okamoto kidĹŒ
detective hanshichi I misteri della cittĂ di Edo vol. I
traduzione di Pietro Ferrari
Titolo originale The Curious Casebook of Inspector Hanshichi. Detective Stories of Old Edo © 2007, University of Hawai’i Press
O barra O edizioni via Stromboli 18 20144 Milano www.obarrao.com Grafica di copertina di Eros Badin © 2011 O barra O edizioni ISBN 978-88-97332-09-1
Il f a n t a s m a d i Ofu m i Ofumi no tamashi
1. Mio zio era nato alla fine del periodo Edo1 ed era una vera autorità sulle varie leggende bizzarre e raccapriccianti così popolari in quei giorni: storie di case infestate da fantasmi con stanze dove nessuno osava entrare; storie di anime di donne vilipese che, ancora in vita, tormentavano un amante infedele; storie di spettri incapaci di abbandonare un legame con l’esistenza precedente... Mio zio, per altro, si dava molta pena di negare che vi fosse una qualunque verità in quelle storie, ripetendo il precetto della sua educazione di samurai, secondo cui “un vero guerriero non crede ai fantasmi”. Anche dopo la Restaurazione Meiji,2 sembrò restare dello stesso parere. Ogni volta che noi bambini, inevitabilmente, toccavamo l’argomento dei fantasmi, prendeva un’aria contrariata e ci ignorava. Proprio in un’occasione del genere, questo mio zio ebbe a dire: «Certe cose in questo mondo sono davvero al di là di qualunque spiegazione. Prendete, per esempio, il caso di Ofumi...» Nessuno aveva idea di che cosa intendesse. Quasi pentito di essersi lasciato sfuggire qualcosa che pareva minare le sue convinzioni dichiarate, lui si rifiutò di dilungarsi oltre su quegli eventi “al di là di qualunque spiegazione”. Mi rivolsi a mio padre, ma neppure lui volle dirmi una parola. Dal tono nelle osservazioni di mio zio, tuttavia, indovinai che, sullo sfondo di quella storia, si celava da qualche parte la figura di un altro zio, lo “Zio K”. Ormai stimolato nella mia curiosità infantile, mi affrettai a fagli visita. Avevo, 1. 1603-1868; noto anche come periodo Tokugawa, l’epoca in cui gli shogun del clan Tokugawa governarono il Giappone dalla loro capitale di Edo (l’attuale Tokyo). 2. La restituzione del potere, di fatto detenuto dallo shogun Tokugawa Yoshinobu, all’imperatore Mutsuhito nel 1868. Dopo di allora, la corte imperiale fu trasferita da Kyoto a Tokyo, dove Mutsuhito regnò sotto il nome Meiji, ovvero “governo illuminato”.
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allora, 12 anni. “K” non era, in realtà, un vero zio, ma mio padre lo conosceva fin da prima che iniziasse l’epoca Meiji,3 e io lo chiamavo “zio” da quando potevo ricordarmi. Ma neppure le risposte di K alle mie domande mi diedero soddisfazione. «Be’, non c’è nulla da dire, in realtà. Solo una sciocca storia di fantasmi. Se te la raccontassi, tuo padre e tuo zio si arrabbierebbero molto con me.» Di fronte al nuovo mutismo del solitamente loquace Zio K, la mia indagine cozzò contro un muro. Io ero troppo occupato, a scuola, a rimpinzarmi la testa con la fisica, la matematica e ogni genere di materie per pensare a Ofumi, sicché quel nome, a poco a poco, svanì dalla mia mente come una nube di fumo. Passarono due anni. Se ben ricordo, era la fine di novembre. Al mio ritorno da scuola, aveva cominciato a cadere un freddo piovischio che, verso il tramonto, si mutò in un vero acquazzone. La zietta K era stata invitata da una vicina ad andare al teatro Shintomiza,4 e sarebbe stata fuori fin dalla tarda mattinata. «Vieni a trovarmi, domani sera, visto che sarò tutto solo» aveva detto Zio K la sera prima. Avevo promesso di andare e, non appena terminai di pranzare, uscii. Benché distasse, più o meno, solo quattro isolati dalla nostra in linea d’aria, la casa di zio K si trovava a Banchō, una vecchia zona della città dove ancora sorgevano molte abitazioni già residenze di samurai.5 Per qualche motivo, il quartiere, anche nelle giornate serene, sembrava sprofondato nell’ombra. Al cader del crepu3. 1868-1912. 4. Noto, in precedenza, come il Moritaza, uno fra i tre principali teatri kabuki di Edo, fondato nel 1660. Nel 1872, si trasferì nel centro di Tokyo e, nel 1875, assunse il nome di Shintomiza o Teatro Shintomi. In quella sala andarono in scena molte fra le opere di Okamoto. 5. Un quartiere tra il fossato interno ed esterno del castello di Edo, nell’angolo nordoccidentale della città. Dopo la Restaurazione Meiji, molte delle sue grandi dimore furono abbandonate, perché i samurai che vi abitavano tornarono ai loro domini provinciali.
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Il fantasma di Ofumi
scolo, appariva particolarmente malinconico sotto la pioggia. La casa di Zio K, posta oltre un cancello di una vecchia proprietà di daimyo, doveva essere stata, molto tempo prima, la residenza di un cortigiano importante, un sovrintendente o qualche altro samurai di alto rango. In ogni modo, era una casa indipendente6 con un piccolo giardino, circondata da uno steccato di bambù rozzamente connesso. Dopo che era tornato a casa dall’ufficio governativo dove lavorava, Zio K aveva cenato ed era stato ai bagni locali. Per circa un’ora, sedette davanti a me di fronte a una lampada a olio, conversando del più e del meno. Solo il rumore occasionale delle gocce di pioggia sulle ampie foglie di una fatsia che strusciava contro le imposte ricordava la cupaggine all’esterno. Quando l’orologio sulla colonna batté le sette, Zio K si fermò d’improvviso a metà del discorso e volse la testa ad ascoltare la pioggia. «Viene proprio giù, vero?» «Forse, la zietta K avrà qualche problema a tornare a casa.» «No, ho mandato un risciò a prenderla.» Dette quelle parole, Zio K sorseggiò per un poco il tè in silenzio, quindi prese d’improvviso un tono serio: «Ehi, potrei raccontarti quella storia di Ofumi che una volta mi avevi chiesto. È proprio una serata adatta per una storia di fantasmi. A meno che tu sia troppo coniglio». A dire la verità, io ero un coniglio. Ugualmente, ogni volta che qualcuno aveva una storia terrorizzante da raccontare, ero tutto orecchie, il mio piccolo corpo tutto teso per l’eccitazione. Così, quando Zio K toccò inaspettatamente di sua iniziativa l’argomento di Ofumi, che mi aveva dato da pensare per anni, il mio sguardo si accese all’istante. Drizzandomi a sedere, lo guardai negli occhi, come a dire che, per quanto 6. All’opposto di una casa a schiera, l’abitazione della larga maggioranza dei sudditi comuni, compresi i samurai di medio e basso rango.
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paurosa potesse essere la sua storia di fantasmi, in quella stanza vivamente illuminata ero immune da ogni timore. Zio K fu palesemente divertito dal mio tentativo infantile di fare mostra di coraggio. Rimase in silenzio per qualche momento, con un largo sorriso sulla faccia. «D’accordo» concesse. «Ti racconterò la storia, ma dopo non venire a chiedermi di dormire qui stanotte perché hai troppa paura di tornare a casa!» Con quel severo avvertimento, K si lanciò nel suo racconto del caso di Ofumi. «A quell’epoca, avevo esattamente vent’anni, quindi doveva essere il 1864, l’anno della battaglia alla porta Hamaguri di Kyoto»7� disse a mo’ di introduzione. IN QUEI GIORNI, uno hatamoto – un vassallo diretto dello shogun – di nome Matsumura Hikotarō manteneva in questo stesso quartiere una grande casa, avendo a disposizione un reddito di 300 koku.8 Matsumura era una persona assai colta e, grazie alle sue vaste cognizioni, in particolare nel campo del sapere occidentale,9 era salito di rango fino a divenire un pezzo grosso dell’Ufficio per gli affari esteri. Quattro anni prima, la sua sorella minore, Omichi, aveva sposato un altro hatamoto di nome Obata Iori, residente a Koishikawa sulla 7. Una battaglia avvenuta davanti alla porta Hamaguri del palazzo imperiale a Kyoto il 20 agosto 1864, fra le truppe favorevoli allo shogun, avverse all’Occidente, e le truppe imperiali provenienti dalla provincia di Chōshū nel Giappone meridionale. 8. Un koku era un’unità per pesare il riso, corrispondente all’incirca a 150 chilogrammi. Secondo i prezzi del 1862, un koku valeva 145 monme d’argento, o all’incirca 1,8 ryō d’oro. In base alle stime, un ryō equivaleva, all’ingrosso, a 41.500 yen secondo i prezzi del 1999. Un koku di riso, quindi, doveva costare circa 75.000 yen di oggi. Il reddito di Matsumura, pari a 300 koku (540 ryō), oggi ammonterebbe a 22 milioni e mezzo di yen (approssimativamente, 200.000 dollari americani). Benché il reddito di un samurai si misurasse in koku, nel XIX secolo la maggioranza dei samurai non riceveva più le sue spettanze in riso, ma nell’equivalente in grano. 9. Rangaku o, alla lettera, “cultura olandese”, ovvero, lo studio della scienza e della medicina occidentali.
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Il fantasma di Ofumi
riva occidentale del fiume Edo. La coppia aveva una figlia sui due anni, di nome Oharu. Poi, un giorno, era successo un fatto strano. Omichi si era presentata a casa del fratello portandosi dietro Oharu e aveva annunciato: «Non posso più rimanere a casa di mio marito. Ti prego di farmi avere il divorzio». Allibito per la piega improvvisa presa dagli avvenimenti, Matsumura aveva cercato di interrogarla sui particolari, ma Omichi si era limitata a starsene lì seduta, bianca come un lenzuolo, né aveva voluto aggiungere altro. «Non puoi startene zitta e basta! Dimmi esattamente che cosa è successo. Una donna, una volta che si è sposata, non taglia i suoi legami di punto in bianco e non scappa via senza una buona ragione. Come puoi venirtene qui d’improvviso a dirmi che hai bisogno del mio aiuto per ottenere il divorzio senza raccontarmi che cosa è successo? Se riuscirai a convincermi che hai un buon motivo, allora andrò a parlare con tuo marito. Devi spiegarti!» In una simile situazione, non c’era proprio nulla di diverso che Matsumura o chiunque altro potesse dire, ma Omichi rifiutò ostinatamente di fornire qualunque particolare. Ventunenne moglie di un samurai, continuò semplicemente a ripetere più e più volte, come una bambina viziata, che si rifiutava di passare un altro giorno in quella casa e voleva il divorzio. Alla fine, perfino il suo paziente fratello perse la calma. «Non essere stupida. Come posso andare a chiedere un divorzio, se non vuoi dirmi che cosa è successo? Non ti sei sposata ieri, lo sai. Sono già quattro anni, e hai una figlia. Insomma, non devi preoccuparti per i parenti di tuo marito, e lui è un uomo gentile e onesto. Anche se è di condizione modesta, ha una posizione di grande importanza nel governo. Quali motivi potresti mai avere per desiderare un divorzio?» Ma, per quanto la rimproverasse e ragionasse con lei, Matsumura non arrivò da nessuna parte. Poi, gli venne in mente una 47
cosa forse incredibile, in apparenza, ma fatti del genere si erano già sentiti a questo mondo. Dopo tutto, parecchi giovani samurai prestavano servizio in casa di Obata. E le residenze vicine erano piene di secondi e terzi figli che conducevano pigre vite dissolute. Non era possibile che la sorella, ancora giovanissima, si fosse cacciata in qualche pasticcio da cui cercava di cavarsi fuori per salvare il suo buon nome? A mano a mano che si dipingeva un simile scenario, Matsumura stringeva il suo interrogatorio. «Io ho un’idea del motivo per cui non vuoi raccontarmi tutta la storia» dichiarò. «Sto pensando di trascinarti seduta stante a casa di Obata, in modo che lui possa guardarti dritto negli occhi, e vedremo se non parlerai. Su, andiamo!» Afferrata la sorella per il collo, la tirò in piedi. Vedendo l’espressione irata sul volto del fratello, Omichi quasi uscì di senno. «Va bene» gridò, la faccia rigata da lacrime di rimorso. «Ti dirò tutto.» Mentre l’ascoltava perorare il suo caso tra i singhiozzi, Matsumura passò dalla sorpresa a un vero e proprio sbalordimento. L’incidente aveva avuto luogo sette giorni prima. Omichi aveva appena messo via le bambole di Oharu dopo la festa del terzo mese.10 Quella notte, una donna pallida in volto, con i capelli scomposti, era apparsa di fianco al suo letto. Era inzuppata da capo a piedi, come se fosse stata immersa nell’acqua. Il suo profondo inchino, portato fino a posare le mani a squadra sul tatami, faceva pensare a una domestica nella casa di un samurai. Senza una parola o il minimo accenno di minaccia, se ne restò là seduta, inginocchiata in un modesto silenzio, ma già solo questo incuteva un terrore al di là di ogni immaginazione. Omichi rimase distesa tutta tremante, stringendo inconsapevolmente il bordo della trapunta, fino a che si svegliò dal suo incubo. 10. La festa delle bambole (Hinamatsuri) fissata al terzo giorno del terzo mese dell’anno.
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Nel frattempo, Oharu, che dormiva al suo fianco, sembrò visitata da un incubo assai simile, perché d’improvviso scoppiò in un pianto dirotto, gridando: «Ofumi è qui! Ofumi è qui!». Pareva che la donna con le vesti bagnate infestasse anche i sogni della bimba. “Ofumi”, così aveva immaginato Omichi, doveva essere il nome della donna. Troppo spaventata per dormire, restò sveglia per il resto della notte. Nata e cresciuta in una casa di samurai, sposata, per di più, a un altro samurai, era troppo imbarazzata per parlare a chiunque del suo incubo spettrale. Tenne quindi nascosti a suo marito gli eventi notturni, ma la donna con le vesti bagnate e la faccia pallida riapparve presso il suo cuscino la notte successiva e di nuovo la notte dopo. Ogni volta, la piccola Oharu gridava: «Ofumi è qui!» esattamente come la prima notte. La timida Omichi non riusciva più a sopportarlo, ma neppure aveva il coraggio di parlarne a suo marito. Dopo che la cosa era andata avanti per quattro notti di fila, era sfinita per l’angoscia e il sonno arretrato. Infine, gettando al vento ogni senso di vergogna e decoro, cedette e parlò allo sposo che, tuttavia, si limitò a liquidare la faccenda con una risata, rifiutandosi di prenderla sul serio. L’apparizione spettrale continuò a presentarsi di fianco al letto. Ma a dispetto di quanto Omichi diceva, il marito non le dava retta. Infine, montò in collera e disse qualcosa come: «Sei la moglie di un samurai o no?» «Samurai o no, come puoi stare a guardarmi e ridere, quando tua moglie è disperata?» Omichi cominciava a risentirsi per il duro atteggiamento del marito. Se la sua sofferenza fosse continuata all’infinito, era sicura che, prima o poi, l’apparizione del misterioso fantasma l’avrebbe condotta alla morte. No, si disse, non mi rimane altro che prendere mia figlia e fuggire da questa casa stregata al più presto possibile. Non era più tempo di ripensamenti per sé o per il marito. 49
«Per questo non posso più rimanere in quella casa. Ti prego, cerca di capirmi.» Diverse volte, mentre raccontava la sua storia al fratello, Omichi si era fermata, prendendo fiato e tremando, come se il solo ricordo dell’accaduto ancora le facesse scivolare un brivido lungo la spina dorsale. L’espressione di autentico terrore nei suoi occhi faceva pensare che ogni parola pronunciata fosse sincera. Il fratello fu indotto a un momento di pausa. Poteva essere vera una cosa del genere? Per quanto la considerasse, tutta la storia sembrava quanto mai improbabile; nessuna meraviglia che Obata non avesse preso la moglie sul serio. Lui stesso era tentato di gridare a pieni polmoni: «Che assurdità!». Sua sorella, tuttavia, era così palesemente angosciata, che abbandonarsi alla collera e ignorare i suoi tormenti, tutto sommato, sembrava troppo crudele. E poi, nonostante quanto Oshimi aveva detto, era ben possibile che, nella situazione, ci fosse più di quanto appariva a prima vista. In ogni modo, Matsumura si risolse a fare visita a Obata e a verificare i particolari con lui. «Dovrò avere qualcosa di più della tua versione della storia. Andrò da Obata e vedrò che cosa ha da dirmi. Mi occuperò io di tutto.» Lasciata la sorella a casa, Matsumura si avviò immediatamente verso Koishikawa con un servitore al seguito.
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