Olio Officina Almanacco 2017

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Com’era lo zio Mingo, papà? Raccontami tutta la storia, dall’inizio. (…) - Una volta gli dissi: “Zio Mingo, cosa ti rende così forte?” Lo zio Mingo mi sollevò con una mano, mi tenne in alto, e disse: “Olio d’oliva”. John Fante John Fante, Full of Life, traduzione di Alessandra Osti, Einaudi Stile Libero


Sommario olioofficina / anticamera

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> Luigi Caricato visto da Gianfranco Maggio

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> Luigi Caricato: Qualcosa di nuovo

6 – 7 > Alfonso Pascale: L’arte è tutta energia 8

> Sossio Giametta: La civiltà e la natura

10 – 21 > Rosalia Cavalieri: Gustare a distanza. La fruizione visiva del cibo 22 – 30 > Alberto Guidorzi: Il difficile rapporto con il cibo 32 – 33 > Maria Carla Squeo: L’oleologo e l’innesto 34 – 37 > Domenico Fazio: L’extravergine come non è mai stato fatto 38 – 55 > Antonio Monte: Le macchine utilizzate nella produzione della farina, del vino e dell’olio. Dai modelli della protoindustria ai primi brevetti

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56 – 59 > Maria Carla Squeo: Il calendario dell’olio Agridè 60 – 61 > Luigi Caricato: Antidepressivi naturali 62 – 71 > Massimo Cocchi: L’olio da olive e il cioccolato. Alimenti strategici per il controllo dei disordini dell’umore e del rischio cardiovascolare. La salute vien mangiando 72 – 73 > Luigi Caricato: Virgo, virginis 74 – 80 > Antonio Pascale: Da Pinocchio a Masterchef 82

> Amedeo Anelli: Sonatina (monotematica e bipartita)

84 – 87 > Silvana Grasso: Madonna mia, Madonna mia 88 – 94 > Luigi Caricato: “Olio d’artista”, una mostra in continua evoluzione

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Qualcosa olioofficina / luigicaricato

di

nuovo

di Luigi Caricato

È ancora possibile inventare qualcosa di nuovo? Ripensare e rimodulare quanto già fatto e detto in passato, o addirittura riformulare radicalmente tutto? Ritengo proprio di sì. Il nuovo in fondo ci insegue e non possiamo sottrarci all’imponderabile. L’uomo, d’altra parte, è fatto per giungere passo dopo passo a compiere grandi conquiste, e non può certo continuare a replicare il passato, pronunciare le stesse parole, compiere le stesse azioni. Non tutti però sono in grado di pensare qualcosa di nuovo. Eppure, tutti evocano il nuovo, come se fosse una necessità di cui non si può fare a meno. Anche se, in verità, si evoca il nuovo solo a parole. Il nuovo piace, ma ciò che più spaventa è proprio l’incombenza del nuovo, perché implica la sfida dell’incertezza, il coraggio di agire. La parola stessa, nuovo, tende a essere equivocata. Tutti infatti amano ciò che è nuovo, ma sostanzialmente, quando devono fare qualcosa di nuovo, si dileguano. Provate a pensare e a realizzare qualcosa di nuovo, se ne avete la forza, e apritevi alla sfida. Non fate finta di nulla. Anche se si è persone normali, tutti possono aspirare al nuovo. Non occorre essere persone eccezionali. La differenza sta tutta nell’avere idee, la vera forza capace di esprimere il nuovo a partire da se stessi.

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olioofficina / visioni

L’arte è tutta

energia

di Alfonso Pascale

L’arte rappresenta un elemento fondamentale per ciascuno di noi. L’energia prodotta dall’educazione alla sensibilità artistica ci mette in movimento e ci fa interagire con l’altro. Ci rende creativi e capaci di coltivare l’innovazione, creando le basi dell’economia della conoscenza, laddove il valore si concentra nelle idee e nel senso che diamo alle nostre vite, moltiplicandosi con il digitale, nelle reti che connettono flussi e luoghi. Non c’è sviluppo, d’altra parte, se le arti non sono poste al centro di tutti i programmi di apprendimento. Se vogliamo educarci a contenere il nostro narcisismo e a considerare l’altro una persona cui prestare la nostra cura, dobbiamo educarci al senso artistico. La musica, il teatro, la poesia, il romanzo, la pittura, la danza, la fotografia e il cinema hanno un’importanza enorme nell’educazione e nell’autoapprendimento

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per compiere un doppio movimento: reflectere, “riflettere” – ripiegarci su noi stessi, considerare tutto attentamente, raccogliere le proprie energie – e proiectare, “progettare” – gettarci in avanti verso l’altro, avere comprensione per l’altro, collaborare con l’altro, costruire insieme all’altro qualcosa di concreto.

La letteratura, il teatro, la fotografia, la pittura e il cinema ci aprono all’esperienza di partecipazione verso la posizione stigmatizzata: la diversità etnica o di genere, la disabilità, eccetera. Solo allora ne possiamo percepire fino in fondo il disagio e cambiare il nostro modo di porci.

Nell’economia della conoscenza, fondata sulla collaborazione e l’innovazione sociale, dovremmo mettere al centro di tutti i programmi di apprendimento l’educazione alla sensibilità artistica e l’utilizzo integrato delle capacità creative e delle tecnologie digitali.

Lo sguardo interiore, educato dalle arti, produce una formidabile energia per metterci in movimento e interagire con l’altro. Produce un antidoto alla paura autoconservativa che è tanto spesso legata alle pulsioni egocentriche di controllo. Permette di essere creativi e di coltivare l’innovazione. Ci predispone ad apprezzare gli elementi immateriali delle cose che ci circondano e il valore dei beni culturali, paesaggistici, architettonici e archeologici. Crea le basi dell’economia della conoscenza, in cui il valore si concentra nelle idee e nel senso che diamo alle nostre vite e si moltiplica con l’uso delle tecnologie digitali e mediante le reti che, nel mondo globale, sapientemente connettono i flussi e i luoghi. Non c’è sviluppo se prima non ci educhiamo alla sensibilità artistica.

La recitazione, il canto e la danza ci permettono di esplorare ruoli, posture, gestualità e riti non abituali e di porci nei panni dell’altro con tutto il nostro corpo e la nostra mente. La letteratura, la fotografia, la pittura e il cinema ci danno la possibilità di sviluppare l’immaginazione. Attraverso questa, riusciamo a sviluppare la capacità di cogliere la piena umanità di persone che incontriamo tutti i giorni e nei

Lo sguardo interiore, educato dalle arti, produce una formidabile energia per metterci in movimento e interagire con l’altro. Produce un antidoto alla paura autoconservativa e permette di essere creativi e coltivare l’innovazione. confronti delle quali i nostri rapporti sono superficiali, nella migliore delle ipotesi, o, nella peggiore, viziati da umilianti stereotipi. E gli stereotipi in genere abbondano in un mondo che, come il nostro, ha eretto alte barriere tra gruppi, e dove la diffidenza rende difficile ogni possibile incontro. 7


olioofficina / filosofia

La civiltà

e la natura di Sossio Giametta

La civiltà, dice Freud, è la nostra difesa contro la natura. In che senso? Nel senso che la natura è fatta di contrasti elementari, violenti, selvaggi e la civiltà cerca di domarli. Essa cerca, per quanto possibile, di canalizzare le forze elementari, per così dire di antropomorfizzare la natura. Naturalmente ciò è possibile sempre e solo fino a un certo punto, perché di fondo la natura, con gli esseri che ne fanno parte, rimane indomita. Ciò non toglie che chi vive in un paese civile vede come la vita possa essere governata da regole di coesistenza e svolgersi pacificamente; lo vede quotidianamente e non ha bisogno di dimostrazioni. Le civiltà, tuttavia, non sono sempre uguali a se stesse. Nascono, si sviluppano e muoiono, come gli esseri umani, perché sono esse stesse organismi, che seguono la loro legge interna. Le circostanze esterne possono condizionare lo svolgimento di questa legge, ma non possono cancellare la legge stessa.

La Natura è come una gran macchia d’olio che placa le onde in un tratto di mare.

All’inizio, e fino all’epoca del suo massimo sviluppo, ogni civiltà si conquista uno spazio di autonomia, che è uno spazio di libertà e di umanità, rispetto alla natura incoercibile, violenta e irrazionale. È come una gran macchia d’olio che placa le onde in un tratto di mare. Ma nella fase del suo declino la civiltà perde a poco a poco tale autonomia, finché l’umanità resta schiacciata sulla natura selvaggia, si riduce ad essa senza intercapedini, combacia con essa, ritornando essa stessa allo stato elementare, selvaggio.

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OGNI GOCCIA D’OLIO RACCONTA UNA STORIA. D’AMORE. Ogni famiglia fa la storia. Vogliamo raccontarvi la nostra. Immaginate una grande foto, così grande da farci stare dentro quattro generazioni, unite. Un ritratto che include anche tutta la famiglia allargata comprendente chi, lavorando in azienda, è ormai di casa. Sono storie vere, d’epoca e moderne. Sprigionano un profumo intenso BGD©@QQHU@©ȯMN©@K©BTNQD © lasciando nell’aria un sapore unico. Come quello dell’olio di famiglia Coricelli.

Racconti di Famiglia.


olioofficina / saperi

Gustare a distanza la fruizione visiva del cibo

di Rosalia Cavalieri L’impero della vista Le società umane, e quelle occidentali in particolare, «sono caratterizzate da un’ipertrofia dell’occhio» (Le Breton 2006, p. 31), il senso dominante nel nostro universo percettivo. Considerato fin dall’antichità classica il senso nobile per eccellenza, il più intellettuale (a partire dalla gerarchia dei sensi proposta da Aristotele: Del senso e dei sensibili, 436b-437a; Metafisica, 980a), la vista si è configurata per

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comprensione, all’attenzione, alla chiarezza, noi umani come la fonte di conoscenze più ceralla certezza, alla previsione, alla capacità di te, affidabili e oggettive e anche il senso più controllo, alle emozioni e ai desideri, riflettenstimolato nel nostro rapporto con il mondo, in do in tutti i casi una modalità di rappresenvirtù della sua distanza dall’oggetto percepitazione mentale ampiamente improntata sul to, considerata quest’ultima un vantaggio sul senso della vista, una proiezione all’esterno di piano cognitivo, estetico e morale. Sempre al un modo di pensare al mondo e di interpretarcentro delle nostre attività sociali, individuali, lo prettamente visivo. intellettuali e pratiche, gli occhi, a torto o a raL’era dell’informazione prima, quella delle imgione, si sono conquistati nel corso dei millenmagini e dei media poi, e per ultima in ordine ni il primato indiscusso su tutti gli altri sensi, di tempo l’era digitale, hanno contribuito potestimoniato anche dalla quantità di termini, tentemente a rafforzare il primato indiscusso letterali e metaforici riferiti all’attività del vedella vista, consacrandone definitivamente dere di cui abbonda il nostro linguaggio. «Vela supremazia su tutti gli altri sensi e caratdere – osserva l’antropologo sensoriale David terizzandoci come una specie “visiva” anche Le Breton – è la via necessaria per giungere al sul piano culturale. Tutto questo non poteva riconoscimento. Una terminologia di tipo visinon influenzare vo ordina le moanche il nostro dalità del pensieL’occhio vuole la sua parte, sebbene a rapporto con ro nelle diverse l’attività più anlingue europee» nutrirlo e ad appagarlo non sia il cibo nella tica, più istinti(2006, pp. 45-6). sua materialità, quanto piuttosto la sua va e necessaria Ed espressioni immagine, il suo mostrarsi, il bello da vedere da una parte, e di uso comune ancor più che il buono da mangiare. più elaborata, come “vedere per culturalizzata e credere”, “non consapevolmenvedere al di là te goduta dall’altra: ovvero il nostro rapporto del proprio naso”, “balzare agli occhi”, “tenecon il cibo. L’occhio vuole la sua parte anche in re d’occhio” qualcuno o qualcosa, “non vederquesto caso, sebbene a nutrirlo e ad appagarlo ci chiaro”, “mettere in chiaro”, “vedere con i non sia il cibo nella sua materialità, quanto propri occhi”, chiedere a qualcuno “come vede piuttosto la sua immagine, il suo mostrarsi, una certa cosa”, “averne viste tante”, “ vedersi il bello da vedere ancor più che il buono da perduto”, “non dare nell’occhio”, “rifarsi gli ocmangiare. chi”, “essersela vista brutta”, “vedere lontano”, “aprire gli occhi”, “chiudere un occhio”, “pianL’occhio nel piatto tare gli occhi addosso a qualcuno”, “avere le bende sugli occhi” o “gli occhi foderati di proDal momento ormai lontano in cui i nostri ansciutto”, “leggere negli occhi”, “essere un putenati hanno abbandonato il buio mondo delle gno in un occhio”, “vederci doppio”, “mangiare foreste, dove la ricerca e il procacciamento del con gli occhi”, dire a qualcuno “vedi un po’ tu”, nutrimento erano affidati prevalentemente “non vederci per la fame”, “schizzare veleal naso, issandosi in piedi e cominciando ad no dagli occhi”, “vedersi in una descrizione”, affrontare gli spazi aperti, lo sviluppo della “lasciarci gli occhi”, “fare gli occhi dolci”, sono visione a colori (conseguente al ridimensionacomunemente associate alla conoscenza, alla 11


scelte), sia in quella del cibo da mangiare (e lo era già per i nostri antenati arboricoli frugivori) o da evitare, e almeno al primo impatto e istintivamente anche nel giudizio della sua piacevolezza. Un’altra prova che l’espressione “mangiare prima con gli occhi” non è soltanto un modo di dire viene anche dalla ricerca scientifica. Uno studio sugli effetti della motivazione sulla percezione visiva anticipata di stimoli per noi rilevanti perché collegati a un bisogno ha dimostrato che le persone affamate vedono le parole riferite al cibo in modo più chiaro e nitido rispetto agli altri vocaboli e hanno prestazioni migliori nella parte di riconoscimento visivo relativa a termini culinari. La motivazione ci porta a vedere immediatamente ciò che vogliamo vedere, a elaborare rapidamen-

mento dell’apparato olfattivo) – unitamente alla liberazione delle mani, vantaggiosa anche per il trasporto del cibo a distanza – si è rivelato decisivo per la ricerca del nutrimento, e anche molto più rapido e immediato del naso, per la discriminazione del colore dei frutti e del loro grado di maturazione, e per la capacità di vedere i particolari statici, utile a individuare il cibo immobile. E d’altra parte nessuno oggi oserebbe mettere in discussione il ruolo svolto dall’occhio nel valutare l’accettabilità di un cibo e nel piacere di gustare una pietanza: le nostre esperienze gustative sono influenzante anzitutto da ciò che vediamo o non vediamo, da come cibi e bevande appaiono ai nostri occhi. La prima sensazione di piacere legata al cibo in genere ci viene dalla vista, dal colore, dal-

Se da una parte vedere altri che cucinano può invogliare a ripetere l’esperienza, dall’altra il troppo guardare finisce col sublimare il fare e il gustare, appagandoli in modo passivo.

te e in modo inconsapevole gli stimoli più inerenti alle necessità di soddisfare un bisogno, svolgendo un ruolo di pre-sensibilizzazione nella percezione precoce (Radel-ClémentGuilloti 2012). Se le cose stanno così, qual è dunque il ruolo della vista nell’atto di gustare un piatto e in che misura ciò che vediamo condiziona il nostro giudizio sulla gradevolezza degli alimenti? La vista, come dicevamo, ci permette di formare le prime impressioni sull’aspetto di un piatto e sulla sua consistenza (percepita anzitutto con gli occhi) ancor più che sulla sua bontà, impressioni che troveranno conferma

la presentazione di una pietanza, dal suo impiattamento, dal suo aspetto, dalle sue geometrie, dalla sua armonia, dalle sue proporzioni, dalla sua composizione e non ultimo dalla gratificazione estetica della mise en plat – un vero spettacolo per gli occhi – che possono già procurarci l’acquolina in bocca e anticiparcene il gusto: da qui il senso dell’espressione comune “si mangia prima con gli occhi che con la bocca”. E la vista dopotutto è fondamentale per orientarsi sia nella scelta del cibo da acquistare (com’è ben noto ai pubblicitari che manipolando l’impatto visivo di cibi e bevande influenzano il nostro gradimento e le nostre 12


di Enologia di Bordeaux ha dimostrato l’illusione sensoriale di cui è stato vittima un gruppo di laureandi di un corso per esperti di vino, invitati a degustare un vino rosso e uno bianco: condizionati dalla vista, hanno descritto il vino bianco a loro insaputa tinto di rosso con descrittori tipici dei vini rossi. Interferendo con la percezione olfattiva e gustativa, il colore del vino ha influenzato fortemente il loro giudizio, rivelando ancora una volta quanto ciò che vediamo condizioni le nostre esperienze gustative. Lo stesso discorso vale anche per alimenti solidi come torte, biscotti, caramelle, dolci al cucchiaio: un colore inatteso influirà sulla percezione del sapore e anche il fatto di essere debitamente informati della contraddizione tra colore e sapore non impedisce alle persone di avvertire modificazioni del gusto (cfr. Delwiche 2004). Insomma: cambiando il colore, cambia anche la gradevolezza del sapore del cibo e il piacere che ne traiamo. Questo porta a supporre che le attese relativamente al colore e all’aspetto dei cibi e delle bevande condizionino la nostra percezione del loro sapore (cfr. Bruno et al. 2010, pp. 152-5). Anche se non ne siamo del tutto consapevoli, quando mangiamo usiamo sempre di più gli occhi e sempre meno il naso e il palato. La ricerca neurofisiologica sui primati conferma d’altra parte l’attivazione dei medesimi gruppi cellulari tanto nel gustare un alimento quanto nel vederlo, e gli studi effettuati mediante le tecniche di brain imaging negli umani mostrano che l’assaggio di un alimento, per testarne la commestibilità, attiva automaticamente aree dedicate alla visione anche in mancanza totale di stimoli visivi (cfr. gli studi di Rolls-Baylis 1994 e Royet et al. 1999, cit. in Rosenblum 2010, pp. 167-8). Quanto alla corteccia orbitofrontale, area dedicata alla complessa sensazione del sapore e perciò sede elettiva dell’interazione di stimoli visivi,

quando passeremo all’assaggio. L’aspetto di una pietanza, il colore, la forma e la sua presentazione nel piatto anticipano le informazioni olfattive e gustative, come ben sanno anche i degustatori di vino che affidano il primo giudizio sul “liquido odoroso” proprio all’esame visivo. E persino il piatto o il bicchiere con cui si veste un cibo o un vino influenza l’esperienza gustativa più di quanto immaginiamo, rendendo cibi e bevande più o meno appetibili e desiderabili. I colori di un cibo o di una bevanda, oltre a favorire l’identificazione di un odore (o in certi casi a ingannarci), ne influenzano anche il grado di piacevolezza. Belli da vedere, annunciano l’amabilità delle vivande. Viceversa un colore inatteso o bizzarro, per esempio una bistecca colorata di viola accompagnata da un contorno di patatine verdi, suscita disgusto (cfr. Bruno et al. 2010, pp. 152-3). E persino la forma di ciò che mangiamo e il taglio con cui è stata ottenuta fanno la differenza, valorizzando un ingrediente tanto dal punto di vista visivo quanto da quello gustativo e tattile. L’esperienza comune e a maggior ragione la ricerca mostrano del resto quanto quel che vediamo o che non vediamo nel piatto e nel bicchiere condizioni fortemente le nostre esperienze gustative, influenzando anche le altre caratteristiche sensoriali: se, per esempio, a un succo d’arancia viene conferito un colore più acceso, e viceversa a una bevanda dal gusto deciso viene conferito un colore smorto, l’intensità cromatica determinerà quanto forte ci sembrerà il sapore dell’una e dell’altra. E aumentando l’intensità cromatica di una bevanda aumenterà anche l’aroma percepito: il solo fatto di vedere un succo d’arancia, normalmente dotato del suo odore, più intensamente colorato, lo rende ai nostri occhi, è proprio il caso di dirlo, ancora più profumato. Un esperimento ormai noto condotto da Gil Morrot e dai suoi colleghi (2001) alla Facoltà 13


colare ma sicuramente più attento e specializzato per gli amanti dell’arte di mangiar bene e per chi è particolarmente sensibile ai temi gourmand. E persino in molte trasmissioni di vario intrattenimento molto spesso c’è uno spazio dedicato alla preparazione di un piatto: non si perde occasione per le esibizioni culinarie, per le competizioni all’ultimo coltello, per suggerire ricette e per fare bella mostra di manicaretti. Ce n’è insomma per tutti i gusti e forse anche troppi. Il cibo e la cucina, ancor più del mangiare nel senso di consumo, dunque, hanno conquistato gli schermi televisivi, divenendo l’argomento più presente negli attuali palinsesti di moltissimi Paesi. Se il tema gastronomico ottiene tanto successo, comprovato dall’alto livello di audience, è perché si tratta di un linguaggio universale comprensibile da tutti, di un tema che mette tutti d’accordo, di un’attività necessaria e soprattutto piacevole, divertente, rilassante, rassicurante, gratificante, appartenente a ogni uomo e pertanto condivisa. Cucinare poi è un’attività profondamente radicata dentro di noi, non solo e non tanto per ragioni materiali ma soprattutto per le sue caratteristiche culturali e simboliche specie-specifiche. E l’intrattenimento gastronomico, dove fanno da protagonisti i fornelli, le pignatte, le ricette e i cuochi professionisti e amatoriali in azione, fondendosi con quello dello spettacolo sembra essere diventato la principale, se non l’unica, occupazione di molti chef. Si spadella, si soffrigge, si sfiletta, si manteca, si taglia, si sbuccia, si spennella, si scioglie, si frulla, si salta, si inforna, si impiatta, tutto rigorosamente dal vivo, mostrando agli spettatori come preparare ogni sorta di pietanze passo dopo passo con piatti sempre più scenografici. Ma ahinoi lo spettacolo si limita solo alla vista, ai colori, all’aspetto e alla manualità, escludendo i sensi più edonistici e anche i più attivi e i più coinvolti cognitivamente nell’esperienza

gustativi e olfattivi relativi al cibo, la sua attività risulta potenziata quando odori e colori di cibi e bevande sono congruenti e, viceversa, diminuita quando la loro associazione è inappropriata (cfr. Bruno et al. 2010, pp. 155-6). L’ennesima prova dunque dell’influenza della vista sul nostro modo di apprezzare i sapori. Il gusto diventa spettacolo Se ciò non bastasse, la centralità della vista nell’esperienza gastronomica è manifesta in una delle passioni “gustose” più recenti: la spettacolarizzazione del gusto, della cucina e del lavoro dei cuochi, una tendenza dilagante, diffusa da qualche decennio, che ha trasformato il piacere alimentare in un fenomeno di massa, collocando un’attività quotidiana al centro dell’intrattenimento televisivo (per una panoramica storica cfr. Abbiezzi 2014). Le nostre TV negli ultimi anni sono state letteralmente conquistate da una crescente quan-

La food photography si esprime in varie forme e assume significati diversi. Una delle più diffuse è il food porn, una modalità che esalta anche il più piccolo dettaglio del cibo attraverso inquadrature sensuali. tità di programmi di cucina – e più in generale da una produzione televisiva di genere enogastronomico –, a tutte le ore del giorno e della notte e in tutti i canali della TV pubblica e privata, nessun genere escluso, da quelli d’intrattenimento fino alle rubriche all’interno del telegiornale e persino qualche fiction. Non mancano poi i canali tematici interamente dedicati all’universo culinario, come AliceTv e Gambero Rosso Channel, che, rispetto alla TV generalista, offrono un servizio meno spetta14



gustativa: naso e palato. Il cibo cucinato in televisione è d’altra parte inodore e insapore, almeno per i telespettatori che possono solo godersi lo spettacolo passivamente. Al più viene assaggiato o piluccato fugacemente, più che degustato, e poi commentato dai giudici o dal conduttore della trasmissione (che spesso, oltre a non essere un cuoco, non ha nessuna competenza gastronomica), e in genere non viene consumato, resta ancorato nel fondo

Pollan (2013, p. 14) – una delle voci più note e meno ortodosse nel dibattito globale sull’alimentazione – riferendosi a un fenomeno oggi molto diffuso: da un lato dedichiamo sempre meno tempo ai fornelli, affidandoci in larga parte all’industria alimentare e al fast food, dall’altro lato passiamo molto tempo a guardare la gente che cucina in televisione, a parlare di cibo, a taggare, a twittare e a instagrammare foto di piatti sui social, a leggere e

di un piatto, di una pentola o di una teglia o esibito in bella vista su una tavola alla quale nessuno si siederà per consumarlo, nonostante l’invito: “tutti a tavola!”. Questo è il «paradosso della cucina», come lo definisce il giornalista americano Michael

a sfogliare libri e riviste di ricette e di gastronomia o a consultare guide enogastronomiche, “rifacendoci” letteralmente gli occhi. Si cucina pochissimo perché si è convinti di non avere tempo o energia a sufficienza ed è sempre più difficile trovare qualcuno che 16


parte vedere altri che cucinano in qualche caso può invogliare a ripetere l’esperienza di cimentarsi nella preparazione di un manicaretto, dall’altra è altrettanto vero che il troppo guardare finisce col sublimare il fare e il gustare, appagandoli in modo passivo, da semplici spettatori, appunto, comodamente seduti sul divano di casa. Ma per quanto appetitose e stuzzicanti, le cose che vediamo cucinare in televisione nutrono e soddisfano prevalentemente i nostri occhi, lasciando a digiuno le nostre papille. La passione diffusa per la cucina mediatica, per il gusto tradotto in immagini belle da vedere, potrebbe anche essere una reazione all’anestetizzazione dei sapori prodotta dalle moderne modalità di preparazione e di consumo del cibo, e in particolare dai cibi cucinati dall’industria alimentare, molto diversi da quelli messi in scena sugli schermi, che allo stile fast food contrappongono l’arte culinaria. Quanto invece alla dimensione conviviale e al consumo effettivo del cibo, benché la TV gastronomica ne sia del tutto priva, essa si configura tuttavia come un “teatro” della parola, un luogo di condivisione e di scambio, un trionfo del gusto di parlare, di dibattere sul cibo, sulla sua preparazione e su altro, mentre si cucina o semplicemente mentre si guarda chi lo fa. Senza contare che il tema culinario, estendendosi dalla TV alla Rete ha rigenerato il concetto di convivialità e di condivisione connaturato alla materia gastronomica, assumendo tuttavia contorni disincarnati: piuttosto che seduti attorno a una tavola, si discute di cibo e si condivide virtualmente sui social. Ma che ci piaccia o no, nella contemporaneità la fruizione visiva del cibo rappresenta uno dei possibili modi di esprimere, di comunicare, di raccontare e di nutrire la passione alimentare e il piacere del gusto, e anche uno dei più apprezzati: una tendenza crescente e universale che passa attraverso narrazioni

sappia realmente mangiare, e tuttavia siamo sempre più attratti dal cibo e dal saper fare dei cuochi che ci offrono in diretta la possibilità di surrogare l’elaborazione culinaria, di ammirarne le immagini, di osservarne i processi, un piacere godibile prevalentemente con gli occhi, di accesso facile e immediato ma sempre a distanza: sicché ci basta guardare altri che lo fanno per noi per sentirci appagati. È pur vero però che in un modo o nell’altro non siamo poi così disposti a sbarazzarci completamente di un’attività fondamentale come la cucina, che sin dai suoi ormai lontanissimi esordi ci ha caratterizzato come le uniche scimmie avvezze all’elaborazione del cibo e alla sua ammirazione. Nonostante il suo potere di attrazione, spesso consideriamo il cucinare una perdita di tempo e accampiamo tutte le scuse possibili per giustificare il fatto che si mangia sempre più in fretta e sempre peggio, sostituendo il “fare” cucina al guardare chi la fa, una modalità per sublimarne la mancanza: così ci siamo tramutati in straordinari consumatori di piatti televisivi. Ma quali altri significati attribuire al fenomeno sempre più dilagante del cibo spettacolo e della sovraesposizione mediatica della cucina? Se guardare gente che cucina e parla di cibo di per sé non è un male, specialmente quando, oltre a essere una piacevole e sana distrazione, contribuisce in qualche misura ad accrescere la nostra cultura alimentare, tuttavia sostituire al consumo effettivo e alla condivisione del cibo la sua spettacolarizzazione, la sua fruizione esclusivamente visiva, a distanza, è un piacere puramente estetico dove l’esperienza gustativa viene defraudata delle sue caratteristiche più proprie, in altre parole della sua funzione nutritiva e del suo essere un’esperienza diffusa coinvolgente tutto il corpo e per di più socializzante. Ci si sazia solo con gli occhi, insomma, almeno in apparenza e nell’immediato, e se da una 17


saziano il loro appetito, reale e virtuale, con foto, immagini e commenti gustosi.

(catodiche o al led e online) testuali, video e per immagini. Il rischio che si corre, tuttavia, è di fare indigestione di cibo virtuale.

Molto diverso dal cibo reale, di per sé non conservabile perché fatto per essere mangiato e deputato a un godimento multisensoriale, il cibo e il gusto virtuale onnipresente sui social network, disincarnato e fissato in uno scatto, è destinato infatti, ancora una volta, a essere ammirato e sembra unicamente rispondere all’imperativo: solo l’occhio vuole la sua parte! E se fotografare il cibo e condividerlo in tempo reale è ormai un’azione automatica,

Scatti di gusto: il food porn L’entusiasmo per il cibo da godere con gli occhi, oltre a contaminare tutti i mezzi di comunicazione (programmi televisivi e radiofonici, giornali, periodici, riviste, libri, festival, convegni, fiere, mostre, eventi enogastronomici, ecc.), non ha risparmiato neppure il web, letteralmente invaso da migliaia di food blog, additati come i maggiori responsabili dell’esplosione della «gastromania» (cfr. Marrone 2014, p. 135). E sempre nella Rete impazza la mania degli utenti (per alcuni divenuta addirittura un’ossessione) di postare, commentare e ri-condividere ogni sorta di foto raffiguranti cibi e pietanze sui vari social network: da Instagram a Facebook o a Tumblr, ai social tematici di foodie-food photography come Foodspotting, Chewsy o Evernote Food, piattaforme dedicate alla fotografia gastronomica che permettono di vedere il cibo e specialmente di fotografarlo, una passione condivisa da milioni di utenti che pubblicano, si scambiano, cercano immagini di pietanze e manicaretti, e di momenti legati a esperienze gustative, segnalano, geolocalizzano, votano e recensiscono piatti, scrivendo commenti ed esprimendo apprezzamenti, cercando spunti culinari e artistici. Insomma un nuovo modo di trasmettere la smania collettiva per il cibo e per la cucina, molto usato dai food bloggers, amanti del cibo e della culinaria che ne promuovono la cultura e la condivisione attraverso un blog, suggerendo ricette, creando, raccontando ed esibendo il “gusto” delle loro preparazioni, assaporabile con gli occhi, sempre a distanza, e ancora dai cultori della food-photography, dai professionisti della cucina e da tutti gli amanti di queste attività goderecce, i foodies, che

appagarsi mangiando il cibo visivamente è divenuto parte della nostra routine culinaria e quotidiana. Ormai non c’è persona a casa o al ristorante che non fotografi i piatti ancora fumanti prima dell’assaggio, perdendosi anche il piacere di gustarli caldi, per postarli su un social o condividerli su WhatsApp, o anche solo per immortalare l’effimero da consumare e fissarne il ricordo e l’esperienza in un click. Fenomeno tutt’altro che unitario, la food photography si esprime in varie forme e assume significati diversi (cfr. Bieder 2014). Una delle più diffuse è il food porn, una modalità di 18


che nell’ultimo decennio si è espansa a macchia d’olio, complice la tecnologia digitale, i social e le applicazioni che favoriscono la condivisione (componente, quest’ultima, caratteristica del food porn) di immagini di elaborazioni culinarie più o meno goduriose e più o meno artistiche, talora anche disgustose, e tuttavia accomunate da un piacere volto a lusingare gli occhi piuttosto che il palato. Un tipo di fotografia culinaria succulenta, lussuriosa, colorita, bella da vedere, capace di suscitare una certa eccitazione (da qui l’analogia con la pornografia, come esibizione visiva di organi e attività sessuali finalizzata a stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore, sublimando l’atto sessuale), un

food photography, per l’appunto, che esalta anche il più piccolo dettaglio del cibo attraverso inquadrature sensuali: dall’aspetto, alla presentazione nel piatto, all’inquadratura (per lo più dall’alto), ai colori caldi e brillanti, all’angolazione, alla luce, alla disposizione degli oggetti sulla tavola, con un’attenzione particolare per le sfumature più scabrose, per renderlo irresistibile e accattivante, stimolando prevalentemente la vista. Usata per la prima volta nella metà degli anni Ottanta dalla critica Rosalind Coward (1984), quest’espressione oggi etichetta un fenomeno trasversale che, pur nelle diverse caratterizzazioni, assume sempre una connotazione erotica. Una tendenza 19


nostro cervello e sul nostro appetito dimostrano chiaramente la capacità di questi stimoli di scatenare, in qualunque momento della giornata, un desiderio di mangiare superiore ai nostri reali bisogni. Così, il desiderio visuale indotto dalle immagini, che Spence e collaboratori chiamano «fame visiva», attivando precise reazioni fisiologiche (salivazione eccessiva, aumento dei battiti cardiaci, rilascio d’insulina), può inavvertitamente trasformarsi nel nostro cervello goloso in fame chimica, inibendo i processi cognitivi di moderazione e spingendoci a mangiare più spesso o più di quanto dovremmo, contribuendo così ad alimentare l’epidemia di obesità divenuta ormai un’emergenza mondiale. Come il fenomeno della cucina mediatica, anche quello degli scatti gastronomici rivela dunque una certa tendenza a snaturare la reale funzione cui deve assolvere il cibo: nutrire e dare piacere gustandolo con tutti i sensi nella convivialità della tavola. Sicché a furia di fotografare i cibi che si mangiano normalmente a casa, nei fast food, in pizzeria e specialmente al ristorante, di esibirli, di farne bella mostra, si corre ancora una volta il rischio di perdersi il piacere di assaporarli, di commentarli e di condividerli con chi materialmente è a tavola e ancora prima di prendersi cura di cucinarli anche per il piacere di offrirli agli altri. Per quanto studiata nella composizione, nelle inquadrature, nel montaggio, negli effetti luminosi, la fotografia di un cibo o di un piatto è e resta comunque un’immagine, una riduzione della pietanza alla sola dimensione visiva che poco ha in comune con la struttura tridimensionale, multisensoriale e edibile del piatto stesso, destinato al consumo, alla degustazione e alla condivisione. Ma in questo processo di estetizzazione del cibo, espressione di un fenomeno più vasto di «estetizzazione globale» (Finocchi 2015), che fine ha fatto dunque il gusto, il senso classi-

impulso a mangiare il cibo rappresentato: insomma, una raffigurazione seducente del cibo che crea l’appetito per qualcosa che nell’immediato si può solo guardare, ma che non si può non desiderare e specialmente non desiderare di condividere. Che si riferisca a un’eccessiva attenzione per l’estetica del piatto, a cibi presentati nel modo più desiderabile e attraente possibile (dai ristoranti, alla stampa, agli spot pubblicitari, ai fotografi professionisti, agli show culinari, al packaging commerciale fino alla TV gastronomica), a un piatto fotografato in modo spinto o al cibo ipercalorico e appagante, il food porn rinvia comunque all’erotismo stimolato dalla contemplazione del cibo, al piacere di guardare immagini più o meno ricercate di un piatto, immagini che possono funzionare da una parte come fonti di piacere surrogate, appagando, almeno “a prima vista”, un piacere voyeuristico, dall’altra possono stimolare agli abusi alimentari. Se per un verso riusciamo a saziarci anche con lo sguardo, con un’immagine studiata e realizzata per farci vedere con l’occhio della mente i sapori, un’immagine che diventa un linguaggio in grado di parlarci del gusto, di rappresentarlo e di evocarlo in una qualche misura, e specialmente di emozionarci, di sbalordirci, di suscitarci piacere o in certi casi anche disgusto, per un altro verso il food porn può scatenare una vera e propria risposta emotiva e fisica nell’osservatore, tale da sfuggire al controllo trasformandosi in una tentazione irresistibile che spinge a cercare quei cibi ammirati, o cibi simili, anche se non si ha fame. La ricerca neuroscientifica sembra dimostrarlo: studi condotti presso l’Università di Oxford dallo psicologo sperimentale Charles Spence (attivo sul versante delle ricerche sulla percezione cross-modale) e dai suoi collaboratori (Spence et al. 2015) sugli effetti della sovraesposizione a immagini raffiguranti cibo sul 20


camente considerato più “carnale”, il senso più sinestetico che ci permette di entrare in contatto diretto con gli alimenti facendone conoscere e apprezzare a tutto tondo il sapore, quella sensazione complessa e diffusa in cui convergono tutte le modalità sensoriali? Offrendoci una percezione e una rappresentazione visiva del cibo e della sua preparazione, il palcoscenico della cucina mediatica, e più in generale quello del cibo estetizzato, del cibo immortalato in uno scatto, ha messo ancora una volta dietro le quinte il gusto autentico, quello di mangiare, come atto carnale con cui assaporiamo bocconcini di mondo elaborati per prolungare il nostro piacere, e anche la convivialità, almeno quella face to face della tavola, lasciandosi sfuggire peraltro l’occasione di educare alla sensorialità, all’uso di tutti i sensi del gusto (un’occasione mediatica sprecata), al saper mangiare e alla dimensione complessa della cultura del cibo oggetto della scienza gastronomica, aspetti trascurati nell’ambito del cooking show televisivo. Recuperarli sarebbe invece anche il modo più pieno e più efficace di valorizzare, di apprezzare e di godere del cibo e delle pietanze e di promuovere la cultura alimentare e del gusto, restituendo così il buon gusto al suo organo specifico: il palato per l’appunto, il senso che include tutti i sensi nessuno escluso.

Riferimenti bibliografici P. Abbiezzi, Storie di cibo televisivo, in P. Abbiezzi (a cura di), La TV è servita. Viaggi e sapori della cucina televisiva, Franco Angeli, Milano 2014, pp. 15-37. Aristotele, Del senso e dei sensibili, in Opere, vol. 4, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 195-236. Aristotele, Metafisica, Laterza, Bari 1928. D. Bieder, Il cibo dalla parte dell’osservatore. Una proposta di classificazione della fotografia professionale del cibo, in N. Perullo (a cura di), Cibo, estetica e arte. Convergenze tra filosofia, semiotica e storia, Edizioni ETS, Pisa 2014, pp. 141-9. N. Bruno, F. Pavani, M. Zampini, La percezione multisensoriale, il Mulino, Bologna 2010. R. Coward, Female Desire: Women’s sexuality today, Paladin, London, 1984. J. Delwiche, The impact of perceptual interactions on perceived flavor, “Food Quality and Preference”, XV, 2004, pp. 137-46. R. Finocchi, Mangiare con gli occhi. Il cibo gustoso nell’era dell’estetizzazione globale, “Doppiozero”, 12 maggio 2015. D. Le Breton, Il sapore del mondo, 2006, trad. it. Cortina, Milano 2007. G. Marrone, Gastromania, Bompiani, Milano 2014. G. Morrot, F. Brochet, D. Dubourdieu, The color of odors, “Brain and Language”, 79, 2001, pp. 309-20. M. Pollan, Cotto, 2013, trad. it. Adelphi, Milano 2014. R. Radel, C. Clément-Guillotin, Evidence of motivational influences in early visual perception hunger modulates conscius access, “Psychological Science”, 23 (3), 2012, pp.

Rosalia Cavalieri, professore di Filosofa e teoria dei linguaggi all’Università di Messina, è autrice di numerosi saggi.

232-4. L.D. Rosenblum, Lo straordinario potere dei nostri sensi. Guida all’uso, 2010, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 2011. C. Spence, K. Okajima, A.D. Cheok, O. Petit, C. Michel, Eating with our eyes: From visual hunger to digital satiation, “Brain and Cognition”, Oct. 2015, pp. 1-11.

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Il difficile rapporto con il cibo di Alberto Guidorzi

L’atto del mangiare esprime un significato che è cambiato nel tempo. Ora siamo arrivati al punto in cui industria alimentare, grande distribuzione, movimenti ambientalisti, medicina salutistica e politica stanno favorendo il proliferare di forme patologiche nei riguardi del cibo. Resta allora da interrogarsi sull’uomo e il cibo nella storia. L’uomo, tra le altre cose, è divenuto agricoltore. Lo è divenuto in quanto ha constatato che la sua vita di nomade e la presenza nello stesso territorio di più persone non assicurava più un approvvigionamento di cibo sufficiente a sfamare con continuità la comunità. È evidente che anche l’agricoltura, come in precedenza la caccia, era alla mercé degli andamenti climatici e della concorrenza di altri esseri viventi. Nel nostro emisfero la migrazione verso Nord, in seguito al ritiro dei ghiacci, aveva creato stagioni con più abbondanza di cibo e altre con meno disponibilità; occorreva pertanto fare scorte per superare i periodi di carenza alimentare. Limitandoci ai soli tempi storici, le difficoltà di procurarsi il cibo hanno determinato l’evoluzione demografica. Infatti, tra antichità e Medioevo la popolazione crebbe lentamente (le cronache francesi annoverano nel Medioevo ben 115 tra carestie e penurie di cibo, con picchi tra il IX e XII secolo), poi essa rimase costante tra il XIII e il XV secolo (infatti si contano solo, si fa per dire, 33 carestie, ma quella del 1315/17 è famosa come “la Grande Carestia” con fenomeni descritti di cannibalismo).

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la maggioranza della popolazione, non solo italiana, ma di tutta l’Eurasia.

La crescita demografica cominciò nei tre secoli successivi (XVI, XVII e XVIII, seppure con 40 carestie; non per niente Thomas Malthus ha ipotizzato l’obbligo di un intervento sulle nascite), per poi esplodere nei due ultimi secoli con 10 carestie nel XIX secolo e nessuna nel XX. Si determinarono, così, situazioni demografiche preoccupanti, tanto che a metà del secolo scorso il Club di Roma fece analoghe previsioni pessimistiche e auspicò interventi di regolazione demografica che ancora oggi il politologo professor Sartori auspica. Se è vero che abbiamo man mano accresciuto la produzione di cibo, è altrettanto vero che sono sopravvissuti più individui e demograficamente in molte zone geografiche siamo aumentati più del cibo; solo con l’aumento della solidarietà e la maggiore circolazione delle derrate alimentari del Dopoguerra abbiamo evitato, finora, disastri alimentari. Ne sappiamo qualcosa. Il Sud, appena riunito all’Italia, era stato sfamato con il grano dell’Ucraina e nel 194445 con quello delle navi Liberty che solcavano l’Atlantico in sola andata man mano che le truppe alleate liberavano il nostro Paese, e che hanno continuato a farlo nel Dopoguerra. Tutto ciò ha lasciato nelle generazioni passate un ricordo indelebile. Non vivendo mai nell’abbondanza, la frequente penuria di cibo intimoriva i nostri antenati. I più anziani di tutte le nostre famiglie hanno raccontato che nella prima metà del secolo scorso il cibo era appena sufficiente, anche se consumato con molta parsimonia. Per quanto riguarda il rapporto tra disponibilità di alimenti e consumi energetici, essi vivevano in un perenne stato di non soddisfacimento di questi bisogni. È facile rendersi conto di ciò se si pensa che il lavoro era solo manuale e con durate giornaliere eccessive. Nei periodi bellici e post-bellici nella prima metà del XX secolo, la scarsezza di cibo e il relativo contingentamento per mezzo delle tessere annonarie hanno interessato

L’evoluzione recente del rapporto con il cibo Nel ventennio dal 1950 al 1970 vi era ancora un legame diretto tra produzione agricola e cibo. Si accettava come benemerita la modernizzazione dell’agricoltura e si anelava a un progresso continuo nelle produzioni agricole. Era ancora troppo vicino il ricordo delle privazioni alimentari. L’agricoltura che si modernizzava era considerata da tutti (anche da chi era espulso dall’agricoltura) come un passaggio ineludibile e obbligato per la realizzazione dell’indipendenza alimentare; l’agricoltore era considerato un agente di progresso, perché poteva liberare il paese dalla penuria di cibo e svolgeva un’attività primaria per la collettività: il suo produrre riduceva l’ansia derivante dall’insicurezza di disporre durevolmente di alimenti. Questa situazione è rimasta impressa a lungo nella memoria, tanto che dagli anni Settanta in avanti è iniziato il culto dell’abbuffata, proprio come reazione al ricordo dei periodi di fame. Era già a buon punto l’esodo dalle campagne; queste si andavano man mano spopolando e le città si ingrandivano per l’arrivo di ex contadini, che non avevano certo dimenticato il modo di vivere appena lasciato. La vita in città rappresentava per loro un novello Eden: non più lavori faticosi, cibo abbondante e accessibile, e soprattutto sempre presente sotto casa. I figli si adattavano ancor meglio dei genitori alla nuova vita, mantenendo, però, ben presenti le radici contadine. Gli unici a subire la vita di città erano gli anziani, perché sradicati dal loro ambiente e incapaci di adeguarsi. Le generazioni degli anni Ottanta e Novanta, nati nelle città raggiunte in gioventù dai loro padri, portati lì dai loro nonni, hanno man 23


diventata un veleno e l’animale, quasi umamano rescisso i legami sia con la campagna, nizzandolo, non va ucciso, ma portato a morte sia con l’agricoltura come luogo di produzione naturale, senza preoccuparsi degli scenari ai di cibo. La loro villeggiatura non avveniva più quali ci troveremmo di fronte. in campagna, da dove provenivano i nonni e Inoltre, a partire dagli anni Ottanta, la polidove, durante le ferie, i loro padri erano stati tica e il potere economico hanno condotto a accompagnati per rivivere i luoghi contadini una progressiva apertura dei mercati (glodell’infanzia. I genitori di questa generazione balizzazione, mercato unico, unione economitornavano al paese, ma, pur amando la cucina ca e monetaria, perdita di sovranità, società casalinga dei luoghi delle loro radici, in cuor multiculturale e multiconfessionale), ma il loro deridevano chi era rimasto e non aveva consumatore non ha ben caavuto la capacità di migrare pito il rapporto di causa ed in città. Questo sentimento, Si vagheggia effetto dei cambiamenti e non ormai totalmente mutato riacriticamente ha compreso che, come lui ne spetto alle prime generazioun ritorno al passato è stato succube, anche l’agrini immigrate, era trasmesso anche alle nuove generazioni. senza capire che sarebbe coltore, e molto più di lui, ne disastroso. è stato vittima. Soprattutto, Questi poi non tramandavano il consumatore non ha capito più le tribolazioni, le scomodiche nell’ambito delle derrate agricole e della tà che avevano visto e solo in parte vissuto. loro produzione si è scatenata una concorAnche il ricordo della penuria di cibo di quanrenza accanita, che può essere contrastata do vivevano in campagna si era affievolito al solo innovando i metodi di produzione, pena punto da considerare quelle epoche come conl’abbandono delle terre. Qui si è creata la più seguenza della sola inadeguatezza innovativa simbolica incomprensione di questa rottura dei tempi passati. di rapporti, che tanto fa discutere oggi: essa I più vecchi ricordavano, idealizzandoli, solo è assimilabile al rifiuto dell’uso dei pesticidi, i momenti felici, perché riandavano, e nello dei concimi, degli Ogm in agricoltura e perfistesso tempo vagheggiavano, alla loro giono alla maggiore produttività. Affermare che ventù lontana. Questa memoria appagante il cibo potrebbe non essere sempre abbondanvinceva su ogni altra realtà, specialmente se te e a disposizione di tutti è considerato fuori suscitatrice di cattivi ricordi. dall’ordine delle cose. Le nuove generazioni dunque hanno perso qualsiasi rapporto con l’agricoltura, seppure Un’altra definizione data dai sociologi è la anche solo mediato. I sociologi esemplificano seguente: “Si era formata una generaziociò dicendo che in città, dove il consumo di carne urbanizzata e totalmente deruralizzane era divenuto uno status symbol, il consumata”, traducibile, purtroppo, nella rottura tore era divenuto un “sarcofago” (la carne era del dialogo tra agricoltore e consumatore. divenuta una semplice materia commestibile avulsa dall’animale che la produceva), mentre I cambiamenti sopra descritti sono stati acprima era uno “zoofago” (nei rari momenti in compagnati da ulteriore incapacità del mondo cui mangiavano carne, sapevano quale parte agricolo, divenuto ormai una piccola minorandell’animale avevano nel piatto, e magari da za tra le categorie sociali, a comunicare con quale stalla provenisse). Ora invece assistiala società trasformata. Contemporaneamente mo a un’altra modifica di costume: la carne è 24


all’espulsione demografica dalle campagne, da un 40 per cento di popolazione rurale di inizio Dopoguerra si era man mano passati a solo un 2 per cento, la società urbanizzata marciava veloce verso un’industrializzazione più spinta e il legame con il mondo agricolo si spezzò. Per queste generazioni, il cibo si “produceva” nei supermercati e qui nell’inconscio si localizzava la creazione alimentare. Il passo successivo è stata la deindustrializzazione e soprattutto la terziarizzazione della società, che ha collocato le fabbriche nel novero di qualcosa di anacronistico, d’inquinante, un fattore di rischio da relegare nei paesi sottosviluppati. Certi avvenimenti hanno concorso al realizzarsi di questa fase. Più vicino a noi si sono verificate crisi sanitarie, come la mucca pazza in Inghilterra o l’influenza aviaria, ma ben prima vi era stato l’aumento diagnosticato dei tumori. Tutto ciò ha contribuito a coniugare l’uso della chimica in agricoltura e la produzione di cibo spazzatura.

tiva di progresso, ma si è ingigantito l’aspetto che qualsiasi innovazione ingenera paure. Il sociologo Gérard Bronner a questo proposito dice: “La percezione del rischio risulta sempre da un incrocio tra invarianti mentali e delle variabili socioculturali”, nel senso che queste ultime fanno sì che non ci sia la stessa cognizione di rischio in tutti i paesi e in tutte le epoche. D’altronde, nell’affermarsi nella società civile di una sfiducia generalizzata verso governi, istituzioni pubbliche, grandi imprese, partiti politici e media istituzionali e soprattutto verso la scienza e i relativi esperti nei vari campi, era da attendersi che moltissimi optassero al credere di più in una fantomatica “società civile” senza definirne i contorni, oppure ai divulgatori di allarmi di cui sono condite le trasmissioni d’inchiesta. Basta che si denunci uno scandalo perché la gente ci creda e lo dia per provato. La società privilegia il consumatore, il produttore primario non conta.

La modernizzazione in agricoltura, vista in senso positivo dai nonni delle attuali generazioni, ha assunto un’accezione negativa e ha fatto ricadere sull’agricoltura e sugli agricoltori un sentimento diffuso di disistima e sfiducia. Dimenticando che, nel frattempo, il mercato (con tutte le sue connotazioni positive e negative) si era posto tra la produzione di materia prima da trasformare in cibo e il consumatore.

I timori maggiori si sono riflessi ancora sull’alimentazione, ma, a differenza delle generazioni precedenti, non è l’angoscia di non avere abbastanza cibo o di un avvelenamento immediato che spaventa, bensì le conseguenze sanitarie a medio e lungo termine che possono avere gli alimenti. Se prima ci si era quasi dimenticati che era l’agricoltura a produrre cibo, ora è proprio l’agricoltura, con il suo produrre derrate in modo più moderno e in conseguenza delle scelte politiche, a essere vista come fattore di insicurezza e di angoscia.

Due grandi comandamenti si sono affermati, purtroppo molto acriticamente: “il rischio zero” e “il principio di precauzione”.

In conclusione, la società urbana, deindustrializzata e deruralizzata, ha visto negli agricoltori e nell’agricoltura la causa di angosce e frustrazioni. La paura dei pericoli insita nel cibo ha generato anche un’insicurezza più generalizzata. Da una parte, quindi, vi è la tirannia delle emozioni e, dall’altra, si è venuta

“Progresso e Scienza” prima erano intimamente legati e soprattutto accettati come un binomio inscindibile. Oggi si preferisce usare il vocabolo “innovazione”, ma senza connotarla, ossia non viene meno la componente posi25


È difficile far capire al mondo sviluppato che l’igiene nella preparazione dei cibi rispetto a quando lo si confezionava e si consumava in casa ha concorso ad allungare la durata della vita media. Nel 1900 il 14 per cento dei decessi era conseguenza di avvelenamenti alimentari. Vi è stato un periodo in cui il contadino era invidiato dall’urbanizzato perché era più vicino alla produzione degli alimenti e quindi comunque mangiava, ma questo sentimento, oltre a invertirsi, è divenuto accusatorio. Solo ora con la questione del cambiamento climatico si è rifatto avanti il concetto del prodotto locale o a km zero (locuzione senza senso), ma non per questo l’immagine della produzione agricola è migliorata. Anzi, si vagheggia una fantomatica agricoltura del passato e si inventano forme ancestrali di coltivazione dei campi che, se fossero generalizzate, ci farebbero ricadere in scenari con molta gente affamata che guarda gli altri mangiare.

formandosi un’idealizzazione di quello che si vorrebbe fosse ancora l’agricoltura e la campagna. Nell’idealizzazione non ci si è arrestati all’epoca dei nonni o bisnonni, si è andati molto più indietro: oggi si pretende che la campagna rispecchi un quadro dipinto, ad esempio, da un macchiaiolo dell’Ottocento come Giovanni Fattori, o da un pittore realista francese alla Jean-François Millet o Julien Dupré. Solo che queste opere d’arte non mostrano la sporcizia personale, la mancanza d’igiene, le razioni alimentari sempre insufficienti e l’essere vecchi a quarant’anni di quei tempi. Non c’è verso di far capire che se vi è abbondanza di cibo, tanto da osservarne lo spreco, è solo perché l’agricoltura ha goduto della “rivoluzione verde”, quindi maggiore alimentazione delle piante che così producevano in quantità maggiori, salvaguardia dei raccolti più abbondanti e adattamento genetico per supportare le innovazioni tecniche e per godere in massimo grado della meccanizzazione dei lavori agricoli, per resistere alle manipolazioni o al trasporto dei prodotti freschi a distanze prima impensabili. L’aumento di produzione è divenuto elemento di qualità scadente e non si riflette sul fatto che nel passato la qualità alimentare era nettamente inferiore. Si vagheggia acriticamente un ritorno al passato senza capire che sarebbe disastroso.

Se analizziamo il perché si sia interrotto il rapporto tra produzione agricola e consumatore, possiamo ricondurre il tutto a tre immagini che il mondo agricolo ha lasciato che si formassero nei suoi confronti in questi anni e poco o nulla ha fatto per modificarle: 1. agricoltore inquinatore, 2. agricoltore in perenne crisi e al limite della sopravvivenza, 3. agricoltore che si vorrebbe vivesse in un contesto sociale idealizzato, fatto di immagini bucoliche alla “vispa Teresa”, al fine di farne godere la società terziarizzata quando attraversa l’ambiente agricolo.

Dal 1960 a oggi la popolazione è raddoppiata, mentre la produzione di calorie alimentari si è moltiplicata per 2,5, ma le calorie alimentari disponibili pro capite sono aumentate solo di qualche punto decimale, a causa di un uso non alimentare delle derrate (alimentazione animale e biocarburanti) e per ingenti perdite di raccolta e di conservazione (si calcola quasi un terzo); guarda caso, le perdite avvengono proprio laddove manca il cibo.

Siamo di fronte a una realtà agricola fatta di mercati globalizzati, bisognosa di continui investimenti per innovazione e di un’attività economica in cui l’unico fattore in mano all’agricoltore, per far sopravvivere l’azienda, è aumentare le unità prodotte a parità di costi, in 26



L’uomo è onnivoro e, in quanto tale, vista la grande varietà di alimenti, l’evoluzione lo ha portato a non fidarsi ciecamente di tutto quello che può mangiare. Questo aveva ragion d’essere quando vi era penuria e ci si doveva adattare a mangiare cose nuove. Quanti semi, tuberi e frutti di piante spontanee hanno sfarinato i nostri padri e nonni per ingrossare gli impasti del pane? Quanta trasmissione di esperienze vi è stata in passato? Vi sono stati addirittura casi di mescolamento di argilla, pur di riempire lo stomaco. Questa sfiducia avrebbe dovuto diminuire in epoca di abbondanza di alcuni cibi base e nelle scelte cadute su poche piante alimentari, invece assistiamo a un aumento di sfiducia, che cresce man mano che l’abbondanza genera sovranutrizione.

quanto i prezzi non sono più controllati dalla produzione. Purtroppo, fa da contrappasso a questi incombenti scenari un’immagine completamente distorta dell’agricoltore e del suo modo di coltivare. Da una parte non si riesce a trasmettere la realtà concreta del fare agricoltura oggi, dall’altra si pretende l’irrealtà. Se il mondo dell’agricoltura attuale non comprende che deve ripristinare un dialogo più costruttivo con il consumatore, ne va della sua sopravvivenza. Solo che il dialogo costruttivo non può avvenire secondo i dettami dell’ecologia politica che pervade tutte le istituzioni.

Al formarsi di questa immagine hanno contribuito anche le nuove paure alimentari e Ora, cosa incomprensibile, il consumatore riil nuovo modo di porsi verso il cibo, visto più volge la sfiducia maggiore all’agricoltore, income un nemico della salute o comunque un colpandolo per le diete alimentari inadeguate elemento minante l’immagine dell’eterna che segue. Una certa medicina nutrizionista giovinezza. Tuttavia, dato che nutrirsi è anha supportato il cora un’attività formarsi di queste obbligatoria e non è venuto meno l’a- È difficile far capire al mondo sviluppato tendenze, trasmetche l’igiene nella preparazione dei cibi, tendo il messaggio spetto edonistico che la scelta del del mangiare, la rispetto a quando lo si confezionava e cibo era quasi l’upropaganda si è insi consumava in casa ha concorso ad nica chiave di volserita mostrando allungare la durata della vita media. ta della salute e prelibatezze e invidel benessere, ma tando a mangiardimenticando di indicare il fattore genetico le. Qui si colloca la lotta tra mantenimento delle persone e tutte le altre componenti perdell’aspetto fisico alla moda e soddisfacimento sonali e ambientali. D’altronde, un messaggio della gola. monco permetteva di sfruttare nuove filiere consumistiche ad alto valore aggiunto. Il problema non è più trovare di cosa nutrirsi, ma si è spostato sulla scelta e scopriamo che Il messaggio passato non è stato la giusta la scelta crea un’angoscia profonda. La logica volontà di correggere le cattive abitudini alivorrebbe che fossero i nostri nonni e bisnonni mentari, bensì la proibizione e, di conseguena esser angosciati al punto da suicidarsi, inveza, la “colpevolezza” nel far fatica a seguire le ce oggi è la “società dell’abbondanza” a portaindicazioni salutistiche ricevute. Non è forse re al suicidio. la lotta interiore tra le sensazioni gradevoli 28


vare piacere, nel cibo in particolare, e spesso anche nella sfera sessuale. L’ortoressia diventa un pericolo ancor più grave laddove venga applicata come regola alimentare e stile di vita per i bambini, causando loro malnutrizione, fiacchezza, frustrazione, impedendo di vivere serenamente il rapporto col cibo e col gusto e con una sana e gioiosa condivisione di momenti comunitari in cui sono presenti cibi non contemplati dall’ortoressico”.

del cibo e la colpevolezza nell’ingerirlo la molla scatenante della bulimia, oppure una forma di autopunizione continua qual è l’anoressia? Vi è un’altra forma patologica emergente, non ritenuta ancora tale da molti, anzi per qualcuno un comportamento salutare, che va sotto il nome di ortoressia. Un fenomeno solo recentemente ritenuto patologico, ormai diffuso al punto da rivoluzionare il modo di alimentarsi e, soprattutto, il messaggio rivolto al mercato del cibo, e purtroppo trasformatosi nella colpevolizzazione assoluta dell’agricoltura, dimenticando la sua valenza di “attività primaria” mantenuta per secoli.

Oggi si vagheggia una fantomatica agricoltura del passato e si inventano forme ancestrali di coltivazione dei campi che, se fossero generalizzate, ci farebbero ricadere in scenari con molta gente affamata che guarda gli altri mangiare.

Che cos’è l’ortoressia? Da Wikipedia: “Viene definita come una forma di attenzione abnorme alle regole alimentari, alla scelta del cibo e alle sue caratteristiche. È riconosciuta come patologia, una microcategoria dell’anoressia. È stata spiegata e codificata per la prima volta dal dietologo Steve Batman nel 1997. In primo luogo, l’ortoressia è un problema sociale, che impedisce il soggetto colpito di avere rapporti equilibrati con l’esterno, in particolare con il partner, creando un meccanismo circolare di insoddisfazione che alimenta il problema stesso. In secondo luogo, l’ortoressico cambia a poco a poco stile di vita, oppure si isola in un proprio stile standardizzato e dettato esclusivamente da regole precise e imprescindibili, difendendosi da chi non comprende le sue scelte, non condivide in pieno le sue idee e in genere lo irride o lo contraddice; vive in uno stato di ansia che supera con la convinzione che le sue scelte siano le uniche giuste. Il soggetto nella semplicità di poche regole trova un’illusoria serenità e un’apparente pace: questo atteggiamento psicologico porta a manifestare una spiccata incapacità di tro-

La cosa che più allontana l’ortoressico dall’autocritica è la convinzione di praticare un vivere più sano. Se si fa notare il suo problema psicologico, si ribella rispondendo: “Ma cosa stai dicendo? Sei tu che non usi il cervello!”. Non si accorge, in altri termini, di essere caduto nell’ipocondria e che spesso il suo comportamento è associato a un disturbo ossessivo compulsivo della personalità, perché il suo comportamento non lo difende dalle fobie per le malattie e dalla paura delle contaminazioni. Crede di ottenere un corpo forte e difeso dagli attacchi infettivi, il che dovrebbe far calare le paure, mentre queste permangono intatte. È convinto che le sue scelte portino a cibarsi in modo sano e salutare, ma nel contempo si contraddice facendo ricorso a integratori, proteine in polvere, vitamine e sali minerali. Da una parte dovrebbe essere perfettamente appagato nell’aspetto, mentre è sempre alla ricerca di modelli nuovi (individui palestrati). 29


Evidentemente la maggiore autostima, che gli ortoressici credono di conquistare, non è mai completa, e ciò li fa vivere un disadattamento continuo che mina la loro vita di relazione. Sono dei malati che rifiutano in assoluto di essere malati, anzi credono che siano gli altri a non capire, e quindi piano piano considerano gli altri nemici del proprio mondo e pertanto da combattere, addirittura da rieducare. In altre parole, si sfocia nell’ideologia e nascono quelle forme di “dittatura” di cui non abbiamo certo bisogno.

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olioofficina / filatelia

L’oleologo e l’innesto di Maria Carla Squeo

Ogni anno a Olio Officina Festival si rinnova la collaborazione tra Poste Italiane e il progetto culturale Olio Officina, nel nome dell’olivo e dell’olio. Dopo aver valorizzato nel 2015 il design e il packaging, dedicando l’annullo al Premio “Le forme dell’olio”, nel 2016 è stata la volta dell’assaggio dell’olio e della figura dell’assaggiatore. È stato un grande successo, testimoniato dal gran numero di annulli che si sono registrati nei giorni della manifestazione, nella prestigiosa sede dell’evento, lo storico Palazzo delle Stelline a Milano. Nel 2017 al centro dell’attenzione sono due figure chiave: l’oleologo, ossia l’esperto di arte olearia, e gli studiosi che stanno cercando ogni possibile soluzione per risolvere il grave problema, irrisolto da anni, del batterio noto come Xylella fastidiosa, una vera minaccia per le sorti dell’olivicoltura. L’oleologo è una figura professionale chiave. È stato proprio l’ideatore del progetto culturale Olio Officina, Luigi Caricato, ad aver coniato con brillante intuizione tale espressione. Chi è l’oleologo? Innanzitutto, non è l’assaggiatore dell’olio. L’oleologo conosce e pratica l’analisi sensoriale dell’olio, ma la sua professionalità non si limita al solo assaggio. L’oleologo è assaggiatore, certamente, ma è soprattutto colui che contribuisce a “creare” l’olio, a “costruirlo” e “definirlo” in base alle tendenze di gusto del consumatore. È una professione molto importante. Oggi non ci si può più limitare a produrre un generico olio extra vergine di oliva: è necessario puntare a un prodotto che si differenzi e si caratterizzi in maniera netta rispetto agli altri oli presenti in commercio. L’oleologo, tuttavia, non è soltanto un tecnico. È anche, se non soprattutto, un teorico. L’esperto di arte elaiotecnica, in verità, è sempre esistito e opera da lungo tempo, ma non esiste ancora una figura giuridica che ne riconosca, disciplini e regolamenti la professione. Il termine, ora presente nella banca linguistica della

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I bozzetti dei due annulli sono stai realizzati dall’illustratore Valerio Marini. Come i precedenti, presentati a Olio Officina Festival, sono destinati agli appassionati cultori della materia e, in particolare, ai numerosi collezionisti filatelici.

Treccani, è stato coniato; occorre l’impegno a costruire le fondamenta giuridiche per rendere tale lavoro altrettanto tutelato quanto quello dell’enologo. Con l’annullo filatelico di Poste Italiane si procede senza sosta verso tale traguardo. Le università possono fare la propria parte, contribuendo a formare nuovi esperti qualificati. “Come esiste l’enologo per il vino – afferma l’oleologo Luigi Caricato –, è giusto che vi sia una figura professionale altrettanto specifica per chi si occupa di olio da olive. Acquisire una cultura di prodotto significa anche questo: saper valorizzare sul piano linguistico la realtà nella quale si opera.” Il secondo tema dell’annullo filatelico dà risalto a quanti, mossi da un grande amore per l’olivo, stanno cercando ogni possibile soluzione per risolvere il grave problema, ancora irrisolto, del batterio noto come Xylella fastidiosa, una vera minaccia per le sorti dell’olivicoltura. Il Salento, nel sud della Puglia, è afflitto da questa pestilenza che sta mettendo a serio rischio milioni di olivi secolari. Alcuni esperti agronomi, in collaborazione con i principali centri di ricerca, tra i diversi tentativi, hanno provato a innestare alcune cultivar di olivo resistenti al batterio su altre che invece non possiedono adeguate difese. Non c’è certezza di successo, ma la speranza resta viva. Molti alberi, che avevano evidenziato gravi sintomi di disseccamento, hanno dimostrato la propria voglia di sopravvivere facendo germogliare i nuovi innesti praticati su varietà fragili. Non sappiamo che cosa riservi il futuro; intanto, una semplice e millenaria pratica agronomica può forse arrecare qualche possibilità di una soluzione. Per questo, per dare corpo alla speranza, si è voluto premiare tale impegno e dedicare l’annullo agli innesti dell’olivo contro il dilagare della Xylella.

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olioofficina / scienze

L’extravergine come non è di Domenico Fazio

mai stato fatto

Che in Italia si ricominciasse a produrre olive era un augurio che ci facevamo da tempo e pare si stia ora concretizzando, dopo anni di discesa libera nella produzione olivicola e olearia, e dopo anni di autocommiserazione da parte dei produttori e di continue speranze nei finanziamenti pubblici per far fronte alle spese correnti e alle minime necessità di aggiornamento e manutenzione dei sistemi produttivi. Ora, finalmente, si sente parlare di progetti volti al rinnovamento e all’aumento della produzione. Nella fase agricola, come era logico, si sono registrati i primi investimenti. Ci siamo finalmente resi conto che il concetto di made in Italy, da solo, non supportato da un’adeguata produzione, sia qualitativa, sia quantitativa, non poteva bastare a rilanciare l’economia. Si spera, di conseguenza, di vedere meno oliveti in stato di abbandono. Negli ultimi due anni, nelle province di Foggia e Bari, come pure in Molise, sono stati realizzati più di 300 ettari di oliveti super intensivi, con una tendenza all’aumento esponenziale, secondo la fonte dei fratelli Leone. Si tratta di un piccolo passo avanti, anche se purtroppo ancora accompagnato da un ritardo nello sviluppo e nella ricerca genetica sulle nostre numerose varietà autoctone, che mal si adattano ai sistemi di raccolta completamente meccanizzati. Al momento, sono le varietà spagnole, con l’Arbequina in testa, che si stanno imponendo nei nostri uliveti. È chiaro che mantenere il cosiddetto “premio di

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(che in alcuni casi possono costituire anche prezzo” per l’olio made in Italy sarà sempre il 10 per cento in peso del prodotto); mentre più difficile: tutti i protagonisti della filiera potrebbero essere riconsiderate le cosiddette dovranno impegnarsi in una nuova strategia “lavatrici”, là dove i frutti sono veicolati atdi comunicazione, svincolandosi dagli stereotraverso flussi d’acqua in continuo riciclo, da tipi classici della tradizione, che rischierebbevasconi di accumulo, quando in realtà è solo ro di venir bollati come falsi. il momento della doccetta finale in acqua poSe ci si ostina a portare avanti l’irrazionale tabile a meritare di essere considerato un efresistenza a qualsiasi forma di ricerca scienfettivo lavaggio per le olive. Pertanto, se non tifica, basata unicamente sulla speranza che fosse per normative di dubbia validità tecnica, il nostro glorioso passato ci difenda anche duritengo che sarebbe preferibile avviare le olive rante il sonno, il prezzo che purtroppo dovredestinandole direttamente al sistema di franmo pagare sarà sempre più alto. gitura. Le nuove tecniche colturali, e la conseguente meccanizzazione delle operazioni in campo, Grazie alla ricerca scientifica, è ormai evidenpermettono di abbattere drasticamente tempi te che l’olio ricavato dalle olive non è solo il e costi di raccolta, garantendo la migliore quaprodotto dell’estralità del prodotto Se ci si ostina a portare avanti zione del grasso, finale, a patto che l’irrazionale resistenza a qualsiasi forma tal quale, dai frutla trasformazione avvenga effettivadi ricerca scientifica, basata unicamente ti: si tratta, bensì, di un prodotto le mente entro posulla speranza che il nostro glorioso cui qualità chimichissime ore dalla passato ci difenda anche durante il sonno, che e organoletraccolta delle olive. il prezzo che purtroppo dovremo pagare tiche dipendono Di conseguenza, sarà sempre più alto. dalla varietà delle è necessaria una olive, dall’epoca di rapida evoluzioraccolta e dalle condizioni fitosanitarie dei ne delle tecnologie di trasformazione, tali da frutti; non meno importanti sono i parametri garantire costi di trasformazione competitivi, fondamentali del processo di estrazione (temconsentendo di trasferire all’olio tutte le mipo, temperatura, ossigeno). gliori qualità dei frutti. La gramolazione è la fase cruciale della produzione di un olio extra vergine di oliva. Si tratta di gestire un processo bioenzimatico da adattare a cultivar, epoche di raccolta e condizioni climatiche diverse. È fondamentale quindi avere ben chiaro il prodotto che si intende ottenere. Le buone pratiche di lavorazione definivano “gramolazione ideale” quella effettuata a 30 °C per un massimo di 45 minuti. Tuttavia, le nuove conoscenze biochimiche e le tecnologie per il controllo della temperatura fanno sì che

Nella raccolta delle olive “in continuo”, il distacco delle drupe avviene tramite battitori che inevitabilmente provocano ai frutti piccoli traumi, che, di per sé, non costituiscono un danno per la qualità, ma vista la grande quantità di prodotto accumulata ogni ora nei carrelli di trasporto (sino a 8-10 tonnellate), favoriscono l’avvio di fermentazioni potenzialmente pericolose, se non si procede alla trasformazione immediata. Una volta giunti in frantoio con il raccolto, sarà bene separare le olive dalle foglie residue 36


tali indicazioni siano da ritenere completamente superate. Gramolare a temperature superiori a 30 °C, infatti, può arricchire l’olio in “polifenoli”; e prolungare il processo oltre l’ora può arricchire l’olio in “clorofille”, provocando allo stesso tempo un significativo calo degli “esteri” con aumento degli “alcoli” e ottenendo un olio dal “fruttato maturo”.

tagliata o di carciofo che si percepiscono negli oli. Per la gestione della temperatura in lavorazione, da adattare alle diverse necessità, è indispensabile abbandonare il concetto di gramola come scambiatore di calore, e considerarla invece un puro sostatore/rimescolatore da affiancare a un moderno scambiatore ad alta efficienza.

Le esperienze degli ultimi anni, in cui molti produttori hanno anticipato significativamente la raccolta, finalizzandola alla ricerca di profumi sempre più freschi e intensi, hanno dimostrato che bisogna rivedere in modo scientifico le fasi di gramolazione. Molte volte, a fronte di frutti perfetti, non siamo riusciti a ottenere i profumi sperati. La causa è da cercare nelle alte temperature ambientali (assolutamente normali, a ottobre): la pasta di olive appena preparata, molto frequentemente supera i 30 °C, con una conseguente, involontaria, ipergramolazione; e sono ancora peggiori le conseguenze sull’olio che si estrae, se si opera in gramole non confinate, con un gravissimo contatto con l’ossigeno ad alta temperatura. Le nuove conoscenze in merito al processo enzimatico che avviene nella pasta delle olive suggeriscono che non sempre è necessario riscaldare le paste, anzi, sempre di più si rende necessario attivare un raffreddamento (sino a 15-18 °C) immediatamente dopo la frangitura, allo scopo di limitare o disattivare l’azione a enzimi come le “polifenossidasi” o le “perossidasi”. Solo in seguito, di conseguenza, sarà possibile gestire la fase di gramolazione in atmosfera controllata (attraverso un limitato contatto con l’ossigeno), con tempi e temperature adeguate a varietà ed epoca di raccolta, massimizzando il contenuto fenolico e proteggendo le frazioni aromatiche più delicate, come ad esempio le note di erba appena

La ricerca sta vivendo oggi una fase di nuova giovinezza: molte nuove tecnologie sono in fase avanzata di sperimentazione. Gli ultrasuoni, ad esempio, hanno ormai concluso il terzo anno di verifica su impianti industriali. Tramite l’utilizzo di questa tecnologia si potrebbe effettivamente rendere continuo il ciclo di estrazione, procedendo dalla frangitura alla centrifugazione, senza alcuna sosta. Le onde sonore ad alta frequenza (superiore a 16 kHz) creano infatti un’energia diffusa nella pasta delle olive. Energia che genera sia un blando riscaldamento per assorbimento della massa, sia l’effetto fisico della “cavitazione”, la quale provoca una rottura delle membrane cellulari, sostituendo o esaltando l’effetto enzimatico e meccanico delle gramolatrici classiche. I prossimi anni? Saranno fondamentali per definire i parametri ideali di impiego, oltre che per guidare il processo verso le caratteristiche del prodotto che ci si prefigge di ottenere.

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olioofficina / teconologia

Le macchine

utilizzate nella produzione della farina, del vino e dell’olio Dai modelli della protoindustria ai primi brevetti di Antonio Monte

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buisce con immediatezza alla comprensione “La macchina – e, più in generale, il mezzo che del ciclo produttivo e ci permette di studiautilizza un processo per ottenere un prodotto re, nella sua completezza, le diverse fasi del – è la parte vitale dell’opificio, l’elemento chiaprocesso di produzione; pertanto, le macchine ve del sistema produttivo e, quindi, il cardine non possono essere considerate un accessorio dell’archeologia industriale1”: questo scrive, della fabbrica, anzi, esse rappresentano (noparlando delle macchine, l’umanista e tecnonostante costituiscano l’anello debole della calogo Gino Papuli, pioniere dell’archeologia intena, come più volte sottolineava Gino Papuli) dustriale e uno dei maggiori promotori della l’espressione massima della produttività, sendisciplina in Italia. za le quali il prodotto non sarà mai realizzato Un quarto di secolo di ricerche “sul campo”, e messo in commercio. negli archivi e nelle biblioteche, mirate allo Lo storico della tecnologia e di cultura mastudio dei processi produttivi storici delle teriale Vittorio Marchis, in un illuminante principali produzioni del settore agroalimensaggio intitolato Dentro la tare (la produzione dell’oscatola nera delle fabbrilio, del vino e dell’alcol, Il consumo di cibi cotti ha che, apparso in “Il coltello del grano e della pasta, prodotto effetti sull’intelligenza di Delfo. Rivista di Cultura del sale, del tabacco e dei e sulla socialità: ha favorito Materiale & Archeologia dolci) che si svolgevano l’accrescimento del cervello Industriale”, scriveva: “Ma nell’Italia meridionale, studiare una fabbrica ignoha messo in evidenza un attraverso la riduzione dei ricco patrimonio di maccosti digestivi e dei tempi di rando il suo contenuto, o anche pretendendo di idenchine che sono strettamasticazione e ha socializzato tificarne la natura soltanto mente legate al luogo di lavoro (opificium) in cui il gusto, trasformando il pasto guardando alle strutture si esercitava l’attività, in un’occasione di incontro, di edilizie è errore di metodo. in quanto elemento indi- relazione, di circolazione delle [...]. Conoscere la macchina diventa paradossalmente spensabile per lo svolgiidee e condivisione. sinonimo di una conoscenza mento del processo prodi un linguaggio che perduttivo. mette di comprendere il sistema produttivo di Esse hanno un importante significato intelletcui la macchina stessa è parte”2. tivo, storico e documentario e nonostante ciò, spesso sono rimosse dagli opifici e demolite Dall’indagine conoscitiva delle numerose fabricavandone il prezzo da rottame. Durante briche dismesse (e non solo) nel territorio in l’indagine sul territorio – prevalentemente esame prima citato, è emerso che all’interno pugliese e lucano –, mirata a conoscere e, in si conservano – interamente o parzialmenalcuni casi, anche a scoprire nuovi siti indute – tutte le macchine utilizzate nei diversi striali dismessi, ci imbattiamo in vecchi opifici abbandonati dove sono ancora presenti tutte o in parte le macchine. La loro presenza contri1 G. Papuli, L’ingegno e il congegno. Archeologia indu-

2 V. Marchis, Dentro la scatola nera delle fabbriche, “Il

striale e cultura eclettica, Edizioni del Grifo, Lecce 1997,

coltello di Delfo. Rivista di Cultura Materiale & Archeo-

p. 101.

logia Industriale”, 29, marzo 1994, pp. 21-6.

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processi produttivi dell’industria alimentare3. Pregevoli sono le macchine dell’intero impianto produttivo legato alla trasformazione del grano in farina, presenti nel molino “a cilin-

Fig. 2 - Martano (LE). Stabilimento industriale F. Marati; molino "a doppio palmento" con banco metallico della ditta inglese Ruston Proctor & C. di Lincoln (ph. A. Monte, 1998).

la ditta Francesco Marati a Martano (LE), o le macchine del molino (ancora oggi attivo) Dibenedetto ad Altamura (BA), noto come “il mulinetto” (fig. 3) per identificarlo rispetto ai tredici molini “a cilindri” (tutti demoliti per far posto a edifici con diverse destinazioni d’uso) presenti nel centro urbano della città, indiscussa capitale dell’industria molitoria (e del pane) del Meridione. Dibenedetto conserva e

Fig.1 - Pulsano (TA). Molino F. Scoppetta; laminatoi "a cilindri" della ditta Bühler (ph. A. Monte, 2010).

dri” (fig. 1) della ditta Francesco Scoppetta a Pulsano (TA)4; oppure, sempre rimanendo nel campo dell’industria molitoria, giova ricordare il molino “a doppio palmento” (fig. 2) e l’impianto molitorio “a cilindri” conservato all’interno dello stabilimento industriale del3 A. Monte, The machines in the production processes of the agro-food industry. From the models of the proto industry to the early patents, in Atti del 39th Symposium ICOHTEC “Technology, the Arts and Industrial Culture”, Barcellona 10-14 luglio 2012; Id., Le macchine utilizzate nei processi di produzione dell’olio, del vino e dell’alcol.

Fig. 3 - Altamura (BA). Molino artigianale Dibenedetto "il mulinetto"; semolatrice quadrupla in legno della ditta MIAG e plansichter in legno a sei canali e 24 stacci della ditta Negretti (ph. A. Monte, 2012).

I brevetti, i modelli, le evoluzioni tecnologiche, in Storia, industria e patrimonio industriale a Tuglie: le fabbriche di olio, vino e spirito tra età moderna e contemporanea, Lettere Animate, Martina Franca 2014, pp. 79-112.

utilizza ancora per la macinazione del grano duro un prezioso laminatoio (fig. 4) degli anni Venti del Novecento della nota ditta Fratelli Bühler di Uzwil (Svizzera). Anche all’interno di trappeti ipogei degli stabilimenti oleari,

4 R. Covino, A. Monte, L’industria molitoria in Terra d’Otranto: il molino a cilindri Scoppetta a Pulsano nel centenario della sua fondazione. Recupero e conservazione di un monumento industriale, Crace, Narni 2011, pp. 3-23.

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Anche il mondo animale ci offre qualche esempio significativo di proto-cucina. I macachi giapponesi dell’isola di Koshima hanno imparato in modo del tutto casuale a immergere nell’acqua di mare i tuberi di cui si cibano per insaporirli, apprezzandone il gusto, comportamento poi trasmesso alle generazioni successive.

Fig. 5 - Galatone (LE). Trappeto ipogeo di Piazza San Sebastiano; torchi a due viti del tipo "alla calabrese" (ph. A. Monte, 2014).

oleari Colosso a Ugento (fig. 6), Villani a Cannole, Ravenna a Tuglie, Tamborino a Maglie, con le pregevoli superpresse e vasche della nota fonderia S. A. Pignone di Firenze (fig. 7), e altri dove al loro interno sono presenti integralmente tutte le macchine. Anche nella vicina Basilicata notevole è il patrimonio di macchine negli opifici dismessi; per restare nel campo dell’industria olearia, basti citare alcuni casi che si possono vedere

Fig. 4 - Altamura (BA). Molino artigianale Dibenedetto "il mulinetto"; le mani del Maestro mugnaio Mario Dibenedetto che mostra i chicchi di grano frantumati dai cilindri del laminatoio della ditta Fratelli Bühler (ph. A. Monte, 2012).

Fig. 6 - Ugento (LE). Stabilimento oleario di "Casa Colosso"; presse idrauliche e frantoio della ditta Veraci di Firenze (ph. A. Monte, 2009).

nel campo dell’industria dell’olio, si conservano interessanti “ordigni oleari”; nel trappeto ipogeo di piazza San Sebastiano a Galatone (LE) e nel semipogeo Seracca-Guerrieri a Presicce (LE) si custodiscono esemplari unici di torchi a due viti del tipo “alla calabrese” (fig. 5). Mentre, in Terra di Bari, a Bisceglie il trappeto Cosmai e ad Altamura il trappeto Capurso conservano tutte le macchine utilizzate nel processo: vasche e torchi a una vite del tipo “alla genovese”. Sempre in provincia di Lecce, degni di nota sono gli stabilimenti

Fig. 7 - Maglie (LE). Stabilimento oleario di "Corte de Droso"; presse idrauliche della ditta S. A. Pignon di Firenze (ph. A. Monte, 2013).

nei trappeti Carrazza e Dimase (fig.8) a Montemurro (PZ), o Viscera a Grassano (MT) e tanti altri. Pure nel campo dell’industria vinicola e dello “spirito” (alcol), così come è citata negli Annali di Statistica Industriale, si conservano molte macchine. Gli interi cicli della distillazione, da 41


liquorificio Antonio Cappello, sempre a San Cesario di Lecce. Il patrimonio di macchinari legati alla produzione del vino è molto cospicuo, nonostante quanto è andato distrutto o venduto come rot-

quello delle vinacce a quello delle fecce e altro, sono visibili nella storica distilleria Nicola De Giorgi a San Cesario di Lecce, che quest’an-

Guardata inizialmente con diffidenza e timore, e da alcuni additata come “cucina non salutare”, anche per la sua distanza da quella di tutti i giorni, la cucina d’avanguardia più che cambiare gli ingredienti ha modificato le loro tecniche di utilizzo, i metodi di cottura (meno invasivi) e gli abbinamenti dei cibi, non di rado insoliti, per creare piatti innovativi e bizzarri che conservano il sapore originario della materia prima e ne esaltano le proprietà organolettiche.

Fig. 8 - Montemurro (PZ). Trappeto Dimase; torchio a due viti del tipo “alla calabrese" (ph. A. Monte, 2013).

no celebra i cento anni della costruzione dello stabilimento industriale e i centodieci della nascita della ditta Casa De Giorgi. Notevoli sono il tritacarrube (anche se lasciato in un

Distinguendosi sia dalla cucina casalinga, sia dalla cucina tradizionale, l’avanguardia culinaria ha raggiunto il massimo livello di elaborazione razionale con la nascita della gastronomia molecolare. Considerata come l’ultima frontiera della “scienza nel piatto”, quest’insolita disciplina è una razionalizzazione estrema del sapere utilizzabile in cucina con l’intento di perfezionarla.

tame; pregevole è la collezione che si conserva nel costituendo Museo Enologico “E. Giorgiani”, presso le cantine Santa Barbara a San Pietro Vernotico (BR), o le macchine presenti nell’ex palmento-cantina Tarentini oggi destinato a Museo del Negroamaro a Guagnano (LE). Oppure le macchine (e un pregevole torchio a una vite, fig. 9), conservate nella cantina Montemurro a Matera e altre sparse nelle numerose cantine nei sassi materani o in altri centri lucani, come Grassano, Grottole, Barile, Sant’Angelo le Fratte (noto come il paese delle cantine), Pietragalla, ecc. Nel campo dell’industria delle “fabbriche di paste da minestra” si conservano pochissimi esemplari di macchine, nonostante i 120 pastifici presenti sul territorio della provincia di

completo stato di abbandonato) nella nota distilleria a Barletta (BT) della Ditta Ermenegildo Castiglione-Consonni Pirelli & C. e l’impianto di distillazione nelle Distillerie42


OGNI GOCCIA D’OLIO RACCONTA UNA STORIA. D’AMORE. Ogni famiglia fa la storia. Vogliamo raccontarvi la nostra. Immaginate una grande foto, così grande da farci stare dentro quattro generazioni, unite. Un ritratto che include anche tutta la famiglia allargata comprendente chi, lavorando in azienda, è ormai di casa. Sono storie vere, d’epoca e moderne. Sprigionano un profumo intenso BGD©@QQHU@©ȯMN©@K©BTNQD © lasciando nell’aria un sapore unico. Come quello dell’olio di famiglia Coricelli.

Racconti di Famiglia.


Fig.10 - Cirillo Vincenzo. Tavola del Brevetto Sistema per la prosciugazione completa della pasta alimentare; particolare dell’agitatore d’aria (ventilatore) 27 aprile 1912 (ACS, MICA UIBM, Serie invenzioni,brevetti).

Fig. 9 - Matera. Cantina Montemurro; torchio a una vite del tipo "alla genovese" con gabbia in legno (ph. A. Monte, 2013).

Bari5. Il pastificio Benedetto Cavalieri a Maglie, che l’anno prossimo festeggia il suo primo centenario continuando sempre – fra tradizione e innovazione – a produrre pasta di qualità, conserva pregevoli macchine utilizzate nello storico pastificio: il Sistema per la prosciugazione completa della pasta alimentare lunga, noto come “Metodo Cirillo” o “Vento Cirillo” (fig. 10-11), dal suo inventore Vincenzo Cirillo di Torre Annunziata (NA) che lo brevettò nel 19126; un torchio idraulico verticale della ditta Officine Meccaniche Italiane-Stabilimento S. A. Meccanica Lombarda-Monza; le gramole della nota Fonderia Fratte di Salerno; due

Fig.11 - Maglie (LE). Pastificio Benedetto Cavalieri; agitatore d’aria Cirillo (ph. A. Monte, 2006).

essiccatoi in legno per la pasta corta della già citata ditta Fratelli Bühler e altre ancora. Rimanendo in Puglia e sempre nel settore alimentare, sono interessanti le macchine del Museo del Confetto “Giovanni Mucci” (fig. 12) ad Andria (BT), che l’imprenditore-proprietario Mario Mucci, con accuratezza certosina, ha saputo raccogliere e conservare per poi esporle nel Museo nato nel 2005: una coppia di bassine (o boccia), una confettatrice in rame a trazione meccanica, una pregevole coppia di branlantes (di fine Ottocento) in rame, per la lavorazione a mano dei confetti, una pelamandorle e tante altre macchine sono esposte per i visitatori e messe a disposizione per gli studiosi dell’arte confettiera. Anche nel MaglioMuseo, della ditta Maglio Arte Dolciaria a Maglie (LE), sono esposte interessanti macchine recuperate con cura e sottratte alla rottamazione. Dopo questo breve excursus di siti con macchine all’interno, sicuramente poco esaustivo rispetto al ricco patrimonio di cui siamo a

5 Annali di Statistica. Statistica Industriale, Provincia di Bari, Fascicolo XXXI, Tipografia Nazionale di G. Bertero, Roma 1891, pp. 39-41. 6 R. Covino, A. Monte, Molini e pastifici in Puglia e Basilicata. Gli imprenditori e le fabbriche, i primi brevetti e le macchine, in Atti del VII Congresso AISU “Food and the city” Padova 3-5 settembre 2015, (in corso di stampa).

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omogenea; quelle più note, molto usate ma anche molto imitate (macine di pietra del tipo La Ferté) erano le pietre molari realizzate in loco con materiale lapideo estratto dal bacino di cave di La Ferté-sous-Jouarre in Francia7. Tutti gli impianti molitori tradizionali dell’età preindustriale praticavano la “bassa macinazione” o macinazione “a fondo” o “piatta macinazione”; con questo metodo in un solo passaggio di macinazione i chicchi di grano erano completamente schiacciati. Gli impianti “a palmenti” (semplice o doppio con banco metallico) dominarono la scena dell’arte molitoria in tutta Italia; infatti, la macinazione “a palmenti” nel corso dei secoli aveva raggiunto un discreto grado di perfezione e continuò a essere utilizzata dai contadini per molti decenni anche dopo l’avvento dei primi esempi di laminatoi. Appena dopo la metà del secolo XIX compaiono i primi brevetti degli impianti molitori del tipo “a palmenti” o “a doppio palmento” (fig. 13). La comparsa dei laminatoi “a cilindri”, av-

Fig.12 - Andria (BAT). Antica Confetteria e Museo del Confetto "Giovanni Mucci"; interno del Museo (ph. A. Monte, 2013).

conoscenza, possiamo affermare che le macchine si sono salvate dalla rottamazione sia grazie alla sensibilità dei proprietari sia per ragioni fortuite, che hanno contribuito alla loro conservazione. Nel campo dell’industria molitoria sono presenti due tipi di mulini: quello “a palmenti” con mole e quello con laminatoi “a cilindri”; le macchine, presenti all’interno degli impianti molitori, costituiscono oggi un peculiare patrimonio protoindustriale e industriale. Il meccanismo del molino “a palmenti” è costituito da un albero verticale (o albero rotante) su cui sono inserite la tramoggia, che porta direttamente il grano al centro della macina superiore, e due mole di pietra calcarea disposte in senso orizzontale una sull’altra. Quella inferiore, fissa e incastellata nella struttura portante della macchina, è detta dormiente (o giacente); mentre quella superiore è girevole (o girante o corrente), nota come mola ballerina. Il grano introdotto dalla tramoggia al centro della macina superiore, dotata di scanalature per rendere più agevole lo scarico della farina, passa attraverso un piccolo spazio vuoto tra le mole e viene schiacciato per pressione e sfregamento. Particolare attenzione è rivolta alla qualità delle mole, che dovevano essere di pietra durissima, porosa e con struttura

7 R. Maddaluno, A. Monte, Las fabricas de molienda y de pasta de Puglia: historia de un ejemplo local, in Atti della II Jornadas Andaluzas de Patrimonio Industrial y de la Obra Pubblica, Cadiz 25-27 ottobre 2012, Junta de Andalucia-Fundacion Patrimonio Industrial de Andalucia, 2014; A. Monte, L’industria del grano, della farina e della pasta, in Salento, l’arte del produrre. Artigiani, fabbriche e capitani d’impresa tra Ottocento e Novecento, Edizioni Grifo, Lecce 2012; Id., Dal palmento al laminatoio a cilindri. Origini e sviluppi dell’industria molitoria in Puglia, in I molini e l’industria molitoria in Puglia (a cura di A. Monte, P. Durante, S. Giammaruco), Progetto In-Cul. Tu.Re. / MIUR, In-Cul.Tu.Re-IBAM CNR, Lecce 2015, pp. 21-42; Id., Molini e silos granari. I siti produttivi, i brevetti, le architetture, il patrimonio archeoindustriale, in Atti del Convegno Internazionale “…come sa di sale lo pane altrui. Il pane di Matera e i pani del Mediterraneo”, Matera 5-7 settembre 2014, Centro Grafico Foggia, Foggia 2014, pp. 189-213.

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sero sul mercato cilindri in porcellana, acciaio e ghisa temperata su brevetti di Friedrich Wegmann, André Mechwart (fig. 14), Adolphe Bühler, Daverio-Henrici & C. S. A., A. Millot & C., Abraham Ganz & C., e altri. A Wegmann si devono il brevetto e la costruzione del primo laminatoio industriale; egli, tra il 1874 e il 1885, realizzò numerosi brevetti che in seguito perfezionò per migliorare le prestazioni. Nel vasto panorama dell’industria molitoria merita un posto di rilievo la già citata Casa Bühler di Adolphe Bühler di Uzwil (Svizzera), fondata nel 1860. Dall’ultimo quarto dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento brevettò e costruì accuratissimi laminatoi a tre/ quattro cilindri con due diverse incastellature8; i laminatoi Bühler sono stati i più utilizzati nei moderni impianti molitori a carattere industriale. Con l’avvento della molitura “a cilindri” aumentò considerevolmente la produzione della farina, quindi fecero la loro prima comparsa i buratti (fig. 15), usati nelle diverse operazioni dei prodotti delle rotture e per la divisione dei dunst delle rimacine. Essi erano del tipo comune con aspo in legno su albero orizzontale sui quali sono tesi veli di seta; oppure centrifugo con all’interno del tamburo cilindrico delle palette montate sull’asse girante ad alta velocità o rotondo che permetteva ai prodotti da burattare di scivolare in continuazione sulla superficie rotonda interna. In seguito, il vecchio sistema di burattazione eseguito con

venuta nella prima metà dell’Ottocento, rivoluzionò radicalmente il tradizionale metodo di molitura praticato in età moderna. La rottura in frammenti, lo svestimento delle semole, la rimacina sono compiuti dai laminatoi. Il primo laminatoio, azionato con forza meccanica, fu utilizzato in Svizzera, Ungheria, Austria, Francia, ecc.; nel periodo compreso tra il 1820 circa e il 1834, alcuni pionieri sperimentarono i primi modelli di laminatoi sostituendo le mole con cilindri in ferro. Pertanto, già dalla metà dell’Ottocento il passaggio alla nuova tecnologia avvenne in maniera graduale; fu così introdotta l’“alta macinazione” (o “macinazione graduale a cilindri”) fatta con successive rotture e conseguente burattatura e separazione dei prodotti. Lo sviluppo tecnologico dei laminatoi fu dovuto essenzialmente al diffondersi di una nuova forma di energia: la macchina a vapore. Dal 1870 alcune ditte mi-

8 C. Siber-Millot, L’industria dei molini. Costruzioni-impiantimacinazione, Hoepli, Milano 1897, pp. 94-119; R. Pareto, G. Sacheri, Macinazione e Triturazione, in Enciclopedia delle Arti e Industrie, vol. V, parte II, Unione Tipografico-Editrice, Torino

Fig. 13 - Canosio Carlo. Tavola del Brevetto Perfezionamentiai mulini a macine giranti onde ottenere il movimento simultaneo od inverso delle stesse ecc; 29 aprile 1884 (ACS, MICA UIBM, Serie invenzioni,brevetti).

1891, pp. 643-67 e 1349-63; G. Berarducci-Vives, La macinazione e la panificazione, Tipo-Litografia L. Lazzaretti e Figli, Lecce 1886, p. 15; E. Madureri, Storia della macinazione dei cereali, vol. I, Chiriotti Editori, Pinerolo 1995, pp. 179-88; G. Negri, La macinazione agricola dei cereali, Hoepli, Milano 1930.

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buratti ordinari, a forza centrifuga o buratti rotondi, non era più in grado di dare una perfetta selezione del macinato, in quanto utilizzato non solo per la rimacina ma anche per la burattazione dei prodotti delle ultime rotture; pertanto, fu introdotto lo staccio piano a oscillazione libera o plansichter. Prima il laminatoio per frantumare i chicchi di grano e in seguito, dopo circa cinquant’anni, il plansichter9 (buratto piano o staccio piano a oscillazione libera) per l’abburattamento delle farine hanno rivoluzionato l’intero sistema dell’arte molitoria. Lo staccio piano a oscillazione libera, o plansichter, fu brevettato dall’ungherese Karl

Fig. 14 - Mechwart André. Tavola del Brevetto Moulins à cylindres avec anneaux giratoires d’allégement des paliers, 1879 (ACS, MICA UIBM, Serie invenzioni, brevetti).

Costruendo nuove sensazioni per il palato, la cucina intellettuale destruttura i piatti per riscostruirli secondo nuovi schemi con l’obiettivo di emozionare, provocare e stupire stimolando tutti i nostri dispositivi sensoriali forse ancora più del palato. Haggenmacher nel 1887. Esso rappresentò il tipo più moderno di macchina stacciatrice; infatti, era composto da diversi stacci piani disposti uno sull’altro. Diverse furono le case costruttrici di plansichter: la Ganz & C., la Luther, la Amme, Giesecke & Konegen, la Daverio, la Bühler, ecc. Le macchine in uso nei trappeti (durante la fase della protoindustria) o negli stabilimenti oleari (durante l’età industriale) per la lavorazione delle olive sono: le vasche (o frantoi) per la molitura con una pietra molare, successivamente quelle con due o tre pietre molari e, 9 Ai buratti e ai plansichter è demandata la classificazioFig. 15 - Jacobacci Vincenzo. Tavola del Brevetto Buratto Jacobacci a telaio rettangolare oscillante, 21 giugno 1898 (ACS, MICA UIBM, Serie invenzioni, brevetti)

ne degli sfarinati e delle grosse semole, nonché l’ultima classificazione.

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in alcuni casi, anche quattro; prima azionate sia da forza animale (“a sangue” o “a tiro”) sia da forza idraulica, e in seguito a vapore e poi elettrica, quindi inanimata. Il torchio in legno a due viti del tipo “alla calabrese”; i torchi in legno e le batterie (in legno, pietra, ferro) a una vite del tipo “alla genovese”; gli “strettoj” o torchi a vite in ferro (con movimento a leva semplice o con la stanga, con movimento a cricco, a leva multipla o a leva multipla con ingranaggio acceleratore)10; i torchi idraulici o presse. Questi ordigni oleari, in parte ritrovati all’interno di vecchi trappeti o oleifici moderni, sono testimonianza viva di una “catena di montaggio” semplice ma ingegnosa. Attraverso la presenza delle macchine si è potuto ricostruire fedelmente il processo produttivo, studiato nella sua evoluzione e nel suo perfezionamento. In realtà, la vera vita nei frantoi è stata scandita dalla relazione uomo-macchina-animale, l’automatismo industriale è subentrato solo in un secondo momento, a cavallo tra la metà del XIX e i primi lustri del XX secolo. Pertanto, i frantoi iniziarono a essere messi in movimento da altre forze motrici: prima quella a vapore, successivamente quella elettrica e infine idraulica. Si assiste alla sostituzione della forza animale con un’altra forza: cioè si passa dal movimento “a bestia” o “a sangue” (o “a tiro”) a quello a motore “inanimato” con movimento “di sopra” o “di sotto” mediante forza motrice. Tra le diverse ditte italiane che brevettarono e hanno costruito i frantoi vanno ricordate: Calzoni di Bologna, Veraci di Firen-

ze, Lindemann di Bari11, Mure di Torino, S. A. Pignone-Officine Meccaniche e Fonderia di Firenze, Giuseppe Camplone & Figli di Pescara, Officine Galardi S. A. di Firenze, e altre12. I torchi a vite di ferro sono stati costruiti delle ditte: Oomens di Napoli13, Mure di Torino, Meschini di Gallarate, Guglielmo Lindemann di Bari, dalla Fonderia Officina Meccanica Luigi Riccardi e dallo Stabilimento Meccanico con Fonderia dei Fratelli Nuzzo di Galatone

11 A. Monte, Lo stabilimento meccanico e la fonderia Lindemann a Bari, “Arredo & Città, 1, Longiano 2007, pp. 45-6. 12 R. Pareto, G. Sacheri, Olii, in Enciclopedia delle Arti e Industrie, vol. VI, Unione Tipografico-Editrice, Torino 1889, pp. 244-5; R.F. Simari, Olivicoltura…, cit. pp. 14454. 13 Stabilimento Fonderia di ferro e Opificio meccanico Luigi Oomens. Discendente da una famiglia francese (originaria di Lione) di costruttori meccanici, Luigi Oomens arriva a Napoli intorno al 1834. Impianta uno stabilimento che dava lavoro a circa cento operai: esso era dotato di una piccola fonderia per la realizzazione di macchine a vapore per l’agricoltura, ma soprattutto piccole macchine per tagliare i cenci delle cartiere e i telai Jacquard in ferro. Estremamente specializzato, l’opificio non riuscì a sollevarsi dalla crisi in cui la “rivoluzione” doganale post-unitaria aveva fatto precipitare l’industria

10 R.F. Simari, Olivicoltura e industria moderna dell’olio

tessile napoletana; per tirare avanti era costretto a pro-

di oliva, Hoepli, Milano 1912, pp. 141-85; A. Monte, Le

durre un’enorme varietà di modelli che, ovviamente, ren-

macchine in uso nei processi storici di produzione dell’o-

devano minimi i profitti. R. Parisi, Lo spazio della Pro-

lio, “Patrimonio industriale”, 4, ottobre 2009, Crace, Peru-

duzione. Napoli: la periferia orientale, Edizioni Athena,

gia, pp. 40-52; Id., Le macchine utilizzate…, cit.

Napoli 1998, p. 103.

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(LE)14, da R. D’Alfonso di Penne (PE), da Luigi Oliva di Trepuzzi (LE) e da altre note ditte. I diversi modelli di presse idrauliche realizzate a torre libera (o aperta), o chiusa, a tre o quattro colonne, sono state brevettate e prodotte dalle ditte: Veraci (fig. 6), S. A. Pignone (fig. 7) e Officine Galardi S. A. di Firenze, Lindemann, De Blasio, Fonderie Officine N. Biallo, G. Lopez & C., Amenduni & C. di Bari, Vitone di Bitonto (BA), Pieralisi di Jesi, Premiate Officine Meccaniche – Fonderia in ghisa e bronzo F.lli Mari di Lanciano (CH). La Ditta Giuseppe Camplone & Figli di Pescara che nel 1947 brevettò la Pressa idraulica per l’estrazione mediante spremitura di liquidi contenuti in masse pastose (fig. 16), molto usata nell’Italia centro-meridionale. Esse permettevano di impiegare una quantità di pasta superiore rispetto alle presse a piatto fisso, ottimizzando i tempi di lavorazione. Tra i diversi modelli di presse, lo Stabilimento Meccanico e Fonderia Cav. Francesco De Blasio brevettò (il 9 giugno 1898) e realizzò una Pressa idraulica a doppia forata per olive con scarico automatico che accelerava i tempi di spremitura della pasta grazie all’utilizzo di una doppia gabbia. Nell’industria vinicola, prima della comparsa delle macchine, quindi in età preindustriale, la lavorazione delle uve veniva fatta in un

luogo noto come “palmento”15 o cantina padronale, dove avveniva la pigiatura (“a forza d’uomo” fatta con i piedi) dei grappoli d’uva e la torchiatura (della poltiglia o pasta) che trasformava il mosto in vino. I palmenti costituirono, dall’ultimo quarto del secolo XIX, il modello dei moderni stabilimenti o cantine vinicole che si andavano costruendo un po’ ovunque. I palmenti sono edifici realizzati in pietra locale; all’interno dell’ambiente, quasi sempre di forma rettangolare, è ubicata una vasca in muratura16 di forma quadrangolare, dove venivano versati i grappoli d’uva per poi essere pigiati con i piedi; questa grande vasca era collegata, attraverso una canaletta con un foro di uscita, ad una cisterna dove si depositava il mosto che si lasciava riposare per dare inizio alla fermentazione. La prima macchina utilizzata nel processo di vinificazione fu la pigiatrice semplice; in seguito furono introdotte altre macchine sia per la pigiatura sia per la torchiatura delle vinacce. Nei primi decenni dell’Ottocento alla pigiatura “a forza d’uomo” si affiancò quella meccanica, realizzata con una pigiatrice semplice, a cilindro unico oppure a due cilindri, azionata a mano. Uno dei primi modelli fu ideato nel 1824 da Ignazio Lomeni17. Queste macchine, completamente in legno e, in alcuni casi con parti in ferro, erano molto semplici e 15 Nome con cui comunemente i piccoli proprietari e i contadini chiamavano questa peculiare tipologia costruttiva, ad uso familiare, largamente diffusa in tutti i paesi viticoli dell’Italia meridionale.

14 Per l’attività delle officine Riccardi e Nuzzo si rimanda a: F.A. Mastrolia, Le Ditte Riccardi e Nuzzo di Galatone,

16 Alcune testimonianze più remote attestano che in ori-

in Tra terra e mare. Aspetti dell’economia di Terra d’O-

gine era anche direttamente scavata e quindi ricavata nel

tranto (1861-1914), Edizioni Scientifiche Italiane, Napo-

banco roccioso.

li 2010, pp. 269-82; L. Calabrese, I “forgiatori del ferro” scomparsi. Le fonderie Nuzzo nel Salento, Congedo Edi-

17 I. Lomeni, Macchina per la pigiatura delle uve o pigia-

tore, Galatina 2006.

tore, Giovanni Silvestri, Milano 1825.

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spatore rotante; molto diffuse erano anche le pigiatrici a rulli scanalati (di legno duro o di metallo), che ruotavano in senso inverso. Le più utilizzate erano quelle brevettate e prodotte dai fratelli Beccaro (fig. 18), da Giuseppe Cornaglia di Acqui (1897), da Ottavio Ottavi di Casale Monferrato, dalla Ditta Guglielmo Lindemann di Bari (1891), da Pietro Giuseppe Garolla di Limena (1892)18. Nel corso degli anni si ebbe la quasi scomparsa dei palmenti dovuta al processo di industrializzazione. Dal 1875 sino al 1930, infatti, furono costruite numerose cantine enologiche (o stabilimenti vinicoli) con moderne macchine capaci di lavorare l’uva a prezzi concorrenziali, con le quali i palmenti non potevano competere. Fig. 17 - Mantero Giuseppe. Tavola del Brevetto Nuovo pigiatoio perfezionato in legno santo a due o più cilindri”, 30 giugno 1879 (ACS, MICA-UIBM, Serie invenzioni, brevetti) Fig. 6 - Camplone Giuseppe & Figli. Tavola del Brevetto della Pressa idraulica per l’estrazione mediante spremitura di liquidi contenuti in masse pastose”, 5 aprile 1947 (ACS, MICA-UIBM, Serie invenzioni, brevetti)

facili da trasportare da due uomini perché realizzate sotto forma di “barella”. Noti erano il pigiatoio “a barella” sistema Grosso, oppure quello della ditta Enrico Negro, o la pigiatrice Marchi e Borghi, il pigiatoio Mantero (fig. 17) e altri. Queste macchine erano molto utilizzate nell’enologia familiare ed ebbero una buona diffusione per la loro semplicità, nonostante fossero imperfette, non effettuando la diraspatura, consentendo ai graspi di cadere nel mosto arricchendolo di sostanze tanniche. Nei decenni successivi fu brevettata e introdotta la pigiadiraspatrice (o pigiatrice-sgranatrice), costituita da cilindri pigiatori con aspo dira-

18 Pigiatrice-sgranatrice Beccaro brevettata in Italia, Francia, Spagna ed Austria-Ungheria, Tip. P. Righetti, Acqui 1889; Bollettino delle Privative Industriali del Regno d’Italia, Tip. A. Vinciguerra e Figli, Torino, anni 1879, 1887, 1889, 1891, 1893; R. Pareto, G. Sacheri, Vino, in Enciclopedia delle Arti e Industrie, vol. VI, parte III, Unione Tipografico-Editrice, Torino 1898, pp. 1024-32; F. Gianformaggio, Manuale pratico di vinificazione, F. Battiato Editore, Catania 1910; A. Bertuzzi, Enologia industriale. Le macchine enologiche, Hoepli, Milano 1949, pp. 33-7; G. Stefanelli, Macchine enologiche e loro produzione nazionale, Edizioni Agricole, Bologna 1953, pp. 4-9; F. Gianformaggio, Manuale pratico di enologia moderna, Hoepli, Milano 1955, pp. 49-55.

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Una delle prime macchine presenti all’interno delle moderne cantine fu la pigiadiraspatrice centrifuga brevettata dal già citato Garolla; egli nel settembre 1892 la brevettò col nome di: Pigiatrice e sgranatrice da uva ed arieggiatrice del mosto, la costruì e la mise sul mercato, ottenendo una vasta popolarità a livello nazione e internazionale19. Dopo la pigiatura, la fase successiva del processo produttivo prevede la lavorazione delle vinacce, cioè la separazione del mosto dalle vinacce fermentate. Questa pratica, nota come torchiatura delle vinacce, è effettuata per mezzo della pressione di macchine enologiche. Tra queste vanno ricordate: la pressa

(posto su una base in legno oppure poggiato tra due pilastri in legno o in pietra, oppure direttamente infisso nel piano di calpestio del pavimento). La loro funzione era di torchiare le vinacce quale residuo della pigiatura dell’uva. In seguito, furono utilizzati torchi completamente in metallo, a due o tre colonne a leva multipla; dopo il torchio a tre colonne compare uno dei primi esempi di torchio da vino sistema “a leva multipla” brevettato nel 1879 da Giovanni Mure e Felix Marmonier; negli anni successivi, sempre Garolla brevetta il Torchio continuo per uva ed altre frutta “La sfinge” e, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, si diffonde il torchio con gabbia in legno, basamento, vite e cricco21 in metallo; infine compaiono i primi torchi (o presse) idraulici e i torchi continui. I torchi (in gergo noti tra i contadini come “forati” per i listelli lignei messi uno accanto all’altro) azionati a mano sono costituiti da un vitone centrale; la pressione era esercitata da una madrevite discendente; essi sono ancora molto utilizzati all’interno dei piccoli stabilimenti vinicoli. Le vinacce sono contenute all’interno da una gabbia cilindrica divisa in due, formata da robusti listelli di legno messi uno vicino all’altro, tenuti insieme da alcuni cerchi di ferro. Sulle vinacce sono messe due grosse mezzelune semicircolari e dei pezzi di legno, che servono per aumentare la distanza tra la vinaccia e il meccanismo compressore. Tra i vari torchi in commercio erano noti e molto usati il Sistema Mabille, il Torchio Elefante Garolla o quelli delle Ditte Heinrich, Leroy, Bazzi, Negro, e il torchio da uva con rimescolatore automatico a motore, sempre realizzato da Pietro Giuseppe Garolla, nel 1910. Sul mercato vennero in seguito introdotte le presse idrauliche, che permettevano di raggiungere pressioni molto più forti, come quel-

Fig. 18 - Beccaro Giovanni. Tavola del Brevetto Pigiatrice con separatore automatico dei graspi, 31 dicembre 1888 (ACS, MICA-UIBM, Serie invenzioni, brevetti).

“a leva”20 e i torchi di legno azionati a mano (uguali a quelli in uso per la spremitura della pasta delle olive), cioè a due viti del tipo “alla calabrese” (posizionato su una base in pietra calcarea) e a una vite del tipo “alla genovese” 19 R. Martinello, Giuseppe Garolla. Un uomo, un’azienda, Biblioteca Comunale di Limena, Limena 1996. 20 Costituita da una lunga e grossa trave lignea già conosciuta nel mondo antico; come esempio giova ricordare quella conservata nella villa dei Misteri a Pompei del tipo catoniana.

21 Apparecchio a vite azionato da una leva.

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“distillazione continua” e “rettificatori”22. Facciamo un passo indietro di alcuni secoli e osserviamo che la distillazione veniva effettuata con l’alambicco23; tra il XIII e il XVII secolo questo apparecchio (meglio conosciuto come storta) ha subito molte trasformazioni realizzate da alchimisti e maestri dell’arte distillatoria24. Tra gli artefici25 di queste innovazioni va ricordato Vannuccio Biringuccio (1485-1539), il quale realizzò un “alambicco deflammatore” che otteneva contemporaneamente la distillazione e la “rettificazione”: cioè la distillazione frazionata. Nei secoli successivi si assiste al perfezionamento degli apparecchi per acquavite; noti sono: l’alambicco di Parmentier e l’alambicco semplice a “fuoco diretto” o a “distillazione discontinua”. Vi sono diversi tipi di alambicchi secondo le usanze locali ma, in particolare, se ne distinguono due tipologie: quello arti-

le prodotte dalle case Marmonier, Mayfarth, Garolla, Negro e Salvaneschi, La Mabille, Zambelli, Ruozi, Lindemann, De Blasio, Sorrentino e Colonna; quest’ultime quattro ditte (tutte con stabilimento meccanico e fonderia a Bari) realizzarono anche una pressa idraulica con gabbie mobili. Il primo brevetto fu presentato dalla Ditta Guglielmo Lindemann il 10 giugno 1892 dal titolo: Pressa idraulica con gabbie mobili su binario, per la premitura dell’uva e di altre frutta. La presenza sempre più diffusa e a buon mercato di vino e di scarti della vinificazione diviene il volano per lo sviluppo di altre attività collaterali; tra queste giova ricordare l’industria della distillazione. Altrettanto importanti erano le numerose “fabbriche di spirito” (così erano chiamate le distillerie) che producevano alcol, volute da alcuni intraprendenti industriali; essi intuirono che gli scarti della produzione vinicola potevano diventare la materia prima per fare sviluppare un’altra industria. In un breve periodo di circa vent’anni furono impiantate molte distillerie, collocate prevalentemente nelle zone ad alta concentrazione viticola. La distillazione viene eseguita con macchine (apparecchi distillatori meglio noti come alambicchi) che possono variare per dimensione, forma e materia secondo la quantità, natura e qualità dei prodotti. Fino al Settecento la distillazione era una pratica di alchimia. Con la Rivoluzione industriale iniziò a diffondersi l’industria distillatoria nelle usanze alimentari; quindi, quest’arte ebbe una notevole evoluzione a cavallo tra i secoli XVIII e XIX grazie agli studi di alcuni italiani e di qualche straniero che, allontanandosi dall’empirismo, diedero una prima base scientifica alla distillazione. Da questi studi nacquero le prime macchine utilizzate per produrre alcol su scala industriale e con un alto grado alcolico. Esse prendono il nome di “apparecchi composti”, a

22 G. Meloni, L’industria dell’alcole II, Processi e impianti di produzione e trasformazione, Hoepli, Milano 1953, pp. 20-33. 23 Dal greco ambix, vaso, tazza, e dall’arabo (al)-ambiq; lambecco secolo XIV (G. Boccaccio), alambicco dal secolo XVII; cfr., Dizionario Larousse degli alcolici e dei cocktails, Gremese Editore, Roma 2001, p. 25. 24 Nel Medioevo l’alchimia si diffuse sempre di più e fu praticata anche nei monasteri; dal secolo XII venne praticata in Italia la distillazione del vino. Fu il medico padovano Michele Savonarola (1384-1462) che, con il suo trattato De arte conficiendi aquam vitae simplicem et compositam e con il primo apparecchio per produrre acquavite di vino, contribuì alla sua diffusione. Con il francese Arnaut de Villeneuve (1240-1311) e lo spagnolo Raymondo Llull (1235-1315), il Savonarola è considerato il padre dell’acquavite. 25 Vanno ricordati anche Giambattista della Porta, Gerolamo De’ Rossi, Gerolamo Cardano e altri.

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gianale e quello industriale. Gli apparecchi (o macchine) del tipo artigianale sono solitamente di piccole dimensioni e, naturalmente, di modesta capacità: ultimata la distillazione, viene scaricata la materia prima già distillata e inserita l’altra per un nuovo ciclo; il loro funzionamento è demandato alle attitudini e all’esperienza della persona che conduce la distillazione. Gli alambicchi artigianali sono del tipo: a fuoco diretto, a bagnomaria e a vapore. Gli apparecchi industriali sono di grandi dimensioni e hanno un funzionamento continuo; per raggiungere questi risultati, l’industria della distillazione dovette attendere l’Ottocento con l’introduzione degli apparecchi a colonna per uso industriale. A questa innovazione tecnologica degli apparecchi contribuì l’impiego del vapore e di combustibili fossili; pertanto gli impianti sono perfezionati fino a rendere possibile anche l’avvio della distillazione industriale. L’alambicco composto26, gli impianti a colonna27, la distillazione continua28 e la rettificazione non vanno subito a sostituirsi ai metodi di distillazione tradizionale. Distillare nell’Ottocento vuol dire perciò sia produrre con alambicchi semplici uno spirito a bassa gradazione (spesso ricco di impu-

rità tossiche29), sia perfezionare la distillazione con alambicchi più raffinati (utili anche per la produzione di acquaviti), sia infine ottenere, attraverso la distillazione e la rettifica industriale, un alcol etilico quasi puro, detto per questo motivo “buon gusto” o “da bocca”30. Nelle imponenti e monumentali torri di distillazione sono ancora conservati pregevoli impianti o apparecchi “a colonna” utilizzati nella distillazione; di notevole importanza sono quelli conservati nelle Distillerie Cappello e Nicola De Giorgi a San Cesario di Lecce; il primo è un apparecchio autorettificatore continuo costruito dalla Ditta Fratelli Ardizzone fu Vincenzo di Riposto (CT), mentre il secondo è stato prodotto da Frilli di San Gimignano (SI) (fig. 19-20). Gli impianti delle distillerie sono stati costruiti da: Costruzioni industriali Frilli di San Gimignano, Fratelli Gianazza di Legnano, F.lli Mussi fu Gerolamo di Milano. Purtroppo in questi anni abbiamo assistito anche alla completa rimozione di alcuni impianti. In molti trappeti, stabilimenti oleari, molini, cantine e distillerie, le macchine, anche se vecchie e arrugginite, sono da considerare un patrimonio da conservare e tutelare. Vero è che tale “ricchezza” giace in silenzio in attesa di essere eliminata o, in casi più fortunati, recuperata. La rimozione comporta, come è già

26 Consistente in una serie di alambicchi attraverso i

29 Ancora agli inizi del Novecento la cattiva qualità

quali distillare lo stesso vapore alcolico al fine di concen-

dell’alcol per uso alimentare è frequente causa di mor-

trarlo maggiormente.

te: “Le acquaviti gregge […] dovrebbero essere destinate esclusivamente alla rettificazione: […] si provvedereb-

27 Distillando su scala industriale diviene fondamentale

be sul serio contro una delle vere cause dei tristi effetti

sviluppare il processo di evaporazione dei vapori alcolici

dell’alcolismo”, cfr. G. Ciapetti, L’alcol industriale, Hoepli,

su colonne di notevole altezza.

Milano 1922.

28 Vale a dire “l’introduzione continua in caldaia della

30 A. Monte, A.M. Stagira, La distilleria De Giorgi a San

materia da distillare e l’uscita continua del distillato,

Cesario di Lecce da opificio a monumento. Conoscenza,

nonché lo sgombero continuo e automatico della materia

conservazione, valorizzazione, Crace, Perugia 2007, pp.

esaurita (borlanda)”, cfr. G. Meloni, cit., pp. 27-30.

XIII-XVI.

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successo, la cancellazione di un pezzo di storia e di progresso tecnologico che ha dato al territorio italiano un posto degno di nota nella produzione di olio, grano, vino e alcol. Leonardo Sinisgalli, fondatore e direttore della rivista “Civiltà delle macchine”, scriveva: “Io non amo le macchine come oggetti, le amo come congegni; intendendo per congegni il prodotto genuino e nobile dell’intelletto umano”31. E poi ancora aggiunge: “Ho trascorso alcuni giorni di questa ultima primavera in un paese dell’Umbria per farmi una esperienza di fabbrica: quando gli operai avevano abbandonato i reparti, mi piaceva andare a trovare le macchine in riposo, di coglierle nella loro stanchezza”32.

L’IBAM-CNR (Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali del Consiglio Nazionale delle Ricerche, in collaborazione con AIPAI (Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale) e il Master in Conservazione, Gestione e Valorizzazione del Patrimonio Industriale-Università degli Studi di Padova, a partire dal 2003, ha avviato una compagna di rilevamento scientifico33 (rilievo fotografico, in alcuni casi anche grafico e documentario) delle macchine. È un passo importante per poter avere un quadro quanto più possibile esaustivo della consistenza di tale patrimonio al fine di programmare interventi di salvaguardia, recupero e conservazione, e soprattutto per tenere in vita lo studio dell’evoluzione tecnologica.

Fig. 19 - San Cesario di Lecce. Distilleria Nicola De Giorgi; impianto di distillazione della ditta Frilli (ph. A. Monte, 2000).

Fig. 20 - San Cesario di Lecce. Distillerie Cappello; impianto di distillazione (ph. A. Monte, 2000).

31 L. Sinisgalli, Civiltà delle macchine, Rivista trime-

33 Il modello di scheda utilizzata per la catalogazione

strale edita da Finmeccanica, Roma 1953-57.

scientifica è quello messo a punto da Prof. Ing. Gino Papuli e pubblicata nel volume Le acciaierie di Terni (a cura

32 L. Sinisgalli, Ritratti di macchine, Edizioni di via Le-

di R. Covino e G. Papuli), Electa Editori Umbri Associati,

tizia, Milano 1982.

Milano 1998, pp. 107-35.

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olioofficina / 365 giorni

Il calendario dell’olio Agridè di Maria Carla Squeo

Sfoglia, sfoglia, il calendario serve a metterci in contatto con lo scorrere dei giorni. C’è il passato che è trascorso da poco, ma poi, pian piano, lo vediamo allontanarsi, perché i giorni si susseguono senza tregua. Solo i bambini non si rendono conto della fugacità del tempo. Il calendario, nella sua utilità, ci fa comprendere che c’è il presente così come c’è il futuro, e che poi, indipendentemente da tutto, ogni cosa giunge a compimento. Il calendario diventa un elemento iconico, non solo uno strumento utile per tenerci aggiornati sul da farsi. Per dodici mesi ci accompagna, giorno dopo giorno. Tanto vale averne uno bello, che ci sappia raccontare qualcosa di importante. Cosa si può immaginare dunque di così prezioso, per quanti ritengono di essere in qualche modo “oliocentrici”, se non un “calendario dell’olio”? È un calendario fuori commercio quello che la famiglia di oleari di Carmine Desantis produce ogni anno, destinato agli eletti che sono in contatto con l’azienda pugliese Agridè, di Bitonto. L’azienda ha alle spalle una storia che ha il proprio fulcro in una città deputata all’olio da sempre. Si tratta di una realtà tra le più prestigiose d’Italia, fondata da Carmine e condotta oggi, con grande successo, dai figli Giovanni, Dora e Rosa. I testi del calendario sono dell’oleologo Luigi Caricato, le illustrazioni del vignettista Valerio Marini. Chi sfoglia il calendario entra nel mondo dell’olio e per certi versi ne esce più informato, ma soprattutto pronto a informarsi e a saperne di più. C’è anche un obiettivo educativo dietro a una simile iniziativa. C’è un investimento in cultura. “Credo che l’arte olearia italiana, intesa come conoscenza storica acquisita e capacità creativa, sia ancora oggi un pilastro portante del patrimonio culturale e gastronomico nazionale, riconosciuto e apprezzato in tutto il mondo”: è il pensiero di Giovanni Desantis, orgoglioso e soddisfatto del proprio lavoro, nell’essere, con tutta la sua famiglia, dispensatore di benessere attraverso i suoi oli. Per questo ha voluto trasmettere con un gesto semplice la sua gioia nel calendario, una presenza quotidiana sulle pareti delle case che hanno la fortuna di esibirne una copia.

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I Desantis sono una famiglia che ha creduto fortemente nell’olio. Ciascuno di loro ama ricordare le proprie radici. “Ricordo sempre la storia di mio padre Carmine”, afferma con convinzione Giovanni Desantis: “Mio padre da giovane era un apprendista metalmeccanico che sognava di dedicare la sua vita alla terra, alla coltivazione dei campi, e alla creazione di un fior d’olio che recasse ben impresso il suo nome. Dopo cinquant’anni questo sogno si è felicemente avverato, e noi figli, quando andiamo per le nostre campagne, non dimentichiamo che tutto è nato da lì, dall’amore per l’olivo”. Si può immaginare come tutto, in quest’ottica, assuma ben altro significato, rispetto a un gadget tra i tanti. Si comprende molto chiaramente il valore di un “calendario dell’olio”, che non è solo un semplice calendario, ma è soprattutto un modo per stare vicini a chi l’olio lo consuma, quasi accompagnandolo per mano nei riti quotidiani in cucina, mentre si versa l’olio e con un occhio si guarda il calendario, per rendersi conto che il tempo scorre, inarrestabile.

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olioofficina / scienze

Antidepressivi naturali di Luigi Caricato

Il biochimico Massimo Cocchi, professore presso la Libera università degli Studi di Scienze umane e tecnologiche di Lugano, nonché presso l’università di Bologna, vanta numerosi e qualificati studi dedicati a un alimento cardine come l’olio da olive. Non manca ogni volta di sorprenderci, come quando ci ha confidato che l’olio ottenuto dalle olive e il cacao sono due alimenti fondamentali, in quanto in grado di esprimere, pur con le limitazioni del caso, un eccellente aiuto nutrizionale nella depressione e nella cardiopatia ischemica, patologie che sovente procedono di pari passo.

Professor Massimo Cocchi, cosa è stato scoperto di così speciale? Lei parla di una scoperta sensazionale. A dire il vero è il mio amico Kary Mullis, Premio Nobel 1993, che ha rilasciato al “Resto del Carlino” e a “Tutto Scienze” del quotidiano “La Stampa” due dichiarazioni in tal senso. “Si tratta di una scoperta importantissima. Basti pensare che attraverso questo metodo sarà possibile comprendere se un paziente ha intenzione di suicidarsi. Siamo di fronte a una rivoluzione filosofica, medica e religiosa.” (Il Resto del Carlino, 28 maggio 2008). Man mano che la ricerca prosegue, non sarà sorprendente che vengano messe a punto nuove terapie. Potremmo essere ad uno di quei punti di svolta che all’inizio passano sempre inosservati, ma che si rivelano presto dei terremoti. Tenete d’occhio quelle palline di grasso. Sta per succedere qualcosa. Kary Mullis (La Stampa, TuttoScienze, 1 ottobre 2008).

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legherebbe, in modo dominante, il loro possibile effetto “antidepressivo” che ormai è diventato una leggenda metropolitana.

Sarebbe improprio che io dicessi una cosa simile. In realtà, a quanto risulta, con una perfetta fusione fra matematica e biologia, siamo ad oggi gli unici in grado di distinguere i soggetti affetti da Depressione Maggiore dai soggetti con Disordine Bipolare utilizzando markers biologici. L’errata valutazione diagnostica fra Depressione Maggiore e Disordine Bipolare, in corso di esordio della patologia, costa il 70 per cento di errore diagnostico e un aumento del rischio suicidario, per terapie errate, di circa cinque volte, come riferito alla “decima giornata per la prevenzione del suicidio” (Roma, 2012).

Che cosa emergerà nei prossimi anni rispetto a quanto lei annuncia? Qualora la nostra scoperta (Cocchi e Tonello ndr) sarà recepita in Italia come lo è all’interno del gruppo di scienziati internazionali cui ci onoriamo di appartenere e si avvererà la profezia di Kary Mullis, ci saranno diagnosi psichiatriche corrette in prima istanza, quindi terapie mirate e non casuali, con un enorme vantaggio per i pazienti che le debbono subire. Noi non siamo psichiatri e non vogliamo diventarlo né sostituirci, ma rendere disponibile alla loro esperienza uno strumento diagnostico efficace come avviene per la maggior parte della medicina. In questo momento stiamo raggiungendo la consapevolezza di essere – vedi la profezia di Kary Mullis – molto vicini a comprendere alcuni meccanismi molecolari che potrebbero essere coinvolti nel rischio suicidario. Per concludere, ho voluto personalmente approfondire gli studi su questi due alimenti strategici, cacao e olio da olive, proprio perché, dall’interpretazione critica della loro composizione nutrizionale e in accordo con molte ricerche, essi sono in grado di esprimere, pur con le limitazioni del caso, un eccellente aiuto nutrizionale nella depressione e nella cardiopatia ischemica, patologie che sovente procedono di pari passo.

Che legame hanno, in merito agli effetti sulla salute, due prodotti come l’olio da olive e il cioccolato? Non possiamo certo pensare di curare due disturbi di tale portata con il cacao e l’olio d’oliva, tuttavia, le strutture lipidiche che questi due alimenti contengono sembrano disegnate appositamente per garantire alle membrane cellulari, per quello che è possibile cambiare con l’alimentazione, la possibilità di assumere caratteristiche di viscosità che consentano un migliore ingresso della serotonina. A questo si 61


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olioofficina / scienze

L’olio da olive di Massimo Cocchi

e il cioccolato

Alimenti strategici per il contollo dei disordini dell’umore e del rischio cardiovascolaree. La salute vien mangiando

L’olio da olive Per molti decenni, i ricercatori hanno studiato i rapporti tra stato di salute e consumo di olio extra vergine di oliva. L’olio extra vergine di oliva e l’acido oleico sono considerati importanti per la prevenzione della malattia coronarica. C’è ancora un ampio dibattito sugli effetti dell’acido oleico da solo o in combinazione con i suoi antiossidanti. La malattia coronarica (CHD) è la principale causa di morte e morbilità nei paesi industrializzati. L’incidenza d’infarto del miocardio, tuttavia, è molto variabile, con tassi più bassi nei paesi del Mediterraneo rispetto a quelli del nord dell’Europa, Stati Uniti o Australia [1]. Paradossalmente, la bassa incidenza d’infarto miocardico occorre nonostante un’elevata prevalenza di classici fattori di rischio cardiovascolare [2]. L’olio d’oliva è la principale fonte di grassi nella dieta mediterranea. Gli effetti benefici dell’olio d’oliva sulla CHD sono ora riconosciuti, e sono attribuiti agli alti livelli di acidi grassi insaturi (MUFA=Oleico) [3]. Infatti, nel novembre 2004, la Federal Drug Administration statunitense (FDA) ha permesso la scrittura di una frase sulle etichette di olio extra vergine di oliva, che recita: “I benefici sul rischio di malattia coronarica che derivano dal consumo quotidiano di circa due cucchiai (23 g) di olio d’oliva sono principalmente riconducibili ai MUFA contenuti nell’olio d’oliva”[4].

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membrana piastrinica diminuisce di parecchio. Ciò suggerisce che l’incremento di acido oleico compromette l’incorporazione di acido arachidonico in fosfolipidi piastrinici con grande beneficio per il rischio cardiovascolare riconducibile sia all’aumentata aggregazione piastrinica legata ai prodotti di metabolizzazione dell’acido arachidonico, sia alla riduzione dell’entità dei processi infiammatori che conseguono alla liberazione dell’acido arachidonico e che sono anch’essi coinvolti nella cardiopatia ischemica.

L’acido oleico, e soprattutto quello ottenuto dalla spremitura delle olive, è un elemento essenziale nella prevenzione della malattia cardiovascolare ischemica, com’è stato dimostrato da una serie di lavori scientifici a livello internazionale. Ad esempio, vi è evidenza che una dieta ricca di acidi grassi insaturi, come acido oleico, può anche ridurre il rischio tromboembolico sostituendo l’acido arachidonico nei fosfolipidi delle piastrine, diminuendo, almeno in vitro, la produzione di trombossano A2 [TXA2-sostanza che favorisce l’aggregazione piastrinica] e l’aggregazione piastrinica. Tuttavia, vi sono prove conclusive che la funzione piastrinica in vivo è influenzata dalla dieta [5].

Gli effetti benefici dell’olio di oliva possono essere attribuiti al suo alto contenuto di acido oleico (70-80%). Il consumo di olio extra vergine di oliva aumenta i livelli di acido oleico nelle membrane cellulari e aiuta a regolare la struttura dei lipidi di membrana attraverso il controllo del segnale mediato dalla proteina G, provocando una riduzione della pressione sanguigna [7].

L’acido oleico è stato trovato essere un potente inibitore del fattore di aggregazione piastrinico (PAF) che favorisce, appunto, l’aggregazione piastrinica e la secrezione di serotonina. Di conseguenza, per comprendere i meccanismi molecolari di azione dell’acido oleico, sono stati studiati gli effetti di questo acido grasso su diversi eventi biochimici associati con l’aggregazione piastrinica indotta dal PAF. In particolare, si è scoperto che l’acido oleico causa un’inibizione dell’aggregazione piastrinica indotta da PAF [6]. Diversi lavori in letteratura hanno suggerito che l’olio d’oliva può inibire la funzione piastrinica. Questo possibile effetto è d’interesse per due ragioni. In primo luogo, essa può contribuire agli effetti anti-aterogeni dell’olio d’oliva, e in secondo luogo può invalidare l’uso di olio d’oliva come un placebo inerte negli studi sulla funzione piastrinica. Dopo esposizione a olio di oliva, l’aggregazione piastrinica e il trombossano [TXA2] diminuiscono, mentre il contenuto di acido oleico della membrana piastrinica aumenta significativamente e anche il contenuto di acido arachidonico della 64


Il cacao Nella letteratura scientifica sono stati considerati i diversi effetti sulla salute del cacao, tra cui il miglioramento della funzione cardiaca, gli attacchi di angina pectoris, la stimolazione del sistema nervoso, la digestione facilitata e le migliorate funzioni renali e intestinali. Inoltre, il cacao è stato utilizzato per trattare l’anemia, l’affaticamento mentale, la tubercolosi, la febbre, la gotta, i calcoli renali, e anche la riduzione dell’appetito sessuale.

Bibliografia 1. H. Tunstall-Pedoe, K. Kuulasmaa, M. Mahonen, H. Tolonen, E. Ruokokoski, P. Amouyel, Contribution of trends in survival and coronary-event rates to changes in coronary heart disease mortality: 10-year results from 37 WHO MONICA project populations. Monitoring trends and determinants in cardiovascular disease, Lancet, 353, 1999, pp. 1547-57. 2. R. Masia, A. Pena, J. Marrugat, J. Sala, J. Vila, M. Pavesi, M. Covas, C. Aubo, R. Elosua, High prevalence of cardiovascular risk factors in Gerona, Spain, a province with low myocardial infarction incidence. REGICOR Investigators, J Epidemiol Community Health, 52, 1998, pp. 707-15. 3. M.I. Covas, Olive oil and the cardiovascular system, Pharmacological Research, 55, 2007, pp. 175-86. 4. US Food and Drug Administration. Press Release P04-100. November 1, 2004. http://www.fda.gov/bbs/topics/news/2004/ NEW01129.htlm Accessed on October 28, 2006. 5. P.M. Kris-Etherton, V. Mustad, J.A. Derr, Effects of dietary stearic acid on plasma lipids and thrombosis, Nutrition Today, 28, 1993, pp. 30-8. 6. D. Nunez, J. Randon, C. Gandhi, A. SiafakaKapadai, M.S. Olson, D.J. Hanahan, The inhibition of platelet-activating factorinduced platelet activation by oleic acid is associated with a decrease in polyphosphoinositide metabolism, Journal of Biological Chemisty, 265, October 25, 1990, pp. 18330-8. 7. S. Teres, G. Barcelo-Coblijn, M. Benet, R.A. Alvarez, R. Bressani, J.E. Halver, P.V. Escriba, Oleic acid content is responsible for the reduction in blood pressure induced by olive oil, PNAS, 105, 2008, pp. 13811-6.

L’acido oleico, e soprattutto quello ottenuto dalla spremitura delle olive, è un elemento essenziale nella prevenzione della malattia cardiovascolare ischemica, com’è stato dimostrato da una serie di lavori scientifici a livello internazionale.

Nel XIX secolo il cioccolato è diventato un bene di lusso, di conseguenza il suo consumo è divenuto più un lusso che un rimedio. Oggi il cioccolato è associato a carie, obesità, ipertensione e diabete. Pertanto, molti medici tendono ad avvertire i pazienti sui potenziali rischi per la salute del consumo di grandi quantità di nutrienti a base di cioccolato. Tuttavia, la recente scoperta di composti fenolici biologicamente attivi nel cacao ha cambiato questa percezione e stimolato la ricerca sui suoi effetti sull’invecchiamento, la regolazione della pressione arteriosa e l’aterosclerosi.

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Ci sono indicazioni che le sostanze presenti del cacao esercitano effetti benefici sulla salute umana, quindi, cacao e cioccolato possono essere considerati alimenti funzionali. L’uso di alimenti funzionali per modulare la salute umana ha assunto maggiore importanza negli ultimi anni e il cioccolato è ampiamente consumato in tutta la società. Anche se il cioccolato contiene un’elevata quantità di grassi saturi, i due acidi grassi importanti sono l’acido palmitico e stearico, che sembrano avere un minor numero d’implicazioni per la progressione della malattia coronarica rispetto agli altri acidi grassi saturi [1, 2, 3, 4, 5]. Inoltre, i flavonoidi e gli altri polifenoli del cioccolato svolgono efficaci funzioni come antiossidanti.

Il grasso prevalentemente presente nel cioccolato fondente è il burro di cacao [1] e contiene un 33% circa di acido oleico [(monoinsaturo), praticamente la metà di quello contenuto nell’olio di oliva], acido palmitico 25% (saturo) e acido stearico 33% (saturo) [2]. L’acido oleico ha un effetto positivo sui livelli dei lipidi ematici [3]. In genere si ritiene che i grassi saturi aumentino negativamente il colesterolo totale e le lipoproteine a ​​ bassa densità [4]. Questi concetti, tuttavia, sono stati ampiamente rivisitati e, in particolare, per lo stearico si sono riscontrati effetti positivi e compensatori sul controllo della funzione piastrinica nei soggetti con placca coronarica [5, 6, 7, 8, 6].

Bibliografia

Bibliografia

1. M. Cocchi, L. Tonello, S. Bosi, A. Cremonesi, F. Castriota, B. Puri, S. Tsaluchidu, Platelet oleic acid as ischemic cardiovascular disease marker, BMJ, 2007. Electronic letter to the editor. 2. M. Cocchi, L. Tonello, Bio molecular considerations in Major Depression and Ischemic Cardiovascular Disease, Central Nervous System Agents in Medicinal Chemistry, 10, 2010, pp. 97-107. 3. M. Cocchi, L. Tonello, G. Cappello, G. Tarozzi, L. Nabacino, E. Pastorini, S. Bucciarelli, L. Solazzo, M. De Luca, G. Visci, G. Caramia, Membrane platelet fatty acids: biochemical characterisation of the ischemic cardiovascular disease, characteristics of the paediatric age, through an Artificial Neural Network interpretation, Ped. Med.Chir. (Med.Surg. Ped.) 30, 2008, pp. 25-30. 4. A. Malhotra, Saturated fat is not the major issue, BMJ, 347, 2013, p. 6340. 5. M. Cocchi, L. Tonello, F. Gabrielli, BMJ, 2013. Letter to the Editor.

1. P.M. Kris-Etherton, V. Mustad, J. Derr, Effects of dietary stearic acid on plasma lipids and thrombosis, Nutr Today, 28, 1993, pp. 30-8. 2. USDA National Nutrient Database http:// www.nal.usda.gov/. 3. Chocolate: facts and fiction. Nutrition fact sheet, Chicago, American Dietetic Association Foundation, 2000. 4. F.B. Hu, J.E. Manson, W.C. Willett, Types of dietary fat and risk of coronary heart disease: a critical review, J Am Coll Nutr., 20, 2001, pp. 5-19. 5. M. Cocchi, L. Tonello, S. Bosi, A. Cremonesi, F. Castriota, B. Puri, S. Tsaluchidu, Platelet oleic acid as ischemic cardiovascular disease marker, BMJ, 2007. Electronic letter to the editor. 6. M. Cocchi, L. Tonello, F. Gabrielli, BMJ, 2013, Letter to the Editor. 7. M. Cocchi, L. Tonello, G. Lercker, Platelet Stearic Acid in different population groups: biochemical and functional hypothesis, Nutr. Clín. Diet. Hosp., 29, 2009, pp. 34-45. 67


8. M. Cocchi, L. Tonello, J.R. Martínez Álvarez, Nutritional considerations on platelet fatty acids in Major Depression and Ischemic Cardiovascular Disease, Nutr. Clín. Diet. Hosp., 29, 2009, pp. 46-54.

dell’angiotensina [2] e dell’effetto dello stearico [3] sulla riduzione della pressione diastolica e in generale del cacao sulla riduzione della pressione arteriosa [4, 5, 6]. Bibliografia 1. N.D. Fisher, N.K. Hollenberg, Aging and vascular responses to flavanol-rich cocoa, J Hypertens, 24, 2006, pp. 1575-80. 2. L. Actis-Goretta, J.I. Ottaviani, C.G. Fraga, Inhibition of angiotensin converting enzyme activity by flavanol-rich foods, J Agric Food Chem., 54, 2006, pp. 229-34. 3. J.A. Simon, J. Fong, J.T. Bernert Jr., Serum fatty acids and blood pressure, Hypertension, 27, 1996, pp. 303-7. 4. D. Grassi, C. Lippi, S. Necozione, G. Desideri, C. Ferri, Short-term administration of dark chocolate is followed by a significant increase in insulin sensitivity and a decrease in blood pressure in healthy persons, Am J Clin Nutr., 81, 2005, pp. 6114. 5. D. Grassi, S. Necozione, C. Lippi, et al., Cocoa reduces blood pressure and insulin resistance and improves endotheliumdependent vasodilation in hypertensives, Hypertension, 46, 2005, pp. 398-405. 6. D. Taubert, R. Berkels, R. Roesen, W. Klaus, Chocolate and blood pressure in elderly individuals with isolated systolic hypertension, JAMA, 290, 2003, pp. 102930.

Effetti del cacao sulla salute Numerosi studi scientifici suggeriscono che il cacao produca effetti di reale efficacia nelle strategie di prevenzione della malattia cardiovascolare. Recentemente Zomer et al. [1]

Il cioccolato lo si associa a carie, obesità, ipertensione e diabete. La recente scoperta di composti fenolici biologicamente attivi nel cacao ha stimolato la ricerca sui suoi effetti su invecchiamento, regolazione della pressione arteriosa e arteriosclerosi. hanno affrontato l’argomento confermando l’efficacia del cacao nella prevenzione cardiovascolare. Bibliografia 1. E. Zomer, A. Owen, D.J. Magliano, D. Liew, C.M. Reid, The effectiveness and cost effectiveness of dark chocolate consumption as prevention therapy in people at high risk of cardiovascular disease: best case scenario analysis using a Markov model, BMJ, 344, 2012, p. 3657.

Inibizione dell’attivazione piastrinica I principali effetti del controllo dell’attivazione piastrinica svolti dal cacao si manifestano principalmente attraverso una riduzione del fenomeno dell’aggregazione piastrinica [1, 2] e del fenomeno dell’adesività [3]. Inoltre, grazie al contenuto di procianidina, si realizza una riduzione dei leucotrieni e un aumento delle prostacicline antiaggreganti [4].

Effetti sulla pressione sanguigna Il cacao sembra svolgere un effetto di riduzione dei valori pressori, fondamentalmente attraverso l’incremento della disponibilità del Nitric Oxide (NO) [1], dell’induzione d’inibizione dei flavonoli degli enzimi di conversione 68


Insulin Sensitivity increased in GlucoseIntolerant, Hypertensive Subjects after 15 Days of Consuming High-Polyphenol Dark Chocolate, J. Nutr., 138, 2008, pp. 1671-6.

Bibliografia 1. F.P.J. Martin, S. Rezzi, E. Pere-Trepat, et al., Metabolic Effects of Dark Chocolate Consumption on Energy, Gut Microbiota, and Stress-Related Metabolism in FreeLiving Subjects, J. Proteome Res., 8, 2009, pp. 5568-79. 2. M. Cocchi, L. Tonello, F. Gabrielli, BMJ, 2013. Letter to the Editor. 3. F. Hermann, L.E. Spieker, F. Ruschitzka, et al., Dark chocolate improves endothelial and platelet function, Heart., 92, 2006, pp. 119-20. 4. D.D. Schramm, J.F. Wang, R.R. Holt, et al., Chocolate procyanidins decrease the leukotriene-prostacyclin ratio in humans and human aortic endothelial cells, Am J Clin Nutr., 73, 2001, pp. 36-40.

Fra gli altri effetti benefici relativamente all’assunzione di cacao/cioccolato, si può ricordare: Effetto antistress (1, 2, 3) Effetto anti obesità (4) Effetti neuronali (5, 6, 7, 8) Bibliografia 1. P. Zurer, Chocolate may mimic marijuana in brain, Chem Eng News, 74, 1996, pp. 312. 2. D.L.Walcutt, Chocolate and Mood Disorders, PsychCentral, 2009. http://psychcentral. com/blog/archives/2009/04/27/ chocolateand-mood-disorders/. Accessed on October 18, 2012. 3. D. Benton, R.T. Donohoe, The effects of nutrients on mood, Public Health Nutr., 2, 1999, pp. 403-9. 4. N. Matsui, R. Ito, E. Nishimura, et al., Ingested cocoa can prevent high fat diet induced obesity by regulating the expression of genes for fatty acid metabolism, Nutrition, 21, 2005, pp. 594601. 5. S.T. Francis, K. Head, P.G. Morris, I.A. Macdonald, The effect of flavanol-rich cocoa on the fMRI response to a cognitive task in healthy young people, J Cardiovasc Pharmacol., 47 (suppl. 2), 2006, pp. 221-3. 6. E. Nurk, H. Refsum, C.A. Drevon, et al., Intake of Flavonoid-Rich Wine, Tea, and Chocolate by Elderly Men and Women Is Associated with Better Cognitive Test Performance, J. Nutr. 139, 2009 pp. 120-7. 7. S.C. Larsson, J. Virtamo, A. Wolk, Chocolate consumption and risk of stroke. A prospective cohort of men and meta-analysis, Neurology

Proprietà antidiabetiche del cacao In soggetti sani [1] e ipertesi [2] è stata osservata una diminuzione della resistenza all’insulina dopo assunzione di cioccolato ricco in flavonoli. Sempre in soggetti ipertesi con intolleranza al glucosio è stata dimostrata una migliore tolleranza al carico di glucosio a seguito dell’assunzione di cioccolato ricco in flavonoli. Bibliografia 1. D. Grassi, C. Lippi, S. Necozione, G. Desideri, C. Ferri, Short-term administration of dark chocolate is followed by a significant increase in insulin sensitivity and a decrease in blood pressure in healthy persons, Am J Clin Nutr., 81, 2005, pp. 6114. 2. D. Grassi, S. Necozione, C. Lippi, et al., Cocoa reduces blood pressure and insulin resistance and improves endotheliumdependent vasodilation in hypertensives, Hypertension, 46, 2005, pp. 398-405. 3. D. Grassi, G. Desideri, S. Necozione, et al., Blood Pressure is reduced and 69


WNL.0b013e31826aacfa, published ahead of print, 29 August 2012. 8. M.R. Walters, C. Williamson, K. Lunn, K. Munteanu, Acute effects of chocolate ingestion on cerebral vasculature, www. neurology.org/content/early/2012/08/29/ WNL.0b013e31826aacfa.abstract/ reply#neurology_el_55876

Catechin/Epicatechin Concentrations Found in Food (1) Source Flavanol Content, mg/kg or mg/L Chocolate 460-610 Beans 350-550 Apricots 100-250 Cherries 50-220 Peaches 50-140 Blackberries 130 Apples 20-120 Green tea 100-800 Black tea 60-500 Red wine 80-300 Cider 40

Appendice Di seguito si riporta la descrizione dei meccanismi di protezione che potrebbero essere coinvolti nel controllo di alcuni aspetti patologici. 70


Bibliografia 1. M. Natsume, N. Osakabe, M. Yamagishi, et al., Analyses of polyphenols in cacao liquor, cocoa, and chocolate by normal-phase and reversed-phase HPLC, Biosci Biotechnol Biochem., 64, 2000, pp. 2581-7.

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olioofficina / visioni

Virgo, virginis

di Luigi Caricato

Riflessioni in merito al “Protocollo della Purezza”, a margine della mostra collettiva “Olio & Purezza”, a cura di Ornella Piluso, per il movimento culturale Arte da Mangiare Mangiare Arte, con opere esposte nell’ambito della sesta edizione di Olio Officina Festival – Milano, Palazzo delle Stelline, 2-4 febbraio 2017

Maria Cristina Tebaldi, “Guizzi vitali. Se è puro, ne bastano due gocce”. Tecnica: feltro ad ago e ad acqua. Dimensioni: cm 35x35x35. Due gocce… d’olio (infeltrito) cadono su contenitori con alcuni alimenti di un secondo piatto.

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L’appellativo “vergine” non è casuale: fu introdotto dal Parlamento italiano nel 1936, a seguito dell’emanazione del Regio decreto n. 1986, del 27 settembre. Venne introdotta, per l’esattezza, la denominazione di “olio sopraffino vergine di oliva”. Poi, con l’avvento della Repubblica italiana, ci pensò la Legge numero 1407, del 13 novembre 1960, a integrare, introducendo, accanto alla parola “vergine”, la nuova espressione “extra vergine”.

L’olio ricavato dalla spremitura delle olive è, per tutti, universalmente, un puro succo di oliva. Il concetto di purezza ha sempre riguardato intimamente, e possiamo dire anche ontologicamente, l’olio da olive, proprio perché non esiste, in natura, un’estrazione così estremamente e deliberatamente naturale, così pura. È un olio da frutto. Si spreme semplicemente il frutto, unicamente il frutto: l’oliva. È come immaginare una spremuta d’arancia, in fondo. Così, tanto per rendere l’idea della semplicità dell’operazione. Non c’è trasformazione, come per esempio accade nel vino. L’uva ci consegna il mosto, da cui poi si ricava, dopo una serie di passaggi, il vino. L’olio non è un prodotto alimentare “trasformato”, come tanti altri: lo si estrae tout court. Per farsi un’idea precisa, la spremuta di frutta rende bene il concetto. Solo che l’oliva è un frutto più coriaceo, più amaro, non immediatamente fruibile tal quale.

Vergine, dal latino virgo, virginis, parallelo al sanscrito varg- o urg-, da cui il termine orgasmo, e, di conseguenza, turgido, lussureggiante, per indicare le fanciulle metaforicamente intatte, pronte al matrimonio, piene di succo vitale. Ed ecco pertanto, parallelamente, la casta purezza dell’olio extra vergine di oliva. Sono tanti i riferimenti alla purezza dell’olio, nel corso dei tempi, tante le tracce che evocano la parola purezza, al punto che, soprattutto in passato, era ricorrente la definizione di “puro olio di oliva”, nelle pubblicità realizzate nel Novecento.

Tutto ha luogo in autunno e in inverno. L’olivagione è il tempo delle olive: quando si raccolgono, direttamente dalla pianta, con la massima cura, affinché non si feriscano, si cerca di sempre spremere il frutto integro, sano, perfetto fuori e dentro, così da ricavarne il miglior succo possibile, il miglior succo desiderabile.

Puro, incontaminato, integro, senza elementi estranei, ovvero il succo tal quale, da corpo vegetale solido, l’oliva, a corpo vegetale liquido, l’olio, quel succo tanto prezioso che l’immenso Dante Alighieri amava definire “liquor d’ulivi”, in quanto essenza primigenia, pura energia, puro succo vitale.

Non è un caso che sia comunemente assegnata un’alta valenza simbolica all’olivo, all’oliva e all’olio. L’idea di purezza non è una forzatura. La denominazione merceologica, tuttora vigente, è “olio extra vergine di oliva”. Vergine, appunto – anche nel senso che rimanda all’illibatezza.

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olioofficina / saperi

Da Pinocchio a Masterchef

di Antonio Pascale

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malcotto, umido e rancido, riso e pasta erano di pessima qualità ecc., e che da allora siano in fase di progressivo (e qualitativo) avanzamento. Per capire il percorso Pinocchio-Masterchef ci sarebbe bisogno di un’indagine più analitica: qual era la base di partenza? Quante calorie aveva a disposizione Pinocchio? Prima di affrontare il lavoro svolto da Giovanni Vecchi, partiamo dal Sommario di statistiche storiche, pubblicate dall’Istat: già nel 1861 la disponibilità media calorica per abitante era di 2520 calorie giornaliere (senza contare quelle apportate dal vino). Questo dato contrasta con la visione pessimistica, alla Pinocchio insomma, e con le impressioni degli svariati commentatori ottocenteschi, per non parlare dei risultati delle belle (e dimenticate) inchieste sulla miseria. Economisti, scienziati, fisiologi, igienisti giunsero alle medesime conclusioni, miseria nera, alla Pinocchio. E allora, che ne facciamo delle 2520 calorie? C’è un equivoco? O un conflitto di interessi? Del resto, l’intento delle commissioni era o non era quella di documentare le condizioni delle classi lavoratrici, con particolare attenzione a quei segmenti poveri? Quindi, bisognava sollevare il problema, ottenere soldi dalla politica. Invece, le stime del Sommario, per i primi cento anni di storia unitaria, seguono i criteri della contabilità nazionale, e non sono frutto di calcoli basati su osservazioni di singole, magari piccole, realtà locali, ma abbracciano un orizzonte più ampio: il dato sulle calorie emerge dall’elaborazione delle statistiche nazionali sulla produzione agricola complessiva, nonché sul commercio estero (si considerano gli alimenti prodotti e quelli che si importano). Niente da dire, sono più precise. Più precise sì, tuttavia non definitive, infatti il gruppo di lavoro di Giovanni Vecchi le ha considerate come (buona, ottima) base di partenza, ma

Mi rendo conto, osservando alcuni rituali, che siamo passati da Pinocchio a Masterchef quasi senza rendercene conto. Cos’è Pinocchio se non il grande racconto della fame? Tutto l’orizzonte del romanzo mostra una situazione di profonda miseria, una fame popolare, diffusa e nera: bisogna aspettare di entrare nei padiglioni della fata per trovare un po’ di luce o accontentarci delle fantasie dello stesso Pinocchio, incantato davanti agli zecchini del campo dei miracoli. Cos’è invece Masterchef se non il grande racconto dell’abbondanza – il cibo c’è, non è più sognato, desiderato: basta entrare nel supermercato sotto casa per provare l’ebbrezza del paese dei balocchi. Mi rendo conto, tra l’altro, che nella struttura demografica – la piramide dell’età, cioè la distribuzione della popolazione per età e sesso – occupo il tratto più esteso, quello dai 45 ai 50 anni quindi, semplificando, il (mio) paese di Masterchef si caratterizza per bassa natalità, lunga aspettativa di vita e tanti 45/50enni, mentre mio nonno, nato nel 1890, frequentava Pinocchio e una piramide diversa, a base estesa, con una popolazione giovane, bassa speranza di vita alla nascita e pochi anziani. Per la precisione, secondo le stime dell’Istat i bambini nati nel 2011 possono sperare di vivere in media 82 anni, con un vantaggio di oltre un lustro se a nascere è una femmina. Nel 1861 i bambini del Regno d’Italia avevano una speranza di vita che non superava i 29-30 anni. E anche questa parte della storia riguarda il cibo: da Pinocchio a Masterchef, appunto. Come ci siamo riusciti, e quando, in che periodo è avvenuto il passaggio? L’animo umano, si sa, è parecchio influenzabile. A proposito di cibo, capita di sentire chi ci ricorda i bei sapori di una volta – le macine di pietra, i mulini, il pane di ieri – e sembra quindi che non si stesse poi tanto male, all’epoca. Viceversa, c’è quello che ci fa notare che, appunto, il pane di ieri era fatto di granturco 75


dato relativo alle calorie assimilate. La quantità di calorie assimilate dipende: a) dalla consistenza degli alimenti; b) da come vengono cucinati; c) dal contenuto di fibre. Se mangiate un uovo sodo lo assimilate al 90 per cento, se lo mangiate crudo soltanto al 51. Il conteggio richiederebbe esami di laboratorio e non solo: bisognerebbe capire com’erano trattati i cibi, e di che qualità fossero, prima di essere consumati, e questo per i 150 anni di storia nazionale. Non si può fare. Possiamo limitare il calcolo solo alle calorie ingerite? Vediamo: si potrebbe stimare la quantità di cibo acquistata dalle famiglie? Sì, utilizzando i dati campionari, che però sono presenti solo dalla fine del Novecento. Inoltre, a causa degli scarti alimentari e del deterioramento degli alimenti, non possiamo passare con accuratezza dalla stima della quantità di cibo (e delle calorie) acquistato dalle famiglie a quello effettivamente ingerito. Troppo poco per impostare una serie presentabile. Bisogna limitare il calcolo alle sole calorie disponibili, magari cercando di ricavare poi quelle ingerite. La stima è stata fatta raccordando, integrando e migliorando tutte le serie di ultima generazione. Il Sommario di statistiche storiche dell’Istat, soprattutto per i primi anni del Regno, non era accompagnato da un’adeguata descrizione dei metodi utilizzati per il calcolo, e dopo tre anni dalla loro prima pubblicazione ci fu già una correzione (Benedetto Barbieri, direttore dell’istituto). Quindi sono state prese in considerazione le stime di Giovanni Federico, quelle Istat per il periodo 1912/1960, e quelle della FAO (il Food Balance Sheets) dal 1961 a oggi. Emerge che la disponibilità media delle calorie già dai tempi dell’Unità era abbastanza alta: intorno alle 2500 calorie. Il solo calcolo delle calorie disponibili richiede molti passaggi: produzione nazionale di ciascun alimento

non punto d’arrivo. Il dato singolo non basta, bisogna ragionarci su, porsi delle domande, e queste, se sono ben poste, complicano il percorso. Per esempio, è necessario considerare la distribuzione delle risorse alimentari. Se ci sono elevati livelli di diseguaglianza nella distribuzione dei redditi, è possibile che una fascia della popolazione possa permettersi una buona disponibilità calorica, mentre un’altra sia sottonutrita: magari qualcuno si divertiva già con Masterchef e altri leggevano Pinocchio. Insomma, occorrono sia i valori medi delle disponibilità alimentari (le calorie disponibili) sia, soprattutto, la distribuzione della suddetta disponibilità fra le varie classi della popolazione. Prima di seguire le conclusioni della bella indagine di Giovanni Vecchi, è opportuno studiare la metodologia adottata per superare specifiche questioni tecniche; il lavoro è accompagnato da interessanti appendici teoriche, comprensibili anche ai non addetti ai lavori. Si sa, i problemi metodologici non fanno storytelling ma poco importa, siamo certo capaci di seguire un po’ di numeri; inoltre, capire come si arriva a ottenere un dato specifico è l’altra parte della storia, quella più nascosta, ma non meno (narrativamente) interessante. Prima tappa: costruire una serie storica delle calorie disponibili in media alla popolazione italiana in ciascuno dei 150 anni. Questo richiede il raccordo delle serie prodotte da altri studiosi in vari sottoperiodi. Sembra facile, ma il calcolo si complica da subito perché c’è da affrontare una questione: le calorie disponibili coincidono con quelle effettivamente ingerite? Eh no, purtroppo non sono la stessa cosa! Non solo le calorie disponibili non coincidono con quelle ingerite, ma quelle ingerite possono essere diverse da quelle assimilate. Anzi, per valutare l’eventuale stato di sottonutrizione di una persona o di una collettività, più o meno ampia, quello che conta è proprio il 76


anni era del 6 per cento (quasi simile ai bam(quante tonnellate di pomodori, di grano, ecc.), bini maschi), mentre nel 2007 di poco superioa cui aggiungere la valutazione delle variaziore al 2 per cento. E se cambia la composizione ni delle scorte (la differenza tra le giacenze della forza lavoro? Se si passa dall’attività iniziali e quelle finali, per ciascuno alimento). agricola a quella industriale e poi aumentano Poi bisogna sottrarre le esportazioni e aggiunle persone impiegate nei servizi? gere le importazioni, e sottrarre la quantità Da appositi coefficienti messi a punto da nudel cibo che non aveva una destinazione alitrizionisti sappiamo che il fabbisogno enermentare (semina, alimentazione animale, cibo getico per abbattere una quercia è dieci volte deteriorato). Tutto per un periodo di 150 anni. superiore a quello necessario per suonare il Dato per scontato un sistematico errore, soflauto (Fao/Who/Unu 2004). Nel 1861 il 59 per prattutto quando si va indietro nel tempo, c’è cento di chi lavorava faceva il contadino (mio da porsi un’altra domanda: ora che abbiamo nonno e tutti, ma proprio tutti i miei lontani calcolato le calorie disponibili, siamo sicuri parenti, avranno abbattuto querce ed erano che queste fossero sufficienti per vivere? Inaffamati, secchi, nervosi e nodosi), mentre nel somma, di che calorie stiamo parlando? Ci 2001 siamo vicini al 6 per cento: sono mutate vuole un dato qualitativo. Per seguire la defila giornata lavorativa nizione di Robert Fogel e e l’intensità del lavoro. capire se una persona si L’animo umano, si sa, è parecchio Considerati questi camnutre adeguatamente, è necessario considerare influenzabile. A proposito di cibo, biamenti, il fabbisogno capita di sentire chi ci ricorda i energetico è diminuito. non solo le calorie disponibili ma anche quelle bei sapori di una volta, e sembra Utilizzando i coefficienti richieste dall’organi- quindi che non si stesse poi tanto e i dati sulla struttura della popolazione (cioè, smo per svolgere, oltre male, all’epoca. quanti come mio nonal metabolismo basale, no? Quanti suonavano i compiti quotidiani. Il il flauto?) e i dati sulla demografia, Giovandato di 2520 calorie può essere solo indicativo; ni Vecchi – questa è la terza tappa del nostro bisogna stabilire il fabbisogno energetico: bacalcolo – ha stimato che nel 1861 il fabbisostano 2520 per arare un campo? Per abbattegno energetico fosse di 2300 calorie a persore una quercia? Sono sufficienti per affrontare na, mentre oggi ne bastano 2000 (io cerco di una gravidanza e in alcuni momenti particomantenermi sulle 1800, ma è un altro discorlari della vita, come l’adolescenza? so). Queste stime sono in accordo con quelle Le ricerche sul fabbisogno energetico in Itaottenute dalla Fao, con un procedimento indilia sono rare, soprattutto mancano del tutto pendente da quello usato da Vecchi, che indistime che dimostrino come, e se, il fabbisogno cano un fabbisogno medio di 1960 calorie nel energetico sia mutano nel tempo. La piramitriennio 2004/2006. de demografica (quella che per età mi vede, Quindi, gli italiani, in media, erano ben nutristemente, in seconda posizione) è un buon triti. Sarebbe ora – come quarta tappa – da esempio: se la quota di bambini sul totale delcapire chi, e quanti, stavano sotto la media. Di la popolazione diminuisce, aumenta il fabbinuovo, ci vogliono le calorie ingerite: come disogno calorico medio della popolazione. Per cevamo, le calorie disponibili non sono uguali semplificare, nel 1872 c’erano tanti bambini e a quelle ingerite, e queste ultime non sono sopochi anziani: la quota di bambine tra 0 e 4 77


Per tutta l’età liberale e fino alla prima metà degli anni Venti il regime alimentare della popolazione migliora e la quantità di persone sottonutrite decresce sensibilmente. Solo un italiano su cinque si può definire sottonutrito. Arriva il fascismo. Le politiche autarchiche, la Grande Crisi e lo scoppio della Seconda guerra mondiale fanno tornare l’Italia indietro di un secolo. Dal biennio 1926-27 aumenta considerevolmente la quota di sottonutrizione, tanto che nel 1933, di nuovo come nell’Ottocento, un italiano su tre risulta privo di adeguata alimentazione. Dopo la Seconda guerra mondiale le percentuali di sottonutrizione sono nell’ordine del 50-60 per cento, come indicano gli Atti della Commissione parlamentare di inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla (1951-1954) curati da Maria Cao Pinna: una percentuale delle famiglie italiane compresa tra il 44 e il 62 per cento ha un regime alimentare insoddisfacente (misurato sulla base dei consumi di carne, zucchero e vino). Nei decenni successivi la sottonutrizione crolla: nuove politiche economiche, la riapertura delle relazioni con l’estero, l’aumento del reddito pro capite, tutto questo fu associato a una disponibilità di calorie di cui la popolazione aveva bisogno per vivere, lavorare, e infine godersi la vita. Aumenta la produttività per ettaro (molti miei parenti, da secoli poveri contadini, in quegli anni cominciano a usare concimi, agrofarmaci, diserbanti, miglioramenti genetici, cambiano i piani colturali, guadagnano di più e come prima cosa tolgono la stalla dalla casa e rifanno il bagno e la cucina: erano contenti, mentre io, borghese, saggiati i loro gusti culturali, li chiamavo cafoni arricchiti: non se lo meritavano). Nell’arco di un ventennio, dal 1950 al 1970, Pinocchio cede definitivamente il posto a Masterchef: dalla fame all’abbondanza. Cambiano anche la qualità e la composizione della

vrapponibili a quelle assimilate. È tutto molto complicato. Non finisce qui: per stimare la quantità di popolazione che non aveva un’adeguata nutrizione bisogna anche conoscere le calorie consumate dalle diverse fasce di popolazione, e purtroppo nel caso dell’Italia mancano i dati sia per l’Ottocento sia per oggi. Considerate tutte queste difficoltà, come si procede? Si è costruito un database di oltre 5000 osservazioni relative ai paesi di tutto il mondo, sulla base delle quali si è stimata (econometricamente) la relazione tra la dispersione delle calorie e il livello del Pil per abitante. Si è così ottenuto un modello con cui stimare la variabilità (per amore della precisione, la deviazione standard) delle calorie disponibili in Italia sulla base dei livelli del Pil per abitante, osservata in tutto il periodo della storia unitaria. Questa è la metodologia. I risultati, riassunti e qui semplificati, mostrano un percorso tra Pinocchio e Masterchef diviso in cinque punti. All’Unità d’Italia e con molta probabilità nel decennio successivo un italiano su due (forse, in alcuni casi, due su tre) non disponeva di alimentazione adeguata, e questo riconcilia i numeri con le impressioni, cioè con le (dimenticate) inchieste sulla miseria. Una parte della popolazione era sottonutrita, e anche se non si riesce a stimare precisamente in quanti lo fossero, si possono confrontare i risultati con i dati ottenuti nel 1882 dal Ministero dell’agricoltura, industria e commercio (Maic), Notizie intorno alle condizioni dell’agricoltura negli anni 1878-1879. Ci dicono che solo poche famiglie potevano disporre di molte calorie al giorno, mentre c’era un numero ampio di famiglie che consumavano poche calorie, circa un terzo. In tanti considerano i risultati di quest’inchiesta lacunosi e sommari (troppo esiguo il campione di famiglie coinvolte), ma si tratta comunque di dati ottenuti sul campo e non di impressioni fuggevoli. 78


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assunto sulla nutrizione è scritto da Giovanni Vecchi e Martina Sorrentino. Fuga dalla fame. Europa, America e Terzo Mondo (1700-2100) di Robert Fogel (Vita e Pensiero, 2006) racconta attraverso quali strumenti, scoperte e innovazioni abbiamo sconfitto le tre parole che hanno funestato il mondo per gran parte della sua storia: fame, carestia e malattie. C’è uno stretto rapporto tra buona qualità dell’alimentazione e prosperità di una società, ma allo stesso tempo la fuga dalla fame comporta nuovi costi che bisogna, con strumenti nuovi, imparare a gestire.

dieta, si mangia meglio e così (l’appetito vien mangiando) si ragiona tanto sul cibo. E parlando, analizzando ristoranti e proposte di Slow Food, spesso discutiamo e litighiamo sul bio e sull’agricoltura convenzionale, ma alla fine ci sediamo sempre a tavola, e mangiamo, mangiamo abbastanza. Non sono solo impressioni fugaci, l’Italia è in vetta alla classifica dei paesi che dispongono del maggior numero di calorie pro capite. Siamo secondi solo agli Stati Uniti e disponiamo del 30 per cento in più delle calorie dei giapponesi; siamo superiori a tedeschi, francesi, spagnoli, inglesi e svedesi. Dunque, bio e convenzionali, slowfoddisti e non, decrescisti e non, la verità è che stiamo ingrassando, e se nel 1861 uno su due non mangiava in maniera adeguata, oggi, secondo i dati Istat del 2010, un uomo su due è in sovrappeso, mentre per le donne (e anche i bambini) il rapporto è di uno a tre. Il volume In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi (il Mulino, 2011), di Giovanni Vecchi, sottolinea che sì, siamo nel paese dei balocchi, o di Masterchef, ma anche che dagli ultimi trent’anni una fascia non trascurabile della popolazione non dispone di una nutrizione adeguata e termina con queste parole: «Un problema enorme per pochi, ma piccolo per molti, evidentemente». Il saggio tenta di rispondere in maniera esaustiva alla domanda non banale: da dove siamo partiti noi italiani quando abbiamo cambiato pericolosamente strada, e dove possiamo o rischiamo di andare? Diviso in tre parti e vari capitoli (Le condizioni di vita degli Italiani: nutrizione, statura, salute, lavoro minorile, istruzione. Crescita, diseguaglianza e povertà: reddito, diseguaglianza, povertà, vulnerabilità. Strumenti: bilanci di famiglia, costo della vita), è un’opera molto interessante e chiara, con un robusto lavoro di ricerca alle spalle fondato su dati e statistiche integrati e raccordati per la prima volta. Il capitolo qui ri-

Antonio Pascale nato a Napoli nel 1966, vive e lavora a Roma. È scrittore, saggista, autore televisivo e collabora con “Il Foglio”, “Il Mattino”, “Le Scienze” e “Limes”. Lavora come ispettore agrario al Ministero delle politiche agricole.

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olioofficina / poesia

Sonatina

(monotematica e bipartita)

di Amedeo Anelli

Il giallo sfuocato nella nebbia fra gli alberi e l’argine in due a strappare una verza. Il gelo intenso che entra nelle ossa dolori sordi l’argine come una vertebra s’incurva. Fra curve e sopralzi cumuli di sabbia e campi maceri il fiume è un impasto non conoscibile di alberi di nebbia e di suono mugghia come un animale terrifico e antico. Questa segreta forza della terra in noi pur nella disgregazione e nello svuotamento la natura segue la natura per artefatti. Altrove gli olivi corrono per campi e campi muretti e muretti mute braccia del cielo in movimento il caldo buono matura i frutti unti di segni di gesti di sensi anche nel viatico dell’addio la calda mano. Codogno, 30 ottobre 2016 La poesia di Amedeo Anelli è tratta dal volume La gravidanza della terra. Antologia di poesia rurale, a cura di Daniela Marcheschi, pubblicata nel gennaio 2017 da Olio Officina, nella collana Slim Book.

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d’autore Loretto Mattonai Ivano Mugnaini Guido Oldani Tina K. Persson Roberto Piumini Margherita Rimi Angelo Scandurra Gabriella Sica Massimo Silvotti Darko Suvin André Ughetto Gian Mario Villalta Gabriele Zani Edoardo Zuccato

La Gravidanza deLLa Terra Antologia di poesia rurale a cura di Daniela Marcheschi

ISBN 978-88-94887-00-6

slimbook

9 788894 88700 6

Quarantatré inediti d’autore La Gravidanza della Terra è una antologia a tema, la prima del genere in Italia, allestita con l’intento di riportare sulla campagna l’attenzione dei poeti italiani ed europei. Si è cercato di restare il più possibile lontani dalle tentazioni dell’idillio, dal richiamo della campagna come rifugio, quasi astorico, per una borghesia che si sente superiore ai contadini o alle classi ancora legate alla terra.

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olioofficina / racconto

Madonna mia, Madonna mia di Silvana Grasso

“Madonna, Madonna mia” – a ottantanni Maridda non poteva, certo, più vederla la Madonna col Bambino nella chiesa delle Grazie a Roccastrada, forse l’umido aveva sdirrubbato l’affresco, assieme ai calcinacci dell’intonaco, e della Madonna e del Bambino Gesù non era rimasta che una prulìgghia di colori invisibili anche a chi ce li aveva ancora gli occhi per guardare. La cataratta aveva annegghiato la sua pupilla di botto, rutunnamente, come la notte quando con mandria di stelle precipitava dal monte Lattaia sulla sughereta. Degli occhi, orbi da tempo, era rimasto il colore celestone, un aroma di colore pastello, inviolato nell’iride, non taglieggiato nemmeno dalla cataratta. Sembrava quel celestone finto che su vetro pitturava il manto della Madonna, quando si pitturava la Madonna giovane e il pittore ci sputava sopra al celeste, perché il colore con lo sgracco della saliva prendeva luce, o solo perché così a bottega aveva visto fare da ragazzo a chi gli insegnava il mestiere di madonnaro su vetro. Non ci vedeva Maridda, proprio niente, nemmeno una zàgara di luce quando la mattinata era chiara e aveva il colore della calce viva. Pure se non ci vedeva, lo stesso, dopo cinquanta passi dall’acquasantiera, alzava gli occhi come ci vedesse e, murmuriate appena da una grattugiata di voce, le uscivano dalla bocca le parole di sempre “Madonna mia, Madonna mia”. Se c’era o no la Madonna col bambino, se c’era o no l’affresco a sinistra dell’unica navata, non lo sapeva Maridda né le importava. C’era nella memoria dei suoi occhi celestone la Madonna delle Grazie, c’era nella sua testa, ammiscata ai pochi pensieri della vecchiaia. In paese, a Roccastrada, dicevano che non ci stava con la testa e che non era un fatto di vecchiaia. Strammiàta Maridda c’era stata sempre, anche da picciotta.

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Quando mai s’era vista una ragazza lavorare nella sughereta, unica femmina tra maschi robusti come tori, ma lei asserpava alla sughera fino in alto come un acrobata, di quelli che nelle fiere maremmane ziganiavano sulla corda tra spavento di vecchi e bambini a ogni sbattulio di corda. Era veloce e ci sapeva fare col sughero, tale inturciniata all’albero che nel

Da quando aveva avuto la polmonite, c’era quasi morta di quella febbre, l’avevano presa a dormire le suore carmelitane, dopo due mesi di ospedale e rianimazione. Ma tutti i giorni, vento tempesta o chiarìa di cielo, andava nella sughereta e, se ce la faceva, anche nella Chiesa delle Grazie, non per la santa Messa ma per parlare a quattr’occhi con la Madonna.

tempo anche la sua pelle, da bruna per nascita, aveva preso colore di sughero. Non aveva imparato a cucire e ricamare come le altre ragazze del paese, non s’era maritata e fino a che l’artrite non le aveva divorato i ginocchi, era stata più sulle sughere che in terra, quasi una vena nel ramo della quercia. Le piaceva l’odore del sughero, specie dopo la pioggia che lo ingravidava, e per questo nella sughereta ci aveva fatto picciottanza e vecchiaia.

Fino a quando sugli occhi celestone non era del tutto calata la scurìa, Maridda raspava la terra con le dita delle mani affilate come uncinetti. Raspava la terra sotto quella sughera, la prendeva in mano quella scatola d’alluminio, arrugginito, per sessantanni covata sottoterra, nell’utero della sughereta, se la portava al cuore, immobile per ore. La scatola ne scoteva del sussulto del suo cuore che, giovane, bummiava come puledro, mentre non più spasimi 86


renza di braccia dorso occhi piedi.

ebbe quando il cuore di Maridda si fece vecchio, e il tuppulìo dei battiti lieve. Lento Maridda apriva il coperchio della scatola di matassine da ricamo, a cercarvi il tesoro che v’aveva lasciato a ventanni e, di mese in mese di anno in anno, ce lo trovava divorato dal tempo, rasuliato dalle stagioni che passavano senza pietà di lei che, nella sughereta, fino a notte scartocciava sughero non perch’era fuori di testa, ma per non lasciarla sola quella scatola con la sua preziosa reliquia dentro.

Quel gruzzolo di carne, dentro il palmo della sua mano non più grande del Cuore di Gesù, lo aveva riposto nella scatola d’alluminio, e nemmeno per un attimo mai, nemmeno quando una volta ogni cinque anni faceva un febbrone da cavallo e aveva le allucinazioni, Maridda aveva ricordato la faccia di quel ragazzotto pugliese che a vespri, quando non c’era più nessuno che non fosse uccello o nebbia, era tornato alla sughereta, l’aveva tirata giù dal ramo per l’arrizzo dei capelli neri, come una prugna acerba, e aveva del suo sangue dissetato le radici ignare e secche dell’albero.

Quando più Maridda non ebbe lume d’occhi, ma pur aveva, anche più fera, la furia delle mani, s’approssimava il suo passo, passo sicuro, che non falliva mai, alla sughera giusta. Furono occhi le sue mani, furono senso mentre, crapuliati di tempesta vecchiaia ed eczema, i polpastrelli cercavano nella scatola un osso, una tibia piccina, una falangetta, qualunque minima spia che non fosse polvere, che non fosse sciddichio di cenere, senza corpo senza tatto senza peso. Ma la polvere scartavetrata dalla furia delle mani non dava più spie d’una vita sepolta, d’una vita mai nata all’anagrafe dei vivi, all’anagrafe dei nomi dei cognomi del padre e della madre. Solo odore e cuore davano a Maridda certezza che lei madre era stata, che seppur per qualche mese le sue viscere di ragazza avevano nutrito un minimo involucro di tibie mani braccia piedi.

Era calata la notte e un silenzio assoluto, violato da cani di guardia che all’orizzonte fiutavano la tempesta in arrivo. Tempesta sulle sue carni fanciulle era stata, rapina di maschio era stata, squarcio e gran pianto di nuvole, ma Maridda solo l’incendio del fulmine in cielo ricordava e un potente bagliore di miracolo ricordava di quella notte nella sughereta quando il Signore aveva voluto il frutto del suo seno. Il racconto è tratto dal volume di racconti inediti Tutti dicono Maremma Maremma, di Autori Vari, edizione fuori commercio edita dalla Provincia di Grosseto nel 2010, a cura di Luigi Caricato.

Silvana Grasso è autrice di romanzi e racconti, l’ultimo dei quali, Solo se c’è la Luna, pubblicato per Marsilio nel gennaio 2017.

“Opera del Signore” era stato il frutto del suo ventre, come per la Madonna, di questo s’era convinta Maridda, per questo chiedeva aiuto alla Vergine delle Grazie “Madonna mia. Madonna mia”. Anche quando, con sgorgo di sangue e doglia di ventre, ai piedi della sughera, lo aveva con le mani raccolto quel figlio mancato, che nella matassa di sangue e viscere aveva pur lasciato sagoma di bimbo, traspa87


olioofficina / arte

“Olio d’Artista”,

una mostra in continua evoluzione di Luigi Caricato

Protagonista della scena a Olio Officina Festival 2016 e 2017, l’iniziativa di Francesco Sannicandro ha l’arguta idea di proporre, attraverso le numerose opere esposte, gli infiniti modi di approcciare il contenitore dell’olio, smembrandolo in più parti, frantumandolo, fondendolo, nascondendolo e ricreandolo ex novo L’arte, a partire da un materiale povero: il contenitore vuoto, quello destinato ad accogliere l’olio estratto dalle olive. Il contenitore non ancora utilizzato, nella sua nuda essenza. L’idea di metter insieme un catalogo permanente e itinerante, in continua evoluzione, è una felice intuizione dell’artista pugliese Francesco Sannicandro, da Bitonto, terra di oli. È stato lui a coniare il titolo di una mostra che nasce, e continuerà a essere, itinerante, sempre in corso d’opera: “Olio d’Artista”. Itinerante, perché c’è sempre qualcosa di non ancora compiuto, in itinere. Nel corso di Olio Officina Festival 2016, a Milano, a dominare la scena sono stati i numerosi contenitori esposti in bella mostra. Il pubblico ha apprezzato con un sentimento di stupore. Anche vederne tanti, così originali, provoca un senso di novità, un’attesa di ulteriori sviluppi. Le tanichette d’olio, così come le bottiglie in vetro, sono state di volta in volta reinterpretate e chiamate a nuova vita, attraverso una rilettura che affronta in modo differente la materia prima di partenza – alluminio, vetro e ogni altro materiale disponibile in commercio.

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dro, ha meritato anche il Premio “Olio Officina – Cultura dell’olio” 2017. Non è d’altra parte una mostra dal carattere episodico: “Olio d’Artista” reca in sé il segno distintivo di un progetto e lascia un segno profondo nella memoria di tutti. Per le tante opere di cui si compone, la mostra è a sua volta una grande opera corale. Ciò che si osserva oggi è il frutto di una stratificazione continua, l’esito di un percorso lungo oltre cinque anni. Gli artisti impegnati nel ricreare le forme non ancora unte dal prezioso liquido grasso ricavato dall’oliva elevano in tal modo un’elegia all’olio che non c’è, una sorta di “monumento” al grande assente, che diviene presenza concreta e altamente simbolica anche quando il contenitore è vuoto. L’intuizione di Francesco Sannicandro è, di fatto, l’unica grande opera corale che ha riguardato il mondo dell’olio. Di questo grande progetto collettivo rimarrà testimonianza viva anche nei decenni a seguire.

Di ciascun contenitore è stata rimodellata la forma, a volte squartandone alcune parti, decontestualizzando l’oggetto, rinominandolo, ricreandolo ex novo. È una mostra a più mani, con artisti provenienti da diverse regioni d’Italia e molti Paesi del mondo. Una brillante operazione che ha coinvolto finora diverse decine di artisti, e altri ne coinvolgerà nei prossimi anni. La mostra potrebbe non finire mai. L’appuntamento con l’esposizione delle nuove opere a Olio Officina Festival 2017, dal 2 al 4 febbraio a Milano, ne sancisce il successo. L’olio da olive, con questa operazione artistica collettiva, diventa il protagonista assente. Attraverso i suoi contenitori non è più una materia grassa tra tante altre disponibili, ma diventa simbolo di una civiltà che viene decodificata e riconsegnata a nuova vita attraverso i segni distintivi dei contenitori destinati ad accoglierlo. L’impegno del curatore, Francesco Sannican89


Anna Magistro - Olio d'artista - 2017

Vito Maiullari - 100% extravergine - 2017

Christian Loretti - Contenuto - 2013

Yumiko Kimura - Montan'olio - 2016

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Concetta Russo - Dipinto a olio - 2016

Jasmine Pignatelli - A CAPA' LE FOGGHJE A IUNE A IUNE - 2016

Roberto Sibilano - DepreSSolio - 2016

Mara van Wees - Olio 5V - 2016

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Dario Agrimi - Xanthomonadaceae, ospite inatteso - 2016

Maria Di Cosmo - Unto di partenza - 2017

Pietro Coletta - Autoritratto - 2016

Sevil Amini - Besame Mucho - 2016

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Bianca Roselli & Arcangelo Ambrosi - Ulivolio - 2016

Paolo Desario - Icona - 2016

Fernando de Filippi - Olio - 2016

Teo de Palma - Barocoil - 2016

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Gianfranco Basso - Nature never dies - 2017

Dario Brevi - V-oli - 2016

Antonio Di Rosa - Verde oliva - 2017

Maria Cristina Tebaldi - è FESTA - 2016

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olioofficina / progettocultura Olio Officina Almanacco 2017, anno V, numero 5

L’annuario Olio Officina Almanacco è una espressione di libero pensiero a supporto del grande happening Olio Officina Festival – Condimenti per il palato & per la mente. Prima edizione a Milano: 27, 28, 29 gennaio 2012; seconda edizione: 24, 25, 26 gennaio 2013; terza edizione: 23, 24, 25 gennaio 2014; quarta edizione: 22, 23, 24 gennaio 2015; quinta edizione: 21, 22, 23 gennaio 2016; sesta edizione: 2, 3, 4 febbraio 2017. Copertina: Studio Pace 10 (Monica Scardecchia e Gianfranco Maggio), serie Album, ricordi in conserva; titolo dell’opera: “L’ulivo, la conservazione della specie”; anno 2017. Stampa fotografica su supporto trasparente immerso in un liquido all’interno di un barattolo di vetro; barattolo da un litro. Edizione speciale per Olio Officina Festival 2017 di 25 + 2pda. Seconda di copertina: illustrazione di Valerio Marini. Terza di copertina: Studio Pace 10 (Monica Scardecchia e Gianfranco Maggio), “Miss Olive”, anno 2013. Stampa inkjet su carta cotone, dimensioni 30x40. Quarta di copertina: testo autografo del poeta Amedeo Anelli.

Olio Officina Almanacco è un supplemento di Olio Officina Magazine, n. 174, del 25 gennaio 2017. Direttore: Luigi Caricato ISBN 978-88-94887-01-3 Progettazione grafica: Alberto Martelli, Aerostato Si ringrazia per la gentile collaborazione Ilaria Santomanco e Maria Carla Squeo Stampa: Editrice Salentina, Galatina (Lecce) Web > festival: olioofficina.com – magazine: olioofficina.it globe: olioofficina.net – blog: olivomatto.it – luigicaricato.net

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2017

€ 12,00

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