Come si scrive un'autobiografia

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Come si scrive un’autobiografia. Manuale di scrittura creativa a più voci. (Titolo originale e Autobiographer’s Handbook) a cura di Jennifer Traig Traduzione di Alessandra Mulas © 2010 by 826 National, All rights reserved Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria and Ted Weinstein Literary Management © Omero Editore, Roma 2013. Tutti i diritti riservati. www.omero.it www.omeroeditore.it Isbn: 978-88-96450-09-3 Impaginazione e grafica di Luigi Annibaldi


COME SI SCRIVE UN’AUTOBIOGRAFIA manuale di scrittura creativa a più voci

JENNIFER TRAIG introduzione di Dave Eggers traduzione di Alessandra Mulas



INDICE

Introduzione di Dave Eggers Il Gran consiglio - Incontra i nostri esperti di autobiografia

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Capitolo 1 - Appuntamento con la musa Capitolo 2 - Precedere il passato Capitolo 3 - Tu contro la prima pagina Capitolo 4 - Linee, curve e tangenti Capitolo 5 - Strategie di movimento Capitolo 6 - Tagliare Capitolo 7 - C’è differenza tra i ricordi Capitolo 8 - Dentro di te c’è una folla Capitolo 9 - Capire la battuta Capitolo 10 - Scrivere attraverso il dolore Capitolo 11 - Fatti contro verità Capitolo 12 - Perdersi nel labirinto Capitolo 13 - La tua fine (per ora) Capitolo 14 - Fagli fare un giro Capitolo aggiuntivo - Dalla mente, a Internet, al libro, a te

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Conclusione Appendice 826 National

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INTRODuzIONE Dave Eggers

Le ragioni per scrivere un’autobiografia possono essere tante, ma in quest’introduzione intendo discuterne una in particolare, non solo perché mi sembra prevalere su tutte le altre, ma anche perché spero possa dare forza a tutti gli aspiranti autori di questo genere letterario: scrivi la tua storia perché un giorno morirai e, se non l’avrai messa su carta, la tua storia morirà con te. La maggior parte di quello che facciamo in quanto esseri umani – costruire musei e ospedali, strade e impianti di purificazione dell’acqua – lo facciamo perché desideriamo offrire alle generazioni future un mondo migliore. Il primo e più importante fra tutti questi doni che teniamo in serbo per loro è senz’altro la conoscenza: quella massa di fatti, verità e saggezza che si è accumulata nel tempo, dalla nascita della razionalità e del linguaggio a oggi. E tuttavia siamo sorprendentemente approssimativi quando raccontiamo ai bambini la storia della loro famiglia. Quella che narriamo loro sui vari parenti – genitori, nonni e avi che si perdono nella notte dei tempi – è nel migliore dei casi una storia sconnessa e piena di lacune. Noi americani siamo particolarmente inclini a dimenticare (deliberatamente, direbbero in molti) le nostre origini. E questo è un problema. Quando ero un adolescente lessi un libro intitolato Some Recollections of a Busy Life di un certo Thomas S. Hawkins, un resoconto davvero divertente, e al tempo stesso affascinante, sul viaggio di un pioniere nell’America di metà Ottocento. L’autore era cresciuto nel Missouri in completa libertà, un po’ come Tom Sawyer, e a ventidue anni era partito per gli spazi aperti della California, e la loro promessa di felicità. Aveva guidato una carovana di carri coperti attraverso le pianure, commerciando con gli indiani e combattendo contro i banditi e finalmente si era stabilito nel nord della California, dove aveva partecipato alla fondazione della città di Hollister. Quest’uomo era il mio bis-bis-bis-bis-bisnonno, che la mia famiglia chiamava il Bisnonno Hawkins. Sin da quando ero bambino avevo sentito parlare di lui dai miei genitori, soprattutto perché tenevamo il suo fucile – lo stesso con cui aveva sparato ad animali selvatici e ladri attorno al 1860 – sopra la mensola del camino in salotto. Tutti quelli che entravano in casa nostra volevano sapere di chi era stato e se funzionava ancora. No, non funzionava.

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Come si scrive un’autobiografia

A parte la questione del fucile, tutto quello che sapevamo su Thomas Hawkins erano una manciata di disordinati brandelli della storia della sua vita, almeno fino a quando uno dei nostri parenti californiani ci inviò una copia di Some Recollections of a Busy Life. Il libro era stato stampato in proprio in sole trecento copie, ma sembrava un libro a tutti gli effetti, con una copertina rossa, la legatura robusta e tutti i caratteri in ordine. Lo lessi in pochi giorni e ne rimasi sbalordito. Avevo davanti un autore senza alcuna preparazione letteraria – aveva lasciato la scuola a diciassette anni – un uomo che si era mantenuto dapprima facendo il maestro, quindi aveva aperto un negozio e infine era diventato un banchiere, ma che era riuscito lo stesso a scrivere un libro che non avrebbe sfigurato su uno scaffale in compagnia delle opere di Twain (tra l’altro era cresciuto a pochi chilometri da Hannibal, dove abitava Samuel Clemens, meglio noto come Mark Twain). E grazie al fatto che Thomas Hawkins si era preso la briga di scrivere la sua storia, ora avevo una conoscenza molto più approfondita di lui, della sua epoca, della storia della mia famiglia, della vita dei pionieri che colonizzarono il nord della California… insomma, di moltissime cose. Le sue parole ci avevano restituito un’avventura e una storia d’amore, il suono dei carri che attraversavano il Nebraska, i volti degli indiani con i quali aveva stretto amicizia e il volto di quelli contro cui aveva combattuto. Attraverso la forma immutabile di un libro avevamo la possibilità di imparare moltissimo su che tipo di esistenza aveva vissuto Hawkins e gli altri che avevano fatto scelte simili alle sue, così da sentirci davvero legati al nostro retaggio (lo so, retaggio non è una parola usata di frequente negli Stati uniti, e solo di rado la sentiamo nelle nostre case, ma è proprio questo genere di cose che può cambiare). Il libro spinse mio fratello maggiore, Bill, a ricostruire il nostro albero genealogico, seguendo il ramo della nostra famiglia fino ad arrivare all’Inghilterra, all’Irlanda e alla Germania. Ben presto l’albero raccoglieva centinaia di nomi e date e città natali, matrimoni e figliolanze. Ma, al di là di questi semplici dati, non restava traccia di quelle vite. Nessun libro, nessun diario, nessuna autobiografia. E così queste persone – le loro vite, le loro voci, le loro conoscenze – erano svanite nel nulla. Probabilmente qualcosa dei loro ricordi, frammenti delle loro vite, era stato tramandato ai figli, che a loro volta, in frammenti ancora più piccoli, li avevano tramandati alle generazioni successive. E giunte sin lì, allora, le persone erano diventate semplici nomi, date, al massimo una caratteristica peculiare. L’enorme patrimonio di ciò che avevano provato e desiderato e visto era andato perduto.

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Introduzione

Qualche anno fa, l’826 Valencia sostenne un progetto guidato da un’insegnante i cui metodi erano eccezionalmente innovativi, Lisa Morehouse. Insegnava alla Balboa High School, una grande scuola pubblica della città, e quell’anno ci telefonò per sapere se eravamo interessati a inviare dei tutor che aiutassero i suoi studenti con un progetto sulla storia orale che sarebbe durato per sei mesi. Cogliemmo la palla al balzo. I genitori degli studenti del Balboa venivano da ogni parte del mondo: El Salvador, Cina, Messico, Vietnam, Guatemala, le Samoa americane, Cambogia. Nella maggior parte dei casi si trattava di persone che parlavano inglese ma non erano madrelingua; se si aggiungevano le prevedibili difficoltà di comunicazione che si creano fra adolescenti e genitori ecco che avevamo il quadro di un gruppo di studenti che non sapevano poi molto sulle vite dei loro antenati. In alcuni casi madri e padri avevano deliberatamente tenuto nascoste le loro storie, supponendo che i loro bambini preferissero lasciarsi il passato alle spalle e cominciare una nuova vita. Lisa Morehouse ci presentò così se stessa e il suo progetto di storia orale: ai suoi studenti veniva chiesto di intervistare un parente immigrato negli Stati uniti da un altro paese (o, se non avevano parenti con queste caratteristiche, qualcuno che era arrivato in California da un’altra parte dell’America). I ragazzi scelsero la loro impostazione e realizzarono una serie di interviste, le tradussero laddove era necessario e alla fine le trasformarono in racconti avvincenti. un giorno, insieme a una dozzina di tutor dell’826 Valencia, andai al Balboa per aiutare gli studenti a sistemare le loro storie: il primo a cui mi avvicinai fu per me una rivelazione. Mi capitò di lavorare con Jimmy Meas, un ragazzo cambogiano-americano nato a San Francisco, il cui padre aveva lasciato la Cambogia negli anni Settanta. Il padre di Jimmy era stato dapprima un contadino, poi era stato coscritto nell’esercito cambogiano e quindi aveva servito i Khmer Rossi. Sotto quel terribile regime aveva cercato in tutti i modi di passare inosservato per non farsi mandare nei campi di sterminio cambogiani, fino a che, un giorno, aveva deciso di rischiare tutto per fuggire insieme a sua moglie, la madre di Jimmy. Questo è un brano della sua storia: Fuggii di notte, insieme a tua madre – l’avevo incontrata quando avevo all’incirca diciannove anni, lei stava raccogliendo riso in un campo – correndo verso la foresta. Questo è tutto quello che posso dirti. Era una notte fredda e buia, ventosa, pioveva… Non si riusciva a vedere nulla perché non c’erano luci e le coperte erano tutto ciò che avevamo per ripararci. Era una situazione spaventosa perché non sapevo se i soldati stavano pattugliando quella zona ed ero terrorizzato dall’idea di imbattermi in qualcuno di loro. Ero spaventato anche dalle bombe, perché i Khmer Rossi avevano nascosto mine ovunque… Jimmy e io leggemmo quel brano insieme e restammo entrambi senza parole. “Sapevi

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queste cose?” Gli chiesi. Scosse la testa, non ne sapeva nulla. I suoi genitori avevano voluto tenerlo all’oscuro di quanto avevano sofferto e del modo in cui erano riusciti a fuggire, e Jimmy, da parte sua, non aveva mai avuto l’interesse e lo stimolo per fare delle domande in proposito. Il progetto aveva spinto Jimmy a chiedere a suo padre di raccontargli tutta la sua storia; così il rispetto e la gratitudine che il ragazzo già provava verso i suoi genitori erano cresciuti ancor di più e avevano alimentato un nuovo interesse da parte sua per la Cambogia. Il processo fu effettivamente concluso solo dopo che Jimmy ebbe lavorato alla storia di suo padre e la 826 Valencia l’ebbe pubblicata nel libro che ne era derivato, I Might Get Somewhere: Oral Histories of Immigration and Migration. Riportando alla luce la storia del padre, mettendola per iscritto e facendola funzionare anche da un punto di vista stilistico, Jimmy aveva fatto in modo che sarebbe stata letta e che sarebbe stata ricordata. E che non sarebbe mai andata perduta. Da tempo all’826 Valencia teniamo corsi per adulti che desiderano scrivere la loro autobiografia. Nel corso degli anni ho gestito una dozzina di questi gruppi e, visto che sono gli allievi stessi a chiederlo, abbiamo fornito una discreta quantità di indicazioni pratiche non solo su come si scrive un autobiografia, ma anche su come si può riuscire a pubblicarla. Abbiamo avuto a disposizione editor e agenti, i cui consigli sono sempre stati precisi e incoraggianti. Ma ogni volta che un corso arrivava alla fine, guardando quella cinquantina di volti pieni di speranza e di determinazione, capivo due cose e davo voce, nel modo più sincero possibile, almeno alla seconda: 1) la maggior parte dei nostri allievi, con molta probabilità, non sarebbe riuscita a pubblicare il proprio libro con una grande casa editrice (che fornisse un compenso) e 2) ogni singolo membro del gruppo avrebbe dovuto scrivere comunque la propria storia. “Fallo per te stesso”, dicevo – “e per quelli che verranno dopo di te o verrai dimenticato”. Ho continuato a ripetere queste parole per anni e ogni volta che le pronunciavo pensavo alle memorie messe su carta dal bisnonno Hawkins. A dire il vero, però, io non avevo letto il suo libro fino a quando avevo avuto ventidue anni o giù di lì. Mi ero però scontrato con una strana coincidenza: quando avevo cominciato a scrivere quest’introduzione, ne avevo cercato una copia, senza riuscire a trovarla, e alla fine l’avevo comprata da un libraio in Kansas. Ero rimasto senza parole quando avevo letto il primo paragrafo: Scrivo queste memorie senza aspettative e senza la presunzione che ci sia stato qualcosa nella mia vita che possa essere d’interesse per un vasto pubblico. Confido, tuttavia, nel fatto che i miei figli e i miei nipoti e i loro discendenti e una manciata di amici abbiano il desiderio di conoscere alcuni dei grandi cambiamenti che si sono verificati nel nostro stile di vita negli ultimi settant’anni, o che magari siano interessati a conoscere qualcosa delle difficoltà e delle privazioni che i loro antenati hanno sperimentato sulla loro pelle in quella parte del nostro Paese che oggi è conosciuta come Far West.

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Introduzione

Era stranissimo! Non ricordavo – proprio non ci riuscivo – l’incipit del libro di Hawkins eppure, tanti anni dopo, ero giunto alle stesse conclusioni: detto senza mezzi termini, l’importante è scrivere la propria storia. Quando, negli anni Novanta, le autobiografie acquisirono una maggiore visibilità – come genere che veniva letto e scritto – ci furono molte perplessità e interrogativi e si tentò, in modo diffuso ma frammentario, di analizzare il fenomeno. Come avviene ogni volta che una certa tendenza si manifesta – o si ha il sentore che stia per manifestarsi – poche di queste preoccupazioni si rivelarono fondate e la maggior parte dei teorizzatori sentenziò che le autobiografie sarebbero ritornate nel buio da cui erano venute a grande velocità, e a testa bassa. Ma, dal momento che il successo dell’autobiografia non accennava a diminuire, e poiché c’erano allora più aspiranti autori di autobiografie che in qualsiasi altra epoca, avevamo la prova che stava accadendo qualcosa a un livello molto profondo. Questo qualcosa ha a che fare con il diritto, e il dovere, to write one’s self into existence, cioè di riuscire a esistere attraverso la scrittura. Questa espressione «to write one’s self into existence» è stata usata molte volte, da molti scrittori, e si discute su chi l’abbia coniata. Io l’ho incontrata per la prima volta mentre leggevo Ghetto Celebrity di Donnell Alexander, un’autobiografia del 2003 che unisce liricità e sfrontatezza. Alexander è cresciuto a Sandusky, in Ohio. Figlio di una madre separata sopraffatta dal troppo lavoro e di un padre con un’irriducibile inclinazione alla truffa, riuscì a farsi strada sino alla Sacramento State university e lì cominciò a collaborare saltuariamente con il settimanale locale, cosa che lo condusse in seguito a una carriera da freelance e, infine, a siglare un contratto per un libro. Alexander sfrutta l’autobiografia per definire la sua identità e quella di suo padre, per celebrare i successi della famiglia e ridere delle proprie e altrui manie, il tutto raccontato sempre attraverso un linguaggio fortemente musicale. Ed è esattamente quello che Withman aveva in mente – giusto? – quando scrisse Song of Myself. Prima del successo dell’autobiografia era piuttosto diffuso il pregiudizio secondo il quale le uniche persone che potevano o dovevano scrivere le proprie memorie erano ex comandanti militari, stelle del cinema e presidenti – insomma, chi aveva vissuto in grande, almeno da un punto di vista storico. Questa diffusa opinione non teneva conto, ovviamente, del fatto che la maggior parte delle autobiografie che ricordiamo e che sentiamo più vicine sono state scritte da gente comune, senza alcun potere, la cui esistenza ci è nota solo perché loro stessi hanno lasciato traccia delle proprie storie. Cosa avremmo saputo dell’animo di un bambino soldato dei nostri giorni se Ishmael Beah non avesse riversato la sua vita in Memorie di un soldato bambino? Non c’è nulla che abbia la stessa immediatezza dell’autobiografia e sia capace di lasciare una

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testimonianza allo stesso modo. Quando, attraverso la sottile alchimia di esperienza diretta e artificio, il personale diviene universale, si sprigiona una forza dirompente; nessuno può sapere quale storia, per una volontà precisa o per caso, darà voce a un popolo o a un’epoca. Quando venne scoperto e proposto agli editori un manoscritto che descriveva la vita durante l’Olocausto in molti dubitarono che il pubblico lo avrebbe trovato interessante. “Molto noioso”, sentenziò un editor di Knopf. “un monotono diario di battibecchi familiari, insignificanti piagnucolii ed emozioni adolescenziali… Anche nel caso in cui quest’opera fosse venuta alla luce cinque anni fa, quando il tema era più attuale, non credo che avrebbe riscosso successo”. Questo libro era il Diario di Anne Frank. Nessuno, né questo editor, né la stessa Anne Frank, avrebbe potuto immaginare che sarebbe diventato il testo meglio conosciuto sulle sei milioni di anime che si persero nell’Olocausto. Le opere di Beah e Frank, al pari di quelle di molti altri autori di autobiografie, sono animate dal bisogno di lasciare una testimonianza, dal bisogno di dire “È accaduto questo” e “Ho vissuto quest’esperienza” e “Questo è ciò che ho provato, e questo è il modo in cui sono riuscito a sopravvivere”. Scrivere la storia di qualcuno significa offrire una prova della sua esistenza e anche se non si sono visti gli stessi orrori ai quali alcuni autori di autobiografie hanno assistito, non c’è nulla di più potente della voce che viene dalle pagine di un libro. Quando qualcuno mette le proprie parole sulla carta, e queste parole vengono lette giorni o anni dopo, si crea un’intimità che non si può ottenere in nessun altro modo. Mi rivolgo a quelli di voi che hanno perso i genitori: cosa dareste per avere la loro vita messa per iscritto? Cosa dareste per avere quella dei vostri nonni? Per conoscerli attraverso diecimila o centomila parole, tutte intime, sincere, vulnerabili, esultanti? Se hai del tempo a disposizione e vuoi che chi verrà dopo di te sappia come e per cosa hai vissuto, cosa ti ha guidato e cosa ti ha ferito, cosa hai visto e cosa hai temuto, devi scriverlo. Qualsiasi sarà il risultato, sarà comunque prezioso. *** Ora, se ti senti in grado di scrivere la tua storia, perché non farlo bene? Mettendoci un po’ di impegno in più, con qualche ritocco e limatura qua e là, decidendo in anticipo la struttura e infine sistemando un po’ il testo, potresti far sì che la tua storia non solo venga letta per rispetto da pochi (o molti) parenti, ma che diventi un piacere autentico per tutti coloro che vi si imbatteranno. È a questo punto che entra in scena questo manuale. La curatrice del libro, Jennifer Traig, è stata un nostro tutor sin da quando

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Introduzione

l’826 Valencia è stata fondata, nel 2002, e ha lavorato a ogni pubblicazione degli studenti promossa dalla scuola. È una persona straordinariamente generosa e anche una brava autrice di autobiografie. Nel suo libro Devil in the Details è riuscita a far sì che dei disturbi ossessivo-compulsivi tipicamente ebraici sembrassero normali e divertenti allo stesso tempo, e in questo libro cerca, insieme a quella che è forse la miglior squadra di autori di autobiografie mai messa insieme, di far apparire questo tipo di scrittura – una delle attività in apparenza più scoraggianti che esistano – qualcosa di realizzabile da tutti e in qualsiasi momento. L’ultima cosa che dirò per incoraggiarti a scrivere la tua storia non riguarda i tuoi bambini o le responsabilità nei confronti della storia in generale, ma il dovere che hai verso te stesso. Gli autori che in questo libro si occupano dell’argomento affrontano molto bene il tema e io voglio unirmi a loro nell’affermare che per quanto possa essere doloroso ritornare su certi episodi del proprio passato, il processo stesso di ricordare quei momenti, trarre una conclusione da ciò che hanno significato e quindi ricostruirli dando loro una forma nuova, può rappresentare non semplicemente una forma di terapia ma un’autentica rivelazione. Scavare, per uno o più anni, nel proprio passato, con un’attenzione particolare ai dettagli e all’organizzazione generale, cercando all’interno della propria vita percorsi e segnali e verificando di volta in volta l’efficacia della resa narrativa… Cosa ci potrebbe essere di più curativo di tutto questo? Tutti gli autori di autobiografie che conosco sono persone straordinariamente serene. A cominciare da Tobias Wolff. Tutti i lettori di Memorie di un impostore e di Il colpevole sanno che non ha avuto una vita semplice. Ma quando lo si incontra e ci si immerge nel suo calore, saggezza ed equilibrio, viene spontaneo volergli affidare, immediatamente e senza nessuna esitazione, i propri bambini, i propri animali e tutta la casa. Persino quegli autori di autobiografie che sono passati attraverso traumi devastanti sono persone straordinariamente gentili, solide e in pace con se stesse. Pensate a Frank McCourt, Anne Lamott, Maxine Hong Kingstone: li avete mai incontrati? Esistono forse persone più schive e amanti della riflessione, persone più serene e disposte ad ascoltare gli altri? Potrei aver esagerato nell’attribuire tutto questo al fatto che hanno scritto un’autobiografia, ma sarei sorpreso se almeno una parte della loro serenità non venisse dal fatto che trascorrono le giornate dando un ordine alle proprie storie, attribuendo una forma alla loro narrazione e conferendo un senso a ogni cosa. Perciò, scrivi per te stesso, o per te stesso e per chiunque altro possa imbattersi nella tua storia. Scrivi per dar prova che sei esistito, che hai visto cose, che hai sofferto, che sei passato attraverso il fuoco senza smettere di sorridere. Scrivi la tua vita perché l’hai vissuta. Come ultima, piccola testimonianza, voglio riportare un passo dalla fine del libro di Thomas Hawkins, un brano in cui compare un uomo dall’orizzonte meravigliosamente

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vasto e che, come atto finale della propria ricerca di esistenza attraverso la scrittura, ha pubblicato in proprio il suo libro, in un’edizione limitata. Finisce così: E mentre sono qui, al tramonto dei miei giorni, e guardo indietro al passato, sento chiaramente che una forma di Provvidenza ha guidato i miei passi lungo sentieri sconosciuti. Ho molto di cui essere grato. Non c’è nessuno in tutto il mondo verso cui abbia avuto un pensiero cattivo e confido nell’aver suscitato altrettanti buoni pensieri; sono stato benedetto dalla presenza di alcuni veri amici, il cui affetto fedele ha reso la vita degna di essere vissuta, bellissima. Quando guardo all’ignoto che mi attende, spero di poter continuare a vivere i giorni che mi restano agendo correttamente, nella misura in cui Dio mi ha dato la possibilità di vedere il giusto, senza paura, e confidando senza riserve nell’amore del mio Padre celeste e nella speranza della vita immortale che verrà. E spero che, fino alla fine, sarò in grado di ripetere queste parole:

Vivo per quelli che mi amano, per quelli che mi hanno conosciuto davvero; per il paradiso che sorride su di me, e attende il mio arrivo. Per gli errori contro cui bisogna opporsi, per la giustizia che bisogna sostenere, per la gloria che verrà e per il bene che posso fare. Così terminano alcuni dei ricordi di questa vita piena di eventi, uno schizzo della vita di T.S. Hawkins, di cui la Paul Elder & Company e la Tomoyoe Press della città di San Francisco hanno stampato per scopi privati trecento copie destinate all’autore, nel mese di agosto del millenovecentotredici.

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Come si scrive un’autobiografia a cura di Jennifer Traig € 18.00 Spedizione gratuita in italia La maggior parte delle autobiografie che ricordiamo e che sentiamo più vicine sono state scritte da gente comune, senza alcun potere, la cui esistenza ci è nota solo perché loro stessi hanno lasciato traccia delle proprie storie. Cosa avremmo saputo dell’animo di un bambino soldato dei nostri giorni se Ishmael Beah non avesse riversato la sua vita in Memorie di un soldato bambino? Non c’è nulla che abbia la stessa immediatezza dell’autobiografia e sia capace di lasciare una testimonianza allo stesso modo. Quando, attraverso la sottile alchimia di esperienza diretta e artificio, il personale diviene universale, si sprigiona una forza dirompente; nessuno può sapere quale storia, per una volontà precisa o per caso, darà voce a un popolo o a un’epoca. Se ti senti in grado di scrivere la tua storia, perché non farlo bene? Mettendoci un po’ di impegno in più, con qualche ritocco e limatura qua e là, decidendo in anticipo la struttura e infine sistemando un po’ il testo, potresti far sì che la tua storia non solo venga letta per rispetto da pochi (o molti) parenti, ma che diventi un piacere autentico per tutti coloro che vi si imbatteranno. È a questo punto che entra in scena questo manuale. pp. 220 17 x 24 cm ISBN: 978.88.96450.09.3 Traduzione: Alessandra Mulas

Acquista il libro qui: www.omeroeditore.it/catalogo/scrittura-creativa/come-si-scrive-unautobiografia

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IL CATALOGO DI OMERO

Scrittura creativa

Come si scrive un romanzo di genere (dal giallo alla fantascienza), M. Mongai Come si scrive un romanzo. Manuale di scrittura creativa a più voci, D. Alarcón Guida di Snoopy alla vita dello scrittore, B. Conrad, M. Schulz La palestra dello scrittore, E. Valenzi La palestra dello scrittore. Il ritmo e il movimento, E. Valenzi La palestra dello scrittore. Le parole e la forma, P. Restuccia Lezioni d’autore (appunti sulla struttura), J. Argüello Story. Contenuti, struttura, stile, principi per la sceneggiatura e per l’arte di scrivere storie, R. McKee Teoria e pratica della scrittura creativa, AA. VV. Voglio scrivere! (135 big mi dicono come), L. Annibaldi, C. Bertozzi, L. Pappalardo

Narrativa

Amore e sesso fantareale, AA. VV. Che drago sei?, M. Mongai Fantareale. Nuova antologia del racconto fantastico, AA. VV. Harold e Maude, C. Higgins Racconti carnivori, B. Quiriny Tutte le ombre del mare, J. Argüello

Tra la scrittura creativa e la narrativa

C’era una volta il West (ma c’ero anch’io), S. Donati

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