative c’è un gruppo di tecniche di grande rilevanza, per quanto non molto diffuse in Italia, funzionali a facilitare l’approccio partecipativo nelle fasi in cui è necessario andare in convergenza. Quando cioè si sta lavorando su processi in cui, attraverso la discussione, si cerca di arrivare a una risoluzione comune mediante l’argomentazione. I processi di co-generazione di idee e co-progettazione, per quanto mirabilmente gestiti, possono lasciare aperti conflitti e chiudersi con una situazione di arroccamento in posizioni contrapposte. La partecipazione e soprattutto la convergenza su temi legati al vivere individuale, prima che collettivo, non sono certo un processo indolore. Sul piano delle tecniche che aiutano a “chiudere”, a deliberare, si segnalano quelle di maggior interesse applicativo per la programmazione in ambito Smart City: citizen jury; deliberative polling, consensus conference, conflict spectrum, analisi mul-

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ticriteri. Metodi per il monitoraggio e la valutazione. Le esperienze italiane di monitoraggio e valutazione di servizi e prodotti o progetti sono senz’altro residuali rispetto all’insieme delle azioni che le città italiane stanno facendo in termini di pianificazione strategica della Smart City. Promuovere i cittadini e gli stakeholders della città al ruolo di reviewers dei progetti è un salto di prospettiva che ancora non abbiamo compiuto. I metodi che rientrano in questo gruppo partono dal presupposto che le comunità siano, in definitiva, i valutatori finali del successo o del fallimento del progetto. Questo passaggio è evidentemente possibile se, e solo se, i beneficiari diventano essi stessi responsabili del successo di un progetto e di un’iniziativa. In questo caso il monitoraggio e la valutazione potranno realmente rappresentare un momento di apprendimento. Rientrano in questo gruppo di tecniche anche le più recenti esperienze di “testing” pubblico e aperto dei servizi e dei prodotti. Valentina Piersanti* *

Sociologa e facilitatrice, si sta occupando per conto di ANCI delle attività di ricerca e animazione dell’Osservatorio Nazionale Smart City del quale cura, in particolare, la gestione del rapporto con le città, l’analisi delle best practice in ambito di programmazione strategica delle città italiane ed europee, la definizione di strumenti per il trasferimento e il confronto tra diversi contesti urbani. Svolge dal 2004 attività di consulenza e formazione sulle metodologie partecipative, le tecniche per la creatività e l’apprendimento per promuovere l’innovazione e lo sviluppo locale. Dal 2001 al 2007 ha lavorato come ricercatrice nel settore innovazione della Fondazione Censis, occupandosi prevalentemente di analizzare i processi innovativi nelle pubbliche amministrazioni, nelle imprese e nelle economie locali. Dal 2008 al 2009 è stata responsabile dell’ufficio progetti dell’Unioncamere Sicilia. È attualmente consulente di Associazione Nuovo Welfare e Amministratore Unico di Artea Studio Srl. Nelle diverse funzioni ricoperte nelle due organizzazioni si occupa prevalentemente delle attività legate alla facilitazione, applica le metodologie partecipative a processi di pianificazione e progettazione, alla comunicazione, alla negoziazione e allo sviluppo di strategie operative. Tra le organizzazioni con cui ha collaborato: Istituto Mides, CNR, S3.Studium, Aira srl, Spazio Lavoro, FISH, Italia Lavoro, Parco Scientifico e Tecnologico di Tor Vergata, Provincia di Roma, Comune di Roma, INEA.


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Hanno collaborato a questo numero

Alessandra Cardellini, Roberto Fantozzi, Matteo Domenico Recine Silvia Spatari Valentina Piersanti Foto Marco Biondi Redattore Zaira Bassetti Impaginazione Zaira Bassetti Redazione Piazza del Ges첫, 47 - Roma

Potete inviarci le vostre osservazioni, le critiche e i suggerimenti, ma anche gli indirizzi e i recapiti ai quali volete ricevere la nostra webzine alla nostra e-mail: info@nuovowelfare.it

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