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I bambini come i gatti davanti al cibo
In che senso, direbbe qualcuno. Già, è bene chiarire: nel senso di mettersi a osservare e seguire il medesimo approccio dei piccoli felini. Cambierebbe il nostro modo di rapportarci al cibo e all’olio se imparassimo anche noi a giudicare ogni alimento usando l’olfatto e il gusto?
di Lanfranco Conte
2004 – 2018, QUATTORDICI ANNI
DI ESPERIENZE DI EDUCAZIONE ALLA CONOSCENZA
DELL’OLIO EXTRA
VERGINE DI OLIVA
NELLE SCUOLE
ELEMENTARI E MEDIE
RACCONTATI DAL SUO PROTAGONISTA
Erano i primi anni 2000 quando ricevetti la visita di una delegazione di un’associazione denominata “Mangiare bene per crescere sani”. Costituita da genitori e insegnanti della Scuola Elementare di Moruzzo, in provincia di Udine, questa associazione aveva organizzato una serie di incontri con i bambini delle ultime due classi. Incontri dedicati all’educazione alimentare, affrontata in modo quanto più interattivo possibile, in maniera da catturare l’attenzione dei bambini con attività pratiche. Tra i vari alimenti era stato identificato anche l’olio extra vergine di oliva, e per questo si erano rivolti a me.
L’iniziativa mi parve quanto mai meritoria. Da sempre sono convinto che una strategia efficace per limitare la presenza sul mercato di prodotti di dubbia o povera qualità, sia educare i consumatori a riconoscerli e, di conseguenza, lasciarli sugli scaffali, espellendoli in tal modo dal mercato. Tuttavia, molti dubbi mi assalirono: la mia vita lavorativa mi aveva sempre portato a spiegare concetti ad adulti, o a giovani adulti nel caso delle lezioni universitarie, ma mai a bambini in così giovane età. Comunque, accettai la sfida. La classe che incontrai, una quinta elementare, era stata ben preparata dalle loro insegnanti, con un precedente percorso di scienze naturali e alimentazione adatto alla loro età. Mi trovai davanti a bambini estremamente motivati, interessati e competenti, e tuttavia, non avevo la minima idea di come mettermi in sintonia con loro.
Come pensa un bambino di quinta elementare? Cosa gli interessa?
Quali sono i suoi canoni comunicativi all’inizio degli anni 2000?
Avevo preparato una presentazione in power point e collegando il computer al proiettore apparve sullo schermo il mio desktop che aveva come sfondo la fotografia di una mia gatta, cosa che immediatamente attirò l’attenzione e l’entusiasmo dei bambini e che mi fece venire l’idea di sfruttare questa circostanza per introdurre il nostro incontro.
Fatte le debite presentazioni, come si chiamava la gatta, quanti anni avesse, eccetera, passai a condividere con i bambini alcune, diciamo così, riflessioni: a noi, sin da bambini, i genitori e le maestre dicono cosa si possa mangiare e cosa no, e cosa sia buono o cosa meno, ma ai gatti? Come fanno i gatti quando gli si mette davanti un cibo? Lo annusano attentamente, poi in alcuni casi prima di mangiarlo lo leccano, cioè usano i loro sensi per valutare il cibo, bene, gli dissi, anche noi dobbiamo fare come i gatti, imparare da loro a giudicare il cibo, usando anche noi l’olfatto ed il gusto, con la grande differenza che i gatti, nella loro accertata superiorità rispetto al genere umano, hanno olfatto e gusto molto più sviluppati di noi e che quindi noi dobbiamo ascoltare con grande attenzione quello che il nostro naso e la nostra bocca ci dicono.
Era andata! I bambini, molti dei quali possessori di gatti, accettarono con entusiasmo di “fare come i gatti” e ben si predisposero ad “ascoltare” il loro naso e la loro bocca.
Iniziai con la classica prova di far mettere in bocca una miscela di zucchero e cannella, tenendo tappato il naso e dicendomi cosa percepissero in bocca. Ovviamente la risposta fu “dolce”, quindi feci aprire il naso e chiesi di nuovo cosa percepissero, e a quel punto dissero “cannella”. Ecco quindi che memorizzarono la necessità di separare olfatto e gusto, prima annusando, poi assaggiando.
Passai quindi a proporre loro due bicchierini con un po’ d’olio, siglati “A” (difettato) e “B” (B come “buono”), chiedendo loro cosa gli ricordasse ogni olio e infine se lo giudicassero buono a cattivo.
Le risposte furono varie, qualcuno disse che il campione “A” ricordava la pasta all’olio della mensa, qualcuno che il campione “B” ricordava “quando si taglia l’erba o il fieno per le mucche” (ah, il famoso “fruttato verde”), un paio che gli ricordava quando si schiacciano le olive (scoprii in seguito che i nonni avevano un frantoio in altre regioni).
Procedemmo redigendo l’elenco delle sensazioni che ognuno di loro dichiarava all’olfatto e al gusto, scrivendole alla lavagna e dividendolecon un approccio tipicamente scolastico, almeno per quando andavo a scuola io e che forse oggi non si usa più - in “buoni” e “cattivi”.
Negli incontri successivi sottoposi ai bambini vari oli che loro stessi classificarono utilizzando l’elenco redatto nel primo incontro. Gli incontri furono tre, se non ricordo male, e alla fine consegnai loro un “Diploma di assaggiatore in erba”, di cui furono molto fieri. La bellissima sorpresa fu che loro mi regalarono un album con i disegni che avevano fatto, ricordando i nostri incontri, che conservo ancora e al quale sono molto affezionato.
L’esperienza si ripetette negli anni a seguire, coinvolgendo anche le classi quarte, cosa che fu molto interessante, in quanto gli alunni di quarta quando ripeterono l’esperienza di assaggio l’anno seguente, in quinta classe, senza alcuna introduzione, ma chiedendo loro di ricordare quan- to appreso l’anno precedente, si rivelarono vere “macchine da guerra”, valutando correttamente la maggior parte degli oli loro sottoposti.
Via via si affinò la struttura della didattica, fino a giungere alla seguente strutturazione:
1a lezione: breve introduzione sull’olio da olive: cenni di storia e tecnologia (20-25 minuti), primo approccio alla conoscenza sensoriale: uso pratico di olfatto e gusto;
2a lezione: assaggio guidato di un olio senza difetti e di un olio con difetti, assaggio di due differenti tipologie di olio;
3a lezione: “Trova l’intruso!”, assaggio alla cieca di una piccola serie di oli, tra i quali uno difettato da identificare.
Un effetto collaterale fu che alcuni bambini a casa rifiutarono l’olio usato dai genitori, ma ciò fu a mio avviso un effetto positivo, che fece allargare, è il caso di dirlo, “a macchia d’olio”, la consapevolezza verso la scelta di uno tra i più importanti alimenti.
L’esperienza pilota piacque e così si protrasse nello spazio, nel senso che si estese a diverse altre scuole della regione, e nel tempo, perché nell’ambito di una manifestazione dedicata all’olio che si svolge ogni anno a Oleis, vicino a Udine, si realizzava una esperienza con le scuole elementari del vicino Comune di Manzano, esperienza che si concludeva con un assaggio collettivo presso la manifestazione stessa, il sabato mattina. Questa esperienza si protrasse, direi, per più di un quinquennio, quando poi si interruppe per problemi organizzativi legati alla complessità delle norme di programmazione e di sicurezza che via via si sovrapposero alla possi- bilità di organizzare esperienze di questo tipo.
L’esperienza si allargò venendo richiesta da molte scuole medie distribuite sull’intero territorio regionale. Ovviamente in questo caso l’approccio fu più “evoluto” e preliminarmente all’incontro con me, gli alunni vennero sensibilizzati alla conoscenza degli alimenti e delle sostanze grasse, in particolare dai loro docenti di scienze, con i quali si concordò un apposito programma, questa nuova parte dell’esperienza risultò estremamente utile a rendere maggiormente proficua la parte dedicata all’assaggio degli oli da olive, e anche in questo caso i ragazzi reagirono bene, anche se più di qualcuno alla proposta di assaggiare l’olio inizialmente storse il naso, salvo poi, alla fine, avendo scoperto che non esiste l’olio extra vergine di oliva, ma “gli” oli extra vergini, ognuno con peculiari caratteristiche, diventarono propositivi, portando l’olio che si usava in casa, molte volte non acquistato al supermercato, ma direttamente da produttori di zone geografiche differenti dal Friuli Venezia Giulia.
Con gli studenti delle medie utilizzammo una scala non strutturata come quella del metodo ufficiale, disegnata alla lavagna, riportando il valore espresso da ogni studente, calcolando infine la mediana, come se fosse un panel vero e proprio; in seguito, per ogni campione si commentarono collettivamente i risultati, ottenendo interessanti spunti di discussione - ad esempio: su quanto fosse accettabile l’amaro o quanto intenso fosse il pungente/piccante, con alcune riflessioni su quest’ultimo attributo, ovvero: cosa è il pungente? Cosa è il piccante? Per alcuni il primo era identificato col kren, mentre il secondo con il peperoncino.
Si svolsero infine alcune esperienze con scuole secondarie, essenzialmente istituti a indirizzo agrario, professionale e tecnico e, come era da attendersi, in questo caso il colloquio con gli studenti fu molto più tecnico, avendo in genere una preparazione di stampo agronomico approfondita, e quindi fu possibile legare alcune caratteristiche sensoriali ad aspetti quali la raccolta o le evoluzioni biochimiche che possono avvenire nella fase di post raccolta.
Con queste scuole, inoltre, fu possibile anche discutere ed eventualmente sfatare molti luoghi comuni sulla qualità dell’olio.
In conclusione, una serie di esperienze differenti, ma tutte positive, nel caso delle scuole elementari, poi, decisamente sorprendente. Forse l’idea di far crescere generazioni di consumatori consapevoli di cosa sia la qualità e di come riconoscerla potrebbe realmente essere un’arma vincente nel promuovere i prodotti di qualità e “deprimere” la presenza di prodotti di scarsa qualità sui mercati.