TARSIE E INTAGLI D’ITALIA
I COLORI DEL LEGNO
I legni pregiati della Villa Reale di Monza INCÀVI E TA S S E L L I
Maestri della scultura in legno nel ducato degli Sforza IL LEGNO A PA D O VA
Il legno nell’arte nuova serie - Antiga Edizioni - Quadrimestrale - Anno I - n. 2 - Febbraio 2006 - € 15,00
Indagini recenti, spunti di ricerca e una segnalazione d’archivio per Lorenzo Canozi
E D I TO R I A L E
STUPINIGI E DINTORNI P I E R L U I G I B AG AT I N
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erti furti annichiliscono, ma anche insegnano. Il capitolo Stupinigi è uno di questi. La storiaccia era iniziata due anni fa, la notte del 19 febbraio 2004. Teatro: la famosissima residenza di caccia sabauda, trionfo del rocaille italiano. Bottino del furto: 4 quadri e 27 mobili, firmati da ebanisti del calibro di Piffetti, Prinotto, Bonzanigo, Galletti. Da non credersi la semplicità di accesso per i malviventi, i cui piani sono stati facilitati da un’incredibile assenza di sistemi di allarme e di videocamere. Altissimo il valore dei pezzi sottratti: si spaziava da una stima complessiva al ribasso di 4,5 milioni di euro fino ad un massimo di 20/30. Il seguito dà la morale. Messi sotto pressione dalle ricerche dei carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale, i ladri si sono decisi a riconsegnare la refurtiva, facendola ritrovare in un luogo convenuto il 26 novembre 2005. Lieto finale, dunque, propiziato dall’impegno delle forze dell’ordine e soprattutto dal fatto che i pezzi erano molto conosciuti. Ma non è conclusione scontata o senza dazi. Primo perché i mobili assolutamente unici e fatti per stupire ambienti di corte esigenti potevano essere rovinati ben più della specchiera del Bonzanigo andata in frammenti e dei danni sostanzialmente limitati riscontrati dai tecnici della Soprintendenza. Poi perché il mercato clandestino poteva essere meno impermeabile di quanto si è dimostrato. Le rocambolesche vicende (tutt’altro che chiarite) del furto e del successivo ritrovamento della celeberrima saliera del Cellini, rubata dal Kunsthistorische Museum di Vienna, destano interrogativi finora senza risposta. Come la sorprendente sottrazione della Reclining figure di Henry Moore, rubata dal parco della fondazione omonima a Perry Green (a 50 km da Londra), non ancora ritrovato o restituito. È forse più facile piazzare un bronzo monumentale di più di due tonnellate di peso rispetto a dei manufatti lignei ben più leggeri e maneggevoli per quanto di rara e fragrante bellezza? Se da luoghi e oggetti d’arte largamente noti ci si sposta più in là di dove arrivano i riflettori dell’attenzione, la situazione rischia di capovolgersi con facilità. Come e più della incuria o della trascuratezza nella custodia, può essere la mancanza di una adeguata informazione sul bene culturale a creare i presupposti per la sua sottrazione e per il suo occultamento. La situazione della catalogazione come progetto complessivo viene giudicata quasi generalmente come un’incompiuta. Forse mancano 4,5 milioni di schede su un totale di 10,5. Il livello di accuratezza sbanda tra fondi di schede trop-
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po o troppo poco accurate. Come e dove consultarle con facilità? E le foto che corredano le definizioni dei catalogatori? Problemi di coordinamento, di collaborazione, di progettualità condivise, di investimenti adeguati e costanti, su cui si interrogano spesso con perplessità e più di una punta di fastidio la comunità scientifica e la società civile. Il bene culturale esige fedeltà e scrupolo nell’opera di studio, nell’azione di tutela, di conservazione, di valorizzazione, di promozione. Come nella delicata strategia del restauro, di per sé occasione di conoscenza dell’opera stessa nella sua unicità materica e semantica. La ricorrenza del centenario della nascita di un grande difensore del patrimonio artistico nazionale come Cesare Brandi (l’8 aprile prossimo) ci ammonisce con quella sua aurea e vulgata direttiva: “il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione al futuro”. Le molteplici iniziative programmate per il ricordo di Brandi saranno per tutti, nelle più diverse discipline applicate all’arte, buon motivo per approfondire motivazioni e metodologia del suo altissimo magistero di etica e metodologia artistica. Un pensiero conclusivo a chi ci segue. La nuova veste e il ventaglio dei contenuti della rivista hanno avuto buona accoglienza. Ne siamo grati ai lettori che ci hanno manifestato interesse e attenzione. Confidiamo che anche questo fascicolo possa risultare di loro gradimento. Marina Rosa ci introduce (con il restauratore Luca Quartana) al recupero di una delle tante bellezze della Villa Reale di Monza – pavimenti e tavolini maggioliniani – in vista di un autentico evento della primavera del 2007: la riapertura al pubblico dopo un secolo della Villa Reale di Monza. Francesca Tasso illustra l’ultima riuscitissima iniziativa del Settore Arti decorative del Museo sforzesco: la mostra sui Maestri della scultura in legno nel ducato degli Sforza. Giovanna Molli Baldissin traccia un succoso aggiornamento su Il legno a Padova (Indagini recenti, spunti di ricerca e una segnalazione d’archivio per Lorenzo Canozi). Da una carrellata sull’uso dei legni nell’arte antica e rinascimentale, si passa alle consuete, preziose schede bibliografiche di Elisabetta Baesso, mentre Alfredo Sigolo propone una sua partecipata lettura dei “legni” di un affermato artista contemporaneo: Nunzio. Conclude al solito la carrellata delle segnalazioni e degli appuntamenti. Buona lettura.
A pag. 1: Michael Parcher, Cristo Crocifisso, particolare (Finarte Semenzato, Venezia 25 settembre 2005).
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SOMMARIO
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STUPINIGI E DINTORNI
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I COLORI DEL LEGNO
I “ L E G N I ” P R E G I AT I D E L L A V I L L A R E A L E D I M O N Z A
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I N C À V I E TA S S E L L I
M A E S T R I D E L L A S C U LT U R A I N L E G N O N E L D U C AT O D E G L I S F O R Z A
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MOBILE MOBILIA
I L L E G N O A PA D O VA . I N D AG I N I R E C E N T I , SPUNTI DI RICERCA E UNA SEGNALAZIONE D’ARCHIVIO PER LORENZO CANOZI
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DOCUMENTI
L E G N I N E L L’ A R T E ( I ) . U N PA S S O D I L . B. A L B E R T I E A L C U N I D O C U M E N T I Q U AT T R O C E N T E S C H I
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OUR AGE
L O S PA Z I O D I N U N Z I O
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BIBLIOGRAFIA
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Tavolino O 102, sopra: particolare. Pagina a destra: Tavolino O 102, sopra.
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I “ L E G N I ” P R E G I AT I DELLA VILLA REALE DI MONZA M A R I N A R O S A Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio, Milano
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a Villa Reale di Monza, voluta dagli Asburgo come dimora “dove passar fuori di città la calda stagione” e divenuta ben presto un vero e proprio palazzo di corte emulo di Versailles e Schönbrunn, è sicuramente uno dei più interessanti esempi di architettura neoclassica lombarda. Il ricco apparato decorativo che ancora la caratterizza, nonostante il degrado dovuto ad un secolo di abbandono ed usi impropri, è opera dei più prestigiosi artisti ed artigiani attivi all’epoca: dall’Albertolli al Traballesi, dal Levati all’Appiani, al Sanquirico, sino a giungere al grande ebanista di Parabiago, Giuseppe Maggiolini, che operò all’interno della residenza su commissione di ben due case regnanti, gli Asburgo ed i francesi. Particolarmente amato da Ferdinando D’Austria, che gli assegnò il titolo di “Intarsiatore delle Loro Altezze Reali”, il Maggiolini produsse per le regge milanesi e monzesi una serie di arredi di grande pregio e bellezza, alcuni dei quali realizzati su disegno degli stessi artisti impegnati a decorarne gli interni, primo fra tutti il Levati. L’ebanista non si limitò a fornire alla casa d’Austria ricchi cassettoni, secrétaires, trumò, scrivanie intarsiate e tavolini da gioco. Il suo biografo, Giacomo Antonio Mezzanzanica, parlando nel 1878 delle opere da lui realizzate tra la fine del Settecento ed i primi dell’Ottocento su committenza asburgica, riferisce infatti che “… quando si addivenne alla
Si ringrazia per la gentile anticipazione del testo, della successiva scheda e della relazione di restauro di Luca Quartana, tratti dal volume II dei “Quaderni della Villa Reale di Monza” (Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Milano) a cura di Marina Rosa, in uscita in questi giorni presso l’editore Betagamma di Viterbo.
pavimentazione [delle regge] si decise che [i pavimenti] venissero affidati al Maggiolini di Parabiago (…)”, aggiungendo che “… dopo i pavimenti del regio Palazzo in Milano si costruirono tutti quelli che, al presente, si osservano nella Real Villa di Monza…”1. La storiografia conferma il suo intervento, tra il 1773 ed il 1782, in quel palazzo che il Piermarini stava adattando per l’Arciduca Ferdinando, ma, per quanto concerne la reggia monzese, gli attribuisce pavimenti in sale sempre diverse. Solo un recente studio ha consentito di individuare con esattezza gli ambienti che sono stati dotati, tra il 1777, data della costruzione della villa, ed il 1814, data della morte di Maggiolini e dell’allontanamento dei francesi da Milano, di impalcati lignei ad intarsio 2. Anche se la sua fortuna come intarsiatore di corte venne meno durante gli anni che videro il saccheggio delle residenze degli Asburgo e la distruzione di gran parte del loro arredo, tra cui molti dei mobili provenienti dalla sua bottega, già con Melzi D’Eril e con la decisione di porre fine a quello “stato assai malconcio” in cui riversavano gli immobili erariali, Giuseppe Maggiolini ritrovò nuove importanti committenze. Il Canonica, subentrato al Piermarini, gli affidò infatti nei primi mesi del 1805 la realizzazione di uno dei più importanti ed ancora parzialmente conservati pavimenti della reggia di Monza, quello del Gabinetto d’Angolo dell’appartamento che era stato di Beatrice d’Este e che, dopo l’incoro-
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Tavolino P 143, sopra.
Tavolino P 143, particolare.
nazione di Napoleone a Re d’Italia e la venuta a Milano quale Vicerè del figliastro Eugène de Beauharnais, sarà di Amalia di Baviera. Del Maggiolini o, quantomeno del figlio Carlo Francesco, è infatti la splendida porzione pavimentale raffigurante quella “… grande testa anguicrinita di Medusa …” che Giuliano Traballesi disegna appositamente lumeggiandola “… languidamente al bistro”, rimossa dal pavimento e collocata a sé stante ai primi del Novecento. Da allora, trasformata in una sorta di pannello parietale, la
testa della Gorgone è stata esposta e ammirata come un prezioso prodotto dell’arte dell’intarsio, perdendo ben presto ogni riferimento alla sua origine. Solo l’intervento di restauro sinteticamente illustrato nell’articolo di Luca Quartana ha consentito di ricondurlo con certezza alla funzione per la quale era stato realizzato ed il recente studio di Giulia Fusconi di datarlo3. Negli anni del regno Italico, caratterizzati da rinnovamenti agli apparati decorativi di ingente consistenza e costi, non-
Tavolino P 143, generale, chiuso e aperto.
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Tavolino P 143, particolare.
Tavolino O 102, generale, chiuso e aperto.
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Tavolino 929, sopra Pagina a sinistra: Tavolino 929, sopra: particolare d’angolo.
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famosi album di disegni e I L M AG G I O L I N I unica la raffinata tecnica utiPRODUSSE PER LE lizzata dal Maggiolini per produrre quegli intarsi tanto REGGE MILANESI graditi sia a Ferdinando che alla corte napoleonica. E MONZESI UNA I numerosi cassettoni, secréSERIE DI ARREDI taires, librerie, scrivanie e tavolini “impellicciati in ebano DI GRANDE PREGIO rosa” facenti parte del patrimonio mobiliare delle regge E BELLEZZA milanesi nella prima metà dell’Ottocento si salvarono dalla ventata di rinnovamento decorativo di fine secolo. Nonostante il radicale mutamento di gusto che implicò pesanti trasformazioni degli interni della reggia di Monza, non vennero infatti distrutti o venduti, ma solo confinati in ambienti di secondaria importanza. Giunsero agli anni Venti del Novecento in uno stato di conservazione definito “mediocre” dagli inventari mobiliari sabaudi, e vennero scelti tra gli oggetti ed arredi d’arte da conservare da un’apposita commissione istituita all’indomani della dismissione di gran parte delle residenze reali italiane4. La successiva consegna di tutto il patrimonio giudicato di rilevanza storico-artistica all’allora Ministero della Pubblica Istruzione consentì loro di superare infine, più o meno indenni, i bui decenni di abbandono e oblio delle regge milanesi. Dal lontano 1919 all’avvio delle campagne di riordino dei ché da rifacimenti di ampie porzioni di pavimentazioni, labili ma fondamentali tracce lo mostrano quasi ininterrottamente attivo nella reggia estiva del Vicerè. Frequenti manutenzioni ai pavimenti da lui stesso eseguiti e l’incarico di realizzare un lavoro di ebanisteria per quel Gabinetto Topografico che Canonica stava allestendo a completamento degli interventi di miglioria delle stanze private di Beauharnais, sono affiancati dalla commissione, alla bottega di Parabiago, di un elevato numero di tavolini da gioco da destinare agli ambienti nobili di Milano, Palazzo e Villa, e di Monza. I tavolini, realizzati secondo una tipologia uniforme che vede prevalere la forma quadra, erano caratterizzati dall’avere un lato del piano intarsiato e l’altro coperto di panno verde; il piano era estraibile e ribaltabile. Rari sono gli esemplari con dimensione leggermente quadrangolare, mentre più consueti sono i tavolini con altezze di poco superiori alla larghezza; abbastanza frequente è anche la tipologia che vede il piano ripiegarsi a libro per permettere un uso più flessibile del mobile a fronte di un suo minore ingombro. In queste versioni le facce si presentavano spesso intarsiate da entrambe le parti, rendendo possibile l’utilizzo del mobile anche per sole finalità di arredo Ricco l’impianto decorativo, anche in questi casi spesso mediato dagli artisti attivi nei cantieri delle regge o attinto da In alto: Tavolino N 69, sopra: particolare.
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Tavolino N 69, generale.
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depositi, ricognizione mobiliare e restauro, molteplici furono le disavventure d’uso di questi preziosi arredi destinati, negli anni sessanta del Novecento, a diverse sedi istituzionali. Utilizzi decisamente impropri che, se da una parte si sono dimostrati una delle principali cause del degrado manifestato, dall’altra hanno avuto il merito di evitarne il confinamento in depositi malsani, con conseguenze ancora peggiori. Nella ricognizione inventariale condotta nel 1964 dall’allora Soprintendenza ai Monumenti per verificare la consistenza del patrimonio avuto in custodia dopo l’incendio dei depositi di Palazzo Reale, sono infatti documentati ancora 43 tavolini, 6 tavoli, 4 secrétaires, 2 scrivanie e 2 cassettoni “di stile Maggiolini”. Patrimonio ancora oggi quasi totalmente integro. Agli inizi degli anni novanta i primi restauri ed i primi studi5. In seguito la pressoché contemporanea partenza dei progetti di recupero di Palazzo Reale, Villa Reale di Milano e della Villa di Monza, hanno portato ad approfondire ulteriormente lo studio sugli apparati decorativi e sugli arredi delle residenze reali lombarde, con particolare riferimento ai mobili intarsiati ed alle pavimentazioni. Si ringrazia per la gentile anticipazione del testo, della successiva scheda e della relazione di restauro di Luca Quartana, tratti dal volume II dei “Quaderni della Villa Reale di Monza” (Soprintendenza per i Beni Architettonici e paesaggistici di Milano) a cura di Marina Rosa, in uscita in questi giorni presso l’editore Betagamma di Viterbo.
In alto: Tavolino F 863, sopra: particolare.
Tavolino F 863, generale e sopra.
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Tavolino 862, sopra. Pagina a destra: Tavolino N 69, sopra.
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TA VO L I N O N ° 9 2 7 AUTORE Bottega di Giuseppe Maggiolini OGGETTO Tavolino da gioco con piano estraibile D ATA Z I O N E Primo decennio XIX secolo DIMENSIONI 810 x 810 x 800
DESCRIZIONE Tavolino da gioco con piano estraibile interamente lastronato e intarsiato. Il disegno decorativo consiste in una cartella centrale ottagonale con quattro spigoli tangenti alla mezzeria dei lati perimetrali del piano. La cartella è a fasce di lastrone con vena specchiata, delimitata da una bordura a filetti e fascetta di lastrine con vena disposta ortogonalmente ai filetti di contenimento. Ai vertici, girali fogliati ad intarsio sono inseriti in contorni filettati. Una cor-
nice a filetti delimita il perimetro piano. Le fasce del fusto sono decorate con linee filettate e lastronatura con vena verticale. Le gambe, troncopiramidali, sono rastremate verso il basso; l’intervallo tra le mazzette filettate con lastrone a vena orizzontale, gamba filettata e piedini è segnato da semplici fascette a rilievo; i filetti seguono la rastrematura ed isolano il lastrone centrale, a vena verticale. I piedini sono il prolungamento delle gambe e non presentano decorazioni
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S I G L E I N V E N TA R I A L I M a , a inchiostro, accompagnato da due bolli di ceralacca; M·R, a secco, con cartellino: “PALAZZO REALE DI MONZA Appartamento di (a stampa) Conversaz. delle LL. AA. RR. Sala del Circolo (manoscritto, inchiostro seppia) N° (a stampa) 479 (manoscritto, inchiostro seppia)”; O 177 e RC entro coroncina circolare, a secco, cancellato di vernice rossa; L 2534 81 e DC entro ovale, (in verticale), a secco, cancellato con vernice azzurra; 4004 vernice azzurra; Soprintendenza Monumenti N° 927, etichetta metallica e cartacea (mancante in parte). D A G L I I N V E N TA R I M O B I L I A R I S A BAUDI Inventario mobiliare L Dotazione Corona 18816 N° Inventario: 2534 “Un tavolino da gioco quadrangolare a gambe piramidali di legno noce filettato ed intagliato a fregi in legni diversi (da Maggiolino) della misura di cent.i 80 in quadro” Stato di conservazione: mediocre Valore inventariale: £. 50 N° Inventario precedente: 1584 /75 Ubicazione: Locale 9, Sala da Pranzo per la Famiglia Inventario Mobiliare Dotazione Corona 19087 N° inventario: 4004 “Un tavolino da gioco di Maggiolino di noce impellicciato e intarsiato a riquadri e fiori di legno giallo, Gambe piramidali e piano da rivoltarsi coperto di panno
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da una parte di m. 0,80 in quadro” Stato di conservazione: assente Valore inventariale: £ 50 N° inventario precedente: 2534 Ubicazione: Corridoio D, locale 42 Note di scarico: il numero d’inventario è cancellato con matita colorata blu, a fianco al numero, a matita, P.I. (Pubblica Istruzione). NOTE È presente sul ripiano inferiore la M ad inchiostro accompagnata dai due bolli di ceralacca che dovrebbe stare ad indicare la destinazione dell’arredo all’uscita dalla bottega dell’intarsiatore, molto probabilmente Monza; l’inventario napoleonico, rappresentato dalla sigla M·R, individua la collocazione del tavolino nella Sala del Circolo, la seconda sala a sinistra del Salone Centrale; segue la sigla dell’inventario asburgica che lo vede sempre collocato in Villa Reale; in epoca sabauda il tavolino era nella cosiddetta Sala da Pranzo per la Famiglia, dopo le trasformazioni di fine Ottocento venne collocato nel corridoio del secondo piano nobile, ala nord. NOTE STORICO-CRITICHE La decorazione di questo piano, nella sua semplicità, rispecchia le più elaborate composizioni ad intarsio eseguite da Giuseppe Maggiolini nei suoi mobili. Non è escluso che l’idea di lasciare un ampio spazio geometrico senza alcun ornato al centro dei piani dei tavolini sia stata ripresa dall’intarsiatore, o dai suoi collaboratori, dai tavoli di pietre dure eseguiti a Roma durante il Cinquecento
e conosciuti anche in Lombardia; nel Palazzo Ducale di Mantova, ad esempio, ne esistevano diversi esemplari. BIBLIOGRAFIA Colle, Gli arredi, Palazzo Reale di Milano, a cura di E. Colle, F. Mazzocca, Skira editore, 2001. S TAT O D I C O N S E R VA Z I O N E La cartella centrale presentava vistosi avvallamenti causati dall’imbarcamento delle tavole costituenti il supporto con conseguente fessurazioni in corrispondenza della linea di giunzione delle lastre stesse. Tale fenomeno aveva anche causato una rottura, per strappo, di una porzione della bordura a filetti che incornicia la cartella centrale. La lucidatura era completamente scomparsa e, in corrispondenza delle linee di avvallamento del piano, tale fenomeno aveva accelerato il processo di ossidazione della materia lignea nonché il deposito, nei pori, di particellato atmosferico. Fessurazioni e sollevamenti erano diffusi nella bordura lastronata della cartella centrale; il processo di decoesione del rivestimento dal sottostante supporto che ne derivava, comprometteva l’adesione delle cornici a filetti. Una vistosa lacuna della filettatura era inoltre presente in corrispondenza di un vertice della cartella ottagonale ed era accompagnata da lacune nei girali intarsiati, in qualche caso reintegrate. La fascetta coprifilo della battuta stondata di inserimento del piano era interrotta da mancanze. La fascia del fusto presentava vistosi sol-
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iniezione a siringa di adesivo reversibile a base di resine alifatiche nelle zone di sollevamento e decoesione del rivestimento ligneo dal supporto. Incollaggi con pressione calibrata con morsetti e/o graffettatura. Infiltrazione di consolidante idoneo mediante aghi cannula nelle zone di erosione della materia lignea da parte di xilofagi.
levamenti della lastronatura che compromettevano la stabilità di alcune cartelle. Una gamba era deformata per svirgolatura. R E S TA U R O 8 Luca Quartana PULITURA: Rimozione dei residui di lucidatura deteriorati con gel decapante a base di cloruro di metilene in carbossimetilcellulosa (CMC) con saggi di pulitura compatibilmente alla conservazione della naturale patina del legname. Rimozione dall’interno e retro del piano dei depositi di particellato atmosferico e pulitura delle carte di rivestimento con detergenti in soluzione acquosa adeguata - Rimozione meccanica a bisturi dei residui di colle animali dalle lacune della lastronatura e delle tarsie.
FALEGNAMERIA: Smontaggio delle parti in concomitanza di incastri danneggiati e/o delle sezioni costruttive in fase di decoesione - Ricostruzione delle maschiature di incastro spezzate o deteriorate - Ripristino degli incastri - Infiltrazione di adesivo reversibile a base di resine alifatiche nelle zone di decoesione degli incollaggi - Sostituzione delle chiodature inefficienti con viti passanti nella sede dei chiodi estratti - Ricostruzione delle componenti strutturali definitivamente compromesse - Reincollaggio con relativa morsettatura degli elementi costruttivi smontati e riparati - Ripristino della funzionalità d’uso con riferimento alle ferramenta (cerniere).
livello in resina bicomponente (araldite) - Riempimento delle lacune della lastronatura di fondale alle tarsie con tasselli di lastrone della medesima specie lignea - Reintegrazione delle lacune delle tarsie con neutri in resina bicomponente (araldite) e/o tessere della medesima specie lignea, relativamente al carattere ed alla specie della decorazione intarsiata - Stuccature a cera delle fessurazioni tra le tessere di tarsia. DISINFESTAZIONE: Trattamento degli interni con pesticida adeguato per il rilascio di residui attivi a scopo preventivo con riferimento a possibili attacchi di insetti xilofagi - Infiltrazione per imbibizione (aghi cannula) e iniezione (siringa) di pesticida in eventuali fori di sfarfallamento - Stuccatura dei fori di sfarfallamento per facilitare la verifica di nuovi eventuali attacchi. RITOCCO: Decolorazione delle reintegrazioni in resina - Velatura sottotono di tutte le reintegrazioni in resina, legno e cera con l’utilizzo di materiali reversibili.
CONSOLIDAMENTO: Infiltrazione per
REINTEGRAZIONI: Inserimento di tasselli della medesima specie lignea nelle zone di erosione irreversibile della materia lignea delle superfici di supporto a vista e dei segmenti di elementi costruttivi - Riempimento delle fessurazioni dei piani di supporto con stuccature a
LUCIDATURA: Stesura di due mani di gommalacca diluita in alcol etilico 94° applicata a tampone lisciate con lana d’acciaio - Lucidatura finale con cera d’api diluita in essenza di trementina con aggiunta di pesticida.
1 Le informazioni che ci giungono dal Mezzanzanica sono risultate, almeno per quanto concerna Monza, non del tutto esatte. 2 Per un approfondimento sul tema dei pavimenti della Villa Reale di Monza, vedi l’articolo della scrivente Alcune considerazioni sui pavimenti della Villa reale di Monza, ne “I Quaderni della Villa 2”, Betagamma Editrice, Viterbo, 2006. 3 Per l’attribuzione del disegno preparatorio della tavola intarsiata a Giuliano Traballesi vedi l’articolo di Giula FUSCONI Una Medusa per Napoleone, “Quaderni della Villa 2”, Betagamma Editrice, Viterbo 2006. 4 La disposizione di cernita degli oggetti d’arte viene impartita dal Ministero della Real Casa, Div. III, con Circolare N° 39097 del 20 settembre. Della Commissione appositamente istituita per indi-
viduare, prima del passaggio dei beni mobili dotazione corona ai vari Ministeri ed Istituzioni, gli arredi con spiccate caratteristiche storico-artistiche da conservare, faceva parte anche il Prof. Papini della Soprintendenza alle Gallerie, che risultò determinante nelle scelte effettuate. 5 I primi restauri di arredi provenienti dalla dispersione delle regge lombarde, tavolini da gioco compresi, è documentata nella pubblicazione L’appartamento di Umberto I. Villa Reale di Monza, a cura di Marina ROSA, Editoriale Giorgio Mondatori, Milano 1994. 6 Inventario generale di tutto il mobiliare esistente nel Palazzo della Real Villa presso Monza e dipendenze, compilato dall’incaricato Aurelio Gallo secondo i dati prescritti dal Ministero della Real Casa colla circolare 19.6.1897 N° 381…
7 Inventario dei Mobili d’arredamento, arredi sacri e suppellettili in genere appartenenti alla Dotazione Corona ed esistenti nel Regio Palazzo, nelle Reali Cappelle e negli altri locali dei fabbricati facenti parte del tenimento detto la Villa Reale di Monza… 8 Il restauro dei tavolini da gioco delle residenze reali lombarde è stato realizzato da Luca Quartana e dal Laboratorio di Renato Girardi con fondi del Ministero per i Beni Culturali e condotto dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Milano. Progetto e Direzione lavori: Marina Rosa. Collaborazione: Lorenza Dall’Aglio. Supervisione storico-artistica: Sandrina Bandiera, Soprintendenza per i Beni Artistici della Lombardia. Lo studio sulle segnature inventariali sabaude è stato condotto da Ivana Novani.
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L’opera, al momento della presa in carico per il restauro era in un pessimo stato di conservazione: la superficie intarsiata era in fase di distacco dal supporto e in molte zone le tessere della tarsia erano pericolanti se non del tutto decoese e inoltre tre profonde fessurazioni erano visibili, assieme ad altre di minore entità, lungo tutto lo sviluppo in altezza della tavola. In concomitanza di queste fratture, il processo di decoesione della tarsia dal supporto interessava una percentuale talmente consistente della superficie che non era imputabile unicamente al degrado naturale che colle di origine animale, impiegate per fissare il rivestimento al supporto, subiscono nel corso del tempo. Per quanto concerne le vernici a finire era riscontrabile la permanenza di uno strato assai lacunoso di vernice resinosa, imbrunita e alterata a causa della sua fotosensibilità, sicuramente vernice gommalacca, non certamente originale, la cui applicazione poteva essere considerata relativamente recente sia in virtù della tecnica di stesura sia per la sua consistenza, non adeguata al tipo di manufatto. Queste ipotesi sono state confermate al momento dei test di pulitura effettuati in laboratorio, al fine di determinare la miscela solvente idonea per la pulitura. Date le condizioni di ossidazione e deterioramento della vernice e dato che dette condizioni erano causa della perdita di resa tonale del manufatto, ottenuta dall’accostamento delle diverse specie lignee, si è optato per la rimozione della vernice stessa mediante applicazione di gel decapante a base di cloruro di metilene in carbossimetilcellusa (CMC), lasciato agire per qualche minuto e quindi rimosso con acetone.
VISIONE TOTALE RETRO DELLA TAVOLA CON EVIDENZA DEL SISTEMA COSTRUTTIVO E DELLO STATO CONSERVATIVO DELL’ASSITO DI SUPPORTO DELLA TARSIA FOTO 2
Smontando l’opera dal suo ancoraggio a parete, per consentirne la movimentazione e il trasporto, è stato possibile prendere visione del retro, verificare il sistema costruttivo e constatare che il degrado riscontrato sulla superficie intarsiata, descritto in precedenza, era da attribuirsi prevalentemente a deformazioni e variazioni dimensionali degli elementi costitutivi il supporto stesso. La tavola si compone di un telaio costituito da due traverse verticali legate ai vertici a due catene orizzontali da incastri a tenone e mortasa fermati con spine passanti. Le traverse verticali sono legati anche da una catena centrale, con incastri a tenone e mortasa, la traversa è dotata di
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doppia fresatura superiore ed inferiore mentre le catene superiore ed inferiore perimetrali sono dotate di fresatura interna per l’inserimento di una foderina in due parti costituita da assi di abete giuntate di costa. La doppia foderina di supporto alla tarsia, era attraversata da gravi fessurazioni e crepe da ritiro delle assi. Sulle mezzerie delle foderine erano poi fissate con chiodi due traverse che in un primo tempo si era pensato fossero state applicate per tentare di arginare il processo di fessurazione delle assi. Il livello delle foderine era leggermente ribassato rispetto allo spessore del telaio e le due assicelle traverse erano di spessore utile per livellarsi col telaio. Erano anche evidenti modifiche del telaio sia nella parte superiore sia nella parte inferiore: i listelli di chiusura sono stati ridotti di larghezza e la cornice di bordura lievemente sagomata è di esecuzione recente. Le modifiche subite dal telaio del manufatto e il degrado del supporto dovuto ad una forte deformazione delle tavole costitutive le foderine, sono la conseguenza evidente di un cambiamento di destinazione d’uso dell’opera e di un avvenuto trasferimento della stessa in un microclima del tutto diverso da quello in cui era originariamente conservata e a cui si era adattata.
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VISIONE PARTICOLARE RETRO DELLA TAVOLA CON EVIDENZA FORI DI USCITA CHIODI PASSANTI RISALENTI AL MONTAGGIO ORIGINARIO DELLA TAVOLA FOTO 3
Durante l’osservazione del retro della tavola sono venuti in evidenza, in corrispondenza dei vertici del telaio e, a distanze regolari, lungo le traverse verticali e lungo le catene orizzontali, fori da chiodo quadro in uscita (in alcuni fori era anche presente il moncone del chiodo reciso).
VISIONE PARTICOLARE FRONTE DELLA TAVOLA CON EVIDENZA FORI DI ENTRATA CHIODI PASSANTI RISALENTI AL MONTAGGIO ORIGINARIO DELLA TAVOLA FOTO 4
Quando successivamente, intervenendo sulla superficie intarsiata, sono state sollevate tutte le tessere in fase di decoesione dal supporto o pericolanti, sono venuti alla luce i fori di entrata del chiodo. È stato dunque chiaro che la tavola era in origine chiodata ad una struttura di supporto. È stata scartata l’ipotesi che potesse essere un piano di tavolo, sia per le caratteristiche formali e compositive della figurazione, sia perché il sistema chiodatura e il sistema costruttivo del telaio non corrispondevano a nessun sistema costruttivo di tavolo. È stato anche escluso si trattasse di un pannello decorativo di boiserie, dal momento che questo tipo di manufatti sono, di norma, tenuti da cornici perimetrali e non con chiodature sui telai di sostegno, a cui venivano ancorati solo gli elementi verticali con funzione di montanti. Inoltre non vi sono reperti né tracce storiche della presenza di una boiserie di questo tipo in Villa Reale a Monza.
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L’ipotesi che, dunque, si andava confermando, anche attraverso gli studi storico archivistici in corso, era quella che il manufatto in oggetto fosse un elemento costruito autonomamente per essere inserito, quale elemento centrale, in una pavimentazione. Il fatto che le teste dei chiodi fossero nascosti dalla tarsia denota chiaramente che le tessere sono state fissate al supporto dopo la chiodatura di quest’ultimo ad una struttura di sostegno. Queste osservazioni sono state importanti per avvalorare la tesi che fosse un frammento di pavimentazione eseguita parzialmente in opera.
VISIONE PARTICOLARE FRONTE DELLA TAVOLA CON EVIDENZA PUNTO DI PRELIEVO CAMPIONE DI STUCCO FOTO 5
Un altro elemento importante per valutare l’origine e la destinazione d’uso della tavola è dato dall’osservazione degli stucchi. Tutti i vuoti tra le tessere di tarsia, con particolare riferimento agli spazi tra le tessere costituenti i moduli decorativi delle cornici (foglie, ovuli ecc.), erano riempiti con uno stucco e non con tessere più minute di altra specie lignea.
VISIONE PARTICOLARE DEL CAMPIONE DI STUCCO PRELEVATO
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Le indagini di laboratorio sui campioni di stucco ne hanno determinato la composizione: si tratta di un impasto di colle animali e polvere di legno. Questo dato è stato di grande importanza. Infatti le antiche pavimentazioni di epoca neoclassica e, anche in seguito, quelle tardo ottocentesche, presentano tecniche di riempimento analoghe (spesso l’impasto veniva caricato con polvere di carbone onde ottenere una colorazione bruno-scura). Indipendentemente infatti dalla perizia dell’intarsiatore, particolari troppo minuti della tarsia non potrebbero resistere al tipo di sollecitazione determinata dal calpestio. È per questo che l’autore della tavola, se pur abile, deve aver optato per una tecnica di riempimento finalizzata alla durata del manufatto in relazione alla sua funzione. Riempimenti e stuccature eseguiti con questa tecnica arrivano ai giorni nostri abbastanza integri, nonostante le reiterate operazioni di lamatura e manutenzione a cui un’opera di pavimentazione in legno è comunque esposta nel corso del tempo.
VISIONE PARTICOLARE FRONTE DELLA TAVOLA CON EVIDENZA ZONE DI CADUTA DELLA TARSIA DETERMINATE DAI MOVIMENTI DEL SUPPORTO NELLA ZONA DI INNESTO TRA FODERINE E CATENA CENTRALE DEL TELAIO. SONO VISIBILI LE ETICHETTE DI MAPPATURE (ES. PARTI DI RIFACIMENTO PRECEDENTI IL RESTAURO: PUNTI ROSSI; MICRO SOLLEVAMENTI: PUNTI BIANCHI; STATO DELLA VERNICE PRIMA DELLA PULITURA: RIQUADRI; CHIODI DI FISSAGGIO; NUMERI; ECC.). FOTO 7
Le operazioni di pulitura hanno evidenziato che la vernice in opera non poteva, per le sue caratteristiche, essere quella
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Prima di cominciare il restauro è stato eseguito un rilievo 1:1 a ricalco su acetato, trasferito poi su carta, per consentire le varie mappature (posizione e numerazione tessere rimosse, tessere di rifacimento, localizzazione chiodi, zone di prelievo campioni, foto in microscopia, fori passanti di chiodi, ecc). Con il rilievo è stato possibile constatare che la misura della tavola combacia perfettamente con la specchiatura centrale del pavimento attualmente in opera. Questo pavimento è di fattura recente e se si considera il fatto che dal 1937 i locali della Villa ospitano mostre periodiche dell’arredamento si potrebbe ipotizzare che attorno a quella data, sia stato smantellato il pavimento originario, anche se la tavola sembra sia stata recuperata e trasformata in pannello autonomo prima del 1928. Dopo essere stata rimossa dalla sua sede originaria è stata dotata di un bordo sagomato perimetrale dopo le riduzioni del telaio dovute all’estrazione dalla pavimentazione. Il rilievo 1:1 ha permesso di effettuare un’altra importante verifica: la posizione dei fori passanti, evidenziati sul retro della tavola e mappata sul disegno, corrisponde alla disposizione dei travetti di sostegno della pavimentazione attuale, di cui è stato possibile rilevare la posizione perché parzialmente a vista lungo il perimetro della stanza e perché è stato effettuata una verifica delle chiodature attuali. Questa verifica, sommata ai dati già esposti, conferma ulteriormente l’ipotesi che si sia di fronte ad un frammento di pavimentazione originale. Infatti i travetti di sostegno, al confronto, risultano del tutto simili a quelli dei pavimenti più antichi del primo piano nobile. 7
originale. La sua rimozione ha dato modo di evidenziare abrasioni e ammaccature della superficie intarsiata, precedenti alla sua stesura e tipiche delle pavimentazioni esposte a calpestio. Sono state individuate inoltre molte tessere di rifacimento, risalenti ad un intervento di restauro precedente. Queste reintegrazioni sono state effettuate con l’utilizzo di chiodi. Ciò indica che per la riparazione della tarsia non è stato possibile effettuare incollaggi mediante pressatura con morsetti o altri sistemi che avrebbero richiesto l’accesso alla parte retrostante del manufatto. È dato quindi pensare che il restauro sia stato compiuto con la tavola in opera, come elemento centrale di una pavimentazione più ampia. In seguito alle prime risultanze delle ricerche storiche e archivistiche è stata avanzata l’ipotesi che la tavola raffigurante la medusa facesse parte della pavimentazione del Gabinetto d’Angolo situato nel corpo centrale al primo piano nobile, gabinetto con funzioni di studiolo, in adiacenza alle stanze regali. Questa stanza diviene bagno alla fine dell’Ottocento. Questo cambiamento di destinazione d’uso della stanza spiegherebbe una serie di interventi di manutenzione subiti dall’opera venuta a trovarsi in condizioni microclimatiche non idonee alla conservazione di un manufatto ligneo, con riferimento alle condizioni termoigrometriche.
GIULIANO TRABALLESI, DISEGNO DI TESTA DI MEDUSA, MILANO, CIVICO GABINETTO DEI DISEGNI DI CASTELLO SFORZESCO, FONDO MAGGIOLINI, MATITA, PENNA, ACQUERELLO MARRONE, mm 520 X 400, INV. C 110/358 FOTO 8
Analizzando il disegno del Traballesi del 1805 e confrontandolo con la tavola sono possibili anche alcune annotazioni sulla tecnica esecutiva della tarsia che confermano ulteriormente l’originaria destinazione d’uso dell’opera. Le ombreggiature del disegno, assai ben definite, sono riportate schematicamente, come richiesto dalla tecnica della tarsia, ma in modo assai fedele all’originale. Lo stesso si può dire, fatta eccezione per qualche variazione minima, degli elementi figurativi del disegno: la posizione e il movimento degli aspidi e i loro particolari anatomici, le labbra e i denti della medusa, gli occhi, le ali piumate. Tuttavia nella tarsia si perdeva gran parte del tratto che veniva eseguito ad incisione a bulino e, pur permanendo una leggera variazione tra le tessere di definizione delle ombre e quelle di definizione delle luci, mancava il contrasto necessario a conferire profondità alla figura. Dato che nella tarsia, nella maggior parte dei casi, l’ombreggiatura veniva ottenuta mediante una bruciatura superficiale del legno, la perdita di queste ombreggiature era sintomatica, assieme alla scomparsa dei tratti di
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segno incisi a bulino, del fatto che la tarsia avesse subito una o più forti levigature, operazioni tipiche della manutenzione delle pavimentazioni lignee. Se si considera il fatto che lo spessore delle tessere attualmente varia tra mm 3 e mm 5, si puo presumere che lo spessore dei lastroni di tranciato di partenza non fosse inferiore, prima della lamatura, a mm 7 o addirittura mm 8; spessori assolutamente consoni ad un pavimento intarsiato e del tutto inusuali per opere mobili.
DA GIULIANO TRABALLESI, DISEGNO DI TESTA DI MEDUSA, MILANO, CIVICO GABINETTO DEI DISEGNI DI CASTELLO SFORZESCO, FONDO MAGGIOLINI, DISEGNO PER SPOLVERO (PARZIALMENTE TRAFORATO LUNGO I SEGNI A INCHIOSTRO), MATITA, PENNA, INCHIOSTRO NERO, MATITA ROSSA, mm 504 X 394, INV. C 111/359 FOTO 9
Oltre al disegno del Traballesi, il fondo Maggiolini conserva un disegno anonimo, analogo al primo ma di fattura totalmente differente. Il disegno in questione è chiaramente un ricalco. Lo confermano la modalità di conduzione della linea che risulta incerta e discontinua, l’assenza totale di profondità determinata da un’esecuzione alquanto schematica priva di qualsiasi ombreggiatura e, per finire, la linea di foratura del foglio in corrispondenza del profilo del mento e tratti a matita sanguigna, probabilmente di precisazione o correzione dei contorni. La scarsissima qualità e la schematicità consentono di collegare il disegno ad un intervento di ricalco finalizzato alla riparazione, tenendo anche conto che le zone maggiormente interessate da rifacimenti sono quelle delle guance e attorno al mento. Detto ricalco sembra essere stato fatto in una situazione difficoltosa quale ad esempio quella di un rilievo da pavimentazione.
VISIONE TOTALE RETRO DELLA TAVOLA CON EVIDENZA DEL SISTEMA DI RISANAMENTO DELLO STATO CONSERVATIVO DELL’ASSITO DI SUPPORTO DELLA TARSIA FOTO 10
Ritornando ai danni dovuti alla variazione dimensionale delle assi di abete che costituiscono le foderine di supporto alla tarsia, è stato necessario intervenire sulle fenditure prodottesi con una correzione e regolarizzazione delle medesime con incisioni triangolari riempite con cunei di tiglio (sverzatura), data la gravità del danno prodotto dal ritiro delle fibre. Un ritiro così consistente può essere determinato unicamente, come già accennato, dall’esposizione improvvisa del manufatto a valori percentuali di umidità relativa assai più bassi del consueto, che determinano una cessione di acqua da parte delle cellule del legno assai rapida che deprime i valori percentuali dell’umidità del legname. Un’asciugatura repentina del legno è la causa primaria delle fessurazioni e fenditure prodottesi sul supporto, che si sono ripercosse sulla tarsia nella parte frontale causando il loro distacco dal supporto e l’inizio del deterioramento delle colle animali impiegate per la realizzazione dell’opera.
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La tavola, come elemento della pavimentazione, doveva essere originariamente, come ipotizzato, posata e ancorata ad un telaio di travetti poggianti su una soletta coibentata con macerie e materiale di risulta. Il retro della tavola era dunque esposto a valori d’umidità e temperatura costanti, e date le caratteristiche costruttive della villa e le modalità d’uso della medesima e l’assenza all’epoca di sistemi di condizionamento della temperatura, detti valori dovevano essere sufficientemente elevati per quanto concerneva l’umidità e tendenzialmente bassi per quanto concerne la temperatura. Una volta smontata è stata improvvisamente esposta a situazioni di areazione maggiore (la collocazione nell’androne del Teatrino), a sbalzi di temperatura notevoli sia stagionali sia dovuti all’apertura di porte o finestre. Altra importante operazione effettuata all’atto del risanamento del retro, è stata la rimozione delle due assicelle applicate trasversalmente alle foderine (cfr. foto 2). Constatato che non avevano nessun valore strutturale apparente e cercando di individuarne la funzione si è arrivati ad una conclusione interessante: al momento della rilevazione dei travetti di sostegno della pavimentazione nel Gabinetto d’angolo situato nel corpo centrale al primo piano nobile, per le verifiche già descritte, è stato possibile constatare che la posizione delle assicelle in questione, qualora la tavola fosse stata nella collocazione ipotizzata, corrispondeva esattamente alla posizione dei travetti di sostegno sottostanti. Per cui la funzione di queste assicelle era di spessorare le foderine dato che il telaio è maggiore per spessore onde evitare che il peso determinato dal calpestio tendesse a sfondare le foderine stesse. FOTO 11
La porzione centrale della tarsia in fase di restauro. Sono visibili le integrazioni.
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CILIEGIO
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MANSONIA
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M A E S T R I D E L L A S C U LT U R A I N L E G N O N E L D U C AT O D E G L I S F O R Z A F R A N C E S C A TA S S O conservatore Civiche Raccolte d’arte applicata, Milano
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a mostra attualmente in corso al Castello Sforzesco di Milano, dal titolo Maestri della scultura in legno nel Ducato degli Sforza, a cura di Giovanni Romano e Claudio Salsi, con Francesca Tasso, Marco Albertario, Raffaele Casciaro e Daniele Pescarmona, aperta fino al 26 febbraio 2006, giunge al termine di un trentennio di studi, restauri, lavori di valorizzazione dell’ingente patrimonio della scultura in legno in Lombardia. L’esposizione è organizzata intorno a tre nuclei cronologici: il primo riguarda la produzione tardogotica, compresa tra la fondazione della cattedrale milanese (1387 circa) e l’organizzazione delle prime famiglie di intagliatori in botteghe specializzate tramandate di padre in figlio, tra cui si segnalano i Da Surso e i Lupi; la seconda mette a fuoco la grande stagione di esecuzione di ancone lignee per altari, commissioni spesso sostenute dagli stessi duchi di Milano per chiese e santuari del territorio, affidate alle botteghe dei fratelli De Donati, di Giacomo del Maino e di Pietro Bussolo; infine la mostra si chiude con una rassegna molto completa del maggiore intagliatore lombardo – maggiore per capacità tecniche e stilistiche e per cultura artistica – Giovanni Angelo del Maino. L’esposizione non poteva essere ovviamente esaustiva, ma grazie a prestiti ottenuti dalle più prestigiose istituzioni europee e nordamericane e da numerosi musei e chiese del territorio lombardo e più in generale dell’Italia settentrionale, della sterminata produzione lombarda possono essere documentate molte primizie: sono ad esempio attestate quasi tutte le maggiori imprese a noi note, come il coro realizzato da Lorenzo da Origgio, Giacomo da Torre e Giacomo del Maino per la Basilica di Sant’Ambrogio tra 1469 e 1471, oppure il coro e l’altare intagliato del santuario di Santa Maria del Monte a Varese, cui si attende a partire dal 1478; le poche opere prive di storia critica sono state scelte per la straordinaria qualità formale o per il profondo interesse tecnico. Il catalogo realizzato per l’occasione è corre-
Giovanni Ambrogio e Giovanni Pietro De Donati (?), Martino di Castello di Caspano, Rilievi dell’ancona di San Pietro martire: Colloquio mistico di San Pietro martire con le sante vergini Agnese, Caterina e Cecilia (p. 24), San Pietro martire ascolta il crocefisso (p. 25) (1497; Opava, Museo della Slesia)
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dato dalle schede di tutte le opere presenti e da alcuni saggi critici, ma si segnala per il particolare interesse il saggio di Daniele Pescarmona, il quale tenta, per la prima volta, di analizzare l’evoluzione della scultura lignea lombarda rinascimentale anche dal punto di vista delle trasformazioni tecniche: egli riesce a spiegare con una serie di esempi come il massello di legno venisse lavorato in modo da rendere nella maniera più efficace l’effetto prospettico delle scene o quello tridimensionale delle figure. In effetti la storia della scultura lignea lombarda è anche la storia degli strumenti affinati dagli intagliatori per riuscire a rendere nel legno gli stessi effetti che ricercano ed ottengono contemporaneamente pittori, scultori e orafi. Gli anni tra il 1390 e il 1540 sono quelli in cui l’arte lombarda subisce una notevole accelerazione, dapprima per l’influenza esercitata da Andrea Mantegna, poi per l’arrivo a Milano dall’Italia centrale di Donato Bramante e Leonardo, che costringe gli artisti locali ad aggiornare il loro stile e ad inventarsi una nuova maniera. In questa fase, non esistono graduatorie e la scultura in legno non è considerata una tecnica “inferiore”, più povera, più artigianale: è una tecnica che
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consente di ottenere effetti molto simili alla pittura, grazie al completamento coloristico, ma con una più spiccata resa volumetrica. Saranno poi le prescrizioni fornite da Carlo Borromeo dopo il Concilio di Trento a far ritenere più appropriati al decoro di una chiesa arredi in marmo o in bronzo e a sancire così la sfortuna critica della scultura lignea, che sopravviverà soltanto in aree provinciali e meno aggiornate, come la Valtellina. Nell’ambito cronologico scelto dalla mostra, invece, la scultura in legno è ancora una tecnica che gode di immenso favore ed è a tutt’oggi difficile capire in base a quali elemen-
Scultore veneto (?), Madonna col Bambino, 1390-1410, Milano, Museo del Duomo. Scultore dell’Italia settentrionale, Madonna col Bambino, 1450 circa, Milano, chiesa di San Tomaso.
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Sotto: Scultore lombardo, Compianto, 1400-1430 circa, Lodi, Cripta del Duomo, Cappella della Pietà. Nelle pagine seguenti: Maestro di Trognano, Altare della basilica di Santa Maria del Monte sopra Varese: Andata al Calvario (p. 28), Deposizione nel sepolcro (p. 29) (1482-1488 circa, Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’arte applicata).
La data di nascita di Giovanni Angelo del Maino si colloca probabilmente intorno al 1470, dato che i primi documenti che lo riguardano – e che lo attestano già maggiorenne – risalgono agli anni Novanta del Quattrocento. Secondo la prassi del tempo, era stato avviato alla professione di intagliatore insieme al fratello Tiburzio dal padre Giacomo, forse il maggiore scultore in legno del XV secolo in Lombardia. I primi documenti lo mostrano residente a Pavia, dove viveva ormai da diversi anni il padre, e le prime opere sono realizzate in collaborazione con Giacomo, ma rivelano immediatamente la differenza che corre tra le due generazioni. Il percorso di Giacomo è affine a quello degli altri intagliatori a lui coevi, come Pietro Bussolo e i fratelli Giovanni Pietro e Giovanni Ambrogio de Donati, tutti molto attenti a tradurre con prontezza nel legno le novità – in particolare quelle che riguardavano una rinnovata concezione architettonica – sperimentate dagli altri artisti negli ultimi trent’anni del Quattrocento, anni cruciali, a Milano. Ma lo sguardo di Giovanni Angelo si allarga a comprendere tutto quanto viene realizzato a Milano, tutte le ricerche condotte dagli artisti, locali e stranieri. La formazione giovanile nel cantiere della Certosa di Pavia, a fianco del padre, dove poté studiare le opere di scultori in marmo come Amadeo o di pittori come Perugino, spiega lavori giovanili come il Compianto conservato nel Bode Museum di Berlino o il Matrimomio mistico di Santa Caterina del Victoria and Albert Museum di Londra. Le grottesche profuse su tutte le ancone e che in mostra vediamo diffusamente dipinte sull’abito della Maddalena proveniente dal Compianto di Como, come sulle due lesene che racchiudono la Natività proveniente da Londra, sono prova, se non di un vero e proprio viaggio a Roma, canonico a quelle date per gli artisti lombardi, quanto meno dell’attento studio dei taccuini di schizzi che essi ne riportavano. Il rapporto con la scultura tedesca resta ancora un problema aperto, non essendo chiaro se Giovanni Angelo l’abbia conosciuta solo attraverso repertori di stampe, ampiamente diffusi, oppure attraverso l’osservazione di opere realizzate da artisti stranieri, oppure grazie ad un viaggio nel nord. Questa vastità di riferimenti ne fa un artista unico, comparabile soltanto, nel panorama lombardo, a Bambaia, lo scultore in marmo, cui viene accostato anche in mostra per sottolineare il comune gusto virtuosistico nella lavorazione della materia. Ma Giovanni Angelo sviluppa in più una capacità di resa emotiva che, come si dice nel testo, sembra derivargli da una riflessione sulla lezione di Leonardo. Resta da dire che l’attività di Giovanni Angelo, che si svolge su tutto il territorio lombardo, con sconfinamenti nelle regioni limitrofe come il Novarese o l’Emilia settentrionale, storicamente province lombarde, non sembra trovare una reale fortuna solo in Milano, dove prevalgono altri personaggi: in primis Andrea da Milano e Lorenzo da Mortara, il cui classicismo, del tutto estraneo a Giovanni Angelo, sembra risultare la formula vincente nella capitale del Ducato (F. T.).
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LA STORIA DELLA S C U LT U R A L I G N E A LOMBARDA È
ti gli stessi committenti scegliessero di volta in volta di far realizzare un’opera in pittura, in marmo, in legno.
Tutte le sculture presenti in mostra sono colorate: il lavoDEGLI STRUMENTI ro dell’intagliatore era infatti completato dal pittore, che eA F F I N AT I D AG L I seguiva la colorazione su una preparazione in gesso, analoI N TAG L I AT O R I ga a quella delle tavole dipinte. In Lombardia si nota precocemente l’impiego di una tecnica ben nota anche in pittura, che consiste nella stesura sotto il colore di una sottilissima foglia d’oro, che viene poi fatta emergere solo parzialmente grazie ad una serie di sottili graffiti che definiscono il disegno. La tecnica è estremamente costosa, perché richiede un impiego di oro superiore a quello che poi si vedrà realmente; ma l’effetto che si ottiene è all’altezza dell’impegno economico profuso, per-
ANCHE LA STORIA
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ché, anche dove l’oro non affiora, questo accende il colore soprastante di cangianze e luminosità. In mostra questa tecnica compare in tante opere: si segnalano come alcuni tra gli esempi più magnificenti le opere del cosiddetto Maestro di Trognano (forse uno dei fratelli De Donati?), tra cui il Presepe omonimo, i quattro rilievi provenienti dalla smembrata ancona di san Pietro Martire nella distrutta chiesa di San Giovanni Pedemonte a Como, opera di Giovanni Ambrogio De Donati e Pietro di Castello, e la figura di Maddalena, da un Calvario del Duomo di Como, di Giovanni Angelo del Maino. Le sculture che oggi appaiono senza policromia, come la bellissima Madonna col Bambino attribuita allo scultore Alberto da Campione, oggi in collezione privata inglese, sono state sottoposte ad un lavoro di rimozione sistematica del colore, effettuata addirittura con bagni nella soda per raggiungere un risultato di totale pulizia del legno, che nel Novecento pareva l’effetto più appropriato a questo materiale. Non a caso le opere private della policromia vengono quasi sempre dal mercato antiquariale. Quelle, invece, che
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sono rimaste oggetto di una devozione, non sono passate in collezioni private ed hanno conservato un posto nelle chiese, nei conventi, nei luoghi originari, hanno mantenuto la loro policromia, spesso coperta da strati stesi successivamente per mantenere la vivacità della colorazione, quindi intatta la loro capacità di comunicazione. Sotto le diverse stesure di colore più moderno, anche quattro o cinque, le più antiche effettuate già 80-100 anni dopo l’esecuzione, i restauratori più abili, che in questi anni hanno maturato e consolidato un’esperienza eccezionale, lavorando su tanti complessi, sanno recuperare con paziente lavoro di bisturi la colorazione originaria: è questo il caso, ad esempio, dell’ancona della Natività di Rivolta d’Adda, firmata da Bongiovanni Lupi e datata al 1480, e di quasi tutte le opere di Giovanni Angelo del Maino, comprese le statue dal Compianto oggi a Cuzzago, in Val d’Ossola. Tra le opere attribuite a Giovanni Angelo, suscitano un certo interesse alcune statue provenienti da un Compianto di incerta provenienza, oggi disperse in collezioni private, tranne il Nicodemo, esposto nelle raccolte del Castello Sforzesco, e la superba predella con Natività prestata dal Victoria & Albert Museum di Londra, proveniente da Piacenza. Si tratta infatti di opere apparentemente prive di policromia, che hanno fatto pensare che dopo gli anni Venti del Cinquecento, su influenza della scultura tedesca, sia stata abbandonata l’abitudine di policromare le sculture per
lasciare a vista il legno. In realtà deboli tracce di policromia si trovano anche su queste sculture, ma un cambiamento si avverte: man mano che aumenta la destrezza dell’intagliatore, diminuisce il ruolo del pittore, che si limitava, probabilmente, a una stesura cromatica su una preparazione assai sottile. Non si dimentichi però che alcuni documenti ci ricordano che accanto a Giovanni Angelo lavorano molto spesso pittori della fama di Gaudenzio Ferrari, come nell’ancona di Morbegno, a dimostrazione delle illustri frequentazioni dello scultore. Dal punto di vista delle tipologie, si è preferito la presentazione di Crocifissi, scegliendone solo uno di epoca tardogotica, attribuito a un collaboratore di Urbanino da Surso e proveniente dalla chiesa di San Lorenzo a Mortasa (Pavia): si è voluto infatti dimostrare la varietà delle tipologie e scegliere iconografie più inaspettate, puntando soprattutto sulla scultura monumentale, cioè su statue, spesso a grandezza naturale, oppure su rilievi Giovanni Angelo Del Maino, Compianto (1532-1536; Gambolò, Chiesa di San Paolo). Pagina a sinistra: Giovanni Angelo Del Maino, Figure da un Compianto: San Giovanni, Dolente (1524-1529; Cuzzago, Chiesa di San Martino).
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resta invece stupefatti di fronte all’intensità emotiva che Giovanni Angelo del Maino riesce ad infondere nel suo Compianto per la chiesa parrocchiale di Gambolò (Pavia), dove le pose sono audacemente dinamiche, la policromia comprende tinte assai diversificate e non solo colori primari e dove la varietà delle espressioni dei personaggi mostra il debito che il giovane Del Maino ha contratto nei confronti della lezione di Leonardo nel Cenacolo. Giovanni Angelo si cimenta in diversi Compianti, che mostrano la crescente capacità dell’artista di dare corpo all’intenso strazio di fronte alla morte di Cristo: oltre a quello completo di Gambolò si presentano in mostra un san Giovanni dal Compianto di Bellano (Lecco), una Pia Donna, forse proveniente da Piacenza, e due figure da un inedito complesso scoperto di recente in Val d’Ossola, molto vicino, come resa e come cronologia, a quello di Gambolò. In occasione della mostra sono stati riuniti alcuni complessi, dispersi da quasi duecento anni, come l’ancona proveniente dalla distrutta chiesa di San Giovanni Pedemonte a Como, opera di Giovanni Ambrogio De Donati e Martino di Castello, che ne firmano il contratto nel 1497. intagliati che rappresentano scene complesse. Per la stessa ragione, le Madonne col Bambino sono relativamente poche e concentrate soprattutto nella prima sezione, relativa ad un’epoca in cui mancano ancora i grandi complessi – si vedano in particolare l’antica Madonna proveniente dal Duomo di Milano, purtroppo assai rovinata, forse opera di un maestro veneto, e quella bellissima, simile a un dipinto di Pisanello, dalla chiesa di San Tomaso a Milano. Tra i complessi più eclatanti, che più affascinano e colpiscono i visitatori, ci sono i Compianti. Con questo termine si indica un gruppo di sette figure raccolte intorno al corpo di Cristo morto: si tratta di una rappresentazione che segue il momento della calata dalla Croce e che precede immediatamente la collocazione nel sepolcro. Intorno a Cristo si raccolgono la Vergine con due Pie Donne e la Maddalena, san Giovanni Evangelista, Giuseppe di Arimatea e Nicodemo. In mostra sono presenti due complessi, uno databile ai primi decenni del Quattrocento, proveniente dalla cattedrale di Lodi, che mostra ancora forme monumentali e proporzioni non sempre armoniose; alla fine della mostra, si
Bongiovanni de Lupi, Natività (1480; Rivolta d’Adda, Casa Parrocchiale). Giovanni Ambrogio e Giovanni Pietro De Donati (?), Martino di Castello di Caspano, Rilievi dell’ancona di San Pietro martire: San Pietro martire lascia i confratelli (1497; Opava, Museo della Slesia). Pagina a destra: Giovanni Angelo Del Maino, Maddalena (da un Calvario) (1515, Como, Duomo, Altare del Crocifisso).
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NEGLI ANNI 1390-1540 L’ A R T E L O M B A R D A SUBISCE UNA N O T E VO L E AC C E L E R A Z I O N E
Giovanni Angelo Del Maino, Figure da un Compianto: Nicodemo (1520-1530 circa; Torino, Collezione privata). Pagina a destra: Fratelli De Donati, Adorazione del Bambino (1495 circa; Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’arte applicata).
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Bottega di Urbanino da Surso, Crocifisso (1450-1458 circa; Mortara, chiesa di San Lorenzo). Pagina accanto: in alto, sulla destra: particolare e in basso, generale: Giovanni Angelo e Tiburzio (?) Del Maino, NativitĂ e due specchiature a grottesca (1527-1533; Londra, Victoria and Albert Museum). In alto, sulla sinistra: Giacomo del Maino e collaboratori, Dossale del coro del Santuario di Santa Maria del Monte sopra Varese (1478; Varese Museo Baroffi e del Santuario del Sacro Monte sopra Varese).
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L’ancona era costituita da una Madonna col Bambino, perduta, e da una statua di san Pietro Martire, oggi a Boston, circondate da quattro rilievi con storie del santo, oggi divisi tra il Museo della Slesia di Opava, nella Repubblica Ceca, il Bode Museum di Berlino e il Ringling Art Museum di Sarasota, negli Stati Uniti. La riunificazione è importante non solo per gli specialisti, ma perché consente di vedere come fosse sviluppata da questi intagliatori un’idea prettamente narrativa, che richiedeva quindi dinamismo e movimento nella resa. In mostra i quattro rilievi, di superba qualità, con la loro colorazione ancora originale, sono affiancati ad una celebre incisione realizzata nel 1481 su un disegno di Bramante, nota come Incisione Prevedari (conservata nella Civica Raccolta di Stampe “A. Bertarelli” del Castello Sforzesco), che ne costituisce uno dei modelli, da cui sono desunte alcune invenzioni prospettiche e soprattutto singole figure, in pose fortemente scorciate. La bottega dei fratelli de Donati è infatti quella che registra con maggiore immediatezza l’arrivo a Milano di Bramante e quindi la diffusione di una cultura prospettica che in Lombardia era ancora sconosciuta. Tutte le loro ancone presentano invenzioni architettoniche sapientemente scorciate, a ricordare, tra l’altro, che questi complessi lignei nascevano con lo scopo di andare ad occupare uno spazio ben definito negli edifici, con cui si dovevano rapportare in maniera armonica dal punto di vista spaziale. Infine, l’esposizione si apre con un coup de theatre, quanto resta – una grande testa di Dio Padre – della chiave di volta in rame dorato che chiudeva l’abside del Duomo di Milano.
Cosa c’entra un’opera in rame in una mostra di scultura in legno? Serve a introdurre il tema delle strette tangenze che corrono tra scultura in legno e in metallo, molto evidenti nella prima metà del Quattrocento anche dal punto di vista stilistico, mentre nella seconda metà del secolo saranno più tangibili i contatti tra scultura in legno e in marmo, mentre tra oreficeria e intaglio ligneo si noteranno piuttosto affinità di tipo compositivo: in particolare risultano molto convincenti i confronti tra le grandi ancone monumentali, documentate in mostra anche attraverso i progetti su carta, e oreficerie sacre (paci, ostensori, calici...), vere architetture in miniatura.
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I L L E G N O A PA D O VA . I N D AG I N I R E C E N T I , S P U N T I D I R I C E R C A E UNA SEGNALAZIONE D’ARCHIVIO PER LORENZO CANOZI G I O VA N N A B A L D I S S I N M O L L I Università di Padova
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l legno è sempre stato un materiale quasi magico, vivo, solido, profumato, colorato e risonante, indicato per armare cupole e navi, per costruire case, scolpire immagini, produrre strumenti musicali, mobili, arredi diversi, attrezzature grandi e piccole. Un mondo fascinoso e avvincente, che oggi è talora difficile da esplorare nelle manifestazioni del passato, condannate dalla perdita di gran parte dei manufatti. Due libri pubblicati a Padova negli anni 2003 e 2005 hanno offerto nuovi dati e reso noti manufatti lignei di tutto rilievo, dei quali non si conosceva praticamente l’esistenza. Il primo, L’arte del legno a Padova. Norme, tecniche e opere dal Medioevo all’Età moderna di Piera Ferraro e Alessandro Gamba, ha segnato un nuovo avvio nella storia degli studi sulle opere del legno a Padova, sui protagonisti, le attività, le norme corporative, la sede della fraglia e gli strumenti del lavoro. Le ricerche d’archivio di Piera Ferraro avevano già dato agli studi un efficace profilo di una categoria di artieri, i magistri coffanari, produttori di cassoni, il mobile in assoluto più diffuso tra Medioevo e Rinascimento. Oggi sappiamo che il cassone non fu di prevalente produzione e diffusione toscana: le carte d’archivio assicurano che famiglie di magistri coffanari erano ben presenti a Padova – come ovviamente altrove – e in città spesso erano in rapporto con cerchie artistiche all’avanguardia. Il reperimento di pezzi sicuramente padovani non è facile in date così alte, e le cose non sono più semplici neppure nei secoli successivi. Ma l’individuazione di pezzi d’arredo di fattura quasi sicuramente locale è stata risolta puntando l’attenzione sui mobili da sacrestia delle parrocchiali della diocesi di Padova, per i quali si può legittimamente supporre una produzione padovana. Quanti vorranno sfogliare il catalogo dei mobili da sacrestia raccolto da Alessandro Gamba potranno percepire il numero e la qualità dei pezzi strabilianti letteralmente nascosti in questi vani, dove – ricordiamo – erano conservati i vasi sacri necessari per la consacrazione del pane e del vino nella liturgia eucaristica, i reliquiari e le vesti sacerdotali. Si tratta gene-
ralmente di mobili a doppio corpo, più lavorati nel settore centrale superiore, ornati a intaglio o a intarsio. La diocesi di Padova raccoglie nelle sacrestie un complesso di mobili databili tra Seicento e Ottocento: tutti seguono le linee generali “d’epoca” e mostrano fisionomie, tratti e caratteristiche peculiari; talvolta qualche pezzo si stacca per un livello qualitativo di qualità inaspettata, come nel caso della chiesa di San Gaetano a Padova e delle parrocchiali di Arquà, Zanè e Rossano Veneto. Le sacrestie della basilica del Santo e della
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basilica di Santa Giustina costituiscono invece due episodi lignari di tutto rilievo. Nel secondo caso il recente volume di Laura Sabatino (Lapicidi e marangoni in una cantiere rinascimentale. La sacrestia della basilica di Santa Giustina, Padova 2005) ha puntualizzato una storia lunga e affascinante, che prende avvio dal lascito di una nobildonna padovana, Maria Lion Papafava. Testando nel 1450 la donna nominava erede universale il monastero di Santa Giustina, chiedendo di impiegare i capitali nelle opere di edificazione e in particolare nella costruzione della sacrestia. Morta la Lion nel 1460, poco dopo prese avvio la costruzione del vano che, va ricordato, era annesso alla chiesa del tempo, di cui sopravvive oggi la sola parte presbiteriale cui accenneremo più oltre. L’architettura della sacrestia è ragionevolmente da ricondursi al nome di Lorenzo da Bologna, nel corso del terzo quarto del Quattrocento. L’arredo del vano è invece posteriore e spetta a Giambattista Rizzardi, un marangone padovano responsabile di diversi arredi chiesastici, che lavorò nei primi decenni del XVII secolo, e morì relativamente giovane nel 1631. L’arredo della sacrestia di Santa Giustina, realizzato tra il primo e il secondo decennio del secolo è sola sua opera pervenuta e ci documenta il grado di maestria di questo intagliatore, fortemente debitore alla cultura tardocinquecentesca della Maniera. L’intaglio a cartelle, con motivi nastriformi, teste grottesche, candelabre e figure femminili, trova la sua origine nelle nuove forme decorative messe a punto dagli artisti attivi nella
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reggia di Fontainebleau, che si diffusero in modo capillare, adattati tanto alle superfici piane della decorazione murale che in oggetti di arredo tridimensionale di ambito liturgico e profano. Proprio in Santa Giustina quel repertorio aveva trovato espressione nel coro nuovo, un complesso veramente degno di un approfondito studio monografico. In via preliminare dobbiamo difatti riconoscere che questo magnifico e imponente complesso benedettino custodisce oggi un patrimonio notevolissimo di opere lignarie. Richiameremo tra breve l’opera di Cristoforo e Lorenzo Canozi nella basilica del Santo: il coro intarsiato dei due fratelli, caposcuola e veri magistri perspectivae nell’ambito dell’intarsio a carattere geometrico e prevalentemente architettonico, era da poco ultimato nel santuario antoniano quando prendeva avvio, dalla parte opposto del Prato della Valle, un secondo arredo corale dello stesso genere. Si tratta del cosiddetto coro vecchio della basilica di Santa Giustina, ubicato nel vecchio presbiterio della basilica ancora in uso nel Quattrocento, prima che venisse deciso e realizzato il monumentale impianto della chiesa attuale. Per quanto sappiamo questo coro, eseguito da Domenico da Piacenza e Francesco da Parma nel 1477, è la prima realizzazione lignaria complessa nella basilica benedettina, e diede in qualche modo il via a una serie di opere nello stesso materiale che rendono oggi Santa Giustina la chiesa più ricca di Padova, potendo enumerare diversi crocifissi di legno, il coro vecchio, l’ampia cornice della pala dell’altare maggiore di Paolo Veronese, il coro nuovo e infine l’arredo della sacrestia. Come abbiamo accennato, quest’ultimo, dal punto di vista dello stile, è fortemente debitore alle soluzioni di stile che trovano la loro radice nell’arte della metà del Cinquecento. In particolare nella basilica l’opera lignaria più monumentale spetta a un artefice non italiano, una sorta di outsider che appare d’improvviso, apparentemente già in possesso di scaltrite soluzioni di stile. Riccardo Taurigny di Rouen fu un “personaggio” di difficile gestione da parte dei monaci per la sua marcata inclinazione al bere. La sua attività per Santa Giustina è per certi versi contraddittoria. Conosciamo le date (1558-1572) del coro, le soste, le riprese, ci è noto l’ autore della complessa iconografia, il monaco fiammingo Eutizio Cordes. La tradizione interna e gli annalisti del monastero forniscono diverse indicazioni, non sempre coerenti e che in definitiva non aiutano a capire il quesito di maggior interesse: se sia stato Taurino stesso a elaborare il progetto e a dare i disegni per gli intagli, oppure se altri intervennero a livello grafico, lasciando all’intagliatore la sola responsabilità esecutiva. Sarà necessario studiare ancora per comprendere dove Taurino abbia condotto il suo apprendistato. L’unico documento noto precedente lo vede all’opera nel refettorio della chiesa veneziana di San Salvador il 10 marzo 1556. Questa traccia veneziana appare a prima vista valida anche per comprendere lo stile di Taurino, dove gli elementi figurativi di gusto francese sono decantati e reinterpretati alla luce di una componente di stile che non può prescindere da nomi di artisti di rilievo allora attivi a Venezia co-
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me Jacopo Sansovino o Alessandro Vittoria. Di recente una segnalazione d’archivio ha permesso di spiare Taurino attivo anche nel campo dell’arredo profano (1566), per la fornitura di un letto, una cornice per un quadro, tre sgabelli e qualche altro manufatto per il canonico Giovanni Battista Rota, che nella sua residenza tra Torreglia e Luvigliano, il Mirabello, aveva raccolto una collezione di orologi, la prima raccolta padovana di cui fino a oggi si abbia notizia. Giorgio Vasari, nella biografia di Andrea Mantegna, afferma: “Furono concorrenti d’Andrea Lorenzo da Lendinara, il quale fu tenuto in Padova pittore eccellente, e lavorò anco di terra alcune cose nella chiesa di Sant’Antonio, ed alcuni altri di non molto valore”. La forza di questa citazione si impone tuttora alla nostra riflessione. L’autorevolezza dei magistri perspectivae, gli intarsiatori su legno – i fratelli Cristoforo e Lorenzo Canozi sono i più celebrati e famosi tra Veneto ed Emilia Romagna – non è più oggi argomento di discussione e diversa letteratura – in particolare gli studi di Pier Luigi Bagatin – ha riportato all’attenzione degli studiosi la complessità, l’ampiezza e anche il fascino dell’arte di Cristoforo e Lorenzo, il primo, come è noto, prevalentemente legato all’area emiliana, il secondo attestato in prevalenza a Padova. L’unità della bottega difatti a un certo momento, per il carico delle commissioni suddiviso tra le due regioni contigue, dovette differenziarsi in due tronconi. Quello veneto è tutto nel nome di Lorenzo, che a Padova, e nel cantiere della Basilica del Santo, concluse la sua carriera e la sua esistenza nel 1477, lasciando il genero Pierantonio degli Abbati a finire l’armadio delle reliquie nella sacrestia del santuario antoniano. La nostra conoscenza di Lorenzo è oggi abbastanza articolata e
questo personaggio è ormai meritevole di uno studio monografico. Vero uomo rinascimentale, aperto alla sperimentazione tecnica sentita come un aspetto della ricerca espressiva, l’artista ha operato con mentalità da imprenditore: come è ben noto a un certo momento “virò” dal mestiere di intarsiatore per assumere la veste di tipografo, il primo per quanto oggi sappiamo, attivo a Padova. A metà del 1469 il coro del Santo, iniziato sette anni prima, era concluso. Il 13 ottobre di quell’anno Lorenzo si allontanava da Padova lasciando le proprie cose in deposito a Padova, a casa di Maddalena, moglie di Tommaso monaro. Qualche mese prima, il 9 maggio, Lorenzo compare quale testimone in un atto relativo all’eredità Gattamelata. Per comprendere la natura del documento facciamo un passo indietro. Il 5 ottobre 1467, nella cancelleria del Comune il dottore in legge Benedetto Sala, fu doctor e miles Giosafat, abitante in Stra Maggiore, massaro dell’Arca del Santo, dichiarava di aver ricevuto 1000 ducati da Daniele Dondi Orologio olim massaro dell’Arca. Il Dondi dichiarò di averli tolti dal Banco di Giovanni Soranzo, dove erano stati depositati per metà dai commissari della defunta magnifica Gattamelata, e per metà da Antonio Francesco Dotti, doctor e miles, in quanto tutore di Caterina Gattesca sua nuora (che quindi aveva meno di 14 anni). Inoltre dichiarò di aver ricevuto dal Dotto altri 500 ducati che aveva ritirato dalle mani di Agostino Ciera (erano ugualmente depositati nel Banco Soranzo). Il 9 maggio di due anni dopo nel convento del Santo e nella cella di fra Giovanni Pietro, Antonio Francesco Dotti, massaro dell’Arca e commissario dell’eredità di Giacoma Gattamelata e il nobile Bartolomeo Capodivacca, secondo massaro, con il consenso di fra Giovanni Pietro,
In questa pagina e alle pag. 38-39: Padova, Basilica di Santa Giustina, Vedute del coro di R. Taurigny (1558-1572). Pagina a sinistra: Residenza di San Pietro (Padova, Basilica di Santa Giustina).
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commissario dell’eredità Gattamelata, dichiaravano di aver avuto da Benedetto Sala 1400 ducati, distribuiti in tempi diversi, dal 19 maggio 1468 al 4 maggio 1469. Inoltre ricevettero altri 100 ducati; in qualità di testimoni sono presenti Domenico da Padova fabbro del fu Bartolomeo Montanaro, magister Lorenzo fu magister Andrea da Lendinara, intaiator, magister Giacomo muraro fu Bartolomeo Gedini, magister Pietro muraro fu Bonaventura, magister Giorgio marangon fu Giovanni (Archivio di Stato di Padova, Archivio notarile 2083, f. 11, 11v). Lorenzo dunque compare inserito in un giro di rilievo, che coinvolge gli eredi Gattamelata e altri illustri nomi della nobiltà padovana: personaggi che certamente ebbero un ruolo nell’assegnargli l’ultima commissione, quella appunto dell’armadio delle reliquie. Le notizie successive dell’artefice lo vedono coinvolto nell’avventura tipografica, a partire dal 1471: segnalo qui che studi tuttora in corso hanno permesso di risalire alla professione di Andrea, il figlio di Lorenzo che aiutò il padre nella tipografia. Andrea è definito aurifex nelle carte d’archivio e ciò è senz’altro coerente con la fase aurorale della stampa, quando gli orafi, che padroneggiavano la piccola metallurgia e l’incisione, dovettero avere una qualche parte nella preparazione dei caratteri tipografici. Lorenzo ritornò poi all’intarsio lignario abbastanza presto e il 12 marzo 1474 si impegnò con i massari dell’Arca per l’esecu-
zione dell’armadio, sul quale, tra i pilastri dell’ordine superiore, compare lo stemma Gattamelata. Oggi sappiamo che l’opera originale – composta della parte lignaria e dello scenografico apparato scultoreo di Bartolomeo Bellano – fu predisposta per un ambiente diverso dall’attuale e più piccolo. La sacrestia infatti verso la fine del Cinquecento e in seguito a un tentativo di furto era stata profondamente modificata nel suo assetto architettonico, al fine di renderla più sicura. L’armadio fu certamente smontato, spostato e addossato a una nuova parete. È poi probabile che il livello del manufatto rispetto alla quota del pavimento fosse rialzato almeno da un gradino di marmo rosso. Qui le nostre informazioni finiscono, ma è probabile che tutto il manufatto avesse un’impronta di maggiore monumentalità e nessuno scomparto – a differenza della sistemazione odierna – poggiasse a terra. La storia della decorazione a intarsio prospettico al Santo riprenderà nel 1489, ancora nella sacrestia, in altri mobili realizzati dal genero di Lorenzo, Pierantonio degli Abbati, di cui ci sono pervenuti quattro pannelli (ora nel Museo Antoniano): siamo ai capitoli finali della storia dell’intaglio a carattere prospettico canoziano e a Padova sarà il cantiere cinquecentesco della nuova, grande Santa Giustina, a ospitare l’intaglio ligneo modulato sullo stile della Maniera moderna, nel coro nuovo di Riccardo Taurigny.
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Dossali del coro di R. Taurigny: La crocifissione e La guarigione di Malco (1558-1572; Padova, Basilica di Santa Giustina). Pagina a sinistra: Ala sinistra del coro di R. Taurigny (1558-1572; Padova, Basilica di Santa Giustina).
Nota bibliografica Opere recenti sull’arte del legno a Padova G. BALDISSIN MOLLI, Marangoni, Carpentieri, Falegnami, Intarsiatori, in Botteghe artigiane dal Medioevo all’Età moderna. Arti applicate e mestieri a Padova, a cura di G. BALDISSIN MOLLI, Padova 2000, p. 157-170; P. FERRARO, Sulle tracce dei “magistri coffanarii” nella terraferma veneta. L’esempio di Padova in documenti d’archivio del XV secolo, “Bollettino del Museo Civico di Padova”, 89 (2000), p. 93-122; P. FERRARO, A. GAMBA, L’arte del legno a Padova. Norme, tecniche e opere dal Medioevo all’Età moderna, Padova
2003; G. BALDISSIN MOLLI, Il poeta e il marangone. L’artigianato padovano al servizio di Petrarca e del letterato umanista, Padova 2004; L. SABATINO, Lapicidi e marangoni in un cantiere rinascimentale. La sacrestia della basilica di Santa Giustina in Padova, Padova 2005. Il documento su Taurino del 1566 è pubblicato in E. MARTELLOZZO FORIN, La bottega dei fratelli Mazzoleni orologiai in Padova (1569). La sorprendente attività dell’artigianato padovano nell’età di Galileo svelata da inedita documentazione archivistica, Padova 2005, p. 90-91. La citazione da Vasari è in: G. VASARI, Le Vite
de’ più eccellenti Pittori, Scultori et Architettori, scritte e di nuovo ampliate da M. Giorgio Vasari Pittore et Architetto Aretino, co’ ritratti loro, e con le nuove Vite dal 1550 in sino al 1567, Firenze 1568, ed. a c. di G. MILANESI, 9 voll., Firenze 1878-1885, rist. Firenze 1906, III, p. 404. Sull’assetto quattrocentesco della sacrestia del Santo: G. BALDISSIN MOLLI, La sacrestia del Santo e il suo Tesoro nell’inventario del 1396. Artigianati d’arte al tempo dei carraresi, Padova 2002, part. p. 26-33. Sui Canozi: P.L. BAGATIN, L’arte dei Canozi lendinaresi, Trieste 1987; ID. Le pitture lignee di Lorenzo e Cristoforo da Lendinara, Treviso 2004.
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Particolare di una stube datata 1557, smontata a San Vigilio di Marebbe e interamente ricostruita. Nella foto, la porta d’ingresso, alta un metro e cinquanta centimetri, con un travatura inferiore in funzione di protezione dal freddo (Montebelluna, sezione museale di “Legno d’epoca”).
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DOCUMENTI
LEGNI NELL’ARTE UN PASSO DI L.B. ALBERTI E ALCUNI DOCUMENTI QUATTROCENTESCHI P I E R L U I G I B AG AT I N studioso, Rovigo
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li alberi – per dirla col sereno misticismo di Hermann Hesse – promanano dalle loro forme esemplari un che di sacrale e di senza tempo e la loro presenza è caratteristica determinante dell’habitat fisico e mentale delle diverse culture. I legni da loro ricavati completano questo primordiale rapporto, fornendo costantemente mezzi per costruire case, templi, utensili, mezzi di lavoro e di trasporto, oggetti sacri e profani. Materiale caldo, primigenio, rinnovabile, il legno si presta così con generosità dagli albori delle civiltà alle più varie necessità individuali e sociali. Il mondo antico (come quello moderno industriale e tecnologico) ha sempre consumato quantità importanti di legno per i bisogni della vita ordinaria, civile, militare, così come per le espressioni dello spirito e dell’arte. Solo la fragilità delle essenze lignee consente oggi di apprezzare molto parzialmente il gusto e le tecniche predilette nelle età più lontane. Ad esempio degli arredi della civiltà faraonica e dell’Oriente mesopotamico restano ben poche tracce dirette, come i rari reperti di alcuni corredi funebri dell’area egiziana. La carenza conservativa rende così più preziosi i riferimenti presenti in iscrizioni reali della Mesopotamia e dell’Egitto e le citazioni dei legni (soprattutto quelli esotici: il bosso, il cedro, l’acero, la tuia) in opere letterarie. Si sa qualcosa di più, sempre a livello di fonti narrative, a proposito dell’età classica greco-romana. Le voci più generose sono le opere botaniche di Teofrasto, la Naturalis Historia di Plinio e il De Architectura di Vitruvio. Teofrasto, filosofo greco (c. 370- 288/5 a.C.) scolaro e successore di Aristotele nella direzione del Peripato, nell’Eziologia e nelle Ricerche sulle piante (rispettivamente Perì futòn aitiòn e Perì futòn istorìas alla greca e alla latina Historia plantarum) si concentra su quando e come gli alberi devono essere tagliati, sull’effetto del clima sul loro sviluppo, sulle località di provenienza e sulla migliore adattabilità dei legni alla carpenteria o alle costruzioni navali o civili. Di analoga valenza della testimonianza di Teofrasto è quella di tre secoli dopo in ambito roma-
no di Plinio il Vecchio (23/24-79 d.C.) che dedica agli alberi alcuni libri della sezione botanica della sua Naturalis Historia (l. XII-XXVII). Lo scienziato di Como, e con lui le decine e decine di opere collazionate, si sofferma sulla natura e i migliori usi degli alberi marittimi e di quelli definiti selvaggi (cioè: l’abete, l’acero, il bosso, il cipresso, il corniolo, il frassino, il larice, l’olmo, il pino, il tiglio). Plinio menziona anche le tradizioni sull’introduzione del platano (da parte dei Galli) e dell’ebano (dall’India), le consuetudini nel segare e nell’incollare i legnami, le notizie sulla resistenza delle essenze legnose e sugli agenti patogeni del legno. Terza e fondamentale fonte sull’uso e sulle conoscenze dei legni per il periodo classico è un testo che Plinio stesso apprezzava molto: il De Architectura steso da Vitruvio con dedica ad Augusto fra gli anni 30 e 20 a.C. I capitoli IX e X del primo libro del più celebre trattato di architettura dell’antichità sono dedicati ai legnami da impiegare per le travature. Con dettato accurato, fondato sui dati d’esperienza e sui principi della fisica aristotelica, Vitruvio narra del modo di tagliare gli alberi e dell’epoca opportuna, e delle principali caratteristiche di alcune essenze legnose (fra di loro: l’abete, il carpino, il cedro, il cipresso, il faggio, il ginepro, il larice, l’olmo, l’ontano, il pino, il pioppo, la quercia, il salice, il tiglio, il non meglio definito vitice). Essendo il trattato vitruviano finalizzato al miglior utilizzo dei legni in architettura, di ogni essenza viene esemplificata con particolare cura la resistenza all’umidità, quella alle sollecitazioni, e ai tarli. L’approccio scientifico al legno focalizzato nel periodo greco-romano in particolare da Teofrasto, Plinio e Vitruvio, ma anche da Catone, Varrone, Columella e Vegezio, non trovò apprezzabile seguito nei secoli successivi. I trattatisti medievali sui materiali e sulle tecniche di lavorazione delle varie arti ignorarono quasi del tutto il legno: così Teofilo nella Schedula diversarum artium, e lo stesso sostanzialmente Cennino Cennini nel famoso Libro dell’Arte. Per di più contraendosi i traffici commerciali, per la fabbricazione dei mobili e degli arredi ci si rivolse prevalentemente alla produzione autoctona. Come ricorda Maria Grazia Massafra in alcuni puntualissimi contributi compresi nel volu-
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Sopra e nella pagina accanto: Vista esterna e interna di una di sette coppie di porte provenienti da un castello del 1600. La faccia esterna, a specchi diamantati con cornice riportata, guardava verso l’androne ed è uguale per tutte le sette porte; la faccia interna – in questo caso laccata e dorata con foglia d’oro – veniva differenziata e personalizzata con riguardo all’uso della stanza sulla quale la porta si apriva (Montebelluna, sezione museale di “Legno d’epoca”).
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me Legni da ebanisteria (Roma, 2002, sotto l’egida dell’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione del Ministero per i beni e le attività culturali) una certa inversione di tendenza a livello commerciale (compresi quindi i legnami) si ebbe solo dopo le Crociate, soprattutto per opera delle Repubbliche marinare nel Mediterraneo e nel nord Europa grazie alla Lega Anseatica. La ripresa dell’interesse della trattatistica sui legni arrivò invece solo con la fioritura rinascimentale, con i teorici dell’architettura. Il testo di Vitruvio, conosciuto nel Medioevo, fu riscoperto nel 1414 godendo di una fortuna enorme, ponendosi come modello imprescindibile per tutti gli architetti dall’Alberti a Palladio, fonte di numerose edizioni a stampa dopo quella princeps (cioè la prima tipografica) del 1486. Fu il più ascoltato trattatista sui legni almeno fino al XVII secolo. Leon Battista Alberti riecheggia in maniera esemplare l’attenzione vitruviana (e del periodo classico) per i legni nel suo De re aedificatoria. Vi dedica più capitoli del libro secondo: in particolare il quarto (per illustrare taglio, incisione e scortecciamento del tronco, piallatura e recisione), il quinto (sul modo di essiccare, invecchiare e rassodare il legno e il trattamento prima della messa in opera), il settimo (sulla durevolezza dei legnami e delle parti diverse del tronco di uno stesso albero). Ma è soprattutto nel sesto capitolo che l’Alberti sintetizza da par suo le qualità e le caratteristiche dei legni con un occhio alle prescrizioni dei trattatisti antichi e l’altro alla secolare esperienza dei maestri legnaioli. È un passo che merita di essere conosciuto nella sua integralità, perché sintetizza il quadro delle conoscenze di un mondo – quello rinascimentale – ancora non aperto alle possibilità dei traffici transoceanici. Deriviamo la traduzione del latino umanistico dell’Alberti da quella di Giovanni Orlandi per l’edizione curata da Paolo Portoghesi per il Polifilo (1966), limitandoci a evidenziare in neretto i legni citati. “Pare che Teofrasto fosse del parere che il legname non sia mai seccato a sufficienza, soprattutto in vista di farne pali e battenti, prima di un periodo di tre anni. Gli alberi il cui legno è reputato più adatto alle costruzioni sono questi: il cerro, la quercia, la rovere, l’eschio, il pioppo, il tiglio, il salice, l’ontano, il frassino, il pino, il cipresso, l’olivo selvatico, l’olivo domestico, il castagno, il larice, il bosso, il cedro; così pure l’ebano e la vite. Ma le loro caratteristiche naturali sono molto varie, e adatte pertanto a vari usi. Alcuni vanno meglio degli altri se utilizzati a cielo aperto, altri possono meglio servire all’ombra; alcuni stanno bene all’aria, altri si irrobustiscono nell’acqua o sotto terra durano di più. Perciò, mentre certi tipi di legname sono più resistenti se utilizzati per fare lastre, pali, sculture e opere che stanno nell’interno dell’edificio, altri sono più adatti per travature, altri infine per sostenere pavimenti di terrazze e tetti. L’ontano, specialmente, fornisce materiale insuperabile per la costruzione di palafitte di sostegno in fiumi e paludi: esso infatti ha un’eccezionale resistenza all’acqua, mentre si deteriora facilmente al sole e all’aria. Viceversa l’eschio non tollera i liquidi. L’olmo si rafforza se esposto all’aria aperta; altrove si apre e non resiste. La picea e il pino durano indefinitamente se posti sotto terra. La rovere, densa, spessa, robusta e prov-
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vista di pori minutissimi, non lascia passare l’umidità ed è quindi molto indicata per le strutture che affondano nel terreno; si adatta ottimamente a sostenere pesi e in special modo fornisce robustissime colonne; e, tuttavia, pur essendo per propria natura tanto dura da non poter essere perforata se non quando sia impregnata d’acqua, risulta che fuori del terreno diviene meno resistente, tende a fendersi e a incurvarsi, e inoltre pare che si guasti facilmente a contatto con l’acqua di mare. Quest’ultima caratteristica non è condivisa dall’olivo domestico né da quello selvatico né dal leccio, che per tutto il resto si comportano come la rovere. La quercia non invecchia mai, è sempre ricca di succo come se fosse giovane. Il faggio e il noce per la loro resistenza all’acqua sono pure annoverati tra i principali tipi di legno da costruzione sotto terra. Utili per fare colonne sono la quercia da sughero, il pino silvestre, il gelso, l’acero, l’olmo. Teofrasto reputa che il noce dell’Eubea sia adatto per travature e pali, perché prima di rompersi ne dà avviso con lo scricchiolio; onde accadde una volta ad Antandro che coloro che si trovavano in un edificio termale poterono tutti mettersi in salvo dal successivo crollo del tetto. Ma un posto preminente è tenuto dall’abete: di eccezionale altezza e ampiezza, è rigido al punto da resistere vittoriosamente senza piegarsi alla pressione di grandi pesi; inoltre si lascia lavorare agevolmente e non grava eccessivamente con il suo peso sui muri; e molte altre belle qualità gli vengono attribuite, dicendolo utile a parecchie funzioni. Unico difetto che gli è riconosciuto è la facile infiammabilità: e il fuoco gli è di grave danno. Non inferiore all’abete per la costruzione di solai nelle abitazioni è il cipresso, che anche per altri aspetti è tale da occupare un posto preminente tra i nostri alberi. Gli antichi lo annoveravano tra le piante più insigni, non inferiore al cedro e all’ebano. In India il cipresso è considerato alla stregua di pianta aromatica, e ben a ragione. Si lodi pure l’amomo di Chio o quello di Cirene che Teofrasto dice eterno: considerata ogni qualità, cioè profumo, bellezza, robustezza, proporzioni, dirittura, durata, nessun albero sarà paragonabile al cipresso. Dicono inoltre che esso non è in alcun modo afflitto da tarli né da vecchiaia; né vi si producono spontaneamente fenditure. Per tale motivo, naturalmente, Platone pensava che il testo delle leggi e dei decreti pubblici si dovesse incidere su tavole consacrate di legno di cipresso: probabilmente egli le reputava anche più durature di quelle di bronzo. Non mi pare poi fuori luogo riferire alcuni fatti degni di menzione, sempre a proposito del cipresso, di cui ho letto o che ho visto di persona. C’è una testimonianza che il portale del tempio di Diana in Efeso, di legno di cipresso, durò quattrocento anni, conservando intatta la sua bellezza, sì da far dire che era sempre nuovo. E coi nostri stessi occhi abbiamo visto che il portale della basilica di S. Pietro, al tempo in cui vi veniva ricollocato per ordine di papa Eugenio, salvo là dove era stato danneggiato un tempo nello strappare via i rivestimenti argentei di cui era stato provvisto, era rimasto perfettamente sano ed intatto per più di 550 anni: tanto tempo separa il pontificato di Adriano III, che lo fece costruire, da quello di Eugenio IV, se è esatto il nostro computo sugli annali pontificali. In conclusione, l’abete è indubbiamente raccomandato per la costruzione di palchi; il cipresso gli è prefe-
rito probabilmente per il solo fatto della sua maggiore durata; d’altra parte questo è più pesante di quello. Sono pure molto apprezzati il pino e la picea. Al pino si attribuisce la medesima qualità dell’abete, di resistere a un peso impostogli; ma tra i due alberi vi sono delle differenze, tra le quali il fatto che l’abete ha rispetto al pino una resistenza alle tignole di tanto maggiore, quanto più dolci sono i succhi del pino rispetto ai suoi. Da parte mia credo che nessun legno si possa anteporre a quello del larice. Che esso sia in grado di sostenere il peso delle strutture con perfetta solidità e massima durata, ho potuto constatare io stesso in vari luoghi, e soprattutto presso Venezia, negli edifici dell’antico fòro. Inoltre al larice vengono attribuiti tutti i vantag-
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gi caratteristici di tutti gli altri alberi messi insieme. Ha nerbo, robustezza, resistenza alle intemperie e ai tarli. Si crede fin dall’antichità che esso non si lasci sopraffare dal fuoco e quasi non ne subisca danno, e si raccomanda anzi di sistemare assi di larice, come protezione, rivolte là donde si teme possa venire pericolo d’incendio. Noi tuttavia abbiamo constatato che, quando gli si appicca fuoco, esso brucia, ma in un modo particolare, come se le fiamme lo infastidissero e volesse scacciarle da sé. Gli è riconosciuto un solo difetto: il contatto con l’acqua marina lo rende vulnerabile alle tignole. La rovere e l’olivo domestico affermano non sono adatti a farne travature: sono pesanti, e inoltre non resistono ai pesi, dal momento che quasi si incurvano per conto proprio. Né d’altra parte saranno adatti a tale funzione quei tipi di legno che tendono a spezzarsi ancor più che a fendersi: come l’olivo domestico, il fico, il tiglio, il salice, etc. Sorprendente poi quello che si dice del legno di palma: non solo resiste alla sovrapposizione di un peso, ma s’incurva in direzione contraria. Per le travature situate a cielo aperto è a tutti preferito il ginepro, a cui Plinio attribuisce le stesse caratteristiche del cedro, tranne il fatto di essere più solido. Quanto alla durata, dicono che quella dell’olivo domestico sia infinita; tra i legni che durano di più è altresì annoverato il bosso. Il castagno, dal canto suo, benché abbia tendenza a dilatarsi e a contorcersi, è stimato atto alle opere esposte all’aria. Tra i legni più ricercati è quello dell’ olivo selvatico, soprattutto per un motivo analogo al cipresso, cioè di non soffrire a causa dei tarli: fortuna che è comune a tutti quegli alberi contenenti in sé degli umori oleosi o gommosi, specialmente se amari, poiché con essi respingono quel tipo di vermi ed espellono da sé l’umidità proveniente dall’esterno, mentre fa l’effetto opposto ogni genere di legno contenente succhi dolci, e che per giunta prende fuoco facilmente; con l’eccezione però dell’olivo domestico e di quello selvatico. Dice Vitruvio che il cerro e il faggio sono per propria natura poco resistenti alle intemperie e non giungono alla vecchiaia. E Plinio dice che il legno di quercia marcisce rapidamente. Ma per le opere all’interno dell’edificio (ante, letti, tavoli, sedili, etc.) si distingue l’abete, sopra tutti quello che cresce sulla catena italiana delle Alpi, che è di natura asciuttissima e incollato è resistente al massimo grado. Per queste medesime funzioni bene si utilizzano la picea e il cipresso. Quanto al faggio, dicono che, pur essendo fragile per altri oggetti, per fare casse e letti vada bene; si sega in lamine sottilissime, come pure, e con ottimi risultati, il leccio. Viceversa si devono ritenere inadatti a farne pali il noce, perché si fende con facilità, l’olmo e il frassino, questi ultimi perché, pur essendo flessibili, sono ugualmente facili a fendersi. Il frassino, tuttavia, ha fama di essere tra tutti quello che più si piega a ogni genere di lavori; ma io mi domando perché gli antichi non raccomandassero assai di più il noce, che come ognun può constatare, è maneggevolissimo e si adatta a tutti o quasi tutti gli usi, soprattutto per fare assiti. È lodato anche il gelso, sia per la sua lunga durata, sia perché passando gli anni si scurisce, facendosi sempre più piacevole alla vista. Narra Teofrasto che i ricchi solevano costruire i battenti delle porte di loto, di leccio o di bosso. Il legno d’olmo, a causa
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del suo permanere perfettamente rigido, è reputato adatto a fare i cardini delle porte, ma dicono che dev’essere disposto in posizione rovesciata, con le radici in alto e la cima in basso. Catone consiglia di fare i paletti d’agrifoglio, d’alloro e anche d’olmo. Per fare cavicchi si raccomanda il legno di corniolo. I gradini delle scale erano fabbricati con orno ed acero. Per ottenere condutture per l’acqua, si rendevano cavi tronchi di pino, picea, olmo, che però, a quanto affermano, invecchiano in brevissimo tempo a meno che non si pongano sotto terra. Per quanto concerne l’ornamentazione delle case s’è constatato che il larice femmina, dal color del miele, impiegato per farne tavole per dipingere, dura indefinitamente, senza fendersi mai. La palma, le cui venature sono disposte trasversalmente, non longitudinalmente, era pertanto impiegata per fare le immagini degli dei; come pure il loto, il bosso, il cedro, e ancora il cipresso, e le più grosse radici degli olivi domestici, e il pesco egiziano che dicono simile al loto. Se poi c’era il bisogno di fare con il tornio qualche oggetto di forma allungata, si ricorreva al faggio, al gelso, al terebinto, e sopra tutti al bosso, che è il legno più compatto di tutti e meglio trattabile dal tornio, oltre all’ebano che è tra tutti il più sottile. Parimenti per fare statue e tavole per dipinti non si trascuravano il pioppo bianco e quello nero, il salice, il carpine, il sorbo, il sambuco, il fico. Il legno di questi alberi infatti è non soltanto ben secco ed uniforme, il che lo rende adatto a ricevere le colle e gl’impasti dei pittori, ma anche estremamente duttile e tale da potersi foggiare in varie forme. È noto tuttavia che il più tenero di tutti è il legno di tiglio. Per fare statue trova pure consensi il giuggiolo. Caratteristiche opposte ha la rovere: rifiuta completamente di unirsi con altri legni, e perfino con il suo stesso; e nessuna colla ha effetto su di essa. Risultano avere il medesimo difetto tutti i legni rugosi ed espellenti umori, di respingere cioè qualsiasi adesivo. Del pari i legni lisci e compatti difficilmente si lasciano incollare. E anche quelli che sono di diversa natura ad esempio, piante calde come l’edera, l’alloro, il tiglio, poste a contatto con altre che allignano in luoghi umidi e però di natura fredda come tutte in tali condizioni anche incollati non resistono a lungo insieme. Né vanno d’accordo l’olmo, il frassino, il gelso, il ciliegio, che son piante secche, con quelle di natura umida, come il platano e l’ontano. Gli antichi si astennero tanto accuratamente dall’incollare insieme tipi di legno dalle caratteristiche opposte o diverse, che provvedevano ad evitare anche il semplice contatto, non che di congiungerli tra loro. Così si comprende il consiglio di Vitruvio, di non unire insieme assi di eschio e di quercia”(L.B. Alberti, L’architettura, intr. e note di P. Portoghesi, testo latino e traduz. a cura di G. Orlandi, Milano, Il Polifilo, 1966, I vol, p. 118-128). La sontuosa esposizione dell’Alberti, una vera tabula delle conoscenze sui legni nel Rinascimento, ha un suo riflesso di integrazione nel sapere pratico accumulato e tramandato dai maestri del legno del tempo, da loro utilizzato con consumata abilità nella costruzione sia dei mobili di “foggia” (quelli per i quali le corporazioni pretendevano statutariamente l’utilizzo di determinate essenze, dimensioni, incastri di giunzione delle
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componenti) sia per quelli “sfoggiati”, come dossali, studioli, armadi intarsiati, cassoni, letti, che esulavano dalle convenzioni istituzionali, e solo parzialmente potevano ricadere nella formalizzazione contrattuale fra committente e legnaiolo. In particolare la sapienza da cui muoveva l’abilità degli intarsiatori rinascimentali (e poi degli “ebanisti”) era quella materiale – prima di tutto – delle specie legnose indigene nel Quattrocento (i legni esotici saranno un portato dei traffici transoceanici e un vanto degli intarsiatori europei fra Seicento e Ottocento). Al di là delle nomenclature scientifiche e della definizione scolastica delle componenti dei legni (midollo, durame, alburno, cambio, libro, canali resiniferi, fibre, tracheidi, vasi) il “legnaiolo” medievale e rinascimentale si destreggiava fra le essenze di latifoglia e di conifera, e quindi fra la loro diversa tessitura al fine di avere effetti più omogenei (come con le conifere) o più eterogenei (come con le latifoglie). Doveva saper giudicare il taglio cui era stato sottoposto “in situ”, cioè nel bosco, il tronco, per disporre delle assi o delle tavole con le giuste “venature”. Come puntualizza Simona Rinaldi “il disegno della venatura risulta diversamente conformato a seconda delle tre principali direzioni anatomiche nelle quali può essere sezionato un tronco d’albero: in direzione tangenziale, parallela all’asse di crescita, le venature formano dei coni concentrici o delle curve ad andamento parabolico o ellittico; in direzione radiale, corrispondente all’andamento dei raggi midollari che si estendono dalla corteccia fino al centro del tronco (contenente il midollo) le venature formano delle linee più o meno parallele; mentre la direzione assiale o trasversale, perpendicolare all’asse di crescita, il disegno rappresenta una serie di anelli concentrici di estensione e colore diversi” (2002, p. 290). La tipologia del taglio aveva conseguenze anche sulla variazione igroscopica del legno, anche dopo la stagionatura e quindi dopo l’impiego in opera, al variare delle condizioni ambientali di conservazione: “le modifiche dimensionali – rigonfiamento e ritiro – risultano assai diverse nelle tre direzioni anatomiche fondamentali: modeste in direzione assiale, medie in direzione radiale, elevate in direzione tangenziale” (Rinaldi, 2002, p. 291). Bisognava dunque scegliere bene i legni, duri o teneri, da intaglio o da intarsio, secchi e ben conservati, e che fossero anche compatibili tra di loro. Poi lavorarli con gli strumenti che l’arte da secoli metteva loro a disposizione: scalpelli, sgorbie, martelli, mazzuoli, trapani, trivelle, bulini e succhielli, per intagli e trafori; seghe, pialle, graffietti, lime, raspe, mazze, squadre, righe e compassi e quant’altri attrezzi per gli intarsi (cfr. Rinaldi, 2002, p. 298301). L’intarsio ligneo non era una novità nel mondo artistico. Da secoli veniva praticato nella civiltà islamica e anche in quelle occidentali antiche. La stessa parola da cui deriva il termine “tarsia” si riconduce ad un antico termine arabo “tarsī ”, cioè “decorazione preziosa”, “incrostazione”. L’intarsio “alla certosina” diffuso anche in Italia nel Trecento e dopo metteva insieme su cofanetti, scrigni, e poi (grazie agli Embriachi fra XIV e XV secolo) anche su grandi cassoni da sagrestia e da corredo, motivi geometrici decorativi con tante piccole componenti a forma poligonale, con piccolissimi tasselli di ebano e di legni di frutto, ma anche di osso, avorio, madreperla fissati con colla al
Particolare di un portone del 1500, in legno massiccio, proveniente da un castello del Trentino (Montebelluna, sezione museale di “Legno d’epoca”)
piano ligneo di supporto, quasi sempre di noce. La familiarità con la tecnica del “mosaico di legname”, che metteva insieme solo legni, i marangoni l’avevano sperimentata da tempo con le semplici tarsie “a secco”, e soprattutto in quelle “a toppo”, “a buio”. Ma è nella “tarsia pittorica” (poi anche “prospettica”) che giunse la svolta. Il salto di qualità maturò nel quarto decennio del Quattrocento a Firenze, nella Sacrestia delle Messe del Duomo fiorentino, dove le ricerche di Filippo Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Paolo Uccello e poi di Piero della Francesca di una legge di riproduzione matematica dello spazio con la terza dimensione ebbero un’eco diretta nelle tarsie lignee di Agnolo di Lazzaro e Antonio Manetti. La segmentazione dello spazio della nuova scienza prospettica coincideva con la necessità del commesso ligneo di suddividere il piano di rappresentazione in tessere di diversa cromia. La tarsia quat-
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trocentesca diede al Rinascimento un nuovo acquisto del colore, scoprendo la pittoricità dell’essenza legnosa, laddove la tavolozza venne costituita dalla gamma luminosa dei legni usati, ma anche dalla speciale facies del taglio prescelto dal magister lignaminis, usando sezioni orizzontali del tronco (cioè “di testa”), o tangenziali (“di scorza”), o radiali (nel senso dei raggi midollari). Lo stile e la sensibilità pittorica dell’intarsiatore partiva dalla scelta del legno e del colore che aveva raggiunto dopo la stagionatura, dagli effetti di omogeneità e di texture, di figuratività delle fibre, di cui le tessere più o meno ampie erano portatrici (cfr. le considerazioni di Wilmering, 1999, p. 8, nel fissare queste quattro caratteristiche pittoriche dei legni per la tarsia: “color, texture, figure and density”). Incrociando i dati delle note di pagamento della Fabbriceria di San Geminiano e dell’Arca del Santo è possibile ricostruire documentariamente quali essenze legnose vennero usate nel corso degli anni Sessanta nei cantieri di Modena e Padova da una delle famiglie più significative per la tarsia quattrocentesca, i Canozi da Lendinara (anche se una definizione completa non è più possibile, mancando registri specifici e analitici per la costruzione dei due cori, essendo poi scomparso il coro di Padova, e non escludendosi interventi di risanamento poste-
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riori – quindi – con l’utilizzo di altri legni, in quello di Modena). L’acquisto dei legni sia per il Duomo modenese che per il Santo fu effettuato nel contado emiliano e veneto o in località limitrofe. Come ricorda Maria Grazia Massafra “la specie legnosa più usata nel mobile rinascimentale italiano è il noce, legno all’epoca abbondante in tutte le regioni italiane” (2002, Legni da ebanisteria, p. 22), anche se di diversa complessione a seconda della crescita in montagna o in pianura. Il “noxe” (“nogara” a Padova; dal latino popolare nucarius e nucaria), è quindi il più attestato nei pagamenti delle due fabbricierie. Come fondi per l’applicazione di tarsie, oltre al noce venivano usati anche il larice, l’abete e il cipresso. I primi due di questi legni sono documentati a Padova parzialmente in riferimento al coro, in quanto un pagamento del febbraio 1470 si riferisce all’acquisto di “una asse de larexe, per i banchi” e uno del giugno dello stesso anno per “asse doe d’albeo, comprà per li banchi” (cfr. Wilmering, 1999, p. 23-24, 210). Lo è specificamente, ma con utilizzazione per le tarsie, il cipresso (cupressus sempervirens; “arzipresso” o “alzipresso” a Padova) che risulta acquistato anche a Modena. L’abete rosso (Picea abies) è invece la “piela de le nostre de caxa” acquistata a Modena il 10 dicembre 1463. Fra i legni di colorazione sostanzialmente chiara
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nelle scelte di Lorenzo e Cristoforo appaiono per lo meno queste sei tipologie. Il pioppo bianco (populus alba; “Albaro” o “albara” nelle fonti) acquistato a Modena il 5 settembre 1461 e nel settembre 1463; a Padova il 26 ottobre 1462, il 10 gennaio 1463, il 31 gennaio e il 25 febbraio 1469. Non è chiaro se il “pioppo” pagato a Modena il 5 settembre e il 17 novembre 1461 sia genericamente dello stesso tipo dell’“albaro”, o invece sia da ricondurre al altre varietà della stessa tipologia, come il “pioppo nero” (popolus nigra, detto volgarmente anche pioppo o pioppo comune) che “differisce dal gattice [cioè dal pioppo bianco] per la sua colorazione più scura, bruno nerastra e per il vantaggio di non incurvarsi né screpolarsi” (Edlmann Abbate, 2002, Repertorio, p. 140). Assi di acero (acer campestris; “axero” e anche “agro” a Padova) vennero pagate a Modena il 10 aprile 1462, a Padova il 18 novembre 1462, il 23 marzo e il 21 novembre 1468. Il salice (salix alba; “salgaro” nella documentazione) fu voluto da Lorenzo a Padova e saldato il 22 dicembre 1462 e il 10 gennaio e il 26 marzo 1463. Raro era l’utilizzo del tiglio (tilia) da parte degli intarsiatori. C’è un’unica registrazione di pagamento per Padova per una “asse de teglio” in data 7 marzo 1469 (cfr. Wilmering, p. 22 e 210). Il legno adoperato per il “commesso di silio”, l’evonymus europaeus, più che nel silio, deve essere riconosciuto nella fusaria (detta anche “fusaggine”; e “fuxaro” nei mastri di contabilità dell’Arca). A Padova venne acquistato il 15 settembre e il 29 dicembre 1462 e il 25 giugno 1463. Probabilmente alla fusaria si allude nella “asse bianca per tarsia”che figura nei pagamenti di Modena il 4 ottobre 1461. Ampia per i Canozi (naturalmente non nella misura degli ebanisti dal Seicento in poi: Maggiolini giostrava su 86 essenze, i maestri francesi della Manifacture royale anche di più) era la possibilità di scelta con legni più decisamente colorati. Venti pezzi di bosso (buxus sempervirens; “busso” nelle fonti) furono acquistati a Padova il 20 novembre 1462, mentre un altro non specificato quantitativo di “buso” era stato voluto da Lorenzo il 28 settembre innanzi. A Modena il “buso” era arrivato ad inizio dei lavori, l’8 agosto 1461 e successivamente il 24 marzo 1464. Questo legno “duro, a grana compatta, dalle bellissime venature” (Massafra, 2002, Schede, p. 239-240) era ricercatissimo fin dall’antichità per lavori di ebanisteria. Più complicato tecnicamente per le presenza dell’anello poroso (il cuore nero) era il ricorso al frassino (fraxinus excelsior) “fraxo” nella contabilità modenese (8 novembre 146. Il gelso (morus alba) fu comprato per il coro a Modena (“moro”) il 27 febbraio e il 4 marzo 1464; a Padova (“moraro”) il 19 ottobre 1462. Per i fondi scuri delle tarsie non si usava l’ebano già disponibile ma troppo costoso: ci si orientava sul “lignamo negro”, la quercia annegata, cioè in parte fossilizzata e quindi scurita nel greto dei fiumi e dei torrenti (cfr. Edlmann Abbate, 2002, Repertorio, p. 145). Per annerire gli intarsi o per creare le ombre, un metodo più rapido e meno dispensioso, che diventò più comune soprattutto verso la fine del Quattrocento, era l’imposizione sul legno di un ferro arroventato (il cosiddetto “cauterio”) o tramite l’impiego di sabbia caldissima (contenuta nel cosiddetto “sabbiatoio”) (cfr. Rinaldi, 2002, p. 295). La quercia naturale
(quercus) veniva utilizzata senza particolari interventi soprattuto nella specie indigena del “rovere” (quaercus petraea). A Modena ne fu acquistata il 26 novembre 1461, a Padova il 16 novembre 1462 (“11 pianete de rovere per far soyamento per li sezoli novi”), il 10 gennaio 1463, l’1 maggio 1465 (“3 legni de rovere per far intarsiature”). Spazio non secondario veniva riservato all’olmo (ulmus campestris) che risulta comprato nei registri modenesi (come “olmo”) il 10 e 12 dicembre 1461. Fra gli alberi da frutto, tutti particolarmente pregiati, la preferenza si indirizzava sul pero (pyrus communis; “pero” nelle fonti modenesi e “peraro” in quelle patavine). Di questo legno si approvvigionarono i due fratelli a San Geminiano l’8, 9 novembre 1462, e il 3 settembre 1463; a Padova il 19, 26 ottobre, 18 novembre 1462 e il 10 gennaio 1463. In un’occasione, il 16 febbraio 1463, a Padova venne acquistato un “carezo de sorbolaro”, cioè di sorbo (sorbus domestica). Il 24 maggio 1462 e nel 1464 venne acquistato a Modena del susino (prunus domestica; “suxino” nei registri contabili). Affiorano dalle fonti alcune altre indicazioni di utilizzi di legni assai particolari, identificati dalle ricerche degli specialisti e dei restauratori, ad eccezione del caso della generica “legna forte” acquistata a Modena il 19 di-
Trave di abete, nella quale risaltano la fibra del legno e gli anelli che servono a determinare l’età e la consistenza. Pagina a sinistra: Sezione di una trave gotica di alta epoca con rosone scolpito al centro del lato (Montebelluna, sezione museale di “Legno d’epoca”).
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cembre 1462. Il sandalo rosso, il cui pagamento risulta a Modena il 28 gennaio 1463, con ogni probabilità è da appaiare con il “lignamo roso” di cui esiste traccia negli stessi registri contabili modenesi alla data 29 gennaio 1462. Diffuso nel Quattrocento anche in Europa attraverso i traffici intercontinentali, il sandalo rosso (Pterocarpus santalinus) garantiva agli intarsiatori un legno “color arancio da fresco, rosso cupo col tempo, a tessitura fine e compatta, piuttosto duro e pesante”, che richiedeva “lavorazioni alquanto impegnative” con il risultato di un buon pulimento (Edlmann Abbate, 2002, Repertorio, s. 127, p. 209; cfr. Wilmering, 1999, p. 24, 210). Nei “pezi de legno de onaro, portati al Santo, per lo choro” il 21 febbraio 1469 va riconosciuta una fornitura di ontano (alnus glutinosa) assai diffuso in tutt’Europa, Italia compresa. Il 30 giugno 1463 a Lorenzo Canozi fu consegnato a Padova per il coro del “legno de scodano per tarsie”. Wilmering l’ha messo in relazione con lo scotano o còtino, una specie del sommacco (rhus cotinus) (1999, p. 18, 26, p. 209, 211): un legno che si presenta “con alburno sottile, biancastro e durame verde oliva o giallo-bruno, con variegature rossastre, a tessitura fine e fibratura diritta” (Edlmann Abbate, 2002, Repertorio, s. 64, p. 150). Lo stesso restauratore del Metropolitan Museum ha il merito di aver identificato un tipo di legno comprato dai massari dell’Arca di Padova per il lavoro del coro a Lorenzo Canozi il 28 settembre 1462: una partita di “verzino”, cioè di brasiletto (caesalpinia). Un tipo di legno che prima di essere
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importato dall’America del Sud, era fatto arrivare dall’Oriente dai veneziani. Secondo le informazioni di Edlmann Abbate è “differenziato, con largo alburno biancastro e durame color rosso-arancione, lucido, a tonalità rosse più cupe col tempo. La tessitura è fine e regolare e la fibratura generalmente dirita. È duro e pesante, ma si lavora facilmente ed acquista un ottimo pulimento. È un legno molto durabile” (2002, Repertorio, s. 82, p. 164-165; cfr. anche Wilmering, 1999, p. 18-19, 209). Resta infine sul filo delle ipotesi il riconoscimento dell’“asano” che viene comprato a Modena 30 aprile 1462 con un altro legno esotico, assai utilizzato nell’ebanisteria: l’amboina. Questa galleria lignea, desunta dai documenti d’archivio e dai reperti conservati presso la sezione museale di “Legno d’epoca” di Montebelluna, brilla di una straordinaria ricchezza cromatica di tinte particolarissime, cangianti per età sezione umidità tipo del taglio, legate all’andamento delle fibre e della tessitura delle superfici. Mancano nelle fonti altri legni che sarebbe lecito aspettarsi per il loro uso diffuso presso altri maestri lignari nel corso del Rinascimento, come l’olivo, il castagno, il tasso, il faggio, il laburno. Ma anche a prescindere da falle documentarie già dichiarate negli archivi della Fabbriceria di San Geminiano e dell’Arca di Padova, restano comunque possibilità non precluse anche se non contabilizzate consentite ad artisti cui erano affidate opere così impegnative. Dalla definizione della tavolozza cromatica, alla messa in opera delle tessere, fino a quella della conclusione del lavoro, si spalanca comunque un periodo operativo gravido per noi posteri di silenzi e di interrogativi, perché all’interno della bottega artigiana rinascimentale (ma anche di età successive) si praticavano dei saperi e degli accorgimenti, non tramandati spontaneamente ma anzi legati alla segretezza delle conoscenze professionali non divulgabili, sulla bollitura, la tintura, l’ombreggiatura artificiale dei legni. I trattati di metà Cinquecento come quello di Alessio Piemontese fino a quelli del Settecento inoltrato di Charles Plumier, Buonanni ed altri, ci rivelano “segreti” di tecniche che erano patrimonio esclusivo di chi li aveva acquisiti con l’esperienza. Le tappe della lunga, infinita storia dei legni nell’arte e nell’arte della vita ci incanta per la bellezza naturale e per la sapienza degli artefici: così gli autori di una pittura lignea, come i costruttori di potenti capriate, di una leggerissima isba, di una balaustra, di una cimasa, di una porta, di un crocefisso, di un modellino di architettura, di un intaglio strepitoso…
Camera padronale con nicchia per la testata del letto. Il disegno a sarcofago dell’abbaino è scandito da due travi che si innestano sulla traversa. Sotto, una parete armadio assorbe con la sua consistenza statica le linee di fuga dell’architettura interna, caratterizzata da un accentuato dinamismo (realizzazioni di “Legno d’epoca”, Montebelluna).
DOCUMENTI
Particolare di un sistema architettonico con incrocio di tre travature che sorreggono la soffittatura a vela da un lato, a cassettone dall’altro. La colonna portante, in abete, è originale del Cinquecento, così come le travature e il soffitto (realizzazioni di “Legno d’epoca”, Montebelluna).
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LO SPAZIO DI NUNZIO A L F R E D O S I G O L O critico d’arte, Rovigo
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na delle peculiarità più biasimate dell’arte contemporanea, in linea con lo status della comunicazione nell’età attuale, è la sua spettacolarizzazione. In verità se da un lato vi sono ragioni per rintracciare una tendenza generalizzata, specie negli anni ’90, a far prevalere gli effetti speciali su quelli concettuali, dall’altro è da considerare come proprio agli ultimi decenni del secolo scorso dobbiamo un progressivo affrancamento dell’arte dalla sua specificità oggettuale e, per contro, la riscoperta della propria vocazione a relazionarsi con lo spazio circostante, traendo alimento dal luogo nel quale si manifesta. È anche per questo che parlare di scultura per l’arte contemporanea è diventato improprio e riduttivo perché il termine non descrive mai la pienezza del rapporto con lo spazio di un’installazione, di un’opera ambientale o site specific. Eppure la polemica contro i musei condotta negli anni, dal futurismo a Theodor Adorno, come tombe dell’arte prosciugata della linfa naturale del luogo per il quale è stata creata è cosa nota. È dunque possibile parlare di scultura contemporanea, solo a patto di farlo non in senso modernista ma in senso classico e antico. Così come non si potrebbe discutere dei rilievi di Wiligelmo senza parlare dell’architettura romanica o dell’architettura gotica prescindendo da Arnolfo di Cambio. Se la scultura antica pubblica, celebrativa o religiosa, non può essere separata dal contesto ma si radica in esso, così la scultura contemporanea ha sempre un costante rapporto con il luogo che la accoglie, che diventa determinante per la sua interpretazione e il suo giudizio. Nunzio di Stefano è certamente uno degli esponenti maggiori della nuova scultura italiana. Formatosi all’Accademia di Belle Arti di Roma come allievo di Toti Scialoja, ha al suo attivo numerosissime mostre in Italia e all’estero, ivi comprese le Biennali di Venezia dell’86 e del ’95, edizione nella quale gli fu riconosciuta anche una menzione d’onore per la personale allestita in quell’occasione. Nella ricerca di Nunzio i materiali hanno un ruolo fondamentale ma mai fine a se stesso. Che si tratti di gesso, legno o piombo, l’artista rivendica le proprie scelte sulla scorta delle potenzialità di cui è portatrice la materia, confermando quanto sia importante, per l’opera in sé, ciò che essa determina fuori di sé o intorno a sé e dichiarando il rapporto di contiguità, di causa ed effetto, esistente tra il processo di trasformazione della materia e lo spazio. E proprio sulla percezione dello spazio è opportuno accennare ad un argomento che dice molto sul contesto in cui operano gli artisti oggi. La rivoluzione più importante della scienza degli ultimi due secoli è affare di metodo. Nella seconda metà dell’800, contro la tradizione positivista, si determinò uno scisma tra fisica sperimentale e fisica teorica. L’osservazione dei fenomeni venne infatti superata da un approccio nuovo, basato esclusivamente su modelli matematici. Oltre la prassi sperimentale classica di natura induttiva si aprì la via deduttiva per consentire di operare nell’ambito delle previsioni logiche. Il nuovo approccio condusse a progressi e sviluppi fondamen-
Senza titolo, 2005, combustione su legno, 182 x 30 x 10 cm. Pagina a sinistra: Odissea, 1986, pigmenti su legno (opera esposta ad Aperto 86, XLII Biennale di Venezia, 1986; foto di Mimmo Capone); Nunzio di Stefano (foto di Claudio Abate); Cerchio, 2005, combustione su legno, 232 x 260 x 344 cm, part.; Senza titolo, 2004-2005, pigmenti e combustione su legno(foto di Claudio Abate) (tutte le immagini: courtesy Galleria dello Scudo, Verona).
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tali che vanno dalla meccanica quantistica alla teoria della relatività, fino alle moderne teorie della fusione fredda o delle superstringhe. “L’idea che esistano altre dimensioni spaziali può sembrare in un primo tempo pazzesca, ma ci sono forti motivi per credere che esistano realmente”. Così Lisa Randall, professore di fisica all’Harward University, nel recente volume The New Humanist (2003) curato da John Brockman. Attraverso la cosiddetta teoria “delle superstringhe”, la Randall avvalora l’ipotesi dell’esistenza di nuove dimensioni spaziali. Ben oltre la tridimensionalità visibile dall’occhio umano, ma al di là anche dalla quadrimensione dello spazio conosciuto che, ad esempio, nell’arte fu investigata dal cubismo di Picasso, Braque, Gris e Léger, non a caso nello stesso tempo in cui Einstein postulava la sua più nota teoria per via deduttiva. Oltre lo scenario del visibile (Fontana avrebbe la sua da dire, in merito) se ne dispiega un altro, dominato dall’invisibile. Non è che in passato l’esistenza di qualcosa di invisibile non fosse percepita. Religione, magia, superstizione ed alchimia erano ambiti privilegiati ai quali riferire l’inspiegabile. Quel che qui conta è dunque attribuire un valore, concedere una possibilità di esistenza a ciò che comunemente viene percepito ma non veduto, sentito ma non sperimentato. In Nunzio l’esigenza di dialogare con l’invisibile è fondamentale e si manifesta fin dall’origine dell’opera, in fase progettuale e di scelta del materiale. Proprio quest’ultima assolve a diversi ordini di esigenze, come si evince dalla ricerca più recente, condotta essenzialmente con l’impiego del legno, ridotto in assi e tavole, che costituiscono il modulo base da assemblare, e sottoposto ad un processo di combustione in superficie. L’origine naturale del legno restituisce alla scultura una qualità organica fondamentale che, nonostante la trasformazione intervenuta con la riduzione ad oggetto seriale (la tavola), si preserva nell’imperfezione, nelle venature, nei noduli, nella rugosità epidermica. Eppure il trattamento cui il legno è sottoposto misura una distanza cronologica abissale dalla realtà. La combustione, infatti, non trasforma solo le forme in atre e notturne, le carica di qualità arcaiche e arcane tramite un processo di carbonificazione prossimo alla fossilizzazione che, in senso metafisico, equivale ad una sorta di purificazione. Nunzio non scolpisce in legno nell’accezione tradizionale, non si cura di modellare le forme con la sgorbia. Le sue assi, le sue forme scavate, sono
Nunzio di Stefano, “Nunzio”, nasce nel 1954 a Cagnano Amiterno in provincia de L’Aquila e si diploma in Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Roma come allievo di Toti Scialoja. Protagonista della nuova generazione della scultura italiana, concentra la sua ricerca espressiva sulla materia: dalle prime esperienze in gesso passa poi a strutture in piombo e in legno combusto.
Attraverso, 2005, pigmento e combustione su legno, 266 x 233 x 50 cm (foto di Claudio Abate). Pagina a destra: Senza titolo, 2005, combustione su legno, 244 x 96 x 70 cm, particolari; Senza titolo, 2005, carbone su carta giapponese, 188 x 96 (foto di Claudio Abate); Senza titolo, 2005, combustione su legno, 193 x 480 x 12 cm (tutte le immagini: courtesy Galleria dello Scudo, Verona).
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ottenute con meri mezzi meccanici e procedimenti di tipo industriale; l’opera originale nasce così da componenti di natura formalmente seriale e sostanzialmente naturale, come entità ibrida. La prassi non indulge mai al vezzo decorativo o al modellato, il suo è un minimalismo geometrico che interagisce con lo spazio circostante. Curvature, diaframmi, segni, contrafforti e tiranti: le opere di Nunzio sono talvolta fasciami di navi, scheletri di balena incastonati tra le pareti o emergenti dai muri. Per una sorta di inversione, come nell’architettura gotica si perseguiva lo scarico delle forze a terra mediante linee e punti per ragioni statiche, così l’artista sembra convogliarle e comprimerle nelle sue strutture, caricandole di energia. Lo spazio diventa così instabile, si deforma e si accartoccia o si distende e si dilata, con un andamento ritmico che si sintetizza, ad esempio, nelle caratteristiche forme a fisarmonica. Recentemente l’artista ha anche sperimentato nuove soluzioni che preludono alla smaterializzazione dell’opera, ad una fusione definitiva con l’architettura. Un nuovo passo nell’invisibile per esplorare luoghi interstiziali considerati inaccessibili, per ribaltare la percezione di vuoto e pieno. Nunzio partisce e scansiona lo spazio, lo moltiplica tramite l’edificazione di diaframmi o lo contorce, lo penetra con soluzioni cilindriche, lo frammenta o lo segmenta con ritmiche sequenze di rette e curve. Persino nei lavori su carta la materia diventa fondamentale, per la loro origine residuale. Le tipiche forme curvilinee sono infatti tracciate con il carbone, residuo della combustione cui la scultura è sottoposta, secondo un principio di consustanzialità dominante nella ricerca dell’artista. Tutto il lavoro gioca sulla percezione dello spazio, si carica dell’energia della struttura architettonica che lo contiene e la devìa, la scarica secondo leggi che, contrastando con la gravità, inducono un senso di straniamento, di vertigine e di sottile fascinazione. Compressioni e dilatazioni, la scultura di Nunzio rende lo spazio elastico, flessibile e fluttuante.
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Senza titolo, 2005, carbone su carta giapponese, 188 x 96 cm (foto di Claudio Abate); Senza titolo, 2005, carbone su carta giapponese, 188 x 96 cm (foto di Claudio Abate); Senza titolo, 2005, carbone su carta giapponese, 188 x 96 cm (foto di Claudio Abate). Pagina a destra: Senza titolo, 2005, carbone su carta giapponese, 96 x 188, particolare; Vista dello studio dell’artista (foto di Claudio Abate); Senza titolo, 2005, combustione su legno, 244 x 96 x 70 cm (foto di Claudio Abate); Attraverso, 2005, pigmento e combustione su legno, 266 x 233 x 50 cm (tutte le immagini: courtesy Galleria dello Scudo, Verona).
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BIBLIOGRAFIA
AGGIORNAMENTI BIBLIOGRAFICI a cura di E L I S A B E T TA B A E S S O studiosa, Rovigo
(Le notizie bibliografiche dal n. 1 al n. 150 sono state pubblicate sul n. 2 prima serie; quelle dal n. 151 al 300 sul n. 1 nuova serie de “Il legno nell’arte”).
GENERALE 301 Clelia ALBERICI, Il mobile lombardo, Novara, De Agostini, 1996, 264 p., ill. 302 Clelia ALBERICI, Il mobile veneto, Milano, Electa, 1980, 340 p., ill. 303 Alle porte dell’arte. Architettura, artigianato e arredo urbano nei portoni storici di Reggio Emilia, a cura di Luciano RIVI e Gianni TRUZZI, Reggio Emilia, Consorzio Legnolegno, 1999, 227 p., ill. 304 L’arte di riconoscere gli stili. Mobili, arazzi, tappeti, vetri, ceramiche, argenti di tutto il mondo, traduzione di Maria Angela NOVELLI riveduta e ampliata da Mina GREGORI, Firenze, Sansoni, 1964, VII, 511 p., ill. 305 L’arte della falegnameria, a cura dei Redattori delle edizioni TimeLife, traduzione di Maria JOSE BOUGAN, Milano, CDE-Gruppo Mondadori, 1987, 127 p., ill. 306 Artigianato lombardo. IV. L’opera lignea, testi di Vittorio FAGONE, Mariuccia BELLONI ZECCHINELLI, Gabriella FERRI PICCALUGA, Milano, Cassa di risparmio delle provincie lombarde, 1980, 141 p., ill.
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308 Bassano del Grappa. Un viaggio di mille anni nella storia e nel presente di una città di pietra e di carta, di ceramica e di legno, testi di Giuseppe BARBIERI, Vicenza, Terra Ferma, 2001, 64 p., ill.
318 Cassoni italiani delle collezioni d’arte dei musei sovietici, a cura ed introduzione di Liubov FAESON, Foligno (PG), Editoriale umbra, 1983, 18 p., 121 p. di tav., ill.
309 Giuseppe BINEL, Manuale di scultura su legno. Dal bassorilievo al tutto tondo, Ivrea (TO), Priuli & Verlucca, 1998, 143 p., ill.
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334 Giulio FERRARI Il legno e la mobilia nell’arte italiana. La grande scultura e la mobilia della casa, trecentocinquanta tavole (di cui sei a colori), raccolte e ordinate con testo esplicativo da Giulio FERRARI, seconda edizione ampliata, Milano, Hoepli, 1925, 381 p., ill. (ristampa anastatica, Nendeln, Kraus Reprint, 1973).
322 Maurizio CERA, Il mobile italiano. Dal XVI al XIX secolo gli stili, le forme, il mercato, Milano, Longanesi, 1983, 290 p., ill. 323 Fulvio CERVINI, Storie di legno. Viaggio nella scultura lignea in Valle Argentina, Triora (IM), Pro Triora, 1999, 191 p., ill. 324 La Collezione Garzolini a Trieste. Primo catalogo. Ceramica, arredi sacri, ferri battuti, scultura lignea, miniatura, orologeria, Relazioni della Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici, archeologici, artistici e storici del Friuli-Venezia Giulia, Museo storico del Castello di Miramare, Trieste, LINT, 1986, 295 p., ill.
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325 Come riconoscere l’epoca di un mobile attraverso lo stile delle sue decorazioni. I repertori decorativi (dal XIII al XX secolo), a cura di Sergio CORADESCHI, Milano, Antea, 1995, 63 p., ill.
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326 Sergio CORADESCHI, Mobili. Sei secoli di stili, Milano, Mondadori, 1986, 383 p., ill.
339 Michel FROISSART, Lavorare il legno, traduzione di Andrea TERZI, Milano, Longanesi, 1978, 196 p., ill.
327 Pietro Maria DAVOLI, Costruire con il legno. Requisiti, criteri progettuali, esecuzione, prestazioni, Milano, Hoepli, 2001, 258 p.
340 Le gambe dell’architettura. Idee per una sedia in legno. Concorso di design, a cura di Archirpina, Catalogo della mostra itinerante (Avellino, 8 - 15 febbraio 1992; Napoli, 26 febbraio - 7 marzo 1992), Napoli, CLEAN, 1992, 123 p., ill.
328 Francesco DE RUVO - Silvia BROGGI - Gianna MORANDI, Antico, finto antico o in stile? Una grammatica del mobile italiano. Regole, eccezioni, errori, Novara, De Agostini, 1990, 254 p., ill. 329 Decorazione a intaglio e ad alto e basso rilievo. Simbolismo, funzionalità, estetica. Attualità e considerazioni per una ricerca in Valle d’Aosta, a cura di Gherardo PRIULI, seconda edizione, Ivrea (TO), Priuli & Verlucca, 1994, 173 p., ill. 330 Design italiano, a cura di Enrichetta RITTER, graphic design di Bruno MUNARI, introduzione di Gillo DORFLES, Milano; Roma, Bestetti, 1968, 205 p., ill. 331 Andrea DISERTORI - Anna Maria NECCHI DISERTORI, Il mobile lombardo. Riconoscere gli stili, distinguere i falsi, Milano, De Vecchi, 1992, 254 p., ill. 332 Claudine DUCHAILLUT, Mobili dipinti, Torino, Ulisse, 1988, 64 p., ill. 333 Giulio FERRARI, Il legno nell’arte italiana. Riproduzioni in parte ine-
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389 Michael Pacher e la sua cerchia. Un artista tirolese nell’Europa del Quattrocento. 1498 - 1998, Convegno (Brunico (BZ), 24 - 26 settembre 1998), Bolzano, Sudtiroler Landesregierung, Giunta provinciale dell’Alto Adige, 1999, 198 p., ill. 390 Michael Pacher e la sua cerchia. Un artista tirolese nell’Europa del Quattrocento. 1498 - 1998, Catalogo della mostra, (Novacella (BZ), Abbazia agostiniana, 25 luglio - 31 ottobre 1998), Bolzano, Sudtiroler Landesregierung, Giunta provinciale dell’Alto Adige, 1998, 329 p., ill. 391 Mostra della scultura lignea in Friuli. Villa Manin di Passariano, Catalogo della mostra (Passariano (UD), Villa Manin, 18 giugno 31 ottobre 1983) a cura di Aldo RIZZI, con scritti di Gino PAVAN, Rosella FABIANI, Luciana BROS, Udine, Istituto per l’Enciclopedia del Friuli-Venezia Giulia, 1983, 211 p., ill. 392 Domenica PASCULLI FERRARA, Fabrizio Jannulo da Monopoli in S. Romanico a Lucera. Un contributo per lo studio dei cori lignei. In: Monopoli nell’età del Rinascimento, Atti del convegno internazionale di studio (22 - 24 marzo 1985) a cura di Domenico COFANO, Monopoli (BA), s.n., 1988, v. II, p. 515-554, ill. 393 Laura SABATINO, Lapicidi e marangoni in un cantiere rinascimentale. La Sacrestia della Basilica di Santa Giustina in Padova, Padova, Il Prato, 2005, 111 p., ill.
383 Il coro intarsiato di Fra’ Giovanni a Monteoliveto Maggiore, Siena, Ali edizioni, 2003, 148 p., ill.
394 Antonio SANTANTONI MENICHELLI, Passio. Un volto dolente da contemplare, con saggio: Pellegrinaggi e Crocifissi nella Valle del Caina a Perugia, di Alessandra TIROLI, Perugia, Quattroemme, 2004, 165 p., ill.
384 Guido DONATONE, Contributo alla storia della maiolica e della scultura lignea napoletane del secolo XV alla luce di nuovi documenti. In: Studi di storia dell’arte in memoria di Mario Rotili, Napoli, Banca Sannitica, 1984, p. 351-358, CLXXII-CLXXV p. di tav.
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385 La fede e i mostri. Cori lignei scolpiti in Piemonte e Valle d’Aosta (secoli XIV-XVI), a cura di Giovanni ROMANO, saggi di Sonia DAMIANO, Guido GENTILE, Anna LA FERLA e Silvia PIRETTA, Torino, Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, 2002, 318 p., ill.
396 Paolo VENTUROLI, Studi sulla scultura lignea lombarda tra Quattrocento e Cinquecento, Torino, Umberto Allemandi, 2006, 266 p., ill.
386 Fortificazioni altomedievali in terra e legno. Ricerche territorio e conservazione, Convegno nazionale (Pieve di Cento (BO), 21 - 22 settembre 1996), Ferrara, Corbo, 1998, 102 p., ill.
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SEICENTO SETTECENTO 397 Arredi del Seicento. Mobili italiani dal Rinascimento al fasto barocco, a cura di ICARO Progetti per l’Arte, testi di Elisabetta BARBOLINI
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Tavolino n. 155, sopra (Monza,Villa Reale).
410 Mobili Dipinti. Tempera, Lacca ed Arte Povera nelle botteghe italiane tra XVII e XVIII secolo, a cura di Elisabetta BARBOLINI FERRARI, testi di Elisabetta BARBOLINI FERRARI, Paolo CESARI, Stefano FOSCHINI e Simonetta ZANNONI, Modena, Icaro, 2005, 254 p., ill. 411 Mobili intarsiati del Sei e Settecento in Italia, a cura di Edi BACCHESCHI, Milano, Görlich, 1964, 119 p., ill. 412 Giuseppe MORAZZONI, Il mobile veneziano del ’700, Milano; Roma; Firenze, Bestetti & Tumminelli, 1927, 64 p., CCCXX p. di tav. 413 Il Seicento. Mobili, arti decorative, costume, a cura di Guido CHIESA, Milano, Görlich, 1973, 111 p., ill. 414 Il Settecento. Mobili, arti decorative, costume, a cura di Guido CHIESA, Milano, Görlich, 1974, 191 p., ill.
OTTOCENTO NOVECENTO 415 Roberto ANTONETTO, Gabriele Capello Moncalvo. Ebanista di due re, Torino, Umberto Allemandi, 2004, 325 p., ill.
408 Saul LEVY, Lacche veneziane settecentesche, Novara, De Agostini, 1999, 2 v., 23 p., [117] + [130] c., ill.
416 Antonio Berdondini. Ebanista in Faenza, a cura di Ugo LA PIETRA, Firenze, Alinea, 2003, 120 p., ill.
409 Giulio LORENZETTI, Lacche veneziane del Settecento. Col catalogo dei mobili e degli oggetti esposti a Ca’ Rezzonico dal 25 aprile al 31 ottobre 1938, Catalogo della mostra (Venezia, Ca’ Rezzonico, 25 aprile - 31 ottobre 1938), Venezia, Ferrari, 1938, 50 p., ill.
417 Arredi dell’Ottocento. Il mobile borghese in Italia, a cura di ICARO progetti per l’arte, testi di Elisabetta BARBOLINI FERRARI, Paolo CESARI, Stefano FOSCHINI, Roberta IOTTI e Pierdario SANTORO, Modena, Artioli, 2000, 319 p., ill.
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Tavolino P 143, sopra (Monza,Villa Reale).
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Tavolino 137 (Monza,Villa Reale).
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BIBLIOGRAFIA
AUTORI AGNELLINI, Maurizio 79, 94 AIMI, Amos 401 AITA, Sandro 101 ALBERICI, Clelia 301, 302, 368 ALBONICO, Piervittorio 355 ALCE, Venturino 52, 191, 192 ALESSI, Cecilia 271 AMATI, Ferruccio 102 ANNONA, Ugo 312 ANSELMI, Naldo 103 ANTONETTO, Barbara 69 ANTONETTO, Roberto 152, 415 APRA, Nietta 231 ARRIGHETTI TOMASONI, Elisabetta 104 ARRIGHETTI, Attilio 104 AUDISIO, Aldo 348 AURIGEMMA, Maria Giulia 379 BACCHESCHI, Edi 77, 79, 411 BACCHI, Andrea 208, 250 BAGATIN, Pier Luigi 39, 40, 41, 42, 107, 193, 194, 450 BALBONI BRIZZA, Maria Teresa 17 BALDI, Renato 114 BALDINI, Francesco 272 BALDINI, Umberto 214 BANDERA, Luisa 2, 15, 38, 153, 178 BANDERA, Sandrina 43 BARACCHINI, Clara 31, 142, 395 BARBERO, Giovanna 426 BERBIERI, Giuseppe 308 BARBOLINI FERRARI, Elisabetta 81, 82, 156, 397, 398, 410, 417 BARGELLI, Stefano 106 BARONI, Daniele 378 BASILE, Giuseppe 107 BAUSSANO, Antonio Angelo 273 BAXANDALL, Michael 195 BAYLEY, Stephen 91 BECCHI, Massimo 12 BEGNI REDONA, Pier Virgilio 190 BELLABARBA, Marco 208 BELLONI ZECCHINELLI, Mariuccia 306 BENACCHIO, Maria Giovanna 96 BERETTI, Giuseppe 70, 71 BERGER, Fabrizio 307 BERGONZI, Antonio 108 BERLANDA, Orietta 423 BERNARDI, Adriana 109 BERTI, Michele 110 BERTOLOTTI, Anna 48 BERTONI, Nadia 433 BESSONE, Carlo 380 BIASI, Duccio 362 BIAVATI, Paolo 151 BINAGHI OLIVARI, Maria Teresa 45 BINEL, Giuseppe 309 BIONDI, Paola 91
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BISCONTIN, Guido 118 BOCCAZZI-VARIOTTO, Attilio 348 BOCCOLARI, Giorgio 81, 156 BOGGERO, Franco 219 BOIDI SASSONE, Adriana 254 BOLOGNA, Ferdinando 188 BON VALSASSINA, Caterina 143 BONERA, Luigi 316 BONETTI, Luca 227 BONOMI, Alfredo 234 BONSANTI, Giorgio 276 BORGHINI, Gabriele 176 BOROLI, Marcella 196 BORRELLI, Gennaro 232 BORRELLI, Gian Giotto 233 BORTOLOTTO, Mara 310 BOSSAGLIA, Rossana 311 BOTTARO, Silvia 255 BOUGAN, Maria Jose 305 BRACCO, Eleonora 312 BRAZZALE, Giancarlo 96 BRESCIANI, Luigi 234 BRIZZI, Giovanni 197 BROGGI, Silvia 196, 313, 314, 328 BROGI, Maria Grazia 111 BROGIOLO, Mario 234 BROS, Luciana 391 BRUNHAMMER, Yvonne 315 BUCHANAN, George 434 BUGGE, Gunnar 381 BULGARELLI, Augusto 82, 310 BURRESI, Mariagiulia 61 BUSCAGLIENE, Augusta 373 CAIRONI, Mario 316 CALEGARI, Grazia 19 CALORE, Andrea 198 CALOSIO, Nicoletta 350 CAMPANELLA, Luigi 112 CAMPARA, Walter 218 CAPRARA, Otello 274 CARGNONI, Marialisa 234 CARLETTI, Lorenzo 46 CARLI, Enzo 158, 197, 199, 211 CARMONINI, Quinto 3 CAROSELLI, Franco 317 CASADIO, Paolo 115 CASCIARO, Raffaele 47 CASELLI, Eugenia 32 CASTAGNARO, Graziano 153 CASTELLANI NARDO, Ivana 319, 320 CASTELNUOVO, Enrico 195, 208 CASTRI, Serenella 208 CATARSI, Manuela 159 CATTANI, Pellegrino 153 CAUMONT CAIMI, Lodovico 72 CAUSA, Raffaello 188, 228 CAVALLITO, Luisa 11 CENDON, Aline 160 CERA, Maurizio 4, 322
CERIANI, Marco 418 CERRONI CADORESI, Domenico 431 CERVINI, Fulvio 323 CESARI, Paolo 397, 398, 410, 417 CESCHI LAVAGETTO, Paola 200, 279 CHARLES, Teresa 373 CHASTEL, André 174 CHATELAIN, Jacques 349, 428 CHIARELLI, Brunetto 378 CHIARUGI, Simone 84 CHIESA, Guido 216, 267, 413, 414 CHIGIOTTO, Giuseppe 85 CIATTI, Marco 113, 276 CIFANI, Arabella 400 CIOL, Elio 115 CIRILLO, Giuseppe 401 CLAUT, Sergio 162 COFANO, Domenico 392 COLLE, Enrico 5, 21, 49, 50, 59, 73, 78, 86, 87, 92, 93, 236, 419, 420 COLOMBI, Bruno 401 COPPOLA, Giovanni 382 CORADESCHI, Sergio 325, 326 CORONA, Elio 116, 117 CORTESI BOSCO, Francesca 202 COSTANTINO FIORATTI, Helen 356 COTTINO, Alberto 238 COZZI, Elisabetta 257 CREMONA, Marina 121 CREN, Stephane 433 CUOMO, Daniela 146 D’AMATO, Gabriella 7 D’AMICO, Rosalba 139 DAL COLLE, Maurizio 118 DAL POGGETO, Paolo 55, 193 DAMIANO, Sonia 385 DANIELE, Umberto 66 DAVID, Paola Rafaella 118 DAVIDSON, Richard 355 DAVOLI, Pietro Maria 327 DE CSILLAGHY, Nicola 88 DE FRANCOVICH, Gèza 205 DE FUSCO, Renato 258 DE GRASSI, Massimo 432 DE GUTTRY, Irene 8, 89, 90, 259 DE LA TOUR COMPOREALE, Gherardo 425 DE RUVO, Francesco 328 DE SETA, Cesare 174 DE VINCENTI, Monica 421 DEL MAR ROTAECHE, Maria 131 DELL’AQUILA, Pino 400 DELL’UTRI, Felice 422 DI LEVA, Antonino 402 DI TONDO, Sergio 293 DILENA, Loris 160 DISERTORI, Andrea 9, 239, 260, 331 DONATI, Andrea 10 DONATI, Pietro 219 DONATONE, Guido 384
BIBLIOGRAFIA
DONNINI, Giampiero 55 DORFLES, Gillo 261, 330, 430 D’ORTO, Placido 422 DUBY, George 382 DUC, Lucio 364 DUCHAILLUT, Claudine 332 ERLINDO, Vittorio 105 FABIANI, Rosella 391 FACHECHI, Grazia Maria 29, 30, 51 FAENSON, Liubov 318 FAGONE, Vittorio 306 FARANDA, Franco 126 FEDELI, Andrea 119 FELETTI, Ingrid 120 FERRARI BARASSI, Elena 117, 123, 124, 136, 141 FERRARI, Giulio 333, 334 FERRARIS, Giancarlo 74 FERRARO, Piera 165 FERRETTI, Davide 153 FERRETTI, Massimo 174, 280 FERRI PICCALUGA, Gabriella 306 FERROZZI, Valeria 121 FIACCADORI, Gianfranco 54 FIDANZA, Giovan Battista 28 FIOCCO, Giuseppe 204 FIORAVANTI, Marco 122 FIORENTINO, Alessandro 22, 166, 253 FLEMING, John 335 FOGLIA, Andrea 38 FOI, Leonardo 44 FONDELLI, Mario 281 FORCELLA, Vincenzo 336 FORTI, Tullio 398 FOSCHINI, Stefano 397, 398, 410, 417 FOSSALUZZA, Giorgio 64 FOSSI, Gloria 356 FRATTARI, Antonio 337, 338 FRIGESSI, Delia 195 FROISSART, Michel 339 FROSINI, Alessandra 437 FURLAN, Caterina 115 GAIFAS, Bianca 101 GALASSI, Cristina 37 GALEOTTI, Carlo 262 GALETTI, Piero 161 GAMBA, Alessandro 165 GAMBETTA, Anna 123 GANDINI, Roberto 341 GAROFALO, Ilaria 338 GENTILE, Guido 385 GENTILINI, Gabriella 167 GENTILINI, Giancarlo 215 GHELARDINI, Armando 181 GIACOMELLI, Luciana 250 GIANNATIEMPO LOPEZ, Maria 6, 182 GIANNINI, Marcello 275 GIANNOTTI, Paolo 19 GIOMETTI, Cristiano 46
GIORDANO, Guglielmo 12, 124, 168, 438 GIUFFRIDA, Alessia 404 GIURATO, Roberto 439 GIUSTI, Anna Maria 125, 274, 281 GODI, Giovanni 401 GOLFIERI, Ennio 424 GONZáLES-PALACIOS, Alvar 13, 59, 70, 74, 169, 170, 171, 172, 173, 240, 241, 242, 342 GOVI, Gilberto 103 GRAGLIA, Daniele 441 GRAMIGNA, Giuliana 91, 263 GRATTONI D’ARCANO, Maurizio 54 GREGORI, Mina 15, 304 GRIFFO, Massimo 207, 243, 244, 245, 264 GRITELLA, Gianfranco 56 GUGLIELMETTI, Angela 53 GUGLIELMI, Guglielmo 221 GUIDI, Giuseppe 282 GUTELLE, Pierre 343 HERZOG, Thomas 23 IACOBINI, Antonio 182 IOTTI, Roberta 397, 398, 417 JAHIER, Piero 345 JANNEAU, Guillaume 24 JANS, Carl 346 JORIO, Piercarlo 20, 348 JURLARO, Rosario 175 KENWORTHY-BROWNE, John 405 KLAINSCEK, Walter 64 KLARMANN, Ulrich 16 LA FERLA, Anna 385 LA MATTINA, Rosolino 422 LA PIETRA, Ugo 416 LAINI, Marinella 117, 123, 124, 136, 141 LAZZARIN, Paolo 16 LENSINI, Fabio 197 LETO BARONE, Giovanni 128 LEVY, Saul 407, 408 LIOTTA, Giovanni 128, 129, 286, 287, 288 LIPINSKY, Angelo 175 LORENZELLI, Jacopo 203 LORENZELLI, Pietro 203 LORENZETTI, Giulio 409 LUNGHI, Elvio 57 MACCARINI, Stefano 81 MACINA, Francesco 145 MAGAGNATO, Licisco 218 MAGGI, Angelo 347 MAINO, Maria Paola 8, 89, 90, 259 MAJOCCHI, Laura 381 MANNELLI, Vinicio 351 MANNI, Graziano 58, 178 MARCHESE, Antonino Giuseppe 388 MARCHETTI, Gaetano 151 MARCHETTI, Giuseppe 179 MARCHETTI, Patrizia 289 MARCHI, Norberto 352 MARCHINI, Gian Paolo 36 MARGAROLI, Rossella 23
MARIACHER, Giavanni 187, 353, 440 MARIUCCI, Caterina 441 MARRACCINO, Andrea 441 MARTINI, Luciana 44 MASETTI BITELLI, Luisa 139 MASSAFRA, Maria Grazia 18, 176 MASSINELLI, Anna Maria 130 MASSOBRI, Giovanna 429 MATTALONI, Claudio 76 MATTONE, Manuela 290 MAURI, Cinzia 354 MELEGATI, Luca 4 MENIS, Gian Carlo 442 MEZZANOTTE, Bernardino 381 MILLER, Judith 355 MILLER, Martin 355 MINNELLA, Melo 388 MOLAJOLI, Bruno 188 MINETTI, Franco 400 MONOPOLI, Eugenio 237 MONTEVECCHI, Benedetta 29 MORANDI, Gianna 313, 314, 328 MORAZZONI, Giuseppe 407, 412 MORENI, Eugenio 108 MORMONE, Raffaele 246 MOROZZI, Cristina 95 MUNAFO, Placido 291 MUNARI, Bruno 330 NALIN, Felice 359 NASI, Sergio 153 NATALE, Vittorio 226 NATTERER, Julius 23 NAVONE, Nicola 347 NECCHI DISERTORI, Anna Maria 9, 239, 260, 331 NEGRI, Enzo 364 NEPI SCIRÈ, Giovanna 443 NERI, Damiano 247 NICOLETTI, Guido 179 NOVELLI, Leandro 213 NOVELLI, Maria Angela 304 OLIVARES, Corrado 71, 256 ONOFRI AZZANO, Francesco 362 ORAZI, Roberto 292 ORDÓÑEZ, Cristina 131, 132 ORDÓÑEZ, Leticia 131, 132 ORIOLI VAN DEN BOSSCHE, Jeanne 151 PAGELLA, Enrica 206 PAGNANO, Giuseppe 294 PALTRINIERI, Gabriella 277 PANDOLFO, Antonello 133 PANE, Roberto 361 PANSERA, Anty 97 PANTEGHINI, Ivo 234 PAOLINI, Claudio 98, 134, 214 PAPAGNI, Antonio 237 PARMINI, Giovanni 31 PASCULLI FERRARA, Domenica 392 PASCUZZI, Santino 135 PASSAMANI, Bruno 208
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PAVAN, Gino 391 PENNASILICO, Alessandro 33 PENZO, Gilberto 307 PERRICCIOLI SAGGESE, Alessandra 183 PERUSINI, Giuseppina 437 PERUSINI, Giuseppina 63, 137 PESCARMONA, Daniele 435 PILLON, Lucia 64 PINTO, Sandra 399 PIRETTA, Silvia 385 PIVA, Domenico 14 POLETTI, Giovanna 313, 314 POLIN, Giacomo 357 POLLI, Vittorio 60 PONTE, Alessandra 248, 249, 268 PORTOGHESI, Paolo 429 POZZI, Giovanni 203 PRADA, Paolo 184 PRIULI, Gherardo 1, 329, 348, 349, 428 PRYCE, Will 362 PUPPI, Lionello 96 QUINZI, Alessandro 64 RACHELLO, Emanuele 145 RAGAZZO, Enrico 448 RAMOND, Pierre 24 RASARIO, Giovanna 138, 278 RAVAGLIA, Lida 120 RAVERA, Massimo 400 REGIS, Giuliano 38 RENZI, Chiara 99 RENZI, Giovanni 99 RENZI, Renzo 191 RENZI, Sergio 108 RICCARDI-CUBITT, Monique 363 RICOTTINI, Giulia 120 RIGGIO, Salvatore 422 RIGHETTI, Marina 229 RIGON, Lidia 157 RITTER, Enrichetta 330 RIVI, Luciano 303 RIZZI, Aldo 391 ROCCHETTA-SCALA, Mario 208 ROGNINI, Luciano 217, 218 ROMANO, Giovanni 385 RUBERTI, Guido 186 RUGGERI AUGUSTI, Adriana 445 RUOTOLO, Renato 15 SABATELLI, Franco 50 SABATINO, Laura 393 SALSI, Claudio 163 SALZAR, Tristan 446 SAN PIETRO, Silvio 95 SANTANTONI MENICHELLI, Antonio 394 SANTINI, Clara 25, 26, 27 SANTORO, Pierdario 398, 417 SAPORI, Giovanna 164 SCANO, Maria Grazia 403 SCANTAMBURLO, Barbara 220 SCARDINO, Lucio 269
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SCARPA, Francesca 307 SCATENA, Giovanni 221 SCHMIDT ARCAGELI, Catarina 66 SCHOTTMULLER, Frida 222 SCIOLLA, Gianni Carlo 365 SCOTT, Ernest 366 SEIDEL, Max 227 SELVAFOLTA, Ornella 357 SGARBI, Vittorio 48 SICILIANI, Martino 65 SIDDI, Lucia 403 SILVA, Lucia 406 SILVA, Tullio 406 SIMONETTI, Farida 94 SOAVE, Luciano 357 SPADA, Silvia 208 SPERANZA, Laura 436 SPIAZZI, Anna Maria 80 STAZI, Alessandro 291 STEFANI PERRONE, Stefania 155 STEFANINI, Pasquale 369 SURDICH, Francesco 255 TACELLI, Laura 144 TAMASSIA, Matteo 307 TAMPONE, Gennaro 110, 112, 116, 119, 120, 122, 127, 128, 129, 140, 145, 146, 147, 150, 284, 285 TANGERMAN, Elmer John 32 TENENTI, Alberto 174 TERZI, Andrea 339 TERZI, Tito 157 TESTORI, Giovanni 155 THOUX, Giovanni 372, 373 TIELLA, Marco 148 TIRIBILLI, Michelangelo 42 TIROLI, Alessandra 394 TOLOMEI, Ugo 315, 374 TOSCANO, Bruno 164 TREVISAN, Mariagrazia 149, 448 TRIONFI HONORATI, Maddalena 34 TROTTA, Giampaolo 285 TRUZZI, Gianni 153, 303 UCCELLO, Antonino 375 UZIELLI, Luca 141 VACCARI, Alberto Vincenzo 35 VACCARI, Renzo 35 VAGLIA, Ugo 251 VALBONETTI, Fausto 300 VALERIANI, Roberto 13, 74 VECA, Alberto 203 VECELLIO, Vito 421 VENTUROLI, Paolo 396 VERDUCCI, Giovanni 3 VERTOVA, Maria Ludovica 376 VEZZOLI, Giovanni 190, 252 VEZZOSI, Massimo 444 VIANELLO, Gianni 370 VIERIN, Claudine 373 VILLA, Roberta 48
VILLARI, Pier Luigi 449 VIO, Ettore 66 VISSER TRAVAGLIA, Anna Maria 450 VOLPIN, Stefano 118 VOLPINI, Leonardo 100 VOLZ, Michael 23 VONDRACEK, Radim 83 WALKER, Aidan 11 WANNENES, Giacomo 270, 377 WILLS, Geoffery 378 ZAMBRANO, Patrizia 50 ZANCHI, Mauro 68, 230 ZANNONI, Simonetta 398, 397, 410 ZANONE POMA, Edoardo 56 ZANONI, Renzo 33 ZANUSO, Susanna 21 ZARRI, Franco 283 ZUFFANELLI, Alberta 150
Pagina a destra: Formella con cornice a toppo, centrata da motivi a losanga, di un cassone toscano, degli inizi del XVI secolo (Finarte Semenzato, Venezia 25 settembre 2005). A pag. 60: Stemma nobiliare tripartito di un cassone a sarcofago, in noce riccamente intagliato (Toscana, seconda metà del XVI sec.) (Finarte Semenzato, Venezia, 6 novembre 2005). A pag. 72 e 77: Giacomo Piazzetta, Fauno (Finarte Semenzato, Venezia 18 dicembre 2005).
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ono ottantotto le Fondazioni di origine bancaria presenti in Italia. Due recenti sentenze della Corte Costituzionale hanno definitivamente sancito la loro natura privata (n. 300 e n. 301 del settembre 2003). Il X Rapporto sulle Fondazioni Bancarie, con i dati di sintesi dai bilanci 2004, presentato nei suoi aspetti salienti l’8 dicembre 2005, è disponibile da poco sul sito dell’ACRI, l’Associazione fra le Casse di Risparmio Italiane che rappresenta collettivamente le Fondazioni stesse. Dal Rapporto risulta che il patrimonio contabile complessivo degli 88 istituti supera i 41 miliardi di euro (+ 2,4 rispetto al 2003), suddiviso fra realtà assai diverse per dimensioni e per operatività territoriale. Settantasei su ottantotto fondazioni sono distribuite nel Nord e nel Centro. Il patrimonio si concentra per metà nelle cinque fondazioni maggiori: Fondazione Cariplo, Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Compagnia di San Paolo, Fondazione Cassa di Risparmio di Verona Vicenza Belluno e Ancona, Fondazione Cassa di Risparmio di Torino. I proventi ordinari dell’anno finanziario 2004 sono ammontati a 2.053,5 milioni di euro, quelli straordinari sono stati pari a 182 milioni di euro, per un totale di 2.235,5 milioni. La redditività netta media del patrimonio si è così consolidata al 5%. Complessivamente le fondazioni hanno erogato 1.267,8 milioni di euro attraverso 23.116 interventi. Rispetto al 2003 è cresciuto sia l’importo totale delle erogazioni (+ 11,4%), sia il loro numero (+1,4%). Guardando al peso delle erogazioni, quelle inferiori a 5.000 € sono risultate cospicue come numero di iniziative (il 45%; nel 2003 erano state il 43,9%), con un peso contenuto sull’importo totale erogato (il 2,1%). Le erogazioni pluriennali (superiori alla quota di 5.000 €, ma conteggiando solo gli importi imputati alla competenza dell’esercizio) hanno interessato una quota del 3% sul totale delle iniziative, ma con una valenza del 15% sull’ammontare complessivo. La parte del leone l’hanno fatta le erogazioni annuali maggiori di 5.000 euro: sono state il 52% degli interventi, rappresentando l’82,9% del totale erogato. I settori che hanno beneficiato degli interventi delle Fondazioni sono stati nell’ordine: “Arte, attività e beni culturali” (8.607 iniziative, contributi pari a 408,1 milioni di euro cioè il 32,2% del totale destinato), “Volontariato, filantropia e beneficenza” (2.543 interventi; 167,3 milioni di euro; 13,2%), “Educazione, istruzione e formazione” (3.629 iniziative; 150 milioni di euro; 11,8% delle somme erogate), “Salute pubblica” (1.333 iniziative; 145,6 milioni di euro; 11,5%), “Assistenza sociale” (2.743 iniziative; 135,5 milioni di euro; 10,7 %), “Ricerca” (1.346 iniziative; 131,2 milioni di euro; 10,3% di incidenza percentuale), “Sviluppo locale” (1.058 interventi; 78,5 milioni di euro; 6,2%); “Protezione e qualità ambientale” (330 iniziative; 21,7 milioni; 1,7%); “Sport e ricreazione” (1.181 interventi; 15,7 milioni; 1,2%); “Religione e sviluppo spirituale”, “Famiglie e valori connessi”, “Prevenzione della criminalità e sicurezza pubblica”, “Diritti civili” (complessivamente 14,4 milioni di euro, pari all’1,1 %). All’interno del settore “Arte, attività e beni culturali”, cui va il primato delle attenzioni e dei finanzia-
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menti, l’intervento principale si è concentrato sulla “Conservazione e valorizzazione dei beni architettonici e archeologici” (167 milioni di euro, 41% del settore). Altre tipologie prevalenti di intervento sono state quelle relative alle “Iniziative a sostegno di produzioni artistiche e letterarie” (74,8 milioni di euro; 18,3% delle erogazioni del settore), alle “Attività museali” e alle “Arti visive” (complessivamente 54,5 milioni di euro; 13,4%); alle “Biblioteche ed Archivi” (15 milioni; 3,6%), all’“Editoria e altri mezzi di comunicazione” (6 milioni; 1,4%). I beneficiari secondo la percentuale degli importi complessivamente erogati sono stati: Enti locali: 23,2%; Organismi privati (tra cui le istituzioni religiose): 19,3%; Associazioni: 16,6%; Enti pubblici non territoriali (Scuole, Università, strutture sanitarie, Istituti di accoglienza e beneficenza...): 15,5%; Fondazioni: 11,1%; Organizzazioni di volontariato: 10,7%; Cooperative sociali: 2%; Amministrazioni pubbliche centrali: 1,6%. Significativa è la distribuzione dell’attività erogativa delle Fondazioni: l’82,5 % degli importi destinati nel 2004 è andato alla regione di appartenenza; il 6,2% a iniziative di valenza nazionale; il 10,6 verso ripartizioni geografiche diverse da quella di appartenenza. Al Nord è così pervenuto il 70,8% delle somme erogate (Nord est: 37,4%; Nord ovest: 33,4); al Centro il 25,3%; Sud e Isole con il pur modestissimo 3,9% hanno ottenuto il miglior risultato di sempre. M O S T R A M E R C AT O
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Ottimo il successo della X X I V B I E N N L E D E L L’ N T I Q U A R I AT O D I PA L A Z Z O C O R S I N I (30 settembre-9 ottobre 2005). La mostra fiorentina ha registrato più di ventimila visitatori, con un apprezzabile aumento di quelli stranieri (tra cui collezionisti e direttori di musei), più di ottanta espositori, con opere di un livello complessivo tra i più alti raggiunti dalla rassegna fiorentina. Il target di qualità dei manufatti esposti è una via che qualifica sempre di più in ambito nazionale e internazionale la Biennale dell’Antiquariato, suscitando consensi sempre più ampi sia per la bellezza e la rarità dei pezzi, sia per la serietà con cui le Commissioni scientifiche e gli organizzatori mirano attraverso un serio discrimine a fare della mostra allestita negli splendidi ambienti di Palazzo Corsini uno dei grandi appuntamenti mondiali dell’Antiquariato. T O R I N O E L’ A R T E D I C O N F I N E
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Si è inaugurata il 7 febbraio 2006 a Torino la mostra AR E O E , organizzata dalla Fondazione Torino Musei - Museo Civico d’arte antica di Torino e dalla Fondazione CRT, nel Palazzina della Promotrice delle Belle Arti e nel Borgo Medievale. L’esposizione, che resterà aperta fino al 14 maggio prossimo, propone una carrellata sulla civiltà e sulla cultura figurativa dei territori alpini che costituivano gli antichi domini dei Savoia. Attraverso una ricca serie (oltre 300 opere) di dipinti, sculture, miniature, oreficerie, tessuti, mobili e arredi dal tempo di Amedeo VIII (1434-78) fino all’inizio del Cinquecento, la mostra dimostra lo spessore e la ricchezza della cultura di confine, dominante lungo le vie transalpine occidentali nel secolo della tradiziona-
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le egemonia peninsulare di Firenze e Venezia, poi di Roma. Insieme alle tavole del “gotico internazionale” di Rogier Van der Weyden, Hans Witz, Antoine de Lohny, alle miniature di Jean Bapteur, ci sono le voci dell’arte sabauda applicata ai materiali: come i cofani e le casse di ferro e cuoio, le legature, gli avori, i pastorali e i reliquiari d’argento sbalzato, i paramenti sacri, le vetrate, gli stalli e i cassoni intagliati, le superbe sculture lignee savoiarde aostane piemontesi della prima metà del Quattrocento (con il vertice di Stefano Mossettaz). L’intensa committenza dei Savoia, di vescovi, di nobili e di banchieri, rende il ducato un appassionato crocevia della cultura tardo gotica europea. S A L O N E D E L R E S TA U R O D I F E R R A R A
E R Si è inaugurato giovedì 30 marzo 2006 presso il quartiere fieristico di Ferrara la . Durerà fino a domenica 2 aprile, alterXIII edizione del S A N E nando come consuetudine una fitta serie di convegni, incontri tecnici, eventi. L’anno scorso il Salone è stato frequentato da 30.000 visitatori. Altrettanti se ne prevedono quest’anno. Temi di punta dell’edizione 2006 – secondo l’ideatore e responsabile organizzativo Carlo Amadori – saranno l’internazionalità (“il salone vuole porsi come una finestra aperta sull’offerta italiana del settore del restauro, dagli aspetti tecnici a quelli della tradizione storico-artistica, e come momento di confronto e scambio delle esperienze e della professionalità”) e la formazione professionale, con la presenza delle massime autorità istituzionali e scientifiche del settore. Ricchissima la gamma delle mostre e dei convegni organizzati. Da segnalare in particolare: la presentazione dei risultati del restauro del teatro Petruzzelli di Bari, e quelli della riflettografia IR sulla Vergine delle rocce, la famosa opera leonardesca conservata alla National Gallery di Londra; il convegno sulle pitture murali e sul restauro degli strumenti musicali antichi. Per quanto riguarda specificamente il legno, vanno ricordati il convegno su “Il legno nell’architettura” (30 marzo) che affronta le tematiche relative al restauro delle antiche strutture lignee e alla tecnologia del legno nell’architettura moderna; la mostra “Lignea Materia”, raccolta di una trentina di modelli di antiche strutture lignee realizzate da Gennaro Tampone, e la presentazione del libro dal titolo omonimo (Quattroemme editore) con scritti di autori vari sulle più recenti teorie del restauro ligneo, osservate in alcune esemplari applicazioni in campo artistico e architettonico.
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Tra le rassegne antiquarie va segnalata per importanza e tradizione la XX edizione di MIL NO INTERN ZIONALE NTI UARIATO. Si tiene dall’1 al 9 aprile, in un’area di 4.000 mq di Fieramilanocity (Porta Carlo Magno), con la partecipazione di circa 120 grandi antiquari italiani e stranieri. La mostra, organizzata da EXPOcts in collaborazione con la Camera di Commercio Industria e Agricoltura di Milano, è promossa dal Sindacato Provinciale Mercanti d’Arte Antica di Milano e gode del patrocinio dalla FIMA (Federazione Italiana Mercanti d’Arte).
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ASTE
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N T T Le aste di primavera 2006 che riguardano arredi e dipinti antichi sono fissate il 5 marzo a Venezia (Palazzo Correr), il 21 a Roma (via Margutta, 24), il 5 aprile a Milano (Palazzo Busca), il 31 maggio a Roma, il 14 giugno a Milano. L’asta veneziana di inizio marzo, col titolo Importanti mobili, oggetti d’arte, dipinti antichi da un palazzo palermitano e altre provenienze ha in catalogo pezzi decisamente belli: come il bureau trumeau del XVIII secolo, lastronato e intarsiato in carrubo ed altri legni con particolari dorati (n. 101), il fascinoso cassettone genovese “a bambocci” in noce (XVII sec.; n. 120), le strepitose consoles a canestro, in legno dorato, con sopra la coppia di due adeguate specchiere polilobate con preziosa cornice, tutte di provenienza palermitana e del periodo di Luigi XV (n. 205-206); come il controllatissimo bureau trumeau a due corpi, lastronato e intarsiato in legni di diverse essenze pregiate, di ambito livornese, e del periodo Luigi XIV (n. 250). Altre emozioni si possono provare – per chi non ha visto direttamente le esposizioni – scorrendo i cataloghi delle recentissime tornate d’asta veneziane di fine 2005. Segnaliamo ai nostri lettori le immagini (g.c.) che adornano questa rubrica e la Bibliografia della rivista. Ci hanno colpito in particolare: la credenza friulana riccamente intagliata degli inizi del Seicento (n. 35) e il bel cassone toscano di inizio Cinquecento decorato con tarsie geometrizzanti e intagli con volute fogliacee (n. 36); sempre della stessa asta (Mobili rinascimentali, oggetti d’arte, sculture, marmi, bronzi, avori. Mobili italiani ed europei, oggetti da collezione, Venezia, 25 settembre 2005) spiccano fra i lavori in legno il trecentesco busto policromo di Santa di area pisano-lucchese (n. 88), la compostissima e delicata Madonna in gloria della cerchia di Matteo Civitali (n. 90), il drammatico Cristo crocifisso di Michael Pacher (n. 95), e l’elegante, quasi carnoso bureau trumeau, nelle sue lastronature in noce e radica di noce con filettature in bois clair (n. 160). Della tornata del 6 novembre (Importanti bronzi rinascimentali, sculture, marmi, rari oggetti d’arte dal Medioevo al Rinascimento, Mobili d’alta epoca) spiccano il rinascimentale stallo da coro (n. 40) e il cassone toscano a sarcofago di metà Cinquecento onusto di cerniere, foglie, medaglioni, rosette intagliate (n. 46). Davvero notevole è per ricchezza e distinzione di intagli la cornice tardo seicentesca di un olio su tavola rappresentante una Madonna col Bambino e san Giovannino dell’ambito di Carlo Maratta, passata nella tornata d’asta del 18 dicembre 2005 (Dipinti di antichi maestri, n. 26). Nella contemporaneo lotto dei Mobili italiani ed europei, Sculture, marmi e argenti (Venezia 18 dicembre 2005), detto della coppia di consoles della bottega dei Fantoni (n. 25) e del raro cassettone intarsiato veneziano della prima metà del Settecento (n. 26), un’occhiata di riguardo la meritano la vigorosissima Coppia di fauni di Giacomo Piazzetta (n. 59) e l’equilibrato nitore della tarsia italiana ottocentesca nella Coppia di cassettoni e comodini di un ebanista attivo a Rolo nei primi decenni del XIX secolo (n. 145-146).
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IL LEGNO NELL’ARTE Tarsie e intagli d’Italia. Nuova serie Rivista quadrimestrale ISSN 1594-7009 Direttore responsabile: Pier Luigi Bagatin Redazione: Elisabetta Baesso, Giovanna Baldissin, Marisa Caprara, Alessandro Fiorentino, Clara Santini. Sede operativa redazione: presso la direzione (vicolo Santa Barbara, 24 - 45100 Rovigo; tel. 0425 26773) Referente per le inserzioni pubblicitarie: Carla De Poli Editore: Antiga Edizioni/Grafiche Antiga Spa, via Canapificio 17 - 31041 Cornuda (TV) illegnonellarte@graficheantiga.it Autorizzazione del Tribunale di Treviso n. 1124 del 22.03.2001 © febbraio 2006 Tutti i diritti riservati. La traduzione, la riproduzione, la memorizzazione, l’adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (inclusi i microfilm, le copie fotostatiche ed ogni altro tipo di supporto) sono consentiti previa autorizzazione scritta dei detentori del copyright.
Referenze fotografiche: Si ringraziano per la gentile collaborazione: Abate, Claudio: p. 55, 56, 57, 58, 59 Capone, Mimmo: p. 55 Casa Parrocchiale (Rivolta d’Adda): p. 32 Chiesa di San Lorenzo (Mortara): p. 36 Chiesa di San Martino (Cuzzago): p. 30 Chiesa di San Paolo (Gambolò): p. 31 Chiesa di San Tomaso (Milano): p. 26 Collezione privata (Torino): p. 34 Duomo (Como): p. 33 Duomo (Lodi): p. 27 Finarte Semenzato, Casa d’Aste (sede di Venezia): p. 60, 71, 72, 76, 77 Galleria dello Scudo (Verona): p. 55, 56, 57, 58, 59 Legno d’Epoca (Montebelluna): p. 44, 45, 46, 47, 49, 50, 51, 52, 53 Museo Baroffio e del Santuario del Sacro Monte sopra Varese: p. 37 Museo del Duomo (Milano): p. 26 Museo della Slesia (Opava): p. 24, 25, 32 Museo delle Arti decorative del Castello Sforzesco (Milano): p. 28, 29, 35 Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici (Milano): p. prima di copertina, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 65, 66, 67 Soprintendenza per il patrimonio storico, artistico e etnoantropologico delle province di Venezia, Belluno, Treviso e Padova (Venezia): p. 38, 39, 40, 41, 42, 43 Victoria and Albert Museum (Londra): p. 37
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Q adr tr di Storia, Arte e Cultura del Legno
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I L L E G N O N E L L’ A R T E
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NEL NUMERO DI
Giugno 2006
>> I L C I B O R I O D E L L A C E RTO S A D I F E R R A R A > DAVA N T I A L L’ A LTA R E D E L L E S TAT U I N E >> D U E TA R S I E V E N E Z I A N E D E L C I N Q U E C E N TO >> L’ I N TA R S I O : S O R R E N TO E N I Z Z A E R I TO R N O > LA COLLEZIONE MOSCA >> L E G N I N E L L’ A RT E . I I >> O U R A G E >> A G G I O R N A M E N T I B I B L I O G R A F I C I >> S E G N A L A Z I O N I E A P P U N TA M E N T I
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