Il Legno nell'Arte - tarsie e intagli d'Italia

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TARSIE E INTAGLI D’ITALIA

I COLORI DEL LEGNO

Il monumentale ciborio della Certosa di Ferrara INCÀVI E TA S S E L L I

Davanti all’altare delle statuine il Coro dei Canozi MOBILE MOBILIA

Due tarsie veneziane del Cinquecento: la Speranza Divina, San Teodoro

Il legno nell’arte nuova serie - Antiga Edizioni - Quadrimestrale - Anno I - n. 3 - Dicembre 2006 - € 15,00

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ANNO I - n. 3 - DICEMBRE 2006

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E D I TO R I A L E

MERAVIGLIE DEL QUIRINALE P I E R L U I G I B AG AT I N

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aggio 2006: cambio della guardia al vertice più alto delle istituzioni italiane. Carlo Azeglio Ciampi chiude il suo settennato di Presidente della Repubblica, tra la stima e il plauso generale tributatigli per l’equilibrio, la misura, il senso vivissimo di unità del Paese, il respiro europeo con cui lo ha improntato. Il testimone è passato a Giorgio Napolitano, di cui è altrettanto unanime la considerazione per la profonda preparazione culturale, il rigore politico, la conoscenza degli scenari internazionali, lo stile discreto e fermo. Il nuovo inquilino del Quirinale si è insediato in quella residenza che mai come negli ultimi anni è diventata una “casa comune degli italiani” e “museo aperto al mondo”. Una preoccupazione dichiarata e programmatica della presidenza Ciampi è stata infatti quella di recuperare gli splendori di un palazzo rappresentativo come pochi delle vicende della nostra nazione, e di incardinarlo nella memoria civile e nella vita culturale della nazione. Palazzo dei papi dalla fine del ’500; reggia designata nel 1809 di Napoleone Bonaparte (che però mai vi soggiornò); ancora dimora dei pontefici dal 1814, fino alla breccia di Porta Pia e all’annessione di Roma al Regno d’Italia (1870); sede della famiglia reale dei Savoia fino alla proclamazione della Repubblica (1946): la storia del Quirinale si specchia infine nella realtà della Nuova Italia libera e democratica, nata sulle ceneri del fascismo e degli orrori della Seconda Guerra mondiale. Diventa la casa dei presidenti: simbolo dei nuovi valori costituzionali, vetrina e vessillo di un popolo deciso a guardare avanti, insieme e solidalmente, forte di un passato ricco di storia, di arte, di passione civile che tutto il mondo ammira. Il piano dei recuperi e della valorizzazione delle meraviglie del Quirinale si è così intrecciato nei progetti del settennato di Ciampi con i concerti, le mostre, le iniziative culturali, le graditissime aperture alla gente. I restauri hanno riservato sorprese succose entro e fuori il Palazzo: come nella galleria di Alessandro VII la riscoperta degli affreschi dipinti da Pietro da Cortona; come le bellezze ritrovate della Sala Regia, della Sala dei parati piemontesi, degli Appartamenti imperiali, del Torrino; come gli esterni ripuliti e illuminati scenograficamente; come nei giardini la Fontana dell’Organo, unica parte superstite della fase cinquecentesca del Palazzo; come gli scavi archeologici doviziosi sempre in una città come Roma e in un paese come l’Italia, di nuovi lacerti antichi, bagliori di civiltà che si sono succedute. Nel trionfo delle arti al Quirinale affascina non poco il capitolo degli arredi, sia sotto il profilo della storia delle acquisizioni, sia sotto quello delle eccellenze. Storici insigni delle arti decorative hanno di recente autorevolmente censito e definito le varie tranches costitutive di un complesso comunque straordinario e con provenienze da tutta Italia. Se rimane relativamente poco di mobilia romana (fra cui peraltro spiccano le due splendide consoles di provenienza Rospigliosi, per il gioco strepitoso degli intagli di cartigli, volute, protomi femminili, trofei, e i due tavoli magistralmente realizzati nell’urbe da Antonio Landucci nel 1773), ragguardevole è la fornitura

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E D I TO R I A L E

proveniente dai palazzi di Parma e Colorno. Mobili di raffinata ebanisteria francese, appartenenti alla figlia di Luigi XV, Louise-Elisabeth, moglie di Filippo di Borbone erede del ducato Farnese. Consoles, divani, poltrone, orologi, lumi parietali, alari, candelieri finiti al Quirinale dopo l’Unità, transitando per le residenze sabaude. Prodotti dei più rinomati maestri del legno transalpini: alcuni davvero di gran classe come – per citare solo i maggiori di metà Settecento – la commode di Latz con la rara impiallacciatura di bois satiné mossa come ad onde, le angoliere di Jacques Dubois, con il bois de violette nel delicato intarsio; la commode di Bernard Vanrisamburgh con pannelli a motivi palustri in oro su una superficie laccata a fondo nero, illuminata da ornamenti bronzei. C’è spazio negli arredi del Quirinale per la scuola veneta con l’originalissimo finimento Pisani, il gruppo di poltrone con i dodici segni dello zodiaco, che proviene dalla Villa Pisani di Stra, e dalle mani di Andrea Brustolon; come per le sedie e i divani di manifattura toscana del tardo settecento, venuti a Roma in gran parte da Palazzo Pitti; così pure per il neobarocco voluto dalla corte sabauda dopo il 1870, con lo sfarzo delle dorature soprattutto nell’ala di rappresentanza della monarchia (nel Salone delle feste, nel Salone degli specchi, o in quello degli arazzi) nelle consoles, sormontate da specchiere, nei buffets a due piani, nelle sedie della sala d’ingresso del primo Appartamento Imperiale opera del Besarel tanto prediletto dalla regina Margherita. C’è spazio per le “chineserie” apprestate nel salottino giapponese per l’imperatore di Germania nel 1889, con pannelli in lacca nera e oro, provenienti dalla Venaria Reale di Torino e dalla residenza di Moncalieri. Il cuore vero degli arredi del Quirinale pulsa però nelle strepitose opere firmate da colui che si può ritenere il maggior ebanista italiano (secondo Alvar Gonzàlez-Palacios: “uno dei più originali protagonisti del supremo arredamento dell’intero mondo occidentale”), al servizio di sua maestà Carlo Emanuele III di Savoia: il torinese Pietro Piffetti (1700-1777). Basterebbero il doppio-corpo con iscrizioni allegoriche su placche eburnee o le commodes e la coppia di piedistalli a testimoniare anche al Quirinale la grandezza del maestro del legno sabaudo. Ma la regina Margherita nel 1879 volle trasferire a Roma la biblioteca che il Piffetti aveva realizzato tra il 1734 e il 1755 per una delle perle delle residenze sabaude: la Villa della Regina a Torino. Guglielmo Gigliotti in una bell’illustrazione dell’accuratissimo restauro completato nel 2005 l’ha definita “una fantasmagoria di materie preziose e motivi curvilinei”. Una tavolozza vivacissima di otto essenze lignee che si alternano sul massello di pioppo degli scaffali e delle nicchie del mobile (quattro tipi di palissandro, poi ulivo, tasso, bosso, mogano), che fanno a gara con “le fastose ornamentazioni ad intarsio” che flettono in alternanze concavo-convesse tessere o scaglie di tartaruga, di ottone, ma soprattutto di avorio. Il rocaille brilla nei festoni, nei tralci, nelle volute, nei 220 fregi fitomorfi intagliati in legno e dorati; mentre l’equilibratissima esuberanza ricercata da Piffetti si salda in basso coll’alto zoccolo decorato e in alto coi busti delle Stagioni che reggono dei vasi in maiolica. La libreria nel corso dell’Ottocento passò nel Castello di Moncalieri, poi fu traslocata a Roma, per essere rimontata in una saletta della Palazzina gregoriana del Quirinale, ad allietare le letture e gli incontri privati della regina Margherita che amava particolarmente quel guscio di sogno. Può sembrare un caso. Restituita alla sua vera bellezza dal restauro la libreria della Regina, anche la villa sabauda per cui era nata come d’incanto è uscita dall’indegno torpore di un abbandono durato fino al 1994. Ora dopo complesse operazioni di recupero ha riaperto le sue porte ai visitatori. Un sussulto di vita, cui sembra averla ridestata con delicata fermezza una delle sue creature più leggiadre.

A pag. 1: Lorenzo e Cristoforo Canozi,

Particolare di un pannello con Brocca con fiori (Modena, Duomo di San Geminiano).

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SOMMARIO

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MERAVIGLIE DEL QUIRINALE

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I COLORI DEL LEGNO

I L M O N U M E N TA L E C I B O R I O D E L L A C E R T O S A D I F E R R A R A

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I N C À V I E TA S S E L L I

D A VA N T I A L L’ A LTA R E D E L L E S TAT U I N E : IL CORO DEI CANOZI

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MOBILE MOBILIA

D U E TA R S I E V E N E Z I A N E D E L C I N Q U E C E N T O : LA SPERANZA DIVINA, SAN TEODORO

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DOCUMENTI

I L E G N I D E L N U O VO M O N D O L E G N I N E L L’ A R T E ( I I )

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TRAVI D’EPOCA NEL MUSEO DEL LEGNO DI MONTEBELLUNA

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OUR AGE

I MITI DI CEROLI

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BIBLIOGRAFIA

AG G I O R N A M E N T I B I B L I O G R A F I C I S E G N A L A Z I O N I E A P P U N TA M E N T I

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Altar maggiore del Tempio di San Cristoforo alla Certosa. Foto di: Le Immagini Multimedia

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I L M O N U M E N TA L E C I B O R I O DELLA CERTOSA DI FERRARA M A R I S A C A P R A R A A V G E R I N O S , restauratrice, Bologna

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ella relazione che segue, la nostra collaboratrice Marisa Caprara dà conto del restauro da lei realizzato fra il 2004 e i primi mesi del 2006 di un pezzo ligneo d’eccezione conservato nella città culla della civiltà estense: il monumentale ciborio cinquecentesco di S. Cristoforo della Certosa (con il relativo altare). Un intervento inserito in un piano generale di recupero dell’importante complesso religioso ferrarese, cui una virtuosa concertazione fra Enti consentirà entro pochi anni di riappropriarsi del sorriso del volto antico, di una riacquistata funzionalità e insieme del suo ragguardevole patrimonio artistico pittorico e ligneo, per quanto segnato dalle vicende non sempre felici di una storia secolare. La prima pietra della Certosa di Ferrara venne posata nel 1452, per volontà di Borso d’Este. Dedicato a S. Cristoforo, il nuovo monastero certosino si trovava tra gli orti e le verzure al di fuori delle mura della città, così come esigeva la regola dell’ordine. Ma la realizzazione del grande progetto urbanistico dell’Addizione Erculea, fece sì a fine Quattrocento che la Certosa venisse a trovarsi in un punto nodale del nuovo assetto urbanistico, circoscritta entro il perimetro della nuova cerchia muraria. Se il desertum (cioè il complesso dei terreni della clausura certosina) non venne intaccato, il monastero invece si trovò a stretto contatto con nuovi palazzi ed imponenti edifici. Così nel 1498 fu iniziato il nuovo tempio di S. Cristoforo, che riuscì una delle opere più originali del Rinascimento ferrarese, arricchita nel corso dei secoli successivi da un eccezionale patrimonio artistico (vedasi riquadro a p. 14). Una fondamentale svolta avvenne con l’arrivo dei francesi. Nel 1801 la Certosa fu soppressa, la comunità monastica sciolta. Per azione soprattutto di Girolamo Cicognara, nell’intento di salvare il monastero e la chiesa dalla distruzione, la Certosa venne destinata nel 1813 a pubblico camposanto e S. Cristoforo affidata nel 1816 all’Arciconfraternita della Morte. Secondo il progetto di Ferdinando Canonici, fu abbattuta la maggior parte del monastero certosino, lasciando intatte la chiesa rossettiana e parte delle celle dei monaci. In questo lasso di tempo andarono disperse non poche opere d’arte, ma altre ne arrivarono da chiese e conventi soppressi. Dalla rovina di S. Andrea (1870) giunse anche il monumentale coro ligneo quattrocentesco, intarsiato, che fu adattato

nell’abside di S. Cristoforo. Nel 1944 bombardamenti aerei colpirono l’edificio, danneggiando gravemente l’abside, il coro, il lato destro della chiesa ed il campanile. Quest’ultimo fu ricostruito fra il 1956 e il 1961, mentre altri restauri vennero eseguiti solo su parti limitate del tempio negli anni Settanta e Ottanta. Nel frattempo era avvenuto l’esodo del patrimonio artistico mobile: soprattutto verso i Musei Civici di Arte Antica e verso la Pinacoteca Nazionale di Palazzo Diamanti. A partire dagli anni Novanta prese corpo una felice intuizione, di alto profilo: restituire alla città il complesso di S. Cristoforo alla Certosa, risanandolo debitamente, facendo tornare “a casa”, tra le sue mura, sugli altari, nella navata, le decine e decine di opere d’arte, di dipinti, di ancone lignee dorate, di candelabri, di lampade votive, di reliquiari, il coro ligneo di S. Andrea, il ciborio. Tessere tutte di uno splendente puzzle da restaurare prima e ricollocare poi, in una sfida di impegno, di pazienza e profusione di mezzi. Il meritorio sforzo degli Enti coinvolti ricomporrà un contesto di puro godimento estetico e storico, e insieme una rinnovata e risplendente veste per un sacro edificio che manterrà intatta anche l’attuale destinazione liturgica al cristiano commiato dei defunti. (P.L.B.)

Il progetto di restauro del Tempio di S. Cristoforo alla Certosa, promosso dall’Amministrazione Comunale di Ferrara, è stato realizzato per la parte del recupero architettonico grazie al contributo finanziato nell’Accordo Programma Quadro Stato-Regione Emilia Romagna 2001-2003 in materia di Beni Culturali. Il progetto di restauro e ricollocazione delle opere e degli arredi storici, in fase di attuazione, è sostenuto invece dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara. Il piano di recupero elaborato dai Musei civici di Arte Antica di Ferrara, in accordo con la Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico e Etnoantropologico di Bologna, prevede dopo un’attenta fase di revisione e catalogazione dei materiali, un recupero per lotti che coinvolgerà diversi laboratori che saranno impegnati nel restauro di 130 dipinti, numerose sculture policrome, arredi liturgici, 14 imponenti ancone lignee riccamente decorate, 3 cori fra cui quello di S. Andrea (fine XV sec.), con 56 stalli intagliati e intarsiati, recentemente attribuito al genero di Lorenzo Canozi, Pier Antonio degli Abbat.

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I COLORI DEL LEGNO

CIBORIO DIMENSIONI cm h 510 x 218 + Croce (non originale)

TECNICA D’ESECUZIONE legno intagliato, intarsiato, scolpito, superfici decorate con oro a conchiglia e guazzo. Piallacci fregiati con pirografo (piromatita).

SECOLO XVI (1597)

AUTORI D I S E G N O : Niccolò Donati E S E C U Z I O N E : Marco Antonio Maldrati

In questa pagina e in quella accanto: Prima del restauro: muffe, dissesti, lacune, lacerazioni in vari punti del corpo centrale e della parte superiore del ciborio.

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S TAT O D I C O N S E R VA Z I O N E E T E C N I C A D’ESECUZIONE L’opera di restauro, effettuata tra il febbraio del 2004 e il febbraio del 2006 è stata comprensiva del ciborio, di fine cinquecento, e dell’altare maggiore eseguito nella prima metà del millenovecento. L’insieme ligneo, di gran pregio, aveva raggiunto un altissimo stadio di degrado, dovuto a consistenti attacchi di parassiti animali (insetti xilofagi) e microrganismi fungini.

CIBORIO L’alto tasso di umidità presente nel microclima aveva causato il distacco dei piallacci in noce nostrana e acero di tutti gli elementi che compongono l’opera. Il legno è un materiale organico sensibile alle variazioni d’umidità relativa ambientale ed è sottoposto a continui assorbimenti e perdite d’umidità. Questo fenomeno determina dei movimenti dovuti al rigonfiamento delle fibre legnose che danno origine a deformazioni diversificate, dapprima temporanee che col tempo diventano permanenti. A questo processo si accompagnano altri tipi di degrado dovuti a cause e alterazioni fisiche, chimiche o biologiche, che determinano il deterioramento del legno e sono essenzialmente l’attacco da funghi e batteri già sopra descritti. Questi parassiti vegetali attaccano i leganti organici quali la caseina che è una sostanza organica proteica, con alto potere collante, con la quale è stata saldata tutta l’impiallacciatura. Il risultato di questo fenomeno ha provocato un aumento considerevole dei piallacci semistaccati e alterati come forma e intensità cromatica. La base a sei archi denunciava il completo distacco del pavimento in noce e del settanta per cento dei piallacci d’acero. Il corpo superiore, con tre gruppi di colonnette binate, accusava la perdita di circa

Prima del restauro: dissesti, muffe, lacune.

Incollaggio piallacci.

Smontaggio del ciborio e trasferimento delle componenti dalla chiesa al laboratorio di restauro.

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l’ottanta per cento delle decorazioni ad intaglio e parte delle cornici che adornavano la trabeazione. La rosura, causata dall’attività dei tarli in stadio larvale, e l’attacco di miceti hanno dato luogo allo sfarinamento dei tessuti legnosi determinando l’indebolimento delle superfici di contatto tra l’ossatura in legno pioppo ed i piallacci. Al tempo del restauro effettuato nel 1847, per opera di Giovanni Tellini, i piallacci originali della cupola, realizzati con legno d’acero, furono sostituiti con piallacci di legno noce, incollati ed inchiodati perpendicolarmente alla struttura portante. La nuova impiallacciatura mostrava molteplici spaccature e distacchi dall’ossatura pari all’ottanta per cento della superficie totale. Durante l’asporto dei suddetti piallacci, si è evidenziato che sulla superficie dell’ossatura di pioppo erano presenti solchi ad andamento obliquo hanno fatto supporre un posizionamento analogo dell’impiallacciatura d’acero con cui sono rivestite anche le superfici degli elementi architettonici sottostanti. Di seguito, ad imitazione dell’originale perduto, le superfici furono pesantemente decorate con piromatita. All’epoca dell’intervento di restauro sopra menzionato, furono rifatti molti degli elementi a mensoloni e rosoni che decorano la trabeazione del corpo con colonnette binate; la ricostruzione delle mensole e dei nuovi rosoni fu eseguita con impasto di colla e polvere di marmo. Le mensole originali erano, invece, realizzate a stampo, con l’impiego di tela di canapa e gesso. La pulitura dei pochissimi elementi originali ancora esistenti, ha riportato alla luce le superfici originali decorate con oro a conchiglia. Durante gli interventi di manutenzione del passato, tutte le superfici del ciborio furono fortemente impregnate con gommalacca commista ad anilina e cera per mobili. La compenetrazione della lacca rossa animale, del colorante e della cera, avevano causato il fissaggio dei sedimenti eterogenei presenti su tutte le superfici, determinando l’oscuramento sia delle decorazioni in oro, sia dei disegni pirografici stilizzati “a marmo”. Lo stesso degrado si rilevava anche per la lanterna.

Prima del restauro: scritte sul ciborio.

Prima del restauro: particolare della rosura e del deterioramento della base del ciborio.

Prima del restauro: particolari su dissesti, lacune, muffe, rasure da insetti silofagi.

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Rosura dell’altare (sopra) e (sotto) particolari del degrado del ciborio (fronte e retro).

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A LTA R E M AG G I O R E DIMENSIONI cm h 143 x 635 x 170

A LTA R E

TECNICA D’ESECUZIONE legno intagliato e scolpito. Superfici decorate con oro a conchiglia e guazzo. SECOLO XX (1913) AUTORI: E B A N I S TA Canalini di Faenza D O R AT O R E Ditta Pizzi e Casanova

Bologna PROPRIETÀ Comune di Ferrara Musei Civici d’Arte Antica

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La parte lignea alla base di tutti gli elementi verticali, compresa la lunga trave di supporto in noce, si presentava in uno stato di conservazione alquanto precario. L’umidità di risalita capillare aveva coinvolto il basamento e la porzione bassa dei pannelli decorativi verticali; umidità, insetti xilofagi e microrganismi fungini hanno causato il completo marcimento di tutto l’assame polverizzandolo. Al tempo della costruzione, tutte le superfici dell’altare erano state diversamente mordenzate per meglio collegarle visivamente alle superfici fotodegradate del ciborio. Anche in questo caso durante gli interventi di manutenzione alcune superfici sono state trattate con aniline color mogano e gommalacca che, col tempo, hanno provocato forti alterazioni cromatiche tendenti al violaceo; molteplici stesure di cera per mobili hanno contribuito al fissaggio di sedimenti eterogenei.

Rosura della pedana (in alto) e (sotto) altri particolari del degrado del complesso ligneo.

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I N T E R V E N T I D I R E S TA U R O Prima di effettuare gli interventi di restauro, tutti gli elementi costituenti l’altare ed il ciborio, sono stati sottoposti a fumigazione con Bromuro di Metile dalla ditta specializzata Radis S.r.l. di Ravenna. La scomposizione del complesso ligneo è stata effettuata mediante la realizzazione di apposito ponteggio. A protezione della parte bassa e mediana, altamente degradate, per ovviare a danni che potevano incorrere durante il trasferimento dell’opera in laboratorio, è stato necessario realizzare un’intelaiatura di legno. La movimentazione all’interno della chiesa è stata effettuata utilizzando una gru su gomme.

CIBORIO Si è dato inizio all’intervento di restauro tramite l’asporto dei piallacci semi staccati, deformati e fesi, proseguendo, poi, con il riassetto ed il consolidamento della struttura portante. Le integrazioni delle porzioni di lastronatura mancanti sono state realizzate con piallacci della stessa essenza dell’originale, opportunamente sagomati e posti in vena all’andamento circostante, mentre le parti degradate e fese del supporto sono state risanate tramite segmenti lignei a sezione triangolare ed iniezioni di resine epossidiche. Successivamente, i piallacci deformati sono stati rettificati effettuando pressioni controllate. Per l’incollaggio ci si è avvalsi di una resina vinilica pura, sostenuta, come da esecuzione originale, tramite microchiodatura, utilizzando i fori preesistenti. Terminati gl’interventi di restauro, effettuati alla struttura portante e alle lacune lignee che coinvolgevano l’intera opera, si è provveduto all’esecuzione di una seconda disinfestazione, condotta per colazione di antiparassitario a base di permetrina. Le delicate fasi di pulitura, eseguite sulle superfici lignee naturali o pirografate e su quelle decorate con oro a conchiglia e a guazzo, sono state effettuate tramite soluzioni diverse di solventi dispersi in acido poliacrilico. Le soluzioni gelificate sono state pennellate sulle superfici ed asportate tramite tamponcini di cotone idrofilo asciutto. Successivamente, per mitigare l’azione dei solventi, le superfici interessate sono state oggetto di ripetuti lavaggi, attuati con tamponcini di cotone idrofilo imbevuti di Alcol Benzilico in White spirit. Di seguito sono state realizzate le integrazioni di tutte le porzioni lignee mancanti o altamente degradate; le superfici dei tasselli sono state collegate alle tonalità del legno originale circostante tramite mordenzatura all’acqua. Per verificare l’esatta mancanza di tutti gli elementi decorativi ed effettuare la dovuta risarcitura degli stessi, è stato necessario provvedere allo smontaggio sia delle dodici colonnette, sia dei rispettivi capitelli. Per colmare le molteplici mancanze di elementi architettonici

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Calchi di decorazioni mancanti.

Corpo centrale dopo il restauro.


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decorativi, quali le foglie d’acanto che ornavano i capitelli, i mensoloni e i rosoni che decoravano il corpo con colonnette, si è convenuto di riproporli eseguendo calchi in gomma siliconica entro i quali sono state colate resine epossidiche per legno; successivamente, le riproduzioni sono state perfettamente rettificate e decorate prendendo ad esempio i pochissimi originali rimasti. Il fissaggio degli elementi decorativi sopra descritti e delle cornici staccate e semistaccate è stato eseguito, oltre che con l’applicazione di collante vinilico, con chiodatura di microchiodi in acciaio con punta a freccia, posizionati nelle forature precedentemente eseguite sui pezzi con microtrapano a mano e punte di diametro variabile da 1 a 1,5 mm spinti con cacciachiodo. La semplice microchiodatura, su un legno di piccolo spessore, avrebbe provocato inevitabilmente la rottura dell’elemento decorativo originale. Tutti i fori prodotti dagli insetti xilofagi, al momento dello sfarfallamento, sono stati otturati con apposite cere sintetiche, colorate, per legno. A restauro ultimato le superfici sono state protette con cera d’api pura sciolta in essenza di trementina.

Decorazione dei calchi.

Base del ciborio dopo il restauro.

A LTA R E L’intervento di restauro effettuato sull’altare è stato eseguito con le medesime metodologie d’intervento applicate per il restauro del ciborio. Di grande difficoltà si è rivelata la pulitura di tutte le superfici lignee perché trattate in origine con mordente all’acqua ed aniline color mogano. Tutte le porzioni basse dei pannelli decorativi verticali, fortemente intaccate dal proliferare di insetti xilofagi e miceti, sono state asportate e integrate con tasselli di legno pioppo come da originale. Il basamento, su cui poggiano le sei colonne dell’altare, è stato sostituito con una tavola della stessa essenza, in noce nostrano, rispettandone le dimensioni. Per meglio collegare visivamente il nuovo basamento alle superfici restaurate dell’altare, si è reso indispensabile effettuare la mordenzatura e patinatura delle superfici.

DIREZIONE: DR. ANGELO ANDREOTTI Comune di Ferrara, Musei Civici d’Arte Antica DR. LUISA CIAMMITTI Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico e Etnoantropologico di Bologna Il restauro è stato promosso dalla F O N D A Z I O N E C A S S A D I R I S PA R M I O D I F E R R A R A

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SAN CRISTOFORO ALLA CERTOSA (FERRARA) Il nuovo tempio di San Cristoforo alla Certosa fu iniziato nel 1498. Ebbe per probabilissimo autore l’architetto principe della corte estense, Biagio Rossetti. A croce latina ma con una sola navata e sei cappelle laterali, la chiesa diventò una delle opere più originali del Rinascimento ferrarese, sia per l’assetto architettonico sia per l’impostazione planimetrica (la lunghezza

TAVOLA DEGLI INTERVENTI DI RESTAURO EFFETTUATI, DEI MATERIALE E DELLE SOSTANZE UTILIZZATE. Bromuro di Metile

Asporto dei piallacci

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Riassetto e consolidamento della struttura portante

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Segmenti di legno pioppo, colla vinilica pura “Bindan SR”, iniezioni di resine epossidiche

Restauro delle lastronature

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Piallacci di legno noce e acero

Adesione dei piallacci

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Colla vinilica pura “Bindan SR”, microchiodi in acciaio con punta a freccia

Disinfestazione a pennello

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Permetar, pennelli in setola di bue

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Dimetilsolfossido, Alcol Benzilico, Acido poliacrilico, Ammina di cocco - alcol Isopropilico, White spirit, cotone idrofilo, pennelli di setole di bue, bisturi a lama fissa

Integrazioni lignee

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Legno noce, pero, palissandro, acero

Calchi e riproduzioni degli elementi decorativi architettonici

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Gomma siliconica, resina epossidica SV 427

Sutura dei fori di farfallamento

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Cera sintetica, colorata, specifica per legno

Protezione delle superfici

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Cera vergine d’api in essenza di trementina

Costruzione del nuovo basamento

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Massello di legno noce nostrano

Collegamento tonale delle integrazioni e dei risanamenti lignei

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Mordente noce

Decorazione degli elementi architettonici ad ex novo

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Oro in conchiglia, oro francese, colori a vernice per restauro

Fumigazione

Pulitura delle superfici decorate e non

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Piccole spatole e seghetti a mano

San Cristoforo alla Certosa in un disegno di Francesco Corni (Fondazione Carife, 2004).


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della navata è esattamente uguale alla profondità del transetto sommata a quella dell’abside). Terminato verso il 1553, S. Cristoforo venne danneggiato da un terremoto nel 1570, ma fu rapidamente risistemato e riconsacrato appena due anni dopo. La facciata della chiesa rimase incompiuta, ma fu adornata nel 1769 con un notevole portale marmoreo. L’interno della chiesa si arricchì di un cospicuo patrimonio artistico che vantava dipinti dei più distinti artisti ferraresi (tra cui il Bastianino e il Roselli), sculture, arredi liturgici, tre cori fra cui quello intarsiato di fine quattrocento proveniente da S. Andrea.

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Altar maggiore e coro. Nella pagina accanto: Michele Dini da Firenze, Altare delle statuine (Modena, Duomo di San Geminiano).

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D A VA N T I A L L’ A LTA R E D E L L E S TAT U I N E : IL CORO DEI CANOZI P I E R L U I G I B AG AT I N studioso, Rovigo

Col coro del Duomo di Modena l’arte dei Canozi esce finalmente dall’ombra. Nel solenne romanico di S. Geminiano, tra le superbe invenzioni di Lanfranco, Wiligelmo, dei Campionesi, rimane quella che è la loro prima opera certa: la prima voce autentica del loro messaggio artistico, che così affiora distintamente dal vuoto dei lavori andati perduti, dall’enigmatico alone di quelli attribuiti, dal clima di attesa che circonda i due fratelli, Lorenzo e Cristoforo da Lendinara, dopo il loro esordio nel magico cantiere umanistico dello studiolo voluto da Leonello d’Este nella delizia di Belfiore. L’analisi delle fonti d’archivio e della copiosa bibliografia (se ne veda la disanima in Le pitture lignee di Lorenzo e Cristoforo da Lendinara, Treviso, Antilia, 2004, p. 137-192) stabilisce termini cronologici abbastanza sicuri. Il primo acconto per il coro modenese venne riscosso il 23 luglio 1461 mentre la data conclusiva, comunemente accettata, è quella del 1465, come recita la sottoscrizione incisa sul fianco del primo stallo a destra che reca incise queste parole: «HOC OPUS FACTUM FUIT PER CHRISTOPHORUM ET LAURENTIUM FRATRES DE LENDENARIA 1465». Così come si conserva attualmente, il coro risulta composto da 34 stalli, collocati su due piani: venti nell’ordine superiore, di dimensioni maggiori e destinati ai Canonici; quattordici nell’inferiore per i Mansionari. Essi figurano disposti secondo la progressione curvilinea dell’abside, alla cui parete poggiano i seggi superiori. Le due file sono separate al centro del semicerchio absidale da un intervallo ai lati del quale i due stalli capifila dell’ordine superiore sono più elevati degli altri e coronati da una cupoletta dipinta a forma di valva di conchiglia. Tanto gli intagli che le tarsie che adornano il coro modenese sono di squisita fattura e creano, con un intimo compenetrarsi, una unità di visione rigorosa, fluida, armonica. Va subito detto però che questo equilibrio formale che si offre al visitatore d’oggi non è originario. Esso è stato raggiunto nel tempo, a prezzo di pesanti interventi sull’assetto originario del coro nell’area absidale. Per cui, prima di gustare il

frutto del talento dei fratelli lendinaresi, bisognerà andare a ritroso con la memoria, cercare di recuperare la visione primigenia, quella che poté essere l’originaria collocazione corale all’interno dell’area presbiterale-absidale. L’operazione non è facile, costa ripensamenti, ma si rivela indispensabile per immaginare quel coordinamento fra complesso ligneo, vano architettonico, decorazioni pittoriche e scultoree così vivo

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sempre in tutti gli artisti impegnati in luoghi pubblici importanti per l’identità della comunità locale e quindi anche per la poesia nuova dei «magistri perspective», cioè degli intarsiatori. La spettacolare impressione che desta oggi il coro di S. Geminiano, nel suo incastonarsi nella curva absidale, all’interno del sacro recinto della «palangada» del colonnato gemino sui tre lati del presbiterio, con la splendida mensa dell’altar maggiore poggiante sulle sei coppie di colonnine binate (forse dei Campionesi a simboleggiare i dodici apostoli) e su quella centrale a torciglione (di Wiligelmo stesso, e con sopra il sepolcrino delle reliquie), le arcaiche visioni pittoriche absidali, il sedile con il S. Ambrogio al centro delle due ali corali, il robusto leggio seicentesco, il trecentesco Cristo crocifisso che pende dalla volta, rivela un caleidoscopio cui bisogna dare ordine cronologico, chiamando alla conta anche ciò che oggi non c’è più o non più in quel posto. La metamorfosi del pontile e dell’abside del duomo modenese, e quindi del coro canoziano, è odissea in più fasi, di cui non si può fare a meno di tener conto. Prescindendo dagli interventi “minori”, bisogna riandare almeno a quelli “maggiori”: la sistemazione iniziale, la variazione del 1482, il “conquasso” di fine Cinquecento, la risistemazione Sandonnini tra il 1919 e il 1921. a) Nella «querelle» sulla conformazione iniziale del coro, e in particolare sulla presenza o meno delle tarsie con i Padri della Chiesa aveva già dato una svolta pressoché risolutiva, e in

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senso negativo, un’appassionata archivista modenese, Orianna Baracchi Giovanardi nel 1987, cui va aggiunto il certissimo riconoscimento del primo fondale del coro, un meraviglioso polittico, tuttora esistente sia pure in altra zona della chiesa: il cosiddetto «altare delle statuine». C’è una casualità sottile che non sorprende. L’autore del fondale è ormai identificato in Michele Dini da Firenze. Un artista toscano che aveva eseguito pochi anni prima un simile polittico a Ferrara, nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, nella delizia di Belfiore, su cui si stavano concentrando le attenzioni dei marchesi d’Este, e nella quale pochi anni dopo i due Canozi si sarebbero affaccendati nello studiolo di Leonello. Il 6 settembre 1440 allo «sculptor lapidarum et figurarum terre» fiorentino veniva richiesto per il duomo di Modena un qualcosa di assolutamente simile: «unam tabulam latitudinis qualitatis et condicionis et cum figuris plenis, caxamentis ac cornicis, solemnis et aliis apparentibus in tabula per ipsum noviter constructa in ecclesia Sante Marie de Belflore, noviter hedificata per illustrem nostrum dominum Marchionem prope mura civitatis Ferariae» (Archivio di Stato di Modena, Notarile, Memoriale antico in pergamena, vol. 264, reg. n. 635). L’ancona ferrarese commissionata allo scultore in terracotta dal marchese Niccolò III doveva essere bellissima se la si voleva tale e quale per l’altar maggiore del Duomo di Modena. Ancora oggi la replica modenese dell’ancona poi perduta di Belfiore la si ammira in tutta la sua monumentalità in Duomo (è alta m. 5,90


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Vedute delle fiancate degli stalli terminali dell’ordine inferiore, e della cupoletta a valva di conchiglia dello stallo superiore con il Sant’Agostino (Modena, coro del Duomo di San Geminiano). Nella pagina precedente: veduta dell’ala di sinistra del coro ligneo (Modena, Duomo di San Geminiano).

e larga 4,03), non più nel suo sito originario (l’abside), ma in una delle cappelle della navata settentrionale, quella di Santa Caterina in cui fu spostata nel 1482. Chi vi si pone di fronte non può che essere pervaso dalla grandiosità e della ricchezza iconografica e semantica dell’opera. Soprannominata «altare delle statuine» per la presenza di tanti personaggi scolpiti a tutto tondo o a bassorilievo, l’ancona si scompartisce su cinque livelli. Nel registro più basso c’è una predella con scene narrative di storia evangelica (il Battesimo nel Giordano, Gesù tra i dottori, la Natività, l’Adorazione dei Magi, la Fuga in Egitto). Subito più in alto c’è una delle fasce più importanti, con personaggi sacri ripresi a figura intera entro nicchie inquadrate da colonnine tortili: al centro la Madonna (titolare della Cattedrale modenese) con il Bambino in braccio, che tiene fra le mani un uccellino; alla sinistra (per chi guarda) S. Geminiano, patrono della città e fondatore della chiesa modenese, e S. Giovanni Battista; a destra: S. Pietro e S. Nicola di Bari. Tutte queste «statuine» sono alte 80 cm, mentre la Madonna 95 circa. La fascia mediana si caratterizza con i quattro Dottori della Chiesa e più su gli Evangelisti). Gli agiografi si scompartiscono a coppie verso la scena centrale della fascia, la Crocifissione. Il coronamento del polittico alterna frontoni triangolari, entro cui appaiono angeli e altre scene sacre. Le stesse figure angeliche si ergono a tutto tondo alla sommità dei frontoni, cui si alternano dei puntuti pinnacoli. Ai lati la maestosa «tabula» è chiusa da contrafforti con figure di santi, angeli, e due personaggi ignudi alla sommità (for-

se Adamo ed Eva). La complessità di significati dell’ancona ha un ulteriore patente schema nell’asse verticale centrale che dal basso verso l’alto permette di coagulare la visione dei momenti fondamentali della vicenda cristiana: dalla Natività nel bassorilievo centrale, alla Madonna col Bambino, alla Crocifissione, sopra la quale nella cuspide triangolare c’è la Resurrezione, e in cima al pinnacolo Il Padre con il libro delle Sacre Scritture. La dovizia teologica e religiosa dell’ancona che tra il 1441 e il 1443 andava a sostituire quella trecentesca del pittore Patecchi (e dietro a questo rinnovamento andava visto l’impegno di rinnovamento spirituale dell’arciprete modenese Iacopo da Cadignano, fedele agli ideali dell’Osservanza) e l’apertura all’arte toscana propiziata dal massaro Ludovico dal Forno (cfr. F. Piccinini, in Il Duomo di Modena, a cura di C. Frugoni, Modena, Panini, 1999, p. 278), trovavano un’ulteriore saldatura visiva per il tramite dei cromatismi di cui la «tabula» era intessuta. Per contratto essa doveva essere «picta» e «aurata», avere «colorum auri, alamani optimi, ollei blance et omnium aliorum» cioè una tavolozza variata di oro, azzurro, di biacca mista ad olio, di altri colori che dovevano invadere le figure, i «casamenti» cioè le nicchie, le cornici (cfr. Piccinini, 1999, p. 278), in un tripudio cromatico che sopravvisse allo spostamento, al passaggio del tempo, ai lavaggi, ma non all’ultimo sfortunato restauro del 1977, che spellando i lacerti delle antiche pitture dissolse per sempre la policromia – acclarata nei documenti – dell’«altare delle statuine» lasciandogli in contraccambio un rozzo mantello di color cotto na-

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turale (cfr. Giovannini, 1988, p. 62; Piccinini, 1999, p. 278). Davanti a tanta bellezza di stile gotico, che si avvicinava alla curva absidale, ma che non era ad essa accostata (il polittico era quindi “libero”) e che aveva forse alle sue spalle un baldacchino (ne esistevano fin dal 1453; cfr. Baracchi, 1988, Altare maggiore…, p. 140) nasceva il coro dei Canozi. Al suo centro ci doveva essere l’antico altare maggiore dei Campionesi e di Wiligelmo. Secondo Orianna Baracchi Giovanardi il tabernacolo ligneo, inserito in un’arca marmorea, era sistemato direttamente dietro l’altare maggiore. Che il ciborio fosse fissato direttamente al pavimento dietro all’altare, lo confermerebbe – secondo la studiosa – il restauro della base posteriore dell’altare maggiore stesso. Computando l’altezza delle due lastre del tabernacolo (cm 198) e l’altezza della mensa dell’altare (cm 130) la Baracchi ha dedotto che il ciborio sopravanzava di circa 68 cm l’altare stesso (1988, Altare maggiore…, p. 136-137). Secondo Dondi (1893, p. 9; ma si veda più sotto anche Baracchi Giovanardi, 1988, Altare maggiore…, p. 134) il vecchio tabernacolo era invece collocato sul retro dell’«armadura» muraria su cui poggiava l’ancona delle statuine (cfr. Piccinini, 1999, p. 279). Ad ogni modo anche la Fiancata di sinistra dell’ordine inferiore degli stalli; alla pagine seguente: quella dell’ordine superiore di destra (Modena, coro del Duomo di San Geminiano).

presenza del ciborio alto due metri circa nulla avrebbe tolto alla vista del maestoso fondale forgiato con consumata perizia costruttiva da Michele Dini (che, tra l’altro, divise il polittico in diverse parti e le cosse singolarmente, assemblandole in fase di montaggio dell’opera). Ciò che invece va considerato in termini di visibilità dalle navate è proprio la conformazione del coro, diviso con ogni evidenza in due ali a forma rettilinea (quindi di «L», come proposto da Mezzetti, 1972, p. 11), che partendo da una certa distanza dell’«altare delle statuine» seguivano i lati lunghi del presbiterio e del pontile campionese, per poi occupare parte del lato verso la navata centrale, lasciandone libera la zona centrale (quella dove si fermavano le coppie gemine delle colonnine). Così come è possibile vedere in uno dei pochissimi cori rimasti nella postura pretridentina, cioè quello veneziano di Santa Maria Gloriosa dei Frari, che lascia visibile il centro del setto marmoreo per una visione d’infilata, più che del coro, dell’altare maggiore e della pala absidale (dagli inizi del cinquecento la meravigliosa Assunta del Tiziano). Tenendo conto però della particolare situazione modenese, che è caratterizzata dalla marcata elevazione del presbiterio e dell’abside rispetto al livello delle navate, vien da presumere che l’elemento decisivo per l’esclusione di stalli alti con cupoletta a valva di conchiglia (oltre ai riscontri documentari sul «coro soto San Zemignan» della Baracchi) fosse proprio dettata dall’esigenza di consentire la visibilità dell’altare maggiore e del fondale delle «statuine» altrimenti disturbata o resa quasi impossibile dalle aree delle navate più propinque al pontile. A completare la visione «a parte fidelium» verso l’altare maggiore, dobbiamo presupporre secondo le fonti almeno due travi lignee che traversavano nel senso della larghezza il presbiterio. La prima, poggiava sopra i capitelli delle colonne della «palangada» e stava «sovra l’altaro grando». Secondo Dondi, serviva a sostenere le parecchie lampade che si tenevano accese davanti al ciborio (1896, p. 11). La seconda trave stava sopra il pontile, dove finiva il presbiterio (Dondi, 1896, p. 11); la Baracchi opina che avesse la funzione di reggere al centro la croce con il Cristo Crocifisso di inizio Trecento (cfr. 1988, Altare maggiore…, p. 138), ma non sembra ipotesi in linea con il documento citato da Dondi relativo al 1496. Due angeli di terracotta (Dondi) o di legno (Baracchi), restaurati una prima volta nel 1455 e una seconda nel 1507, stavano sospesi sopra l’altare maggiore (Baracchi, 1988, Altare maggiore…, p. 138) o collocati sull’altare stesso (Dondi, 1896, p. 11). b) Questo assetto visivo in cui era andato ad inserirsi il coro canoziano durò neanche vent’anni. Una forte ventata di cambiamento si concretizzò nel 1482, essendo massaro ancora il Della Calza, colui che aveva seguito i lavori del coro negli anni Sessanta. L’8 gennaio venne dato il via alla realizzazione di un nuovo tabernacolo; alcuni facchini furono pagati per utilizzare una lastra «fora delle canonege in riva della strada», e a maestro Giacomo da Ferrara «tajapreda», incaricato del lavoro, fu consentito di acquistare «due prede vive», cioè di mar-

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mo fino (A.S.G.MO, F. 59, c. 107; in Baracchi, 1988, Altare maggiore…, p. 133); Bartolomeo Bonascia ebbe l’incombenza di intarsiare la portellina in legno del tabernacolo con il motivo di un calice («fare l’usolo del tabernacolo lavorato de prospetiva con uno calexe suso» : A.S.G.MO, F. 59, c. 134; in Baracchi, 1988, Altare maggiore…, p. 133). Ciò che importa è lo spostamento del tabernacolo stesso che fu sistemato in posizione rialzata al centro della curva absidale, tra le due finestre laterali, in una nicchia scavata appositamente nel muro (A.S.G.MO, F. 77, c. 88v, 15 aprile 1482; in Baracchi, 1988, Altare maggiore…, p. 134). Vennero acquistate delle «prede vive» per fare una gradinata per consentire al celebrante di salire al tabernacolo; contestualmente furono allargate le due finestre laterali; il 21 maggio furono applicate alle due finestre absidali allargate «due fenestre de fero» e contestualmente venne smontata «l’archa dove stava el Corpo de Cristo de dietro al altaro» (A.S.G.MO, F. 59, c. 112; in Baracchi, 1988, Altare maggiore…, p. 134). Verso la fine del mese il nuovo tabernacolo venne adornato con belle colonnette scolpite dallo stesso Giacomo da Ferrara, mentre l’arca marmorea che «era de dreto l’altaro grando dove za staxeva el Corpo de Cristo», venne portata nel fondaco, le lastre marmoree vendute ad Antonio dal Forno, che sulle due più lunghe fece incidere il breve concesso da Sisto IV relativamente all’indulgenza concessa a chi aiutava i trovatelli (A.S.G.MO, F. 77, c. 92, Intrada, 1482; in Baracchi, 1988, Altare maggiore…, p. 134). Il 12 luglio toccò alla «tabula» di Michele da Firenze: si cominciò a fare l’armatura «per tore zoxo l’anchona de l’altare L’ORIGINARIO ASSETTO grande» (A.S.G.MO, F. 59, c. VISIVO ENTRO CUI 114; in Baracchi, 1988, AltaSI INSERÌ A MODENA re maggiore…, p. 136). L’«alIL CORO CANOZIANO tare delle statuine» venne venduto alla famiglia Castaldi per NON DURÒ NEANCHE la modesta cifra di 31 lire, e a VENT’ANNI spese della Fabbriceria fu trasportato nella cappella di S. Caterina (di giuspatronato degli stessi Castaldi) dove si trova tuttora, nella seconda campata della navata settentrionale. L’operazione di smontaggio e rimontaggio del notevole complesso statuario di Michele Dini fu facilitato dalla tecnica da lui usata di assemblare blocchi cotti separatamente (cfr. anche Piccinini, 1999, part. p. 278, 280). Per riempire il fondale ormai vuoto si diede incarico al pittore Bianco Ferrari di affrescare la parete absidale («la turfina»). Entro settembre l’artista eseguì sulla calotta degli angeli in volo che reggevano un tendaggio azzurro, che faceva da cornice al nuovo tabernacolo di Giacomo da Ferrara, che a sua volta venne dorato. Non è chiaro invece con quali elementi fu decorata la parte inferiore dell’abside, tra l’altro la meno visibile dalle navate. Fu anche chiusa la finestra centrale (che era ad «occhio») e le due finestre laterali ingrandite furono munite di una «tela de canova …perché el sole non daga suxo l’altaro quando se dixe mesa» ( i riferimenti documentari in A.S.G.MO, F. 59, c. 116; F. 77, c. 95 e 100v; F. 59, c. 117).

c) La trasformazione radicale avvenne agli inizi dell’ultimo decennio del Cinquecento, fortemente voluta dal vescovo di Modena, il cardinale ferrarese Giulio Canani, e portata a compimento dal suo successore, Gaspare Silingardi. L’intervento episcopale era teso a «riportare fra il clero e i fedeli una comunicazione immediata che la Chiesa, in sintonia con le direttive maturate nella riflessione del Concilio Tridentino, riteneva indispensabile» (Acidini Luchinat-Serchia-Piconi, 1984, p. 241), intendeva spezzare certi «abusi» del clero chiuso nel guscio di riservatezza del «santuario» presbiterale, mirava a rinnovare l’assetto interno della cattedrale alle necessità pratiche e spirituali richieste dalle contingenze presenti. I lavori di demolizione furono iniziati il 16 dicembre 1591 riformando il coro e il presbiterio con queste sostanziali varianti: 1) il pontile fu raddoppiato; 2) fu smontato l’ambone e tolta la «transenna» sul lato frontale del recinto; disperse anche le colonnine binate della recinzione che guardava verso la navata centrale; rimossi i bassorilievi di Anselmo e dei campionesi, che furono murati nelle pareti della chiesa e sostituiti da una cancellata in ferro (una «ringhiera»); 3) l’altar maggiore fu avanzato verso la navata centrale (quindi verso ovest), tanto che per questa traslazione dalla sede originaria il 30 aprile 1594 il vescovo Silingardi procedette alla sua riconsacrazione; 4) venne tolto il tabernacolo eseguito da Giacomo di Ferrara e il Santissimo – come si è visto – già dal 1586 era stato trasportato nella Cappella meridionale superiore; 5) il Cristo crocifisso di fine Duecento che sovrastava la zona presbiterale o appeso alla volta o appoggiato ad un qualche sostegno, fu rimosso e collocato sopra il primo altare a sinistra entrando nel tempio; 6) furono scialbati gli affreschi absidali di un secolo innanzi da Bianchi Ferrari, prima tinteggiatura delle tante ripetute periodicamente nel tempo; 7) fu rimosso l’organo quattrocentesco di Giovanni da Mercatello posto nella parete set-

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tentrionale del presbiterio e un nuovo organo con due tribune fu costruito lungo la navata centrale; 8) fu rimosso il monumento dello svevo Altemps che era posto dal 1512 nella navata centrale, sotto l’arcata tra il pulpito e il presbiterio; 9) il coro fu «voltato», secondo l’uso invalso dopo il concilio di Trento e gli stalli del coro superiore furono uniti a quelli del «coretto soto San Zemignan». d) Ultima e fondamentale serie di interventi fu la radicale risistemazione dell’area presbiteriale e absidale guidata da Tommaso Sandonnini tra il 1919 e il 1921. Il pontile, con meritoria intuizione e con metodologia felicemente filologica e insieme attenta alle necessità liturgiche, fu riportato quanto più possibile al suo pristino stato. L’abside centrale e l’area corale furono soprelevate di un gradino rispetto alle absidi laterali (settentrionale e meridionale), di due gradini rispetto al resto del presbiterio. L’altare maggiore fu arretrato di un metro e mantenuto nel suo basamento a gradoni, al centro del pavimento a commesso di marmi bianchi e rosa. Fu tolta la «ringhiera» in ferro; abbattuti i «murelli» che erano stati costruiti dopo la rimozione delle lastre marmoree originali. Fu rimontato l’ambone e reinseriti i bassorilievi di Anselmo e dei Campionesi. Venne ripristinata anche la «palangada» cioè la recinzione di colonne appaiate in doppio ordine, con due fondamentali accorgimenti: le 24 coppie di colonne in marmo di Verona (o fatte ex novo o recuperate nei depositi) furono distribuite sui tre lati: 8 per parte nei due lati lunghi, ma con l’avvertenza che le aperture verso le absidi laterali non erano più al centro ma a ridosso delle testate dei muri divisori tra le absidi stesse; 6 nella «transenna» sul lato frontale del recinto, con ampia apertura centrale, rafforzata da un effetto di grande trasparenza e accessibilità dell’intera «palangada» Dopo tre secoli fu riportato dal primo altare della navata sinistra anche il monumentale Crocifisso, che dal 1920 riprese a pendere dalla volta del presbiterio al di sopra del pontile campionese. La inusitata, godibilissima leggerezza e visibilità del presbiterio nella sistemazione «Sandonnini» fu ottenuta a spese del coro che subì «una nuova mutilazione» (Mezzetti, 1972, p. 11) o come dice Roberto Paolo Novello «un’ulteriore drammatica manomissione» (1999, Coro…, p. 309). Gli stalli che dal semicerchio absidale si protendevano nel presbiterio ol-

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tre la semi colonna addossata alla testata dell’abside, vennero tutti rimossi; non furono rimessi in opera neanche i battenti lignei intagliati che in precedenza permettevano l’accesso dalle absidi laterali (la prima segnalazione in Mezzetti, 1971, p. 11). Considerate queste ed altre menomazione subite dal complesso modenese, si rivela quanto mai saggia e provvida, in occasione del restauro moderno del coro modenese concluso nel 1972, la decisione di non procedere a tentativi di ricostruzione della forma antica: operazione allora e ancor più oggi piena di incognite e col rischio di arbitri, considerata la posizione autonoma e posteriore del «coretto soto San Zemignan», ma non la determinabilità se non in via di ipotesi del numero originario degli stalli del complesso canoziano. Forse più dei 34 attuali. Forse no. Prima del 1921 erano 28 (cfr. Novello, 1999, p. 310). Ma sul numero originario non ci si può che astenere. Quattordici dovevano essere i canonici della Cattedrale modenese per «antiquam consuetudinem hactenus observatam» (cfr. Dondi, 1896, p. 61). Quanti invece i mansionari? Chi poi ancora poteva avere accesso e ospitalità al coro, fra gli ospiti religiosi e quelli istituzionali? In mancanza di una chiarificazione dell’assetto originario del coro, e a fronte delle sue successive evoluzioni, non ci si può esimere dal riunire in un tutt’unico omogeneo (lasciando da parte i Dottori della chiesa) sia le tarsie che oggi fanno parte del coro sia quelle che a fine Cinquecento lì sono confluite e successivamente dopo il restauro Sandonnini con tempi e modalità diverse ne sono state separate, venendo assemblate in mobili che in sé nulla hanno di autentico. Il discorso vale per la panca ora nella cripta, ma che almeno fino al 1972 era addossata alla parete settentrionale del presbiterio, sotto le casse dell’organo e degli Evangelisti; vale anche per un inginocchiatoio e un dossale frutto di ricomposizione di elementi provenienti dal coro nel 1921, per pannelli intarsiati erratici, per non dire di altre tarsie tolte dal coro nel 1921 di cui non resta traccia. Sia come sia, tenute ferme la diversa identità del coro di Lorenzo e Cristoforo, l’alterità del dialogo del loro manufatto con il contesto absidale e presbiterale tante e troppe volte cangiato e diversificato nell’arco dei secoli, il rendez-vous di oggi di fronte alle due ali corali appoggiate nell’atmosfera ombrosa alla curva absidale è comunque di straordinaria emozione. La mano magistrale dei due fratelli lendinaresi allora sui trentacinque anni di età si impone ai riassetti, alla voltura, alle mutilazioni patite: il coro modenese è il più antico incunabolo della «nova ars» degli intarsiatori applicata ad un complesso di stalli e sedili; è la prima opera certa e inequivoca dei Canozi, frutto delle loro mani e della loro scienza artistica e prospettica. La padronanza esibita nell’uso dei legni e l’originalità dell’iconografia proposta fanno del coro di S. Geminiano un punto di riferimento per la cultura artistica a livello nazionale all’inizio degli anni Sessanta. Ci svela le grandi possibilità artistiche dei due artisti padani, e il loro aggiornamento sulle capacità di un’arte in fortissima crescita dopo la fioritura negli anni Trenta nel crogiuolo fiorentino, e l’autorevolezza sia nell’intaglio che nella tarsia rende più pungen-


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te la perdita delle loro prime opere, in primis quelle di Belfiore, e appanna per il divario qualitativo quello che è stata indicata come una tappa della loro carriera, S. Prospero di Reggio Emilia. Lo spettacolo ligneo predisposto dai due lendinaresi per i canonici di S. Geminiano combina tradizione e novità con uno stile già inconfondibile. Gli intagli («straordinari, dove si combinano le vibrazioni di epidermide e le sigle imprevedibili della migliore cultura tardo-gotica»: Ferretti, 1982, p. 498) sono presenti in tutti gli stalli. In quelli inferiori si notano anzitutto le colonnine di base, tortili e corinzie (alcune ottagonali). Il diaframma divisorio dei sedili è costituito da un’altra colonnina (più piccola) che sorregge un archetto ad ogiva con capitello pensile; nei pennacchi l’intaglio raffigura un fiore con tre petali. Il diaframma termina con un altro fiore a tre lobi, di cui quello più alto è tondeggiante. Sopra il poggiamano ci sono intagli a volute vegetali. Questi stessi motivi vegetali, ma più ricchi e accentuati, appaiono nelle fiancate degli stalli superioni, sia all’altezza del sedile, che a quella dello schienale. Splendido è anche il traforo dell’arco polilobo A pag. 24: Tarsia dello stallo superiore n. 7 dell’ala destra del coro. A pag. 22-23: tarsia n. 2 da sin. del dossale del presbiterio (Modena, Duomo di San Geminiano).

dei postergali capifila. Si è avvertito giustamente che le plastiche e frastagliate ornamentazioni vegetali s’improntano sì al gusto del gotico fiorito, ma che «un rigoroso calcolo geometrico flette a regola di compasso il turgore elastico delle grandi volute; i colpi fitti della sgorbia realizzano esiti di palpitante vigore materico che imprime per contrasto maggiore evidenza, al rarefatto stilismo delle tarsie» (Mezzetti, 1972, p. 6). L’unità spaziale, sopravvissuta alla voltura cinquecentesca e agli interventi successivi, motiva il rapporto fra la struttura degli stalli e la distribuzione delle tarsie. I sedili inferiori hanno un’unica serie di intarsi; quelli superiori, più slanciati, invece hanno due successioni di tarsie, più ampie e di tema diverso. Una cornice rettilinea corona infine tanto l’ordine superiore che inferiore degli stalli; con la sola aggiunta, per quella alta, di piccole piramidi quadrangolari, in corrispondenza della giunzione dei sedili. Con questa articolazione il coro modenese induce prioritariamente ad una percezione dell’insieme: l’aerea eleganza degli intagli divisori non isola gli stalli, ma li congiunge naturalmente; e la conformazione dell’ordine inferiore provoca lo spontaneo trapasso a quello superio-

Tarsia di un subsellium.

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Sopra: pannello di uno stallo inferiore. Sotto: pannello di un sedile capofila e tarsie superiori n. 4 dx. (Modena, Coro del Duomo di San Geminiano). A pag. 27: pannello laterale del pancone dei celebranti. Sotto: pannelli superiore n. 5 dx e n. 5 sin. , e di un pannello inferiore del coro (Modena, Duomo di San Geminiano).

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re, cui essa procura spazio e rilievo. Una trama architetturale, tanto scandita nella sobria ma inequivoca coesione delle parti, ha il pregio di concentrare l’attenzione sulle decorazioni a intarsio: le «res novae» dei maestri lignari. A Modena, come si è accennato, sono distribuite su tre livelli, con un palese crescendo espressivo. Gli stalli dell’ordine inferiore sono ornati, per lo più, da delle composizioni floreali stilizzate, molto simili tra di loro, contenute in quadrati, dai lati fittamente dentellati, che non utilizzano l’intera specchiatura disponibile. Questa poi viene incorniciata da decorazioni «a toppo» sempre variate: ora collane di poliedri, ora anelli sfaccettati, otto rovesciati, rettangoli in serie, motivi spiralati o a «rocchetto» (presenti tutti – con ricca varietà di lavorazione – anche negli altri ordini, e sempre con funzione di cornice). Solo negli ultimi due sedili verso il centro, a destra e a sinistra, corrispondenti ai capifila, si interrompe la ricercata uniformità quadrangolare: in un quadrato è inscritto un mazzocchio, con all’interno un sole con il nome abbreviato di Gesù (IHC). L’inesauribile varietà delle combinazioni geometriche esplode negli intarsi intermedi. Qui predomina la forma circolare: raggere, ruote, rosoni, che invadono tutto lo specchio. All’interno dei cerchi: composizioni floreali o figure geometriche, mai uguali. Negli angoli dei pannelli, a mo’ di fermagli, ora appaiono ramoscelli con fiori e foglie, ora altre composizioni floreali in triangoli. Anche qui, nei riquadri inferiori dei sedili capifila, viene spezzata l’insistente rappresentazione circolare: un rombo, potentemente evidenziato da una duplice cornice, inquadra un’anfora da cui spuntano tre delicati fiori. Fiori intarsiati si ritrovano anche nelle ribalte degli scanni e, in eleganti vasi, con tarsie a silio, sempre diverse nella configurazione, nelle fiancate dell’ordine inferiore, verso il centro. Sulla esuberanza fantasiosa di questi due gruppi di tarsie, pure incanalata nella logica dello schematismo e dell’iterazione comunque mai uguale a se stessa, si erge la silente e rarefatta atmosfera dei pannelli superiori. Tra ante socchiuse appaiono «nature morte», libri, calici, clessidre, bossoli con ceri, vassoi con della frutta, strumenti musicali (un liuto e un organo), cassette, una scacchiera: tutto nello spazio «perfettamente misurato dalla prospettiva appena ribassata» (Arcangeli, 1942, p. 15) acquista pregnanza volumetrica e profondità sullo sfondo. «Gli sportelli aperti accentuano il trompe-l’oeil... e invadendo quasi lo spazio dello spettatore, costituiscono una mediazione tra di esso e l’oggetto o il paesaggio rappresentati, ridotti in tal modo a secondo piano» (Ciati, 1980, p. 202). Francesco Arcangeli ha denunciato un qualche scarto fra la mirabile solennità della costruzione prospettica e l’intenzione di

LA MANO MAGISTRALE DEI DUE FRATELLI LENDINARESI ALLORA SUI TRENTACINQUE ANNI D’ETA SI IMPONE SPLENDIDAMENTE AI RIASSETTI, ALLA VOLTURA, ALLE MUTILAZIONI PATITE DAL CORO MODENESE

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fare apparire per improvvisa illusione le cose prescelte (Arcangeli, 1942, p. 15). Ma la fine osservazione deve essere adeguata agli intendimenti primari della rappresentazione corale. Bruna Ciati ha notato che le tarsie sono state costruite «secondo un orizzonte comune, e che tale orizzonte tiene presente la posizione dei fruitori» (1980, p. 208). Non esiste però un punto di vista unico per tutte le tarsie del coro. L’orizzonte comune comprova la volontà di creare un «percorso di visione»; mentre la varietà degli scorci degli sportelli, costruiti tra l’altro secondo punti di fuga che non coincidono con quelli degli oggetti interni, cattura l’occhio con prospettive e affondi sempre diversi. L’itinerario visivo pur essendo unitario viene segmentato ad ogni ulteriore accostamento. Per illudere immediatamente il riguardante, per accentuare l’efficacia del «trompe-l’oeil», secondo la Ciati, le tarsie canoziane presentano in modo essenziale gli oggetti, spogli di ogni dettaglio superfluo. Essi sorgono così alla vista in maniera priva di ambiguità: l’inflessibilità della regola prospettica si accompagna ad una netta distinzione cromatica tra figura e sfondo; inoltre una illuminazione laterale precisa e contrastata modella il volume e la forma (diversamente da una luce diffusa e uniforme che li appiattirebbe). L’atmosfera che aleggia fra le due ante, più o meno spalancate, è gravida di un senso di sospensione, di aspettativa: «gli oggetti sono come riposti sui piani di un’ombrosa dispensa, in attesa che la mano dell’uomo, ora che le impannate sono state aperte, sposti un libro, una ciotola, o sottragga una delle bellissime pesche raccolte nella gran coppa di casa, modificando un ordine che non si riesce a credere casuale, e ricreando al tempo stesso un altro castello prospettico secondo un gioco compositivo aperto all’infinito» (Romano, 1969, p. 14). Se le tarsie superiori di Modena presentano un repertorio monografico che diverrà tipico nei complessi corali costruiti in Italia fino al tramonto della tarsia prospettica (verso il 1540), tra di loro non c’è concatenamento tematico apprezzabile. Gli strumenti dei marangoni (come la pialla della quarta tarsia superiore di sinistra del dossale del presbiterio) si alternano agli oggetti liturgici, a quelli di indole domestica come i vasi e le fruttiere, alla mandòla e al cembalo, alla clessidra, al calamaio, ai numerosi libri ora spalancati, ora chiusi, ora obliqui, ora drizzati. C’è anche un pappagallo in bilico sul bordo di una scatola, ad evocare secondo un vulgato simbolismo, l’anelito dell’anima, scintilla divina, nella fragile precarietà del corpo. Due soltanto le vedute urbane, le finestre illusorie aperte verso scorci di una città reale nella sua idealità: un battistero, tra due quinte di edifici, e tra mura merlate, una torre con bandiera che garrisce e una figura umana affacciata alla finestra. Ci si è chiesti – per il coro di Modena, ma in generale anche per gli altri – se esiste un «progetto catalogico» (Lucco, 1984, p. 140) delle tarsie, che possa individuare una lettura complessiva. Per alcuni studiosi ciò è assai dubbio, perché una interpretazione in riferimento alla destinazione religiosa del coro è in qualche caso problematica. Come sarebbe possibile – si è domandato Del Bravo – in un luogo sacro, se non per for-


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te astrazione dei contenuti, la presenza di una scacchiera, quando S. Bernardino aveva tuonato che sono «maledetti i dadi e i tavolieri e i naibi, non per loro, ma perché t’inducono a far male ed alla bestemmia di Dio» (1977, p. 780)? Si è notato anche – con fondatezza – che parecchi degli oggetti rappresentati un intarsiatore li poteva avere facilmente a portata di mano, piazzarli ad un metro dal «velo» e poi «scortarli» disegnandone ogni singolarità di determinazione volumetrica e di relazioni spaziali (Quintavalle, 1960, p. 353). Pensando poi che la gamma degli oggetti inseriti nei cori da parte dei maestri intarsiatori (dunque anche dai Canozi) si mantenne abbastanza ristretta e ripetitiva, si può ritenere – come ha fatto Bruna Ciati – che l’interesse principale fosse talora, più che la sottolineatura di un singolo simbolismo, il modo nuovo di vedere gli oggetti e di costruirne un’efficace rappresentazione illusionistica (1980, p. 210). Di parere più sfumato sono stati Mauro Lucco e Massimo Ferretti, per i quali il coro conventuale, secondo il costume simbolico-anagogico tipico del Quattrocento, è una sorta di equivalente dello «studiolo umanistico» (Ferretti, 1982, p. 576; Lucco, 1984, p. 140). In questa direzione, anche se non è oggi possibile ravvisare in

dettaglio il programma iconografico, dato lo stato di alterazione e di incompletezza di molti complessi, si può intuire la ragione per cui si alternano oggetti consueti e familiari della vita, dello studio, della pratica religiosa, ad altri privi di connessione liturgica. Secondo Ferretti «la presenza degli oggetti consueti, riproposti entro la struttura proporzionale della prospettiva, fuori dalle incerte misure del racconto, risponde all’oggettiva destinazione dei luoghi della riflessione, del silenzio. La figura decorativa è allora l’immagine che riflette soltanto se stessa; in maniera immediata ed assoluta, nell’evidenza intellettuale dei rapporti matematici» (Ferrretti, l.c). Per tutte le tessere del percorso visivo, comunque, il «puro formalismo prospettico si identifica con una simbolicità totalizzante» (Ferretti, 1982, p. 577). Rivestite delle indefettibili regole dell’estetica matematica e proporzionale, le tarsie si richiamano reciprocamente alla percezione del riguardante con la forza della consuetudine e di una rinnovata allusività. L’attenzione che le tarsie riservano a paesaggi, o alle composizioni di oggetti, visti in un modo indipendente, slegati da un contesto narrativo più generale, è poi un fatto nuovo nella cultura artistica occidentale. Sterling ha sostenuto, con conPannello dello stallo superiore n. 6 dx (sotto) e n. 8 dx (nelle pagine 30-31) (Modena, Coro del Duomo di San Geminiano).

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vincenti argomentazioni, che le origini della natura morta come genere autonomo vanno viste nelle tarsie (Sterling, 1952, p. 30-35). La poesia raccolta e suadente delle nature morte di Modena, forse per la sua relazione col contesto absidale rappresentato dall’«altare delle statuine», era tutta concentrata sugli oggetti, assai poco sulle inquadrature cittadine, per nulla sui personaggi sacri, secondo un catalogo che andrà comunque completato con quello contemporaneo del coro patavino. Forse però, proprio per questa sua marcatissima predilezione di una galleria tutta cose, concisa e illusiva come poche, rappresentava un evento assolutamente originale, un’irruzione importante nel panorama dell’arte italiana del Quattrocento. Le tarsie modenesi palesavano una tipologia artistica dai caratteri ben distinti dall’intarsio fiorentino dei Da Maiano, di Francione, di Baccio Pontelli, che pure tra gli anni ’60 - ’70 maturarono il loro periodo d’oro. Si è ribadito più volte che uno degli elementi essenziali delle tarsie dei Canozi è il rigore prospettico che le sottende. Un rigore che le rese esemplari e rinomate nell’Alta Italia, e che testimonia a sufficienza quanto i due fratelli fossero versati nell’applicazione della «perspectiva artificialis». È risaputo che la fioritura degli intarsiatori andò di pari passo con la progressiva messa a punto della teoria della prospettiva, esemplata da Brunelleschi, da Leon Battista Alberti, da Piero della Francesca, per citare i maggiori, e diffusasi rapidamente nel secondo quarto del secolo decimo quinto fra i maestri del disegno (pittori, scultori, architetti, ma anche operatori delle arti «minori»). La nuova «visione», con l’ordinata e coerente definizione dello spazio, trovò nella tarsia lignea uno dei banchi di prova più appariscenti e di più alto virtuosismo. Furono fenomeni contemporanei, legati fra di loro, anzi indispensabili l’uno all’altro, come ha sostenuto efficacemente André Chastel: «la fonction unifiante de la perspective exprime bien une pensée mathematique cohérente, mais le procédé d’analyse et de la construction qui eri résulte est la technique de la marqueterie» (1953, p. 145). Il reticolato prospettico ottenuto dalla intersegazione della piramide visiva col piano ortogonale produceva una superficie scomposta in tante piccole parti ben deliminate, simili alle lamine di legno usate dagli intarsiatori per il commesso. Il Vasari stesso testimoniava che l’intarsio «ebbe origine primieramente nelle prospettive, perché quelle avevano termine di canti vivi, che commettendo insieme i pezzi facevano il profilo» (1906, t. I, p. 202). E proprio «magistri prospective» erano chiamati di consueto gli intarsiatori nei contratti coi committenti. Il coro modenese, agli albori degli anni ’60, provava quanto sollecita e approfondita dovette essere stata l’adesione dei Canozi alla novella scienza della prospettiva, se essi furono in grado di por mano con tanta perizia ad un lavoro

DIETRO ALLE TARSIE CANOZIANE SI STAGLIA INCONFONDIBILE LA “GENIALE LUCIDEZZA” DI PIERO DELLA FRANCESCA

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così complesso, articolato, persuasivo e d’avanguardia come quello per S. Geminiano. Ma c’e un’altra componente fondamentale che, con la lucida proporzionalità prospettica, diede vita alla suggestiva evidenza delle tarsie rinascimentali: la peculiarità naturale e cromatica del legno. «Ciascun legno – ha sottolineato Alfredo Puerari – corrisponde a effetti di colore e di luce, di densità e trasparenza del pigmento, qualificati dai profili dell’intaglio, che troncando o assecondando l’andamento degli anelli stagionali e delle fibrosità danno stacco e tensione al geometrico nitore del commesso» (Puerari, 1967, p. 6). Il contrasto luministico tra il fondo chiaro o nero e le composizioni, e la variegata gradazione tonale dell’insieme, diedero così alle tarsie una lucentezza e una concretezza che dilatavano in pratica l’apparenza illusionistica dell’intelaiatura prospettica. Ha osservato Giovanni Romano a proposito delle nature morte modenesi: «la loro calda luminosità graduata dall’avana al tabacco al nero vellutato dei fondi, l’evidenza mai smentita della materia, per una superiore coscienza artigianale, hanno pochi confronti nella pittura cosiddetta maggiore, e bisogna attendere Baschenis per incontrare un corrispettivo pittorico che possa reggere degnamente al paragone» (Romano, 1969, p. 14). Sovente il legno raffigura se stesso in una sorta di autocitazione: ecco dunque le ante degli armadi, addirittura le stesse chiuse (quasi in un picco di autocoscienza), gli arnesi degli intarsiatori, gli strumenti musicali, le cassette, che provvedono ad aumentare, con il riferimento tautologico, la parvenza di realtà delle cose rappresentate. Dove poi fantasia e l’ingegnosità degli intarsiatori dovevano cimentarsi maggiormente era nella consonanza da instaurare tra le strutture vegetali e i particolari figurativi. O quello delle pagine del libro nello stesso pannello: di pino nostrano, tagliato a sezione tangenziale, con lamine molto sottili. Secondo Leon Battista Alberti «la bellezza (pulchritudo) è accordo e armonia delle parti in relazione a un tutto al quale sono legate secondo un determinato numero, delimitazione e collocazione così come esige la concinnitas, cioè la legge fondamentale e più esatta della natura». Parafrasando questa stimolante definizione si può dire a proposito della tarsie modenesi che la loro «concinnitas» era proclamata da tre elementi chiave: l’ordine geometrico e prospettico, la naturale concordanza degli incastri, la felice coerenza degli accostamenti luminosi delle essenze lignee. Armonizzati insieme, essi davano vita alla diafana «pulchritudo» del commesso ligneo, che si faceva banditore delle nuove idee figurative del Rinascimento ricreandole nei non facili vincoli dei propri mezzi formali. Per il coro canoziano di Modena non viene di norma sollevato il problema – troppo spesso sovrastante e soffocante – di un’altrui paternità dei cartoni. Problema che, come si vedrà in seguito, fu posto solo per alcuni lavori degli anni ’70, cioè gli Evangelisti di Modena e l’armadio delle reliquie del Santo di Padova. Ma per i più, dietro alle tarsie canoziane di Modena (e a quelle successive), si staglia inconfondibile la «geniale lucidezza» (Longhi, 1927) di Piero della Francesca,


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cui Lorenzo Canozi fu – si ricordi fra Luca Pacioli – «caro quanto fratello». «I teoremi pierfrancescani – come ha sottolineato Giovanni Romano – acquistano nelle tarsie dei lendinaresi una sodezza e un’evidenza sorprendenti» (Romano, 1969, p. 14). Bruna Ciati, dal canto suo, ha assicurato come provata la possibilità di riscontro fra gli intarsi canoziani e alcuni di questi teoremi: «e non tanto con gli ultimi, come è stato a volte proposto sulla base dell’affermazione di Piero stesso che riserva quei teoremi alla raffigurazione specifica di nature morte, bensì con altri disegni, quelli che illustrano i teoremi basilari per la costruzione di tutte le figure» (Ciati, 1980, p. 204; si veda anche Daly Davis, 1977, p. 44-63). Ricordando che

Piero, quando venne costruito il coro modenese, non era ancora giunto ad una codificazione sistematica delle sue ricerche prospettiche, la studiosa sarebbe tentata di affermare «che le tarsie rappresentano la realizzazione concreta ed anticipata nel tempo di teoremi che solo più tardi furono formulati teoricamente» (1980, p. 208). È in generale l’arcaismo immoto, «di arcana e misurata certezza» (Bottari) di Piero la matrice genetica più propinqua al commesso canoziano. Del maestro di Borgo sono infatti la «forma» e il «colore» che tralucono nella trama delle essenze lignee; suoi, indiscutibilmente, i concepimenti d’arte che riecheggiano con limpidezza nelle visioni statiche e determinate dei due fratelli da Lendinara.

Veduta generale del coro (Modena, Duomo di San Geminiano).

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D U E TA R S I E V E N E Z I A N E DEL CINQUECENTO: LA SPERANZA DIVINA, SAN TEODORO L I N O M O R E T T I studioso

Al tempo della Veneta Repubblica il presbiterio della Basilica di San Marco era un geloso santuario dello Stato, quasi tempio nel tempio. La splendida chiesa, fulgente d’oro, era allora la cappella ducale, non la cattedrale del patriarcato di Venezia, che era San Pietro di Castello. La basilica era «nullius dioecesis», cioè non era soggetta ad alcuna autorità episcopale o patriarcale: di essa «solus dominus, patronus et gubernator» (solo signore, patrono e governatore) era il doge. Era lui che nominava il clero addetto alla sua officiatura, al quale egli preponeva un primicerio di famiglia patrizia, senza esame né approvazione dei candidati da parte del patriarca. Quando dava l’investitura al primicerio (che godeva del privilegio della mitria, dell’anello e del pastorale, insegne proprie dei vescovi), egli riaffermava solennemente la propria autorità con le parole «Nos patronus et verus gubernator ecclesiae sancti Marci Venetiarum, ducatus nostri cappellae, eligimus et instituimus vos primicerium ecclesiae nostrae praedictae»1 (Noi, patrono e vero governatore della chiesa di San Marco, cappella del nostro ducato, eleggiamo e istituiamo voi primicerio della nostra chiesa). Santuario privilegiato nella chiesa, che l’iconostasi e i tendaggi pendenti tra i suoi intercolunni isolavano dalla navata rispetto alla quale era sopraelevato di cinque gradini, il presbiterio conteneva due altari e due cori. I cori erano due perché il primo, detto maggiore, che cominciava subito oltre il portale dell’iconostasi, era sì dei canonici e dei sottocanonici che qui sedevano per le sacre funzioni, ma quando si celebravano le frequenti liturgie solenni alle quali era di rito la presenza del doge con la sua corte, veniva occupato dal capo dello stato, dagli ambasciatori accreditati presso la repubblica, da numerosi dignitari, magistrati e alti funzionari e dai familiari e dalla corte del doge. In tali occasioni i canonici avevano a disposizione un secondo coro, più vicino all’abside2. Poco dopo il 1530 il governo e per esso i Procuratori di S. Marco de Supra (che avevano l’incombenza di provvedere

Si ringrazia per la gentile autorizzazione a riprodurre il testo FRANCESCA ANTONACCI di Roma.

alle necessità della chiesa) vollero dare più nobile e ricco aspetto alla Piazza di San Marco con la sistemazione della Loggetta sotto il campanile, e al presbiterio che della cappella ducale era il luogo di più alto prestigio, perché le liturgie che vi si celebravano erano anche riti di rilevanza politica e civica, dei quali la spettacolarità fastosa era intrinseca ad autentica devozione: insieme dovevano assicurare la protezione divina per intercessione dell’evangelista, patrono dello Stato, delle cui spoglie la Repubblica si era fatta custode nella cripta sottostante il presbiterio. Jacopo Sansovino, il grande architetto e scultore (Firenze 1486 - Venezia 1570) ebbe vari incarichi dai Procuratori a partire dal 1529. Uno di questi fu di rendere più sontuoso il presbiterio, per il quale fece le tribune per i musici con sei rilievi istoriati di bronzo, le statue degli evangelisti davanti all’altar maggiore, la porta della sagrestia, la portella del tabernacolo, i modelli degli stalli, il disegno di quattro arazzi. Fu rifatto allora il trono del doge che si trovava subito alla destra di chi entrava dal portale dell’iconostasi, quasi in faccia all’altar maggiore, «fabricato di legno di noce con lavori, colonne, intersiamenti et intagli messi ad oro, molto vaghi et belli», come scrive lo Stringa3. Nello schienale era intarsiata l’immagine della Giustizia con la spada nella destra e la bilancia nella sinistra: presenza rituale nelle pertinenze ducali. Infatti la Giustizia, sentita anche come Venezia, era dichiarata la virtù fondamentale del doge, capo visibile dello Stato, e perciò la prima in tale sede delle canoniche sette virtù: le tre teologali (Fede, Speranza e Carità) e le quattro cardinali (Giustizia, Fortezza, Temperanza, Prudenza), virtù «amate sopra modo dalla Repubblica, come vere conservatrici dello Stato, dominio, e grandezza sua»4. Le virtù furono rappresentate nel presbiterio in tarsie con evidente intendimento etico e morale: la Giustizia, come abbiamo detto, sul dossale del trono dogale, le altre sopra i seggi riservati ai personaggi importanti che di prammatica dovevano assistere alle cerimonie alle quali il doge partecipava: a destra del

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trono sedevano il nunzio apostolico, gli ambasciatori e i sei consiglieri ducali; a sinistra, i Procuratori di S. Marco, i figli e i fratelli del doge e i cavalieri. Dalla parte dov’era il trono i pannelli erano intarsiati con le immagini della Fortezza, della Fede e della Carità e, oltre l’angolo, verso l’altare, un’altra tarsia rappresentava San Marco; dalla parte opposta, le tre tarsie raffiguravano la Prudenza, la Temperanza, la Speranza; cui seguiva, voltato l’angolo, un’altra, con San Teodoro, che era stato il patrono di Venezia prima che vi fossero portati i resti dell’Evangelista. In altre tarsie era rappresentato San Marco in forma di leone.

JACOPO SANSOVINO SOVRINTESE A TUTTO CIÒ CHE FU FATTO A PARTIRE DAL 1529 NEL E PER IL PRESBITERIO DI SAN MARCO: SUOI SONO QUINDI I CARTONI DELLE TARSIE O DISEGNATI SOTTO LA SUA DIREZIONE

La Speranza Divina.

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Alla caduta della Repubblica, nel 1797, il trono del doge fu rimosso e smantellato: il canonico Agostino Corrier (cognome da non confondere con quello dei patrizi Correr) mise in salvo il dossale con la Giustizia, che poi pervenne al collezionista Domenico Zoppetti, il quale nel 1852 ne fece dono al Museo Correr, dove tuttora si trova. Questo dossale, che misura 118x63 cm, è alquanto sciupato. A causa della loro posizione, sebbene durante le grandi feste venissero ricoperte con tappeti e arazzi, le tarsie erano soggette ad usura e più d’una volta si resero necessari interventi di restauro. Se ne ricorda uno nel 1628 fatto da Baldi Todesco, «maestro di remessi et intarsiature»5; altro, ingente, fu operato nel 1848 da Antonio Camuffo: uno dei comparti era distrutto ed egli vi rifece completamente la figura di San Marco, al di sopra della quale inserì le sigle che vi si trovavano6. Le altre otto tarsie, nonostante le amare vicende e alterazioni subite dal presbiterio quando lo si volle adattare a nuove e ben diverse esigenze in conseguenza del trasferimento, avvenuto nel 1807, della cattedra episcopale da San Pietro


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di Castello a San Marco, rimasero nel presbiterio, collocate sotto le tribune per i cantori. Nel corso di quegli adattamenti la serie subì manomissioni e perdite: infatti nel 1815 il Moschini riferiva che le tarsie «si eseguirono l’anno MDXXXVI, che sta notato in un pezzo che rimase ultimamente staccato in occasione di qualche riforma, a cui soggiacque gli scorsi anni questa cappella»7. Nel 1955 in una sua relazione su recenti lavori di restauro a San Marco l’ingegnere Ferdinando Forlati8 scrive che i due dossali (ciascuno dei quali comprendeva tre Virtù) vennero temporaneamente rimossi. Prima della rimozione furono eseguite delle fotografie d’insieme, che sono state pubblicate da Bruce Boucher9. Poi le tarsie dovettero essere ricollocate se nel 1962 il padre Caccin le descrive sotto i coretti nella sua guida della chiesa10. Più tardi se ne perdono le tracce. Quelle con le figure della Fede e della Fortezza, per qualche tempo esposte nell’exchiesa di San Basso sono ora custodite nel Museo Diocesano. Le altre sei sono andate all’asta a coppie a

Firenze tra il 31 maggio e il 2 giugno 1969 unite all’arredamento Talleyrand-Perigord Ruspoli nella Villa L’Imperialino a cura della Commissionaria d’arte S. Marco domiciliata a Venezia e Firenze (lotti 656, 657, 658 del catalogo). Nelle schede relative se ne fa autore Sebastiano Schiavone, su cartoni di Giovanni Martini per le figure e di Giovanni da Udine per le grottesche; luogo ed epoca sono indicati come «Venezia, 1520 ca.». Evidentemente l’autore delle schede ignorava quel che si sapeva da decenni, che Sebastiano Schiavone, un frate olivetano converso ricordato come intarsiatore a San Marco al quale aveva pensato il Moschini nel 1815, è morto nel 1505. Fin qui si è cercato di lumeggiare il considerevole interesse storico di questi pannelli e di rievocarne le vicende. Ora vogliamo spendere qualche parola sull’interesse e valore artistico che non sono meno rilevanti. Le figure delle mirabili tarsie sono circondate da grottesche che attirano subito l’attenzione per il virtuosismo del disegno e in qualche luogo per le stravaganti, talora mostruose,

San Teodoro.

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associazioni di elementi zoomorfici e antropomorfici eterocliti che richiamano alla mente i “grilli”, cioè le figurine bizzarre diffuse già nell’antichità e tanto spesso presenti nella miniatura gotica. La concezione di queste tarsie, sia nelle figure sia nell’ornato, è lontana da quella tradizionale quattrocentesca a base prospettica alla quale erano ispirate quelle tuttora presenti a San Marco nella sagrestia dei canonici. Pare che la mutazione di stile che ravvisiamo nelle tarsie del presbiterio, sia maturata in area bergamasca. Qui va ricordato, anche per la singolarità più che rarità di simili monumenti superstiti a Venezia dopo le soppressioni napoleoniche di tanti conventi, che negli stessi anni, tra il 1532 e il 1534, veniva arricchito di tarsie anche il coro dei monaci camaldolesi di San Michele in Isola, ad opera di Alessandro Begno da Nembro nella Val Brembana, dove non tanto le figure, piuttosto deboli e ben lontane dall’armonioso disegno manieristico che caratterizza quelle marciane, quanto le grottesche hanno qualche brano somigliante a quelle qui presentate11. Per quel che riguarda la datazione, il millesimo 1536 letto in un frammento dal Moschini, come abbiamo ricordato sopra, collima con le indicazioni cronologiche, sia pur vaghe (non ci sono pervenuti documenti precisi ed esaurienti) che si ricavano dall’archivio dei Procuratori di San Marco. Come abbiamo detto, Jacopo Sansovino sovrintese a tutto ciò che fu fatto in quel tempo nel e per il presbiterio: si sa che fornì i disegni per gli arazzi tessuti a Firenze nel 1551 destinati a rivestire le spalliere del presbiterio e che gli stalli furono eseguiti «segondo el disegno fatto de man de miser Jahomo Sansovin». Viene naturale pensare che i cartoni delle tarsie siano stati disegnati dallo stesso Sansovino o sotto la sua direzione. Il pannello con San Teodoro si impone alla nostra ammirazione per la ricchezza e compattezza della composizione, dominata dalla massiccia figura del Santo che con la destra impugna l’asta la cui punta è conficcata nel drago e con la sinistra tiene lo scudo inclinato verso terra. È uno scudo accartocciato, di impronta araldica piuttosto che realistica, nel cuore del quale da una corona di alloro sporge una bion-

1 G. Stringa, La chiesa di S. Marco capella del Serenissimo Principe di Venetia …, Venetia 1610, c. 84r. 2 G. Stringa, Venetia città mobilissima et singolare…, Venetia 1604, c. 35r. 3 Stringa, Venetia, cit., cc. 33v-34. 4 Stringa, Venetia, cit., cc. 34. 5 Documenti per la storia dell’Augusta Ducale Basilica di San Marco in Venezia, Venezia, F. Ongania, 1886, p. 99, n. 437. Qualche notizia sulle tarsie anche in G. M. Urbani de Gheltof, Tarsie ed intagli in legno, in La Basilica di San Marco in Venezia, Venezia, F. Ongania, 1888, pp.411-413. 6 G. M. Urbani de Gheltof, Les arts industriels à Venise

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da testa angelica. È questa una singolarità iconografica inventata dall’artista o dai suoi alti committenti. Perché lo scudo ricorda quello che, secondo una variante della leggenda classica più vulgata, era la testa demoniaca di Medusa che stava nello scudo di Atena, testa che Perseo aveva tagliato, la quale aveva serpenti per capelli e pietrificava chi la vedeva: qui la luminosa testa angelica appare benefica distributrice di grazia e amministratrice di giustizia. Sta il Santo su un terreno con piante, arbusti e alberi variati; nel fondo appare una città fortificata di cui si vedono torri in bel gioco prospettico, e una grande chiesa a destra col suo svelto campanile. L’altra tarsia raffigura la Speranza, anzi, per essere precisi, la «Speranza divina et certa», come si raffigurava nel Rinascimento e come la descrive Cesare Ripa: «Giovanetta (…) si dipinge questa figura con gli occhi alzati al cielo et con le mani giunte, dicendo ancora il Profeta, è beato colui che non ha fissi gli occhi alle vanità et alle false pazzie, ma con la mente et con l’intentione nobilita se stesso, desiderando et sperando cose incorruttibile, non soggette alla mutatione de tempi, né sottoposte agl’accidenti della vita mortale. Si fa anco giovanetta, perché deve essere sana et ben fondata, gagliarda et piacevole, non si potendo sperare quel che non si ama, né amar quel che non ha speranza de bene o di bello, et questa speranza non è altro, come dice S. Girolamo nella V Epistola, che una aspettatione delle cose delle quale habbiamo fede»12. Sta la salda, serena e forte figura di magnifico disegno su un impiantito a mattonelle con nel fondo, verso il muretto merlato, due piante simmetriche trattate in studiate forme secondo i dettami di quell’arte topiaria che fu tanto cara al Rinascimento. Dietro ancora si stende un armonioso paesaggio ondulato, nel quale si leva un ben munito castello a sinistra e si profilano le mura in salita verso un’altura a destra. Secondo Charles Davis (il cui giudizio ci pare sia da condividere), la qualità è veramente sbalorditiva sia nel disegno sia nella ferma esecuzione; le figure, i medaglioni senza precedenti a forma di cartuccia, e i particolari del vocabolario ornamentale, comprese le grottesche indicano proprio Jacopo Sansovino13.

au Moyen-Age et à la Renaissance, Venise 1885, pp.116-118. 7 G. A. Moschini, Guida per la città di Venezia, I, Venezia 1815, pp. 285-286. Il Moschini lesse le seguenti sigle: sopra la Prudenza P.S.S.- SS.C.; sopra il San Marco N.F.Q. - M.S.R.. L’Urbani de Gheltof (op. cit., p. 118), sopra la Giustizia, N.P. 8 Lavori a San Marco, “Arte veneta”, IX (1955), p. 242. 9 B. Boucher, Jacopo Sansovino and the Choir of St. Mark’s, “The Burlington Magazine”, vol. CXVIII (1976), p.553. 10 A. M. Caccin o.p., San Marco La Basilica d’oro,

Venezia 1962, p.89. 11 Si vedano le due riproduzioni in P. V. Meneghin o.f.m., San Michele in Isola di Venezia, I, Venezia 1962, tavv. 57-58. 12 C. Ripa, Iconologia overo Descrittione di diverse Imagini…, Roma 1603, p. 471. 13 C.Davis, Jacopo Sansovino?, “The Burlington Magazine”, vol. CXXII (1980), August, p. 584.


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I LEGNI DEL NUOVO MONDO LEGNI NELL’ARTE II

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ra fine Quattrocento e Cinquecento il Theatrum orbis terrarum si allargò imperiosamente grazie alle coraggiose vele di Colombo, Vespucci, Pigafetta, Caboto, Leon. Le più forti nazioni europee, fino ad allora limitate all’Atlantico Settentrionale, al Mediterraneo e al Baltico, per interessi nazionali e per sete di conoscenza si spinsero ad indagare l’ignoto delle grandi distese d’acqua. I Portoghesi si proiettarono verso sud-est, verso l’Asia Meridionale, e le fonti delle spezie: toccarono l’Oceano Indiano (1488), il Malabar (1498), la Malacca (1511) e le Molucche (1512). Gli Spagnoli puntarono ad ovest, superarono l’immensità del Pacifico, scoprirono le Indie Occidentali (1492), il Mar delle Antille (1498) e le immense colonie nel Nuovo Mondo. Le navi inglesi, francesi ed olandesi, estromesse dalle fortunate rotte, si concentrarono nell’emisfero boreale, alla ricerca di passaggi per mare verso l’Asia sia ad ovest, sia a nord-ovest, sia a nord-est. Non furono fortunati come Spagnoli e Portoghesi ma le loro rivelazioni spianarono la strada alla colonizzazione del Nord America orientale. A metà Seicento Inglesi e Olandesi sfidarono il monopolio iberico e stabilirono rapporti commerciali con l’Asia attraverso la rotta sud-orientale. Geografi e cosmografi avevano smesso da tempo di favoleggiare sui mitici centri del mondo (l’Arin degli Arabi, la Gerusalemme della Cattolicità) e mettendosi “de plein vent” sulla base dei racconti dei viaggiatori e l’esperienza dei marinai, fondarono la scienza cartografica: dal Mappamondo di fra Mauro, agli Atlanti cinquecenteschi del Mercatore crebbe continuamente il bisogno della precisione, della rappresentazione della sfericità della terra, come sulle navi il vitale bisogno di “fare il punto” non più solo con la “bussola in mano” o scrutando il cielo e le stelle, ma anche avvalendosi di nuovi determinanti strumenti scientifici, come il teodolite di Agges, le carte dei venti di Halley, l’orologio del tempo di

Graham, quello marino di Harrison. La rete dei nuovi traffici si congiungeva con quelli secolari dei popoli marinari locali: gli Indiani, i Persiani, gli Arabi, i Cinesi, i Giapponesi. Fu un via libera generalizzato al commercio ad ogni latitudine, per migliaia e migliaia di miglia marine, tra Asia, Africa, America, Europa: ogni mare ed ogni oceano (tranne quelli circumpolari) si aprirono agli scambi. Tanta crescente novità di traffici si tirò dietro notevoli cambiamenti sociali, politici, religiosi, economici e professionali. Le materie prime aumentarono in quantità e varietà. Tra di loro proprio le specie legnose di cui cominciarono ad arri-

PARTICOLARE DI TAVOLA CON LEGNI ESOTICI R E A L I Z Z ATA D A L L A D I T TA J A M E T D I PA R I G I

DALL’ALTO VERSO IL BASSO:

PRUGNO (AL CENTRO) AMARANTO (A SINISTRA) PALISSANDRO (A DESTRA) BOIS DE ROSE MOGANO MACULATO (IN BASSO) NELL’INSERTO LATERALE, SULLA DESTRA:

LAMELLE DI CORNO TINTO DI BLU, OSSO, AVORIO

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vare in Europa forniture costanti di legni prima rari e soprattutto di nuovi legni da utilizzare sia per le costruzioni che per l’ebanisteria. Se non uno iato, una differenza marcata cominciò a porsi a partire dagli inizi del Cinquecento fra la tavolozza di essenze lignee a disposizione degli intarsiatori rinascimentali e quella ben più fornita dei maestri del legno del Cinquecento e dei secoli posteriori. Non a caso per essi viene coniato un nuovo nome che derivava proprio da un legno “esotico”: quello di ebanisti. Al di là della maggiore varietà di legni disponibili, sarà proprio la presenza di legni fino ad allora ignoti e con determinate caratteristiche strutturali o cromatiche a suggerire agli ebanisti determinate scelte artistiche personali o addirittura nuovi stili nella decorazione dei mobili. Una sia pur sintetica rassegna delle nuove essenze lignee che vengono a disposizione degli ebanisti europei va stilata sulla base delle notizie dei trattatisti sette-ottocenteschi fra cui soprattutto J. A. Roubo (L’art de menuisier, Paris, 17681775), E. Robichon (Manuel du marqueteur, Paris, 1889) e H. Havard (Dictionnaire de l’Amebleument et de la Decoration depuis de XIII siècle jusq’à nos jours, Paris, 188790), e insieme facendo tesoro di quanto indicato dagli studiosi moderni fra cui Maria Grazia Massafra con le già ricordate e lodate ricognizioni Legni da ebanisteria: coordinate per una trattazione e Approvvigionamento e commercio dei legnami (in Legni da Ebanisteria a cura di G. Borghini-M.G. Massafra, Roma, De Luca editori d’arte, 2002, p. 19-84). Si conviene che fra i primi legni ad arrivare copiosamente dal Nuovo mondo ci fu il brasiletto, un legno dalle tonalità rosse già conosciuto in una varietà asiatica. Era in fatti già importato in piccoli quantitativi nel Medioevo dall’Oriente, specialmente dal Siam, nella varietà “Sapan” (Caesalpinia Sappan L.) e conosciuto come verzino per scopi di tintura e anche di intarsio. Wilmering (1999, p. 18-19, 209) lo ritrova nei cori dei Canozi e in quelli di Orvieto e Bergamo. Nel 1503 giunse il primo trasporto in Portogallo, del brasiletto (noto anche come brasile, o pernambuco), dopo che Cabral nel 1500 aveva scoperto quella che per lui era l’Isola di Vera Cruz, ma il cui nome fu cambiato poco dopo nel nome arabo di Brasil proprio per la presenza di grandi quantità di piante tintoriali simili a quelle che in Europa si conoscevano come verzino. Fu chiamato anche pernambuco perché la zona più ricca di questo legno era quella tra Pernambuco e Rio de Janeiro. Fu commerciato in grandi quantitativi dai Portoghesi e poi anche dagli Olandesi (si suppone una media delle importazioni da Lisbona intorno ai 5.000 quintali l’anno, con un più che probabile raddoppio della cifra a causa del contrabbando). Secondo Robichon le tinture al rosso col verzino o brasiletto avvenivano generalmente su legni bianchi ridotti in piani o sfoglie di circa 2 mm. L’ontano, il noce bianco, il frassino, il sorbo, il faggio e alcu-

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ni meli erano adatti alla tinta rosso scura del brasiIletto (ma sopportavano bene anche l’arancio, il blu e il verde). Una vera e propia esplosione dell’uso del brasiletto si ebbe nell’ebanisteria settecentesca: Roubo nel suo trattato gli dedica un’intera voce, citando sia le specie asiatiche che quelle americane con particolare riferimento alla varietà detta Pernambuco (che veniva sia dal Brasile che dalla Giamaica) sia a quella di Santa Marta (proveniente dal Messico, dal Nicaragua e dalla Costarica), nonché a quella delle Antille. Un altro legno che ebbe particolare fortuna sia come colorante che per l’intarsio fu il campuccio, o legno di Campeggio, così detto dalla baia di Campêche, nel Messico, lungo le cui coste fu scoperto dagli Spagnoli nel 1517. Successivamente si conobbe anche un’altra varietà proveniente dalle Antille (detta inglese per distinguerla da quella spagnola – migliore come qualità – proveniente appunto dal Messico). Come legno tintorio fu utilizzato soprattutto nel Cinquecento e nel Settecento per tessuti e per legni, anche in relazione ad una pratica diffusa di alterazione chimica dell’aspetto di essenze meno pregiate e costose. Con l’impiego di mordenti adatti, il principio attivo del legno di campeggio (l’ematossilina) faceva ottenere tinte nere ed azzurre. Secondo Robichon era diffusa l’abitudine di falsificare il sicomoro o l’acero, che tinti con il campeggio imitavano il mogano scuro, o il carpino, che, trattato con il legno del Brasile ed il campeggio, e successivamente con l’acido solforico diluito, imitava il colore del legno corallo. Per il controllo del commercio di questo legno insorse a partire del 1660-70 una lunga guerra commerciale fra Spagna e Inghilterra, che fu conclusa formalmente solo più di un secolo dopo. Sostanzialmente la questione fu risolta sul campo dall’avvenuta saturazione del mercato, con l’avvento anche di nuove essenze (come il mogano del Centr’America). Il commercio del campuccio non tornò più agli antichi fasti, divenendo uno dei tanti prodotti, pur di valore, dell’area caraibica. Dalla stessa zona (in particolare dalla Giamaica) fu introdotto sempre a partire dall’inizio del Cinquecento da parte degli Spagnoli il legno giallo, o fustetto, utilizzato per scopi tintorii ma anche in ebanisteria per il placcaggio o per l’intarsio vero e proprio. Dall’America Centrale arrivò molto per tempo il legno santo, o guaiaco, noto anche in medicina come lignum vitae, per l’uso a fini curativi della resina balsamica secreta dal tronco, apprezzato dagli ebanisti nelle due qualità (bianca e nera) per la resistenza al tornio e per le tarsie. Le novità dall’America riguardarono assai presto anche il legno più raffinato per eccellenza, l’ebano, che già gli antichi Egizi (cui si deve probabilmente il nome) accostavano ad avorio ed osso solo per lavori di alta qualità, imitati in questo dai Greci e dalla civiltà occidentale che lo usò parcamente fino a tutto il Quattrocento, facendolo provenire dalle


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Indie, dall’Africa, dal Madagascar. Gli ebani d’America sparigliarono il campo, imposero questa essenza molto composta, nera con venature chiare, determinando mode e stili. A partire dalla fine del Cinquecento soprattutto in Francia si cominciarono ad usare diffusamente l’ebano real di Cuba, di colore nero e durissimo, l’ebano della Giamaica, o ebano verde (denominazione corrente del granadillo delle Antille), l’ebano rosa, proveniente dalle foreste delle Guiane e dell’Amazzonia. Da solo o nell’impiallacciatura, per mobilia o tornitura comunque di alta qualità e per strumenti musicali, l’ebano trionfò soprattutto nel Seicento (si pensi al Luigi XIV e ai magistrali lavori di Boulle), venendo anche associato allo stagno e al rame, o ancora come fondo per l’intarsio a fiori. Messo in ombra durante il regno di Luigi XV, ritornò in voga negli anni 1770-80. Il nome che diede all’arte del legno tra Cinquecento e Ottocento da solo basterebbe a indicarne l’importanza, come del resto gli innumerevoli processi di imitazione per i suoi alti costi (il pero ebanizzato era ben più economico). Un legno che come l’ebano caratterizzò periodi e stili di paesi diversi fu il mogano, che venne importato assai precocemente da Cuba e dalle zone tropicali dell’America Centrale e Meridionale, ma entrò nell’uso dell’ebanisteria solo nel Settecento. Soprattutto l’Inghilterra, che possedeva vaste piantagioni in America, fece di questo legno dalle tonalità bruno-rossastre a partire dalla metà del secolo il contrassegno di lavori di alta qualità, sia usandolo massiccio che per lastronature ed impiallacciature: è la base dei fantasiosi mobili disegnati da Chippendale, di quelli neoclassici di Adam; dell’“anglomania” che si impone largamente fino ai primi decenni dell’Ottocento, dei mobili lineari di Benemann, del gusto borghese del mogano lucidato. In Francia appare solo dal 1760 con le commodes à la grecque di Oeben e il suo uso si diffonde sotto Luigi XVI. Le prime sedie in mogano sono prodotte da Garnier e Moreau nel 1778. È un legno particolarmente disponibile, duttile, raffinato cromaticamente nel gioco dei suoi disegni, così ricercati dai suoi compratori e dagli ebanisti che su quella varietà contavano: poteva essere uniforme, ma la parte più pregiata era quella venata (cioè a disegno ondulato, per le inforcature dell’albero alla sommità del tronco), oppure si presentava maculato o tigrato (per le macchie scure formate dai nodi); chenillé (per le linee biancastre ombreggiate); fiammeggiante (per le venature disposte come fasci rossi assomiglianti a fiamme); o ancora marezzato, vermiculato, screziato… Anche il palissandro rivestì un ruolo importante fra i legni esotici di nuova importazione. Lo si conobbe a partire dal Cinquecento nelle diverse provenienze africane, asiatiche, americane. Soprattutto l’ebanisteria tedesca del Seicento fece uso di questo legno bruno chiaro-bruno violaceo, con

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venature nere, per comporre nel gioco con altre essenze lignee piacevoli gradazioni cromatiche. Fu molto apprezzato anche nei Paesi Bassi, in Inghilterra, in Italia (particolarmente nelle botteghe genovesi per i caratteristici “motivi a quadrifoglio”) in Francia sotto Luigi XIV e durante la Reggenza (i mobili “regency” erano costruiti interamente in palissandro). Nel corso del Settecento venne sovente accostato ad altri legni di provenienza americana (in particolare dal Brasile) dai nomi assai vaghi, che ricordavano il profumo dei fiori che sembravano effondere una volta tagliati: il legno di rosa, alla francese bois de rose, di colore rosa giallastro, venato di rosa scuro, ambrato nell’invecchiamento, e la violetta, il bois de violette, dalle tinte viola bruno chiaro striato da venature scure molto nette. Legni che ebbero il loro momento di gloria in Francia rispettivamente con lo stile Transizione e durante la Reggenza. Per la gioia degli occhi di tutta una società e per i sogni degli artisti che li sceglievano vari altri legni arrivavano dai posti più disparati con i loro colori incredibili: l’amaranto (dal Brasile e dalla Guiana olandese) di un rosso-viola con innumerevoli venature chiare; la robinia (dal Nord America e dal Messico), di colore giallo verdastro, raggiato; il calambucco, di un bruno scuro sovraccarico; il corallo (proveniente sia dall’Asia che dall’Africa e dall’America) rosso vivo, con la varietà calda e lucente del padouk, che veniva prediletto sotto Luigi XIV per i cassetti di mobili di lusso come le “commodes Mazarine” di Boulle; il legno di Cayenna (dalle foreste dell’Amazzonia e dall’America Centrale) satinato chiaro e molto dorato, utilizzato negli anni dopo il 1730, ad esempio nei mobili di Cressent; e ancora il legno zebra, il legno di pernice, il legno serpente, tutte specie molto rare, diffuse nell’America centromeridionale; il limone (dalle Antille) di un giallo pallido venato; il bois de citron o d’Hispanille (proveniente da Santo Domingo) con il giallo pallido del limone marchiato di giallo più scuro; l’amboina (dalle isole Molucche), legno particolarmente raro, con trame irregolari, e macchioline scure, che lo fanno assomigliare al mogano; come pure al mogano si richiamano la tuia occidentale, probabilmente uno dei più bei legni impiegati in ebanisteria, la cui radica ha tinte dolci dal bruno al rosso e il legno satinato, cioè il citrino indiano e americano dalle lucenti tonalità dorate che gli davano l’effetto della seta, tanto apprezzato da Cressent e Adam. Dalle immense distese boschive del Nord America giunsero per gli ebanisti europei nel Settecento soprattutto il liquidambar o nocino d’America, e il tulipifero. La scuola del legno italiana dopo il Rinascimento risentì delle condizioni economiche ed istituzionali più anguste in cui versava il paese nei confronti dei maggiori stati unitari europei, assurti a potenze transoceaniche. L’importazione dei costosi legni esotici cominciò con una certa intensità


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solo a partire dal Seicento per essere poi incrementata nei due secoli successivi. Nel frattempo il ventaglio delle essenze usate tradizionalmente fu allargato con l’uso di legni indigeni fino ad allora non sfruttati in maniera apprezzabile dalle botteghe italane: come l’agrifoglio, la betulla, il cirmolo, il corniolo, il crespino, l’erica, il limone, il platano. Si perfezionò peraltro la tecnica tintoria dei legni per ottenere a buon mercato degli effetti speciali con essenze comuni piegate a simulare legni di gran pregio. Ma il richiamo dell’arte non poteva prescindere dalle splendide opportunità coloristiche e iconografiche consentite dai legni esotici. Così nella più attrezzata e famosa officina di ebanisti italiani, quella del cigno di Parabiago (che pure non disdegnava il procedimento della tintura), sappiamo dalla testimonianza del biografo Mezzanzanica che furono adoperate ben 86 essenze lignee. Insieme a quelle da sempre nel cuore dei nostri intagliatori e intarsiatori, facevano capolino legni locali fino ad allora poco valorizzati, come l’edera, la radica di ginestra, la radica di giunco; e insieme i legni che il Nuovo Mondo aveva rivelato, come il brasiletto ricordato nella nomenclatura maggioliana come “Brasile Pernambuco”; come il guiaco (il “legno santo”), l’ebano (addirittura di cinque specie: l’“ebano bastardo”, l’“ebano nero”, l’“ebano rosato”, l’“ebano verdastro”, l’“ebano violato”), il mogano (il “mogano rosso”), il palissandro (“Sebastian la rosa”, traduzione italiana di una denominazione brasiliana del palissandro), come la robinia, come il bois de rose e il bois de violette, come tante altre essenze il cui nome resta criptico. A questa misura di forzata ingegnosità, di mediazione insomma fra la creatività e la ponderazione tra le materie prime non tutte sostenibili dalle tasche dei clienti, si tenne fedele sostanzialmente tutta la migliore ebanisteria italiana, come è riscontrabile dall’analisi degli arredi d’epoca. Citiamo – sulla scorta delle osservazioni della Massafra – come caso emblematico quello dei fratelli Luigi e Angiolo Falcini di Firenze, che per i loro pregiati intarsi spaziavano entro una tavolozza dichiaratamente mista. Usavano i legni italiani come l’acero, il bosso, il giuggiolo e l’olivo, ma anche essenze esotiche. Per i fondi scuri amavano: l’ebano nero, il noce d’India, il mogano di Cuba e quello di Giamaica; per il rosso l’ebano rosa, il corallino delle Antille, l’aloe indiano, il rosaceo della Guajana, quello di Rodi e di Cipro, il rosso compatto delle sponde delle Amazzoni, il violaceo dei monti del Gayas e del Brasile. Per il giallo: lo scotano, il sommacco di Sicilia, il priego di Spagna e d’America, il sandalo citrino, il sondro maremmano e il bossolo; per i verdi il calambaco del Messico, in tre diverse tonalità. Ma il ricorso alla tintura non era una extrema ratio per i due ebanisti fiorentini, come testimonia uno studioso di tarsia lignea ottocentesca, G. Del Noce, che svela i segreti di alcune loro “coloriture” artificiali: «a questa mancanza [dei colori], supplirono i rammentati

artefici con il ricorrere ai mezzi chimici dell’arte tintoria colle infusioni, in quanto al giallo di curcuma sul faggio, sul tiglio, sul pioppo e sull’acero comune; mentre per ottenere l’arancione carico e quello lucido, aggiunsero all’infusione della curcuma il protocloruro di stagno e la gommagutta sul tiglio e lo zaferano sul pero. Quindi per risolvere la serie dei verdi, trovarono il mezzo della ebollizione del Barberis Vulgaris dei Pirenei con l’agrifoglio, infondendovi l’indaco in differenti dosi, a misura che vuolsi il verde più cupo, nell’atto che per conseguire la gradazione dei celesti, applicarono l’indaco solo a varii gradi disciolto sopra le masse più gentili dell’agrifoglio o sulla parte fibrosa di esso, che più presenta una grana simile alla pelle del camoscio. Finalmente per i paonazzi esperimentarono utile l’indaco nella soluzione di cocciniglia coll’albume, sopra l’agrifoglio medesimo» (in Del risorgimento e dei rapidi progressi della lignotarsìa in Firenze, “Atti dell’Accademia Toscana di Arti e Manifattura”, 1863, p.18). Insomma per i voli più arditi dell’ebanisteria italiana faceva necessità d’avere con l’ésprit de finesse dei legni anche un po’ di genio dell’alchimia. Gli ebanisti restavano artisti sopraffini, ma anche un po’ stregoni. Come misteriose peraltro erano sempre state alcune delle più alte magie degli intarsiatori del Rinascimento e delle più ispirate botteghe di legnaioli loro successori.

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TRAVI D’EPOCA NEL MUSEO DEL LEGNO DI MONTEBELLUNA I L L E G N O N E L L’ A R T E

«Only connect»: null’altro che connettere. Le vicende di Casa Howard girano attorno a questo motto, che Forster inserì subito dopo il titolo del suo splendido romanzo. La Grande Casa di Campagna inglese, che è lo sfondo delizioso ma anche il pretesto diretto della contesa tra generazioni e mondi distanti, sarebbe riuscita a “connettere” gli animi? A far comunicare, a fondere le due culture in contrasto, distanti e armate l’una contro l’altra? Il problema di sempre è proprio questo: di collegare ciò che è distante nel tempo, nella cultura, nella storia, nell’arte, insomma nella vita. Il prezzo, o il premio, è quello della scoperta delle radici comuni, degli infiniti fili di contiguità, del sapore fresco di una scomposizione delle cose e della realtà secondo i propri principi originari di pensiero e materialità. Proviamo, ad esempio, a vedere in trasparenza lo scheletro dell’architettura di un edificio, a sbirciare in filigrana un grande manufatto. Quanto non contano come sue cellule costitutive, come elemento di equilibrio statico, di forza rattenuta eppur efficace, quasi moduli generativi, le travature, dalle più maestose (le maestre appunto) al reticolo delle più piccole che hanno pure nomi speciali e funzioni proprie (ad esempio: le travi appoggiate, o dormienti; i travetti a cravatta, e i travicelli correntizi)? Il “cielo” di una stanza, il soffitto, si regge su travi, sia che esse siano in legno, in ferro (putrelle), in pietra (architrave), o in cemento armato. Il pavimento poggia sull’orditura delle travi di un solaio. La trave è elemento orizzontale portante, struttura chiave già del trilite: quello che in misura archetipa è esibito nei dolmen megalitici: due blocchi di pietra infissi nel suolo a sostegno della lastra orizzontale. Quello stesso basico rapporto che trionfa nell’architrave classico così colmo di arcaica bellezza nella matematica costruttiva del tempio di Hera a Paestum (metà del VI secolo a. C.). Ma dalle tre-pietre delle tombe di Stonehenge (presso Salisbury) e dalle architravi dei santuari delle divinità greche si dipana una consapevolezza di legge costruttiva che fiorisce con fiduciosa costanza, accanto e in-

sieme al sistema “ad arco”. La trave scarica lo sforzo sugli elementi verticali di sostegno, i piedritti o mensole, li spinge lateralmente, tutt’al più si flette, e pur resiste. Di questa forza statica delle travi ebbero sempre bisogno gli architetti pratici e teorici per ponti, case, palazzi, chiese, anfiteatri: se ne veda uno spicchio di discussione e di esemplificazione in un’età d’oro della “meccanica tecnica e tecnologica” finalizzata alla produzione di “fabbriche e macchine” come il Cinquecento dei Serlio, dei Corsaro, di Palladio, Scamozzi, Zonca e Veranzio. L’esaltazione dell’uso della trave a fini costruttivi la si ha dalla fonda antichità in un ambito più concreto e popolare: ecco il fachwerk (alla tedesca: “costruzione a scomparti”; all’inglese: timber-flaming) per cui si tiravano su edifici grandi e piccoli su un’ossatura di travi lignee a graticcio con pannelli di riempimento in cotto, o con un impasto di paglia e argilla (più raramente in pietrame legato con malta) talvolta sovrapponendovi l’intonaco. Una tecnica che sgorga dalla notte dei tempi e che ebbe la sua massima diffusione in Germania specialmente tra Quattrocento e Seicento. I più antichi esempi rimasti sono il Kürschnerhaus di Nördlingen (1415 circa) e l’antico Rathaus (municipio) di Eßlingen (1430). Ma molte città della Franconia (Fritzlar, Alsfeld, HannoverschMünden), dell’Assia (Hildesheim, Goslar, Halberstadt, Braunschweig, Wolfenbüttel, Celle sullo Harz, Rothenburg, Dinkelsbühl, Miltenberg), della Svevia (Marktgröningen, Eßlingen, Geislingen, Marbach) furono interamente edificate in fachwerk, usato ampiamente anche in Inghilterra (a Chester, Statford-on-Avon, York), in Francia (particolarmente in Normandia) e anche in Italia, come testimoniano degli esempi, del VII-VIII secolo, durante la dominazione longobarda nell’Italia settentrionale. L’esibizione più potente dell’energia imprigionata dalle travi in orditura, quasi di una religiosa compostezza, è da secoli quella difficilmente deformabile della capriata, che crea e sostiene il tetto con la sua incavallatura da capra, costruita dal

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reticolo delle posizioni studiate dei puntoni obliqui, della trave orizzontale sottostante (la catena) che poggia sulla muratura dell’edificio col tramite di un cuscinetto di pietra per la ripartizione della pressione, del monaco o ometto (al centro del triangolo), delle reciproche legature con staffe, puntoni, contraffissi, saette, grappe. Lo spettacolo delle monumentali travi delle capriate di costruzioni storiche si è spesso salvato. Mentre soprattutto nelle dimore di montagna, nell’edilizia civile minore costituita dalle case dei valligiani, dalle baite, dai masi, dalle stube, dalle cjase (le case, ma nel senso di cucina, cuore dell’abitazione), dai locali di servizio, come nell’alto bellunese le casere, le vare, tutte intonate all’ambiente alpino da cui proviene il legno con cui gli arredi – tutti gli arredi – sono fatti, è consolidata abitudine (anzi si può dire che è in punta di tradizione) esibire a vista le travi che portano le coperture e sorreggono

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le scale interne o esterne, i ballatoi e i poggioli che molto spesso poggiano su travi che sporgono da dentro l’edificio bucando la parete. Queste molteplici sensazioni, saporose di passato e di fresca umanità – di consuetudini e di frequentazioni delle comunità, di storie domestiche, di sempre presente destrezza artigiana – prendono subito chi accosta nel costituendo Museo del legno della famiglia Scandiuzzi di Montebelluna le centinaia di travi secolari, raccolte in quarant’anni in case e castelli d’Europa, soprattutto in Tirolo e nell’alta Italia. Travi che fanno capolino dalle cataste in cui sono ordinatamente composte, accanto agli altri pezzi forti della raccolta: il centinaio di soffitti gotici (il più antico risale al IX secolo), le 300 tra stube e boiseries d’epoca, le specchiature di 800 porte comprese tra il X e il XIX secolo, e almeno 300 coppie di ante di armadio. Il legno quasi per tutte è l’abete, ma non mancano quelle di rovere. Le dimensioni per le travi che sono state portanti partono dai 5/6 metri di lunghezza fino alle misure eccezionali di 13/14 metri, con una sezione media di 35x40 cm, che si spinge fino ad un massimo di 40x60. Hanno quasi tutte il corredo dei travetti trasversali, talvolta grandi come le portanti dei complessi minori. Ci sono anche le travi rompitratta, che sorreggevano il tavolato di abete del soffitto. Né mancano di far la loro bella figura degli ornatissimi barbacani di rovere, cioè dei mensoloni d’appoggio particolarmente esuberanti nell’ornamentazione. In alcune delle travi si nota la bisellatura, cioè la smussatura dello spigolo vivo ottenuta con un taglio inclinato, una lavorazione tipica dei solai lignei storici, con funzione estetica e di prevenzione nei confronti degli agenti xilofagi, in quanto l’alburno era più attaccabile rispetto al durame centrale. Molte portano data e griffe della bottega che le lavorò. Sono scolpite in alto o bassorilievo, con motivi decorativi di varie tradizioni, gotiche o di ascendenza tirolese, in un lasso di tempo che va dal 1501 al Seicento. Prevalgono i nastri e le corde intrecciate (eredi del sempre viridescente flechtwerk medievale). Non poche sono decorate da pitture a nastri bianchi e rossi. Insomma anche in loro la tradizione di decorare le travi aveva lasciato un segno: come già capitava nelle travi trionfali della tradizione inglese, che al termine della navata principale, reggevano il crocefisso spesso fiancheggiato dalla Vergine e da San Giovanni. Anche le teste delle travi nel fachwerk erano di sovente decorate da pitture o intagli. Come mille e più anni prima venivano messe delle cornici (le cosiddette antepagmenta) sulle testate delle travi lignee di una copertura italica o romana. Tutti dettagli che vengono ripresi con cura dalle maestranze d’oggi nella riproposizione delle forme e dei modelli antichi con legni di taglio recente. Con il rispetto e l’attenzione dovuti al gusto e alle abitudini di ignoti artefici di cui quegli arredi storici sono opera e patrimonio.


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I MITI DI CEROLI A L F R E D O S I G O L O critico d’arte, Rovigo

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e c’è un luogo al quale può esser ricondotta la ricerca artistica di ogni tempo, dalle origini ad oggi, un concetto da sempre condiviso, è certamente quello della realtà. Certo che, si dirà, la realtà ha assunto nei secoli forme e significati diversi, giacché dove stia la realtà vera delle cose è argomento di discussione perenne. Il mito della caverna di Platone rappresenta un punto cruciale, nella cultura occidentale, della riflessione sulla realtà. Secondo il filosofo greco, ciò che vediamo non è altro che un riflesso illusorio che ci allontana dalla verità delle cose. Di fatto nelle sagome portate in testa dai passanti dietro il muricciolo posto innanzi all’imbocco della caverna, illuminate dal fuoco, è celato l’inganno, oggetti la cui natura rivelata ci porrebbe innanzi alla vera realtà oltre di essi. Per Mario Ceroli (Castelfrentano, Chieti, 1938), la sagoma è stato un punto di partenza ma anche un principio archetipico cui ancorare tutta la sua ricerca. Ricondotte da sempre in seno alla versione concettuale europea ed italiana della Pop Art, le sue opere rappresentano una declinazione inedita della corrente. Se l’artista pop esaspera la realtà fissandola nell’icona ed esasperandone i connotati ipertropici, Ceroli invece ha operato in controtendenza, secondo un processo di progressiva decostruzione, di sintesi e riduzione. Una ricerca al negativo si potrebbe dire, sulla via del riconoscimento di una nuova identità del reale attraverso la forma pura. La sagoma rappresenta, appunto, il momento della rivelazione dell’essenza illusoria delle cose. La bidimensionalità della silhouette appare un’ideale soluzione debole della scultura nell’ottica postmoderna, la rinuncia alla tridimensionalità e al tuttotondo per stabilire una differenza di prospettiva nella percezione delle cose, come accade ne “Le ombre” o “La scala”, entrambe del 1965, ma anche in “Tempio” (1983), “La porta” (1981), “L’angelo sterminatore” del 1990 e i “Cavalli in corsa” ’93. In verità Ceroli, nella propria carriera, ha sperimentato varie linee di ricerca sia di natura concettuale che tecnica e di materiali. Superata è la bidimensionalità, ad esempio, nel caso delle opere realizzate con le curve di livello (“Curve di livello dell’uomo”, 1972), o di quelle giocate sull’alternanza tra positivo e negativo, come appare evidente in “Adamo ed Eva”, del ’64, o nei dettagli de “La casa di Dante”, del ’65. In “Si + No”, la scansione ritmica di positivo e negativo si evidenzia in un’altra direzione, quello del LETTERING, che l’artista utilizza per trasformare le parole in forma e MONUMENTUM (“Il GiornoLa Notte”, “Aria Acqua Terra Fuoco”, del ’72). Eppure l’indole riduttiva non è stata trasgredita né nella definizione degli oggetti nello spazio, resa attraverso la prospettiva analitica e geografica delle isoipse, né tantomeno nella percezione dei piani, nel contrasto tra vuoti e pieni. Resta dunque sempre preponderante l’idea dello schermo, della quinta, frutto certamente delle ricerche dell’artista nel campo della scenografia. In “Cassa sistina”, del 1966, e ancor più negli interni della Chiesa di Portorotondo (1971-1975), questa capacità di mettere in scena la scultura raggiunge livelli particolarmente articolati e complessi. Nelle sue rappresentazioni l’idea assume connotati fisici e solidi; e non è un caso che il

Il Mister, 1964, legno, cm 220 x 125 x 37,5. a pag. 46 in alto a sinistra Cassa sistina, 1966, legno, cm 230 x 300 x 200 (particolare dell’interno). A destra Goldfinger, 1965, legno, sette sagome, cm 176 x 140 (ciascuna). In basso a sinistra La casa di Dante, 1965, legno, cm 248 x 353 x 145 (particolare). In basso a destra Chiesa di Portorotondo, 1971 - 1975, legno, pianta cm 1600 x 800 cm (particolare della parete di sinistra). Per le immagini: (courtesy Galleria Tornabuoni Arte, Firenze).

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rapporto con il teatro, la televisione e il cinema, sia proseguito parallelamente alla carriera dell’artista. Dalle scenografie del ’67 per il Riccardo III di Shakespeare, sono mirabili gli allestimenti di Ceroli per le opere teatrali di Bellini, Verdi, Puccini e le sue collaborazioni con Volonté, Amodio, Bolognini, Patroni Griffi, Pasolini, Macchi. Le sue opere non sono mai semplici contenitori ma sono esse stesse contenuto, idea, trasfigurazione dell’opera nella scultura e, in quanto tali, eccezionali motori scenici. Ma Ceroli è anche un grande osservatore del proprio tempo. Negli anni chiave dell’opera pasoliniana, quasi anticipandone le riflessioni degli anni ’70 sui temi dell’omologazione e della cultura di massa, egli ha saputo indagare i simboli e le icone dell’Italia miracolata dal boom economico. In “Eurovision”, “Il Mister”, tutte del 1964, e in “Arco di trionfo”, del 1965, le ispirazioni vengono dalla televisione e dalla pubblicità. Sono questi gli anni in cui la televisione e i nuovi elettrodomestici cambiano radicalmente la vita quotidiana delle famiglie. Ne “Il Piper” (1965) la cultura di massa s’incarna nel locale notturno più famoso del tempo e nella folla che lo frequenta. Nel ’66 la folla, anonima e conformata, ritorna ne “La fila”, mentre nel 1970 assume le forme di un esercito in marcia ne “La Cina”.

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Pagina a lato in alto: Aria-Acqua-Terra-Fuoco, 1972, legno, cm 200 x 200 x 10. Sopra: Chiesa a Portorotondo (Sardegna), 1971-75, pianta cm 800 x 1600, legno. A sinistra: La Cina, 1966, legno, cm 185 x 875 x 215 (particolare) (courtesy Galleria Tornabuoni Arte, Firenze).

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Maurizio Calvesi, nell’83 scrisse che per Ceroli “l’effetto plastico è ottenuto dall’accostamento di sagome che rappresentano l’annullamento dell’uomo nella massa”. Quando la scultura si riconcilia con la tridimensionalità, lo fa per sintetizzare un immaginario popolare, come in “Volo di gabbiani”, del 1976, oppure per trasformarsi essa stessa in un simbolo, come nel “Cavallo alato” del 1987 realizzato per la RAI a Saxa Rubra. La citazione è stato un elemento fondamentale nella ricerca di Ceroli. Le fonti a cui attinge l’artista sono le più disparate. Non mancano, ad esempio, i riferimenti alla cultura classica, con le libere interpretazioni di opere celebri di artisti italiani, icone anch’esse destinate a trasformarsi in prodotto di massa e perciò sintetizzate nelle classiche forme neutrali di fascino archetipico. Leonardo, Botticelli, Paolo Uccello, per citarne alcuni, sono precisi riferimenti per l’“Uomo di Leonardo”, 1964, “Goldfinger”, 1965, e “Battaglia”, del 1978. Dal punto di vista tecnico, Ceroli ha certamente indagato le potenzialità di diversi materiali e colori. Tuttavia non v’è dubbio che il legno è da sempre il suo materiale privilegiato. Il pino silvestre di russia scelto dall’artista ha un colore bruno chiaro, con riflessi tendenti al giallo o al rosa, a seconda della stagionatura. Le sue caratteristiche lo rendono facilmente lavorabile, in ogni direzione, e il massiccio impiego fatto nell’industria assume un significato concettualmente interessante, avvicinando il lavoro manuale dell’artista al processo seriale e industriale. Vale la pena, a questo proposito, rammentare l’ansia di Andy Warhol di trasformarsi nell’artista-macchina che non inventa ma riproduce. Scrive Stefania Laurenti che «Ceroli scelse come materiale per la sua ricerca la tavola grezza, utile per creare una scrittura diversa e subito riconoscibile.» E la semplicità e la povertà del legno, unite alla profonda analisi sociologica del suo tempo, non hanno mancato di fare di Ceroli una sorta di anello mancante, quasi un ponte ideale che ricollega la stagione pop a quella dell’Arte Povera, uno dei pochi movimenti autenticamente italiani riconosciuti storicamente.

Si + No, 1964, legno, cm 150 x 142 x 16. A sinistra: La fila, 1966, legno, cm 180 x 217 x 186.

Si ringraziano per la collaborazione: Galleria De’ Foscherari di Bologna - Galleria Tornabuoni di Firenze - Galleria La Nuvola di Roma

Pagina a fianco: Le foto sono tratte dal volume Ceroli: Analisi di un linguaggio e di un percorso, di Enrico Crispolti, Federico Motta Editore, catalogo della mostra dal titolo “Mario Ceroli”, tenutasi a Bari dal 13 settembre al 30 novembre 2003, per concessione dell’organizzatore Tornabuoni Arte. In alto a sinistra: Tempio, 1983, legno, cm 150 x 95. A destra: Goldfinger, 1965, legno sette sagome, cm 176 x 140 (ciascuna). In basso a sinistra: Il Quinto Stato, 1984, legno e legno dipinto, cm 300 x 800 x 300. A destra: Cavalli in corsa, 1993, legno dipinto, 14 sagome, altezza media cm 280 x 360 (ciascuna), allestimento variabile (particolare di composizione allestita da Vittorio Storaro).

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BIBLIOGRAFIA

AGGIORNAMENTI BIBLIOGRAFICI a cura di E L I S A B E T TA B A E S S O studiosa, Rovigo (Le notizie bibliografiche dal n. 1 al n. 150 sono state pubblicate sul n. 2 prima serie; quelle dal n. 151 al 300, 301 - 450 rispettivamente sul n. 1 e 2 nuova serie de “Il legno nell’arte”).

GENERALE 451 Maria ANDALORO, Premessa al ‘corpus’ della scultura lignea in Abruzzo e una primizia: il Cristo deposto di Penne. In: ‘Quadrifluus Amnis’. Studi di letteratura, storia, filosofia e arte offerti dalla facoltà di lettere e filosofia a Mons. Costantino Vona, Chieti, [s.n.], 1987, p. 9-20. 452 Emma ANGELINI - Paolo BIANCO - Elvira D’AMICONE - Luigi VIGNA, Tecniche di lavorazione del legno nell’antico Egitto. Alcuni esempi da un corredo funebre intatto del 2400 a.C. In: Il restauro del legno, Atti del 2° Congresso nazionale (Firenze 8-11 novembre 1989), a cura di Gennaro TAMPONE, v. II, Firenze, Nardini, 1989, p. 19-26, ill. 453 Patrizia BALENCI - Federico FRANCI - Gennaro TAMPONE, Legno ed architettura teatrale. Il teatro di Sarteano. In: Legno nel restauro e restauro del legno, Atti del Congresso nazionale (Firenze, Palazzo affari, 30 novembre-3 dicembre 1983), a cura di Gennaro TAMPONE, v. II, Milano, Palutan, 1987, p. 57-61. 454 Clara BARACCHINI, Censimento, catalogazione e restauro della scultura lignea medievale: un’esperienza e una proposta di archivio in rete. In: L’arte del legno in Italia. Esperienze e indagini a confronto, Atti del convegno, (Pergola (PU); Frontone (PU), 9-12 maggio 2002), a cura di Giovan Battista FIDANZA, Perugia, Quattroemme, 2005, p. 303-307, ill. 455 Preziosi arredi domestici. Arte e artigianato in Italia dal XVI al XIX secolo, a cura di Elisabetta BARBOLINI FERRARI, Modena, Icaro, 2004, 254 p., ill. 456 Mimmarosa BARRESI, Il legno nella Bibbia. Dal Tabernacolo di Mosè al Tempio di Salomone. Atti del Secondo Congresso nazionale (Firenze 8-11 novembre 1989), a cura di Gennaro TAMPONE, v. I, Firenze, Nardini, 1989, p. 21-27 ill.

457 Giuseppe BERETTI, Un contributo allo studio della tarsia lignea in Lombardia prima di Giuseppe Maggiolini, “Rassegna di studi e notizie”, v. XVI, a. XVI, 1991-1992, p. 9-37, ill. 458 Mara BORTOLOTTO - Augusto BULGARELLI, Il mobile toscano attraverso i secoli, Modena, Icaro, 2006, 250 p., ill. 459 Mara BORTOLOTTO - Augusto BULGARELLI, Mobili lombardi dal XVI al XIX secolo, Modena, Icaro, 2006, 250 p., ill. 460 Mara BORTOLOTTO - Augusto BULGARELLI, Mobili romani attraverso i secoli, Modena, Icaro, 2006, 250 p., ill. 461 Marzia CAMPOS VENUTI, Decorazione su legno, fotografie di Gianni BUONANNI, Milano, Mondatori, 1995, 95 p., ill. 462 Case in legno, a cura di Nicola BRAGHIERI, Milano, Federico Motta, 2004, 364 p., ill. 463 Serenella CASTRI, La scultura lignea. In: Il museo Diocesano Tridentino, a cura di Domenica PRIMERANO, Trento, Museo diocesano tridentino, 1996, p. 73-87, ill. 464 Doretta CECCHI, Attori di legno. La marionetta italiana tra ’600 e ’900, Roma, Fratelli Palombi Editori, 1988, 115 p., ill. 465 Civiltà del legno. Mobili dalle collezioni di Palazzo Bianco e del Museo degli Ospedali di S. Martino, Catalogo della mostra (Genova, Palazzo Bianco, 21 giugno-30 settembre 1985), Genova, SAGEP, 1985, 111 p., ill.

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BIBLIOGRAFIA

466 Enrico COLLE, “Dipingere con l’intarsiatura in legno”. Appunti sul mobile intarsiato lombardo, “Rassegna di studi e notizie”, v. XIX, a. XXII, 1995, p. 105-146, ill.

477 Vincenzo JOPPI - Gustavo BAMPO, Nuovo contributo alla storia dell’arte nel Friuli ed alla vita dei pittori ed intagliatori friulani, Venezia, a spese della Società, 1887, vi, 87 p.

467 Salvatore DI PASQUALE, Il legno nell’opera dei trattatisti, In: Legno nel restauro e restauro del legno, Atti del Congresso nazionale (Firenze, Palazzo affari, 30 novembre-3 dicembre 1983), a cura di Gennaro TAMPONE, v. II, Milano, Palutan, 1987, p. 87-92.

478 Vincenzo JOPPI, Contributo secondo alla storia dell’arte nel Friuli ed alla vita dei pittori ed intagliatori friulani, Venezia, a spese della Società, 1890, 90 p.

468 Harula ECONOMOPOULOS, Le stagioni del legno. Mostra sull’arte del legno a Roma, Catalogo della mostra (Roma, Piazza di Pietra, Tempio di Adriano, 4-14 ottobre 2001), Roma, CCIAA, 2001,159 p., ill. 469 Giuliana ERICANI, Catalogo delle sculture lignee. In: Proposte e restauri, Catalogo della mostra (Verona, Museo di Castelvecchio, 1987), a cura di Sergio MARINELLI, Verona, Museo di Castelvecchio, 1987, p. 304-316, ill. 470 Davide FERRETTI - Gianni TRUZZI, Il colore del legno. Falegnameria storica e arte dell’intarsio a Rolo, Bologna, Editrice Compositori, 2006, 128 p., ill. 471 Caterina FURLAN, La scultura lignea. In: Arte in Friuli-Venezia Giulia, a cura di Gianfranco FIACCADORI, Udine, Magnus, 1999, p. 184-191, ill. 472 Benedetta GALLIZIA DI VERGANO, Cassoni lombardi istoriati delle Civiche Raccolte del Castello Sforzesco, “Rassegna di studi e notizie”, v. XXI, a. XXIV, 1997, p. 141-50, ill. 473 Alessandra GIANNOTTI, Intagliatori e legnaioli fiorentini tra Cinque e Seicento attraverso le fonti. In: L’arte del legno in Italia. Esperienze e indagini a confronto, Atti del convegno, (Pergola (PU); Frontone (PU), 9-12 maggio 2002), a cura di Giovan Battista FIDANZA, Perugia, Quattroemme, 2005, p. 358-363. 474 Roberto GIURIATO, La doratura del legno. Arte, tecnica e note di restauro, Milano, Il castello, 1997, 85 p., ill. 475 Paolo GOI, Intagliatori, marangoni, indoratori e stipettai a Spilimbergo. In: Spilimbèrk, Atti del 61° Congresso della Società Filologoca Friulana (23 settembre 1984), a cura di Novella CANTARUTTI e Giuseppe BERGAMINI, Udine, Societa Filologica Friulana, 1984, p. 262-278. 476 Guida alla scelta del legno adatto per i vari impieghi, a cura di Guglielmo GIORDANO, con la collaborazione della cattedra di tecnologia del legno dell’Universita degli studi di Firenze, Reggio Emilia, Consorzio Legnolegno, 1996, 104 p., ill.

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479 Vincenzo JOPPI, Contributo terzo alla storia dell’arte nel Friuli ed alla vita dei pittori ed intagliatori friulani, Venezia, a spese della Società, 1892, 84 p. 480 Vincenzo JOPPI, Contributo quarto e ultimo alla storia dell’arte del Friuli ed alla vita dei pittori, intagliatori, scultori, architetti ed orefici friulani dal XIV al XVII secolo, Venezia, a spese della Società, 1894, 164 p. 481 L’arte del legno in Italia. Esperienze e indagini a confronto, Atti del convegno (Pergola (PU); Frontone (PU), 9-12 maggio 2002), a cura di Giovan Battista FIDANZA, Perugia, Quattroemme, 2005, 400 p., ill. 482 La lavorazione del legno. Sistemi e attrezzi per il taglio, il trasporto e la trasformazione del legno nel vicentino, a cura del Gruppo di ricerca sulla civiltà rurale, seconda edizione, Sommacampagna (VR), Cierre Edizioni, 2004, 161 p., ill. 483 La lavorazione del legno. Sistemi e attrezzi per il taglio, il trasporto e la trasformazione del legno nel vicentino, Vicenza, Cesar, 1995, 144 p., ill. 484 Raffaella LIONE - Ornella FIANDACA - Valentina RINALDO, Il legno. Caratteristiche tecniche e progettazione, Roma, Carocci Faber, 2002, 284 p., ill. 485 Alessia LUDOVISI, Madonne lignee laziali del Duecento: il caso della Vergine di Subiaco. In: L’arte del legno in Italia. Esperienze e indagini a confronto, Atti del convegno, (Pergola (PU); Frontone (PU), 9 – 12 maggio 2002), a cura di Giovan Battista FIDANZA, Perugia, Quattroemme, 2005, p. 159-168, ill. 486 Antonio MASSI, Modelli di antiche strutture lignee. Criteri e contenuti della Esposizione al Palazzo dei Priori di Perugia. In: Lignea materia. Studi sulla conservazione e il restauro del patrimonio artistico e architettonico ligneo, a cura di Antonio BORRI, Perugia, Quattroemme, 2006, p. 141-155, ill. 487 Mobili italiani del Meridione, a cura di Edi BACCHESCHI, Milano, Görlich, 1966, 131 p., ill.


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BIBLIOGRAFIA

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581 Vinicio GAI, Restauro di strumenti musicali di legno. In: Legno nel restauro e restauro del legno, Atti del Congresso nazionale (Firenze, Palazzo affari, 30 novembre-3 dicembre 1983), a cura di Gennaro TAMPONE, v. II, Milano, Palutan, 1987, p. 239-246.

573 Mario BERMANI, Il restauro ed il recupero funzionale delle case in legno di Alagna Valsesia. In: Il restauro del legno, Atti del 2° Congresso nazionale (Firenze 8-11 novembre 1989), a cura di Gennaro TAMPONE, v. I, Firenze, Nardini, 1989, p. 47-55, ill.

582 Anna GAMBETTA, Attacchi biotici in strutture lignee e metodologie di trattamento. In: Lignea materia. Studi sulla conservazione e il restauro del patrimonio artistico e architettonico ligneo, a cura di Antonio BORRI, Perugia, Quattroemme, 2006, p. 215-230, ill.

574 Stefano BERTI, La conservazione dei tronchi della foresta fossile di Dunarobba. In: Lignea materia. Studi sulla conservazione e il restauro del patrimonio artistico e architettonico ligneo, a cura di Antonio BORRI, Perugia, Quattroemme, 2006, p. 157-167, ill.

583 Andrea GIANNANTONI, L’utilizzo dei materiali compositi per il consolidamento di elementi lignei. In: Lignea materia. Studi sulla conservazione e il restauro del patrimonio artistico e architettonico ligneo, a cura di Antonio BORRI, Perugia, Quattroemme, 2006, p. 449-472, ill.

575 Carla BERTORELLO, Il restauro del Crocifisso di Santa Maria del Popolo a Roma. In: L’arte del legno in Italia. Esperienze e indagini a confronto, Atti del convegno, (Pergola (PU); Frontone (PU), 9-12

584 Maria GIANNATIEMPO LÓPEZ, Scultura lignea: considerazioni sulle attività di tutela, valorizzazione e restauro della Soprintendenza di Urbino. In: L’arte del legno in Italia. Esperienze e indagini a confron-

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BIBLIOGRAFIA

to, Atti del convegno, (Pergola (PU); Frontone (PU), 9-12 maggio 2002), a cura di Giovan Battista FIDANZA, Perugia, Quattroemme, 2005, p. 343-347, ill. 585 Ezio GIURIANI - Giovanni A. PLIZZARI, Un nuovo impalcato ligneo per il miglioramento sismico del Palazzo della Loggia di Brescia. In: Lignea materia. Studi sulla conservazione e il restauro del patrimonio artistico e architettonico ligneo, a cura di Antonio BORRI, Perugia, Quattroemme, 2006, p. 429-448, ill. 586 Lignea materia. Studi sulla conservazione e il restauro del patrimonio artistico e architettonico ligneo, a cura di Antonio BORRI, Perugia, Quattroemme, 2006, 490 p., ill. 587 Luciano MARCHETTI, Il problema della conservazione in relazione a particolari condizioni ambientali e decorative. La chiesa di San Marco a Firenze. In: Lignea materia. Studi sulla conservazione e il restauro del patrimonio artistico e architettonico ligneo, a cura di Antonio BORRI, Perugia, Quattroemme, 2006, p. 231-241, ill. 588 Andrea MARGARITELLI, Caratterizzazione chimica e fisica del legno. In: Lignea materia. Studi sulla conservazione e il restauro del patrimonio artistico e architettonico ligneo, a cura di Antonio BORRI, Perugia, Quattroemme, 2006, p. 181-200, ill. 589 Massimo MARIANI, Interventi di rinforzo delle strutture di legno con l’acciaio. In: Lignea materia. Studi sulla conservazione e il restauro del patrimonio artistico e architettonico ligneo, a cura di Antonio BORRI, Perugia, Quattroemme, 2006, p. 253-348, ill. 590 Maria Donata MAZZONI, Il Cristo di Badia a Passignano. Problematiche di tecnica artistica. In: L’arte del legno in Italia. Esperienze e indagini a confronto, Atti del convegno, (Pergola (PU); Frontone (PU), 9-12 maggio 2002), a cura di Giovan Battista FIDANZA, Perugia, Quattroemme, 2005, p. 319-326, ill. 591 Restauri lignei. Scuola Professionale Edile di Firenze, Firenze, Edifir, 2006, 96 p., ill. 592 Giorgio ROLANDO PERINO, Due ancone lignee di Giovanni Angelo Del Maino: tra prassi e progetto. In: L’arte del legno in Italia. Esperienze e indagini a confronto, Atti del convegno, (Pergola (PU); Frontone (PU), 9-12 maggio 2002), a cura di Giovan Battista FIDANZA, Perugia, Quattroemme, 2005, p. 273-282, ill. 593 Michele RUFFINO, Restauro conservativo di capriate lignee. L’intervento sulla pieve di San Marino. Progettazione. Prove di laboratorio. Fasi esecutive. In: Lignea materia. Studi sulla conservazione e il restauro del patrimonio artistico e architettonico ligneo, a cura di Antonio BORRI, Perugia, Quattroemme, 2006, p. 407-428, ill.

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594 Ulrich SCHIESSL, La scultura policroma in Germania: indagini e restauri. In: L’arte del legno in Italia. Esperienze e indagini a confronto, Atti del convegno, (Pergola (PU); Frontone (PU), 9 – 12 maggio 2002), a cura di Giovan Battista FIDANZA, Perugia, Quattroemme, 2005, p. 259-263. 595 Laura SPERANZA, Metodologie di intervento nel restauro della scultura lignea: l’esperienza dell’Opificio delle Pietre Dure. In: L’arte del legno in Italia. Esperienze e indagini a confronto, Atti del convegno, (Pergola (PU); Frontone (PU), 9-12 maggio 2002), a cura di Giovan Battista FIDANZA, Perugia, Quattroemme, 2005, p. 309-318, ill. 596 Silvano TAMBURINI, La tecnologia del legno e la conservazione delle opere d’arte. In: Il restauro fra metodo e prassi. Materiali di lavoro del corso regionale di aggiornamento 1978, a cura di Orlando PIRACCINI, Bologna, a cura dell’Uffico stampa e pubbliche relazioni dell’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione EmiliaRomagna, 1980, p. 113-120, ill. 597 Marco TOGNI, Ispezione e diagnosi di strutture lignee in opera. In: Lignea materia. Studi sulla conservazione e il restauro del patrimonio artistico e architettonico ligneo, a cura di Antonio BORRI, Perugia, Quattroemme, 2006, p. 201-213, ill. 598 Luca UZIELLI, I supporti lignei delle opere d’arte. In: Lignea materia. Studi sulla conservazione e il restauro del patrimonio artistico e architettonico ligneo, a cura di Antonio BORRI, Perugia, Quattroemme, 2006, p. 51-106, ill. 599 Paolo VENTUROLI, Scultura lignea lombarda: studi e restauri (19741982). In: L’arte del legno in Italia. Esperienze e indagini a confronto, Atti del convegno, (Pergola (PU); Frontone (PU), 9-12 maggio 2002), a cura di Giovan Battista FIDANZA, Perugia, Quattroemme, 2005, p. 265-272, ill. 600 Il Volto Santo di Sansepolcro. Un grande capolavoro medievale rivelato dal restauro, a cura di Anna Maria MAETZKE, Cinisello Balsamo (MI), Silvana editoriale, 1994, 158 p., ill.


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AUTORI ABBATE, Francesco 554 AGNELLINI, Maurizio 79, 94 AGNELONI, Emo 572 AIMI, Amos 401 AITA, Sandro 101 ALBERICI, Clelia 301, 302, 368, 502 ALBERTARIO, Marco 503 ALBONICO, Piervittorio 355 ALCE, Venturino 52, 191, 192 ALESSI, Cecilia 271 ALLEVI, Piersergio 504 AMATI, Ferruccio 102 ANDALORO, Maria 451 ANGELINI, Emma 452 ANGELINI, Giovanni 564 ANNONA, Ugo 312 ANSELMI, Naldo 103 ANTONETTO, Barbara 69 ANTONETTO, Roberto 152, 415 APRA, Nietta 231 ARGAN, Giulio Carlo 571 ARRIGHETTI TOMASONI, Elisabetta 104 ARRIGHETTI, Attilio 104 ARSLAN, Edoardo 505 AUDISIO, Aldo 348 AURIGEMMA, Maria Giulia 379 BACCHESCHI, Edi 77, 79, 411, 487, 565 BACCHI, Andrea 208, 250 BAGATIN, Pier Luigi 39, 40, 41, 42, 193, 194 BALBONI BRIZZA, Maria Teresa 17 BALDI, Renato 114 BALDINI, Francesco 272 BALDINI, Umberto 214 BALENCI, Patrizia 453 BAMPO, Gustavo 477 BANDERA, Luisa 2, 15, 38, 153, 178 BANDERA, Sandrina 43, 506 BANGE, Ernst Friedrich 507 BARACCHI, Orianna 508 BARACCHINI, Clara 31, 142, 395, 454 BARBERO, Giovanna 426 BARBIERI, Giuseppe 308 BARBOLINI FERRARI, Elisabetta 81, 82, 156, 397, 398, 410, 417, 455 BARGELLI, Stefano 106 BARILI, Angelo 492 BARONI, Daniele 378 BARP, Armando 570 BARRESI, Mimmarosa 456 BASILE, Giuseppe 107 BASTA, Chiara 509 BAUSSANO, Antonio Angelo 273 BAXANDALL, Michael 195 BAYLEY, Stephen 91 BECCHI, Massimo 12 BEGNI REDONA, Pier Virgilio 190 BELLABARBA, Marco 208

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BELLONI ZECCHINELLI, Mariuccia 306 BELTRAMI, Luca 499 BENACCHIO, Maria Giovanna 96 BENAZZI, Giordana 510 BERETTI, Giuseppe 70, 71, 457, 566, 567 BERGAMINI, Giuseppe 511 BERGER, Fabrizio 307 BERGONZI, Antonio 108 BERLANDA, Orietta 423 BERMANI, Mario 573 BERNARDI, Adriana 109 BERTI, Michele 110 BERTI, Stefano 574 BERTOLOTTI, Anna 48 BERTONI, Nadia 433 BERTORELLO, Carlo 575 BESSONE, Carlo 380 BIANCO, Paolo 452 BIASI, Duccio 362 BIAVATI, Paolo 151 BINAGHI OLIVARI, Maria Teresa 45 BINEL, Giuseppe 309 BIONDI, Paola 91 BOCCAZZI-VAROTTO, Attilio 348 BOCCOLARI, Giorgio 81, 156 BOGGERO, Franco 219 BOIDI SASSONE, Adriana 254 BOLOGNA, Ferdinando 188 BON VALSASSINA, Caterina 143 BONERA, Luigi 316 BONETTI, Luca 227 BONOMI, Alfredo 234 BORGHINI, Gabriele 176 BOROLI, Marcella 196 BORRELLI, Gennaro 232 BORRELLI, Gian Giotto 233 BORRI, Antonio 576, 586 BORTOLOTTO, Mara 310, 458, 459, 460 BOSSAGLIA, Rossana 311 BOTTARO, Silvia 255 BOUGAN, Maria Jose 305 BRACA, Antonio 512 BRACCO, Eleonora 312 BRAGHIERI, Nicola 462 BRAZZALE, Giancarlo 96 BRESCIANI, Luigi 234 BRIZZI, Giovanni 197 BROGGI, Silvia 196, 313, 314, 328 BROGI, Maria Grazia 111 BROGIOLO, Mario 234 BROS, Luciana 391 BRUNHAMMER, Yvonne 315 BUCHANAN, George 434 BUGGE, Gunnar 381 BULGARELLI, Augusto 82, 310, 458, 459, 460 BURRESI, Mariagiulia 61 BUSCAGLIENE, Augusta 373 BUTTAZZONI, Nicoletta 577 CAIRONI, Mario 316

CALEGARI, Grazia 19 CALORE, Andrea 198 CALOSIO, Nicoletta 350 CALVESI, Maurizio 570 CAMPANELLA, Luigi 112 CAMPARA, Walter 218 CAMPOS VENUTI, Marzia 461 CAPRARA, Marisa 513 CAPRARA, Otello 274, 513 CAPRIOTTI, Giuseppe 514 CARGNONI, Marialisa 234 CARLETTI, Lorenzo 46 CARLI, Enzo 158, 197, 199, 211 CARMONINI, Quinto 3 CAROSELLI, Franco 317 CASADIO, Paolo 115 CASCIARO, Raffaele 47, 515, 516, 517, 540 CASELLI, Eugenia 32 CASON ANGELINI, Ester 564 CASTAGNARI, Giancarlo 568 CASTAGNARO, Graziano 153 CASTELLANI NARDO, Ivana 319, 320 CASTELNUOVO, Enrico 195, 208 CASTRI, Serenella 208 CASTRI, Serenella 463, 518 CATALANO, Dora 519 CATARSI, Manuela 159 CATTANEO, Enrico 520 CATTANI, Pellegrino 153 CAUMONT CAIMI, Lodovico 72 CAUSA, Raffaello 188, 228 CAVALLITO, Luisa 11 CECCHI, Doretta 464 CECCOTTI, Ario 578 CENDON, Aline 160 CERA, Maurizio 4, 322 CERIANI, Marco 418 CERRONI CADORESI, Domenico 431 CERVINI, Fulvio 323 CESARI, Paolo 397, 398, 410, 417 CESCHI LAVAGETTO, Paola 200, 279 CHARLES, Teresa 373 CHASTEL, André 174 CHATELAIN, Jacques 349, 428 CHIARELLI, Brunetto 378 CHIARUGI, Simone 84 CHIESA, Guido 216, 267, 413, 414 CHIGIOTTO, Giuseppe 85 CIATTI, Marco 113, 276 CIFANI, Arabella 400 CIOL, Elio 115 CIRILLO, Giuseppe 401 CLAUT, Sergio 162 COLASACCO, Biancamaria 555 COLLE, Enrico 5, 21, 49, 50, 59, 73, 78, 86, 87, 92, 93, 236, 419, 420, 466 COLOMBI, Bruno 401 COPPOLA, Giovanni 382 CORADESCHI, Sergio 325, 326 CORONA, Elio 116, 117


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BIBLIOGRAFIA

CORRADI, Marco 576 CORTESI BOSCO, Francesca 202 COSTANTINO FIORATTI, Helen 356 COTTINO, Alberto 238 COZZI, Elisabetta 257 CREMONA, Marina 121 CREN, Stephane 433 CUOMO, Daniela 146 CURZI, Gaetano 521 D’AMATO, Gabriella 7 D’AMICO, Rosalba 139 DAL POGGETO, Paolo 55 DAMIANO, Sonia 385 D’AMICONE, Elvira 452 DANIELE, Umberto 66 DANTI, Cristina 579 DAVID, Paola Rafaella 118 DAVIDSON, Richard 355 DAVOLI, Pietro Maria 327 DE ANGELIS, Maria Cristina 492 DE CSILLAGHY, Nicola 88 DE FRANCOVICH, Gèza 205 DE FUSCO, Renato 258 DE GRASSI, Massimo 432 DE GUTTRY, Irene 8, 89, 90, 259 DE LA TOUR COMPOREALE, Gherardo 425 DE RUVO, Francesco 328 DE SETA, Cesare 174 DE VINCENTI, Monica 421 DEL MAR ROTAECHE, Maria 131 DELL’AQUILA, Pino 400 DELL’UTRI, Felice 422 DELOGU, Giuseppe 507 DI LEVA, Antonino 402 DI PASQUALE, Salvatore 467 DI TONDO, Sergio 293 DILENA, Loris 160 DISERTORI, Andrea 9, 239, 260, 331 DONATI, Andrea 10 DONATI, Pietro 219 DONATONE, Guido 384 DONNINI, Giampiero 55 DORFLES, Gillo 261, 330, 430 D’ORTO, Placido 422 DUBY, George 382 DUC, Lucio 364 DUCHAILLUT, Claudine 332 ECONOMOPULOS, Harula 468 ERICANI, Giuliana 469 ERLINDO, Vittorio 105 FABIANI, Rosella 391 FABJAN, Barbara 522 FACHECHI, Grazia Maria 29, 30, 51, 523, 524 FAENSON, Liubov 318 FAGONE, Vittorio 306 FARANDA, Franco 126 FEDELI, Andrea 119, 580 FELETTI, Ingrid 120 FERRARI, Giulio 333, 334 FERRARIS, Giancarlo 74, 556

FERRARO, Piera 165 FERRETTI, Davide 153, 470 FERRETTI, Massimo 174, 280 FERRI PICCALUGA, Gabriella 306 FERROZZI, Valeria 121 FIACCADORI, Gianfranco 54 FIADANCA, Ornella 484 FIDANZA, Giovan Battista 28, 481, 557, 558 FIOCCO, Giuseppe 204 FIORAVANTI, Marco 122 FIORENTINO, Alessandro 22, 166, 253 FLEMING, John 335 FOGLIA, Andrea 38 FOI, Leonardo 44 FONDELLI, Mario 281 FORCELLA, Vincenzo 336, 499 FORTI, Tullio 398 FOSCHINI, Stefano 397, 398, 410, 417 FOSSALUZZA, Giorgio 64 FOSSI, Gloria 356 FRANCI, Federico 453 FRATINI, Corrado 525, 526 FRATTARI, Antonio 337, 338 FRIGESSI, Delia 195 FROISSART, Michel 339 FROSINI, Alessandra 437 FURLAN, Caterina 115, 471, 527 FUSARI, Giuseppe 545 GABIANI, Niccola 559 GAETA, Letizia 560 GAI, Vinicio 581 GAIFAS, Bianca 101 GALASSI, Cristina 37, 528, 544 GALEOTTI, Carlo 262 GALETTI, Piero 161 GALLERANI, Paola Isabella 529 GALLIZIA DI VERGANO, Benedetta 472 GAMBA, Alessandro 165 GAMBETTA, Anna 123, 582 GANDINI, Roberto 341 GAROFOLO, Ilaria 338 GENTILE, Guido 385 GENTILI, Sergio 492 GENTILINI, Gabriella 167 GENTILINI, Giancarlo 215 GHELARDINI, Armando 181 GIACOMELLI, Luciana 250 GIANNANTONI, Andrea 583 GIANNATIEMPO LOPEZ, Maria 6, 182, 584 GIANNINI, Marcello 275 GIANNOTTI, Alessandra 473 GIANNOTTI, Paolo 19 GIOMETTI, Cristiano 46 GIORDANO, Guglielmo 12, 124, 168, 438, 476 GIORDANO, Luisa 496, 530 GIUFFRIDA, Alessia 404 GIURIANI, Ezio 585 GIURIATO, Roberto 439, 474 GODI, Giovanni 401

GOI, Paolo 475 GOLFIERI, Ennio 424 GONZÁLES-PALACIOS, Alvar 13, 59, 70, 74, 169, 170, 171, 172, 173, 240, 241, 242, 342 GOVI, Gilberto 103 GRAGLIA, Daniele 441 GRAMIGNA, Giuliana 91, 263 GRATTONI D’ARCANO, Maurizio 54 GRAZINI, Andrea 576 GREGORI, Mina 15, 304 GRIFFO, Massimo 207, 243, 244, 245, 264 GRITELLA, Gianfranco 56 GUGLIELMETTI, Angela 53 GUGLIELMI, Guglielmo 221 GUIDI, Giuseppe 282 GUTELLE, Pierre 343 HERZOG, Thomas 23 IACOBINI, Antonio 182 IOTTI, Roberta 397, 398, 417 JAHIER, Piero 345 JANNEAU, Guillaume 24 JANS, Carl 346 JOPPI, Vincenzo 477, 478, 479, 480 JORIO, Piercarlo 20, 348 JURLARO, Rosario 175 KENWORTHY-BROWNE, John 405 KLAINSCEK, Walter 64 KLARMANN, Ulrich 16 LA FERLA, Anna 385 LA MATTINA, Rosolino 422 LA PIETRA, Ugo 416 LACCHIN, Enrico 561 LAZZARI, Gianni 498 LAZZARIN, Paolo 16 LENSINI, Fabio 197 LETO BARONE, Giovanni 128 LEVY, Saul 407, 408 LIONE, Raffaella 484 LIOTTA, Giovanni 128, 129, 286, 287, 288 LIPINSKY, Angelo 175 LORENZELLI, Jacopo 203 LORENZELLI, Pietro 203 LORENZETTI, Giulio 409 LUDOVISI, Alessia 485, 531 LUNGHI, Elvio 57 MACCARINI, Stefano 81 MACINA, Francesco 145 MAETZKE, Anna Maria 600 MAGAGNATO, Licisco 218 MAGGI, Angelo 347 MAINO, Maria Paola 8, 89, 90, 259 MAJOCCHI, Laura 381 MANCINI, Francesco Federico 532 MANNELLI, Vinicio 351 MANNI, Graziano 58, 178 MARCHESE, Antonino Giuseppe 388 MARCHETTI, Gaetano 151 MARCHETTI, Giuseppe 179 MARCHETTI, Luciano 587 MARCHETTI, Patrizia 289

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BIBLIOGRAFIA

MARCHI, Norberto 352 MARCHINI, Gian Paolo 36 MARGARITELLI, Andrea 588 MARGAROLI, Rossella 23 MARIACHER, Giavanni 187, 353, 440 MARIANI, Massimo 589 MARIUCCI, Caterina 441 MARRACCINO, Andrea 441 MARTINI, Luciana 44 MASETTI BITELLI, Luisa 139 MASSAFRA, Maria Grazia 18, 176 MASSI, Antonio 486 MASSINELLI, Anna Maria 130 MASSOBRIO, Giovanna 429 MATTALONI, Claudio 76 MATTONE, Manuela 290 MAURI, Cinzia 354 MAZZONI, Maria Donata 590 MELEGATI, Luca 4 MENIS, Gian Carlo 442 MERCURELLI SALARI, Paola 539 MEZZANOTTE, Bernardino 381 MILLER, Judith 355 MILLER, Martin 355 MINNELLA, Melo 388 MOLAJOLI, Bruno 188 MONETTI, Franco 400 MONOPOLI, Eugenio 237 MONTAGNI, Claudio 488 MONTEVECCHI, Benedetta 29, 533 MORANDI, Gianna 313, 314, 328 MORAZZONI, Giuseppe 407, 412 MORENI, Eugenio 108 MORMONE, Raffaele 246 MORO, Franco 516 MOROZZI, Cristina 95 MUNAFO, Placido 291 MUNARI, Bruno 330 NALIN, Felice 359 NASI, Sergio 153 NATALE, Vittorio 226, 551 NATTERER, Julius 23 NAVONE, Nicola 347 NECCHI DISERTORI, Anna Maria 9, 239, 260, 331 NEGRI, Enzo 364 NEPI SCIRÈ, Giovanna 443 NERI, Damiano 247 NICOLETTI, Guido 179 NOVELLI, Leandro 213 NOVELLI, Maria Angela 304 NUCCIARELLI, Franco Ivan 534 OLIVARES, Corrado 71, 256 ONOFRI AZZANO, Francesco 362 ORAZI, Roberto 292 ORDÓÑEZ, Cristina 131, 132 ORDÓÑEZ, Leticia 131, 132 ORIOLI VAN DEN BOSSCHE, Jeanne 151 PAGELLA, Enrica 206 PAGNANO, Giuseppe 294

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PALTRINIERI, Gabriella 277 PANDOLFO, Antonello 133 PANE, Roberto 361 PANSERA, Anty 97 PANTEGHINI, Ivo 234 PAOLINI, Claudio 98, 134, 214 PAPAGNI, Antonio 237 PARDI, Renzo 491 PARMINI, Giovanni 31 PASCULLI FERRARA, Domenica 392 PASCUZZI, Santino 135 PASSAMANI, Bruno 208, 535, 536 PAVAN, Gino 391 PENNASILICO, Alessandro 33, 495 PENZO, Gilberto 307 PERRICCIOLI SAGGESE, Alessandra 183 PERUSINI, Giuseppina 63, 137, 437, 537, 538 PESCARMONA, Daniele 435 PILLON, Lucia 64 PINTO, Sandra 399 PIRETTA, Silvia 385 PIVA, Domenico 14 PLIZZARI, Giovanni A. 585 POLETTI, Giovanna 313, 314 POLIN, Giacomo 357 POLLI, Vittorio 60 PONTE, Alessandra 248, 249, 268 PONTINI, Maria Rita 492 PORTOGHESI, Paolo 429 POZZANA, Mariachiara 569 POZZI, Giovanni 203 PRADA, Paolo 184 PRIULI, Gherardo 1, 329, 348, 349, 428 PRYCE, Will 362 PUERARI, Alfredo 546 PUGLIATTI, Teresa 493 PUPPI, Lionello 96 QUINZI, Alessandro 64 RACHELLO, Emanuele 145 RAGAZZO, Enrico 448 RAMOND, Pierre 24 RASARIO, Giovanna 138, 278 RAVAGLIA, Lida 120 RAVERA, Massimo 400 REGIS, Giuliano 38 RENZI, Chiara 99 RENZI, Giovanni 99 RENZI, Renzo 191 RENZI, Sergio 108 RICCARDI-CUBITT, Monique 363 RICCI, Luigi 494 RICOTTINI, Giulia 120 RIGGIO, Salvatore 422 RIGHETTI TOSTI-CROCE, Marina 229 RIGON, Lidia 157 RINALDO, Valentina 484 RITTER, Enrichetta 330 RIVI, Luciano 303 RIZZI, Aldo 391, 541 ROCCHETTA-SCALA, Mario 208

ROGNINI, Luciano 217, 218 ROLANDO PERINO, Giorgio 592 ROMANO, Giovanni 385 ROSSETTI BREZZI, Elena 543 ROSSI, Massimo 545 RUBERTI, Guido 186 RUFFINO, Michele 593 RUGGERI AUGUSTI, Adriana 445 RUOTOLO, Renato 15 SABATELLI, Franco 50 SABATINO, Laura 393 SALSI, Claudio 163 SALZAR, Tristan 446 SAN PIETRO, Silvio 95 SANTANTONI MENICHELLI, Antonio 394 SANTINI, Clara 25, 26, 27 SANTORO, Pierdario 398, 417 SAPORI, Giovanna 164 SARTOR, Lucia 542 SCANO, Maria Grazia 403 SCANTAMBURLO, Barbara 220 SCARDINO, Lucio 269 SCARPA, Francesca 307 SCATENA, Giovanni 221 SCHIESSL, Ulrich 594 SCHMIDT ARCAGELI, Catarina 66 SCHOTTMULLER, Frida 222 SCIOLLA, Gianni Carlo 365 SCOTT, Ernest 366 SEIDEL, Max 227 SELVAFOLTA, Ornella 357 SGARBI, Vittorio 48 SICILIANI, Martino 65 SIDDI, Lucia 403 SILVA, Lucia 406 SILVA, Tullio 406 SIMONETTI, Farida 94 SOAVE, Luciano 357 SPADA, Silvia 208 SPANIO, Chiara 562 SPERANZA, Laura 436, 595 SPIAZZI, Anna Maria 80 STAFFIERO, Patrizia 497 STAZI, Alessandro 291 STEFANI PERRONE, Stefania 155 STEFANINI, Pasquale 369 SURDICH, Francesco 255 TACELLI, Laura 144 TAGLIAFERRI, Amelio 511 TAMASSIA, Matteo 307 TAMBURINI, Sivano 596 TAMPONE, Gennaro 127, 129, 140, 145, 146, 147, 284, 285, 453 TANGERMAN, Elmer John 32 TENENTI, Alberto 174 TERZI, Andrea 339 TERZI, Tito 157 TESTORI, Giovanni 155 TEZA, Laura 547 THOUX, Giovanni 372, 373


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BIBLIOGRAFIA

TIELLA, Marco 148 TIRIBILLI, Michelangelo 42 TIROLI, Alessandra 394 TOGNI, Marco 597 TOLOMEI, Ugo 315, 374 TOMEI, Alessandro 548 TONOLI, Giovanna 500 TOSCANO, Bruno 164 TREVISAN, Mariagrazia 149, 448 TRIONFI HONORATI, Maddalena 34, 549, 550 TROTTA, Giampaolo 285 TRUZZI, Gianni 153, 303, 470 UCCELLO, Antonino 375 UZIELLI, Luca 141, 598 VACCARI, Alberto Vincenzo 35, 501 VACCARI, Renzo 35 VAGLIA, Ugo 251 VALBONETTI, Fausto 300 VALERIANI, Roberto 13, 74 VECA, Alberto 203 VECCHINI, Giuseppina 500 VECELLIO, Vito 421 VENTUROLI, Paolo 396, 599 VERDUCCI, Giovanni 3 VERTOVA, Maria Ludovica 376 VEZZOLI, Giovanni 190, 252 VEZZOSI, Massimo 444 VEZZOSO, Alessandro 552 VIANELLO, Gianni 370 VIERIN, Claudine 373 VIGNA, Luigi 452 VILLA, Roberta 48 VILLANI, Elena 563 VILLARI, Pier Luigi 449 VIO, Ettore 66 VISSER TRAVAGLI, Anna Maria 450 VOLPINI, Leonardo 100 VOLZ, Michael 23 VONDRACEK, Radim 83 WALKER, Aidan 11 WANNENES, Giacomo 270, 377 WILLS, Geoffery 378 ZAMBRANO, Patrizia 50 ZANCHI, Mauro 68, 230 ZANNONI, Simonetta 397, 398, 410 ZANONE POMA, Edoardo 56 ZANONI, Renzo 33, 495 ZANUSO, Susanna 21 ZARRI, Franco 283 ZASTROW, Oleg 553 ZUFFANELLI, Alberta 150

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E N R I C O C O L L E E D E L E C TA V I N C O N O I L P R E M I O “ V I E N N A A R T B O O K AWA R D ” 2 0 0 6

S

Importante riconoscimento internazionale per uno studioso di arti applicate italiano e per la casa editrice Electa. Nella cornice della manifestazione artistica “Vienna Art Week”, giunta quest’anno alla seconda edizione, l’8 aprile 2006 è stato conferito all’Electa il premio “Vienna Art Book Award” per il volume di Enrico Colle Il mobile neoclassico in Italia. Il premio viennese è di recentissima istituzione, e gode del sostegno della casa d’aste Dorotheum, del Museo Liechtenstein e del Liechtenstein Global Trust. È riservato a libri di arte antica fino al 1848, e ha una dotazione di 25.000 €, che ne fa il premio più ricco in questo campo. Tra le motivazioni il comitato scientifico presieduto da Arthur Rosenauer, professore di Storia dell’arte all’Università di Vienna, ha indicato il rigore scientifico, la cura grafica, la qualità delle immagini. L’attribuzione del “Vienna Art Book Award” 2006 è un prestigioso tributo all’attività di uno degli studiosi italiani più validi e attivi nel campo delle arti decorative, che si è guadagnato fama internazionale per le ricerche sugli arredi storici e sulle antiche dimore reali. Enrico Colle negli ultimi 15 anni ha curato vari importanti studi, che sono ora strumenti indispensabili di consultazione. Nella sua produzione vanno ricordati senz’altro i cataloghi dei Mobili di Palazzo Pitti (tre tomi stampati dalla casa editrice fiorentina Centro Di relativi a: Il periodo dei Medici: 1537-1737 [1997]; Il primo periodo lorenese 1737-1799, [1992]; Il secondo periodo lorenese 1800-1846: il Granducato di Toscana, [2000]) e quello che censisce gli arredi lignei delle Civiche raccolte d’arte applicata di Milano (Museo d’arti applicate: mobili e intagli lignei. Con la collaborazione di S. Zanuso, Milano, Electa, 1996). Di fondamentale valore poi è la collana all’interno del quale figura il volume premiato a Vienna. Sono i “Repertori d’arti decorative” dell’Electa di cui finora Colle ha fatto apparire, insieme a quello sul mobile neoclassico in Italia (il sottotitolo recita Arredi e decorazioni d’interni dal 1775 al 1800) altri tre volumi dedicati a: Il mobile barocco in Italia: arredi e decorazioni d’interni dal 1600 al 1738 (2000); Il mobile impero in Italia: arredi e decorazioni d’interni dal 1800 al 1843 (1998); Il mobile rococò in Italia: arredi e decorazioni d’interni dal 1738 al 1775 (2003). Dal 2000 Enrico Colle insegna Storia delle arti decorative presso la Scuola di Specializzazione dell’Università di Bologna. Nel 2003 ha fondato una rivista semestrale intitolata “DecArt” (editore Centro Di di Firenze) specializzata nel settore delle arti decorative, dedicata agli studi sull’evoluzione del gusto e dell’artigianato artistico europeo dal Medioevo fino ai giorni nostri, con attenzione anche alle influenze che l’arte orientale ebbe sulla cultura occidentale durante i secoli. Sei i fascicoli finora apparsi con approfonditi contributi sull’arte dei metalli, del legno, del vetro, della ceramica, del disegn, dell’oreficeria, dei tessuti.

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IN MEMORIAM Due gravi lutti per il mondo del restauro artistico italiano. Il 28 gennaio è scomparso a New York Mario Modestini, «il primo e il più consultato restauratore d’America» come è stato definito da Mina Gregori. Nato a Roma nel 1907, autodidatta, si era formato nella bottega del padre restauratore di antiche cornici e di sculture policrome. Dopo essersi occupato della collezione Rospigliosi e Bonaccossi, era stato incaricato nel 1949 dei restauri della prestigiosa collezione americana della Kress Foundation (1300 dipinti). Vicino a storici dell’arte autorevoli come Longhi, Zeri, Suida, Modestini fu chiamato ad intervenire anche su opere del Metropolitan Museum, venendo consultato spesso da istituzioni museali internazionali, e da collezionisti e mercanti americani ed europei. Sosteneva la necessità di procedere a cauti interventi, in contrasto con la richiesta di puliture radicali, tentando altresì di conciliare le esigenze della conservazione con le richieste di restauri completi e imitativi. Il 16 agosto si è spento a 85 anni nella sua casa natale a Marina di Massa, Umberto Baldini, storico dell’arte e uno dei padri dello sviluppo del restauro artistico in Italia. Entrato nei ranghi ministeriali negli anni Quaranta, era direttore del Gabinetto Restauri della Soprintendenza di Firenze ai tempi dell’alluvione (1966), distinguendosi come protagonista nel salvataggio delle opere d’arte, e nel magistrale restauro del Crocifisso di Cimabue. Nel 1970 fu nominato direttore dell’Opificio delle Pietre Dure, che grazie al suo particolare impegno (volle che nel nuovo assetto dell’istituzione ci fosse un gabinetto di restauro) crebbe nella considerazione generale diventando un istituto guida a livello mondiale nella conservazione e nel restauro delle opere d’arte. Nel 1983 diventò direttore dell’Istituto Centrale per il restauro di Roma. Baldini condensò il suo insegnamento sulle teoria e sulla tecnica del restauro nell’opera tutt’oggi fondamentale Teoria del restauro e unità di metodologia (Nardini, 1978).

S O R R E N TO

23 GIUGNO - 5 NOVEMBRE 2006

Prosegue (dal 23 giugno) fino al 5 novembre presso il settecentesco Palazzo Pomarici Santomasi, sede del Museobottega della Tarsialignea di Sorrento, la mostra dal titolo L’ I N TA R S I O. S O R R E N T O, N I Z Z A E R I T O R N O curata da Alessandro Fiorentino e dedicata all’arte dell’intarsio che nelle due città marittime si sviluppò all’inizio dell’Ottocento con un indirizzo comune, finalizzato alla produzione di oggetti e mobili intarsiati per turisti colti e raffinati. Entrambe le città erano già da tempo tappe fisse nel Grand Tour europeo dell’aristocrazia e della migliore borghesia internazionale. Le guide turistiche dell’epoca segnalano a Sorrento i laboratori di Luigi Gargiulo e di Michele Grandville, quelli di Claude Gimelle e di Joseph Ciaudo a Nizza. Alcuni di questi ateliers contavano oltre 40 addetti. La produzione in legno intarsiato delle due comunità ebbe molte affinità. Il legno più utilizzato è per entrambe l’ulivo, preferito per la forte essenza e per la sua diffusa coltivazione.

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MOSTRA


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I temi decorativi ricorrenti sono le scene di vita quotidiana riprese dalle incisioni di Dura, di Palizzi e di Pinelli per documentare il costume napoletano, e dai disegni dell’architetto Barberi per il costume nizzardo. La presenza degli intarsiatori sorrentini e nizzardi alle varie esposizioni artistiche dell’Ottocento contribuì a favorire la reciproca influenza. La tradizione vuole che ad un intarsiatore nizzardo si debba l’introduzione a Sorrento, verso la metà dell’Ottocento, della tecnica della ricacciatura con la quale, abbandonando la tecnica del bulino, s’incominciò a rifinire i vari dettagli delle scene intarsiate e delle ombreggiature con sottili tratteggi realizzati a penna con l’inchiostro di china. Dopo circa due secoli di storia mentre le botteghe degli intarsiatori sorrentini sono ancora attive con centinaia di addetti, a Nizza non c’è più traccia dell’illustre tradizione, essendo stati chiusi gli ultimi laboratori all’inizio del ’900. Una lacuna che la mostra sorrentina, che sarà replicata nel 2007 al Museo Massena di Nizza, si propone di contribuire ad eliminare. Il percorso espositivo inizia con quadri, incisioni, foto e documenti di Sorrento e di Nizza nell’Ottocento, per documentare il contesto ambientale, culturale ed economico nel quale le rispettive produzioni intarsiate si svilupparono. L’esposizione delle collezioni in legno intarsiato è divisa in due sezioni per mettere a confronto le tecniche di lavoro, i materiali utilizzati, i modelli progettuali, i temi decorativi della produzione sorrentina e nizzarda. Un’altra sezione è dedicata ai mobili nelle sue molteplici tipologie. Completa la rassegna una sezione dedicata alle tarsie moderne, nella quale vengono esposti i pannelli del Ciclo intarsiato della Gerusalemme Liberata, realizzati nel 1989 per la Sala del Consiglio del Municipio di Sorrento dagli intarsiatori sorrentini associati all’UAIS, e quelli della Via Crucis della Chiesa di Saint Pierre d’Arene di Nizza, realizzati nel 1974 da Suor Marie Philippa del Monastero “Sainte Claire” di Nizza. La documentazione iconografica, gli oggetti ed i mobili intarsiati di Sorrento, sono stati selezionati tra le collezioni del Museobottega della Tarsialignea; mentre le tele, i disegni, gli oggetti ed i tavoli intarsiati di Nizza provengono dalle collezioni del Museo Massena e da collezionisti privati. A chiusura della manifestazione è previsto un convegno con il coinvolgimento di studiosi dell’arte della tarsia, italiani e francesi, per un approfondimento sulle varie problematiche illustrate dalla mostra e per verificare la possibilità di promuovere a Nizza, con il contributo degli intarsiatori sorrentini, la formazione di una nuova generazione di artigiani nel comparto della tarsia lignea.

ESPOSIZIONE

CAMERINO

FINO AL 5 NOVEMBRE 2006

Si svolge fino al 5 novembre la bella esposizione di Camerino sul R I N A S C I M E N T O S C O L P I T O. M A E S T R I D E L L E G N O T R A M A R C H E E U M B R I A , l’appuntamento culturale del 2006 sulla singolare stagione culturale e artistica maturata a Camerino nel Quattrocento intorno alla corte dei da Varano. Una mostra, curata da Maria Giannatiempo Lopez ( il catalogo è di Raffaele Casciaro) in linea di stretta continuità con le recenti rassegne “I volti di una dinastia: i da Varano di Camerino” (2001)

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e “Il Quattrocento a Camerino, Luce e prospettiva nel cuore della Marca” (2002). La mostra raccoglie nella sala Carlo Crivelli del Convento di San Domenico un fascinoso gruppo di sculture lignee rinascimentali presentate per la prima volta all’attenzione del grande pubblico. Sono 50 pezzi sacri e preziosi realizzati tra il XV e il XVI secolo in piccoli centri di un’area che copre i versanti orientale e occidentale dell’Appennino umbro-marchigiano: un territorio che comprende i circondari di Camerino e San Severino Marche, le valli di Visso e l’area umbra tra Cascia e Norcia, nonché qualche zona più a nord (Corinaldo) e a sud (Montemonaco). Riaffiora così l’unità storico-culturale delle circoscrizioni politiche ed ecclesiastiche del basso medioevo (il ducato e l’antica diocesi di Camerino), fondamentali per comprendere le interferenze figurative intercorse tra aree che hanno elaborato nel corso dei secoli un linguaggio artistico comune o affine. L’esposizione è il punto d’arrivo di un lungo lavoro di ricerca protrattosi per anni, nel tentativo di mettere a fuoco figure di artisti, di identificare botteghe, di collegare sculture poco o nulla documentate, che comunque rappresentano uno splendido patrimonio delle Marche. Accenti nuovi, in particolare, vengono usati per le committenze delle Clarisse di Camerino e per l’attività del Maestro della Madonna di Macereto, il cui raggio d’azione fu ampio e l’influsso profondo e duraturo. Intorno alle opere dei maestri lignei sono esposti argenti e rami sbalzati, terracotte e sculture in pietra, tavole e disegni; così pure i tesori dipinti custoditi nelle sale della civica pinacoteca si pongono come naturale confronto della rassegna lignea così da evidenziare il suo rapporto con la pittura del Quattrocento. I prestiti per la rassegna marchigiana sono stati molteplici e di qualità: in particolare da Firenze (Museo del Bargello, Opera di Santa Maria del Fiore, Collezione Corsini), da Parigi (Musée JacquemartAndré), dal Vittoriale di Gardone (un San Sebastiano della collezione di Gabriele D’Annunzio), dalla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, oltre che da importanti collezioni private, come quella dei Leopardi di Recanati. Sarà difficile per il visitatore sottrarsi alla malia della scoperta dei luoghi da cui provengono le sculture esposte. A partire dalle residenze del potere, dello svago e della religiosità dei signori da Varano”: dal Palazzo ducale, all’Annunziata, al Cattedrale di Camerino, per allargarsi a Castelraimondo al castello di Lanciano (residenza estiva delle donne di casa Varano), al Castello di Beldiletto a Pievebovigliana (dimora di svago degli uomini di casa Varano) al Santuario di Macereto a Visso (nella foto: Maestro della Madonna di Macereto, Madonna di Macereto, legno intagliato e policromo, ultimo quarto XV sec., VISSO, Museo civico diocesano).

N O V E M B R E - D I C E M B R E C O N T I N U A L A PA S S I O N E P E R L’ A N T I Q U A R I ATO Settembre e ottobre hanno offerto tappe di qualità nel sempre più brillante fil rouge di mostre di antiquariato, con sezioni importanti dedicate agli arredi antichi. Hanno da poco chiuso i battenti con bilanci lusinghieri:

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SEGNALAZIONI


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CREMONANTIQUARIA Cremona Fiere - www.cremonafiere.it DAL 16 AL 24 SETTEMBRE ANTIQUARI A STUPINIGI ( Q U A N D O I L T E M P O D I V E N TA FORMA) Palazzina di Caccia di Stupinigi, Nichelino, a cura dell’Associazione Piemontese Antiquari www.associazionepiemonteseantiquari.it DAL 7 AL 15 OTTOBRE R O M A G N A A N T I Q U A R I AT O Forlì - Fiera di Forlì www.fieraforli.it DAL 21 AL 29 OTTOBRE REGIUM ANTIQUARIA. ORO, INCENSO E ANTICO Reggio Emilia, Quartiere fieristico www.regium.it DAL 21- 29 OTTOBRE RASSEGNA ANTIQUARIA Montichiari (Bs) - Centro Fiera del Garda www.rassegnaantiquaria.it 28 OTTOBRE - 5 NOVEMBRE

Altre importanti iniziative sono prossime all’apertura. Ricordiamole:

TRIESTE ANTIQUARIA ( X X I V M O S T R A M E R C AT O D E L L ’ A N T I Q U A R I AT O ) Palazzo dei Congressi Stazione Marittima: Consorzio Promotrieste, in collaborazione con Associazione Antiquari Friuli-Venezia Giulia www.triesteantiqua.it DAL 28 OTTOBRE AL 5 NOVEMBRE G O T H A D I PA R M A ( B I E N N A L E D I A N T I Q U A R I AT O , VIII EDIZIONE) Fiere di Parma in collaborazione con l’Associazione Antiquari d’Italia www.fiereparma.it DAL 4 AL 12 NOVEMBRE MAM ANTIQUARIA, M I L A N O A RT E A N T I C A MODERNA Fieramiloanocity; Expo Cts, Camera di Commercio, Fiera di Milano www.mamaantiquaria.expocts.it DAL 9 AL 12 NOVEMBRE BRIXIA ANTIQUARIA XIX EDIZIONE Brescia, Nuovo Polo Fieristico a cura del Sindacato Antiquari bresciani e Brescia Ascom Servizi www.brixiaantiquaria.it DAL 25 NOVEMBRE AL 3 DICEMBRE

A VENEZIA IL X SALONE DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI Compie dieci anni il Salone dei Beni e delle Attività Culturali di Venezia, che ripropone il suo ormai tradizionale appuntamento al Terminal Passeggeri l’1-3 dicembre 2006. È un traguardo importante – come non mancano di sottolineare i responsabili degli Enti promotori, il Presidente di Veneziafiere, Marino Cortese e il Direttore del Salone stesso, Maurizio Cecconi. La manifestazione si riconferma di respiro nazionale nel settore della valorizzazione dei beni culturali, e come momento di confronto e incontro condiviso tra tutti gli operatori del settore. L’edizione 2005 ha registrato livelli di partecipazione particolarmente soddisfacenti: oltre 160 espositori tra enti pubblici e privati, circa 60 tra convegni ed eventi, più di 170 relatori per un pubblico che ha superato le 10.000 presenze; e soprattutto l’importante sinergia tra pubblico e privato con la presenza del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, di

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9 Regioni e una significativa partecipazione delle Province (più di venti) e, da parte privata, con più di 60 espositori. Il Salone 2006 vede confermate importanti collaborazioni come quella con l’Amministrazione Provinciale di Venezia che ha permesso l’anno scorso di innescare un concreto dialogo tra le numerose Province italiane, ponendo basi concrete per un tavolo di lavoro e scambio dei diversi modelli operativi di valorizzazione del territorio italiano. In particolare viene rinnovato lo stretto legame con uno dei settori fondamentale dell’economia e della valorizzazione del nostro Paese, il turismo culturale. Grazie alla collaborazione con l’Assessorato al Turismo e le APT della Provincia di Venezia, il Salone ospita infatti la VIII edizione di Viaggiandum Est, Borsa del Turismo Culturale. Un workshop dedicato agli incontri professionali tra qualificati tour operator specializzati in turismo culturale, i rappresentanti delle imprese e dei sistemi di offerta territoriali, Fondazioni ed Enti Culturali, agenzie di organizzazione eventi, e le Istituzioni Locali che presentano il loro “bene culturale” in quanto offerta turistica. Tra le molteplici iniziative che arricchiscono il programma del Salone si distinguono la IX edizione di Venezia Premio alla Comunicazione (finalizzato alla valorizzazione e divulgazione dei beni e delle attività culturali), il V Premio Bella scrittura per l’opera d’arte (in collaborazione con l’IRRE Veneto, dedicato agli studenti di scuole medie primarie, inferiori e superiori), L’Arte in Cucina (degustazioni, incontri letterari, presentazioni di volumi sul cibo come bene culturale) il Cinema al Salone (il meglio della produzione di video d’arte e film sull’arte a cura di AsoloCartoon Festival e di AsoloArtFilmFestival). Punta di diamante del Salone rimane senz’altro la seconda edizione di Restaura con un’importante sezione di incontri e convegni e un ampio ventaglio espopsitivo che daranno risalto alle tematiche specifiche legate al restauro e alla conservazione dei Beni Culturali, e vetrina alle proposte più innovative degli espositori in tema di: Strumenti e metodi diagnostici; Materiali e macchine per il restauro; Procedure tecniche per la conservazione nei settori Servizi, strumenti e apparecchiature per il restauro: architettonico / scultoreo e lapideo / cartaceo / pittorico / ligneo / archeologico / ambientale; Attrezzature e servizi di rilevamento e diagnostica; Servizi, strumenti e prodotti per la disinfestazione e disinfezione; Software specializzati nel settore del restauro; Fondazioni e Associazioni specializzate nell’opera di restauro e conservazione; Centri di ricerca dedicati alle tecniche di restauro e conservazione; Enti di formazione professionale; Editoria specializzata.

Pagina a fianco: Cabinet on stand dell’intarsiatore Tarcisio Colombo che riprende un arredo dell’ebanista olandese J. Van Mekeren (1658 ca- 1733) conservato presso il Victoria and Albert Museum. L’opera rientra nel progetto Il nuovo mobile classico promosso dall’APA e dalla CNA di Como, con realizzazione a cura del Centro Legno Arredo di Cantù (CLAC) ed esposizione nella mostra alla Galleria del Design e dell’Arredamento della stessa cittadina lombarda.

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IL LEGNO NELL’ARTE Tarsie e intagli d’Italia. Nuova serie Rivista quadrimestrale ISSN 1594-7009 Direttore responsabile: Pier Luigi Bagatin Redazione: Elisabetta Baesso, Giovanna Baldissin, Marisa Caprara, Alessandro Fiorentino, Clara Santini. Sede operativa redazione: presso la direzione (vicolo Santa Barbara, 24 - 45100 Rovigo; tel. 0425 26773) Referente per le inserzioni pubblicitarie: Carla De Poli Editore: Antiga Edizioni/Grafiche Antiga Spa, via Canapificio 17 - 31041 Cornuda (TV) illegnonellarte@graficheantiga.it Autorizzazione del Tribunale di Treviso n. 1124 del 22.03.2001 © giugno 2006 Tutti i diritti riservati. La traduzione, la riproduzione, la memorizzazione, l’adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (inclusi i microfilm, le copie fotostatiche ed ogni altro tipo di supporto) sono consentiti previa autorizzazione scritta dei detentori del copyright.

Referenze fotografiche: Si ringraziano per la gentile collaborazione: Francesca Antonacci (Roma): p. 34, 36, 37, 39; Marisa Caprara (Bologna): p. 1, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 29, 30, 31, 56, 65, 69; CLAC (Centro Legno Arredo Cantù): p. 77; Fondazione Carife (Ferrara): p. 14-15; Galleria Tornabuoni Arte (Firenze): p. 50, 51, 52, 53, 54, 55; Le Immagini Multimedia (Ferrara): p. 4, Legno d’Epoca (Montebelluna): p. 46, 48, 49 Musei civici d’arte antica (Ferrara): p. 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13; Museo bottega della Tarsialignea (Sorrento): p. 70, 72, 73; Museo civico diocesano (Visso): p. 74; A. Pradère, Gli ebanisti francesi, Milano, Leonardo, 1989: p. 40; Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico e Demoantropologico di Modena e Reggio Emilia (Modena): p. 16, 17, 33; L’editore si dichiara pienamente disponibile a regolare eventuali spettanze per i diritti di riproduzione per quelle immagini per le quali non sia stato possibile reperire o chiarire con esattezza la fonte.

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Quadrimestrale di Storia, Arte e Cultura del Legno

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NEL PROSSIMO NUMERO:

>>I L C R I S TO D I S A N T ’ A G O S T I N O D I R I M I N I >> G L I I N C U N A B O L I D E L L A TA R S I A P R O S P E T T I C A : GLI ARMADI DELLA SAGRESTIA DELLE MESSE >> D U E TA R S I E V E N E Z I A N E D E L C I N Q U E C E N TO >> L E G N I P E R L A M U S I C A : I C E L L I D E L M O N TA G N A N A >> L A C O L L E Z I O N E M O S C A >> L E G N I N E L L’ A RT E . I I I >> O U R A G E >> A G G I O R N A M E N T I B I B L I O G R A F I C I >> S E G N A L A Z I O N I E A P P U N TA M E N T I

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TARSIE E INTAGLI D’ITALIA

I COLORI DEL LEGNO

Il monumentale ciborio della Certosa di Ferrara INCÀVI E TA S S E L L I

Davanti all’altare delle statuine il Coro dei Canozi MOBILE MOBILIA

Due tarsie veneziane del Cinquecento: la Speranza Divina, San Teodoro

Il legno nell’arte nuova serie - Antiga Edizioni - Quadrimestrale - Anno I - n. 3 - Dicembre 2006 - € 15,00

5-12-2006

ANNO I - n. 3 - DICEMBRE 2006

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