Le notti di Vladivostok estratto

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Christian garcin

l e n ot t i d i v l a d i vo s to k

traduzione di Alessandro Giarda


Titolo originale Les nuits de Vladivostok © 2013 Éditions Stock

O barra O edizioni via Stromboli 18 20144 Milano www.obarrao.com Grafica di copertina di Eros Badin © 2014 O barra O edizioni ISBN 978-88-97332-61-9


I T HOMA S

Sono

i o c h e fa c c i o l e d o m a n d e

Con la mano libera Thomas ripiega il giornale e lo posa sul tavolino tra il cinese e lui, mettendo in evidenza l’articolo a cui ha appena dato una scorsa senza leggerlo e la foto piuttosto sfocata che lo accompagna. Lo indica con un secco movimento del mento. Quello “Zorro” lì… sei tu, vero? domanda con una smorfia. L’altra mano, quella incatenata al calorifero di ghisa, lo fa soffrire. Chiudi il becco, Krawczyk, dice il cinese. Ti dico che non mi chiamo Krawczyk. Il mio nome è Rawicz. Thomas Rawicz. Mi hai fregato il passaporto, dovresti saperlo. Il cinese aspira dalla sua sigaretta, poi butta fuori il fumo lentamente, dalle narici. Taci, Krawczyk! Poi borbotta scuotendo la testa, gli occhi fissi sulle sue scarpe da tennis. Il tuo passaporto… Mi prendi per fesso? Thomas sospira. Ma tu, ti chiami davvero Zorro? insiste. È il mio soprannome, si lascia sfuggire Zorro in una nuova nuvola di fumo. In cinese si dice “Zuo Luo”. E questo non ti infastidisce? Voglio dire, non lo trovi ridicolo? Zuo Luo aspira a fondo, soffia il fumo della sua sigaretta sul viso lievemente contuso di Thomas, poi volta la testa verso la finestrella. Odori nauseabondi di diesel li assalgono a ondate. La coltre spessa e umida della notte cala lentamente. Si sentono rumori di voci e uno strepito di uccelli. Anche qualche veicolo a motore, ma più lontano, come attutito. Senza dubbio un giardino pubblico, pensa Thomas. Forse il misero parchetto sotto la strada che costeggia il porto, tra il viale intasato di vecchie auto e le gru. Ieri mi pare di aver visto in quel posto 11


una baracca che sembrava abbandonata. Tossicchia, reclama un po’ d’acqua. E poi, cos’altro? dice Zuo Luo. Solo un po’, insiste Thomas. In ogni caso, non mi terrai attaccato a questo calorifero per mesi, no? Alla fine ti renderai conto di aver sbagliato persona. Allora te ne pentirai. Zuo Luo non reagisce. Fissa le sue scarpe da tennis. Il tuo vero nome, qual è? chiede Thomas. Che t’importa? risponde Zuo Luo. Conti di sporgere denuncia? Buona fortuna! Non voglio denunciarti, no. Non necessariamente. Ma il tuo soprannome mi piace. Qualche tempo fa ho letto un libro dove c’era un tale che si chiamava così. Insomma, che veniva soprannominato così, Zorro o Zuo Luo. Un cinese, anche lui. È buffo, no? Zuo Luo aspira dalla sua sigaretta. Un libro, ripete. Sì. Un libro che parlava di me. Non saprei. Che parlava di un tizio che si chiamava Zuo Luo, in ogni caso. La storia di un detective privato, che andava in soccorso di giovani donne vendute dalle loro famiglie. Il suo vero nome era Chu Weng Wang. Zuo Luo si china verso Thomas. Come dici? Chu Weng Wang. Insomma, credo. Si scriveva Z-h-u, io leggevo Zu o Zou, ma qualcuno mi ha detto che si pronunciava Chu. O Djow. Non ti assomigliava. Era molto più grosso. Perché, c’erano delle foto? Thomas si mette a sogghignare. Più grosso, ma non necessariamente più stupido. Ti è mai giunta voce che nei romanzi esistono cose chiamate ritratti o descrizioni? Zuo Luo non coglie l’ironia. 12


Thomas

Chu Weng Wang, dici? Qualcosa di simile. Sai, io, il cinese… Perché, è il tuo nome? All’incirca, dice Zuo Luo. Pronunciato male. E così il mio soprannome e il mio lavoro. Non è roba da poco. Ma non la tua corporatura. Molto più massiccio, ti dico. Grosse guance, un vero lottatore di sumo. Hmm. E cosa raccontava questo libro? Boh, delle storie. Zorro a Canton, Zorro a New York, Zorro in Giappone, l’infanzia di Zorro, la giovinezza di Zorro, gli amori di Zorro, questo è quello che so. C’era anche un suo amico, mi ricordo, un informatore soprannominato Becco d’anatra. E una quantità di donne. Zuo Luo aspira nervosamente dal suo mozzicone, poi lo getta al suolo e lo schiaccia col tacco. Becco d’anatra. È ridicolo, sussurra esalando una densa nube grigio pallido. Non molto più di Zorro, dice Thomas. Chi l’ha scritto? Non penserai che io me lo ricordi, dice Thomas. Dammi piuttosto un po’ d’acqua. Quando arriverà il tuo compare, capirà che non sono quello che credi, e tu sarai nelle grane per avermi maltrattato. Zuo Luo sospira, si alza, riempie un bicchiere d’acqua al rubinetto e lo tende a Thomas che lo vuota d’un sol fiato. Dalla finestrella aperta talvolta giungono conversazioni in russo che fluttuano al di sopra del frastuono lontano delle automobili. È assurdo, dice Zuo Luo. Non ho mai messo piede a New York. Né in Giappone. Non ho mai detto che eri tu, ribatte Thomas asciugandosi le labbra con la mano libera. È solo un romanzo dopotutto. Non vuoi slegarmi? Hmm? No, non pensarci nemmeno, mormora Zuo Luo con un’aria assente. Di’ un po’, era un cinese l’autore di questo libro? O un francese come te? 13


Thomas sospira. Senti, non ricordo più molto bene. Credo che fosse attribuito a un francese, ma scritto da un cinese. O il contrario. Capisci? No. Insomma, è quello che è, non mi ricordo più. E poi me ne infischio. Quando arriva il tuo compare? Non tarderà, dice Zuo Luo. C’è silenzio. L’oscurità è calata. La strana oscurità di una notte elettrica. Gli uccelli si sono zittiti. Non restano che alcuni frammenti di conversazione in russo di tanto in tanto, e il rumore dei camion in secondo piano. E sempre gli odori di diesel. Malgrado la notte che scende, il caldo è umido e pesante. Se tu non sei quello che cerchiamo, che cosa ci fai a Vladivostok? chiede Zuo Luo. E tu? Sono io che faccio le domande, ricordatelo.

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Thomas

Il

giorno prima

Vladivostok. In realtà, ci ero arrivato per sbaglio. Il giorno prima ero a Belogorsk. Ci ero andato per incontrare Yuri Berdaiev, il responsabile delle edizioni Galiana, e proporgli di acquistare i diritti degli ultimi libri di tre autori pubblicati dalla casa editrice che, di tanto in tanto, ha il buon cuore di affidarmi qualche missione dietro compenso: un romanzo di Igor Phren, un altro di Eugenio Tramonti e un racconto postumo di Norwich Restinghale, introdotto e commentato da George Traunberg. Ci eravamo accordati per due di essi (Tramonti e Restinghale). Mi ero trattenuto per due giorni, di cui uno trascorso a camminare con Yuri e sua moglie in una superba foresta a una cinquantina di chilometri dalla città, lungo la frontiera cinese, una regione magnifica e lussureggiante dove, a quanto pare, si possono anche osservare le tigri, ma noi non ne avevamo vista nessuna. Poi avevamo passato tutta la serata a sbevazzare. Il mio treno per Irkutsk doveva partire nella notte. E poi avevo semplicemente sbagliato binario. Era successo per colpa degli orari assurdi, burocratici e centralizzati dei treni russi. Forse un po’ anche per colpa dell’alcol. Dovevo prendere il transiberiano delle 3.37 per Irkutsk e raggiungere Marie, che era arrivata da Mosca il giorno prima, ma ero salito sul treno che partiva nella direzione opposta, per Vladivostok, dove nessuno mi aspettava. Avevo scordato che gli orari dei transiberiani non sono quelli delle città attraversate ma, da un capo all’altro della linea, quelli di Mosca. Tant’è che il treno Belogorsk-Irkutsk partiva sì alle 3.37, ma alle 3.37 ora di Mosca, ossia alle 9.37 di Belogorsk. Io ero arrivato in stazione sei ore prima, in piena notte alle tre e qualcosa, fradicio della vodka che avevo buttato giù per tenere botta, il che, tra parentesi, era stata una pessima idea, nessun treno era indicato per le 3.37 e, allora, mi ero ricordato quella 15


storia degli orari, avevo abbondantemente insultato tra i denti l’inventore perverso di quel sistema del cazzo, mi ero trovato nell’incapacità, aiutato dall’alcol (o meglio non aiutato), di concentrarmi su un’operazione aritmetica che consisteva nel sottrarre o forse nel sommare agli orari indicati sei ore, o forse cinque, o sette, non sapevo più, mi ero quindi limitato a cercare un treno che partisse a qualche ora e 37 minuti, e l’avevo trovato, un buon vecchio transiberiano, proprio così, era indicato alle 21.37 ora di Mosca, sì, doveva essere quello, mi ero detto, dovevano esserci sei ore di differenza, aggiunsi a mente sei ore alle 21, ottenni le 3 e senza dubbio considerai il problema al contrario perché era a quelle cazzo di 3.37 che avrei dovuto aggiungere sei ore. Per di più avevo fatto tutto ciò senza rendermi conto, tanto ero annebbiato, che la direzione indicata era Vladivostok e non Mosca via Irkutsk. Avevo raggiunto la banchina fredda e deserta, ero salito sulla carrozza, inspiegabilmente senza subire il minimo controllo – di solito una responsabile di carrozza, la provodnitsa, verifica che il biglietto sia valido, forse quella era andata a pisciare o non si era svegliata, non saprei. Per un altro caso fortuito, il posto (cuccetta in alto a sinistra entrando) era libero. Mi sistemai e mi addormentai, senza nemmeno togliermi le scarpe, di un sonno superficiale e continuamente interrotto dai rumori, dalle luci delle stazioni che il treno attraversava senza fermarsi, a volte da entrambi quando il treno faceva sosta, senza contare il mal di testa dovuto alla quantità di alcol che avevo ingurgitato. E, cosa ancor più bizzarra, la provodnitsa non si era fatta viva per tutto il tragitto. Mi resi conto dell’errore solo quando, cinque ore più tardi circa, fui del tutto sveglio e vidi sfilare davanti ai miei occhi città che non avevo notato durante il viaggio di andata. Nel frattempo una piccola signora tracagnotta si era sistemata sulla cuccetta in basso, e di fronte c’era un vecchio; li salutai con un sorriso muto. Ci volevano ancora una quindicina di ore per Vladivostok. Non avevo niente da fare laggiù, 16


Thomas

ma dopo tutto, perché no. Pregai affinché nessun controllore si presentasse e mi obbligasse a scendere dal treno in aperta campagna, in una sinistra borgata circondata da foreste impenetrabili, da fabbriche dismesse o da antichi gulag. A dirla tutta, questa situzione inverosimile mi divertiva parecchio. Marie non se ne sarebbe capacitata – né lei né alcun altro del resto. Me la vedevo, incredula, gli occhi levati al cielo, giurare che lei non aveva mai visto né mai sentito parlare di una cosa simile, prendendo le anime dei suoi antenati a testimoni – i suoi antenati che riposavano nel cimitero di Irkutsk e in un altro cimitero su un’isola del Bajkal, cioè una nonna e due bisnonni –, in russo sicuramente, poiché è in russo che lei si spazientisce, una sorta di omaggio a sua nonna, suppongo. L’avrei raggiunta con il successivo treno, o aereo, forse avrei dovuto attendere un giorno o due, ma in fondo tre o quattro giorni di ritardo sul programma non sarebbero stati la fine del mondo. Avendo dunque i controllori apparentemente, e per fortuna, deciso di non farsi vivi, scesi, un po’ inebetito, nel bozzolo mattutino e dorato di una spessa nebbia che quel giorno avvolgeva la stazione ferroviaria, la vicina stazione marittima, il Corno d’Oro con il ponte in costruzione che si intravedeva in lontananza, le enormi navi da guerra che facevano mostra della propria potenza, i gabbiani sorprendentemente silenziosi, i traghetti, i portacontainer coreani e giapponesi, i viali che fiancheggiavano la stazione, gli autobus e i 4x4 che sfilavano, tutto in un’atmosfera strana, onirica e come inondata di una luce soprannaturale nella quale mi lasciai scivolare, abbandonando ogni resistenza poiché Vladivostok aveva forzato il corso dei giorni e si offriva a me senza che io avessi chiesto nulla, poiché ero là senza averlo voluto e non sapevo che farci – sì, in quella nebbia umida e dorata, leggermente risplendente, mi lasciai scivolare con un sorriso sulle labbra che non avrei saputo se definire di abbandono, di eccitazione o di rassegnazione. 17


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