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AMBIENTE
IL RECETTORE ACE2 E LA TRASMISSIONE DEL COVID-19 TRA ANIMALI Il virus Sars-CoV-2 ha influito su diverse specie, molte delle quali sono a rischio estinzione
di Giacomo Talignani
Ipiù esposti sono i più a rischio. Il possibile contagio da coronavirus SARSCoV-2 non riguarda soltanto l’uomo ma anche centinaia di animali, molti dei quali oggi sono noti alle cronache - come stato di conservazione - per essere vulnerabili o a rischio estinzione.
In principio, col diffondersi della pandemia, dopo aver parlato della possibile trasmissione legata ai pipistrelli e animali ospiti ancora non identificati, l’attenzione di molti scienziati e dei cittadini si era concentrata sugli animali domestici. La domanda era se cani, gatti, conigli o altri animali da compagnia potessero prendere o diffondere il virus e la risposta fu, a parte per qualche sporadico caso, che i contagi erano ridotti all’osso e che non si correvano rischi con i propri amici a quattro zampe.
Discorso diverso per altri animali i quali, se si analizzano le caratteristiche genomiche, potrebbero essere esposti al rischio di essere infettati e ammalarsi. Per provare a rispondere alla domanda su quali specie siano più a rischio all’esposizione da SARSCoV-2 Harris Lewin e i colleghi dell’Università della California a Davis hanno realizzato uno studio basato sull’analisi biomolecolare e genomica, recentemente pubblicato su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences).
La ricerca prende in considerazione diverse specie di animali tra primati, mammiferi marini, rettili e uccelli, cercando di comprendere se la loro salute possa essere messa a repentaglio da possibili contagi. In tutto, sono state esaminate le caratteristiche di 410 specie, focalizzando l’attenzione sul loro recettore ACE2, di fatto la porta d’accesso del virus.
L’enzima di conversione dell’angiotensina-2, che permette l’accesso del virus nelle cellule, è presente in vari tessuti, tra cui quelli delle vie aeree. Nell’uomo, è composto da 25 amminoacidi determinati affinché il virus possa legarsi alla superficie delle cellule e penetrare, ma non è detto che la struttura di ACE2 negli animali sia simile.
Esaminando la presenza di amminoacidi e altri dettagli nelle 410 specie prese in esame i ricercatori hanno concluso che molte degli animali più a rischio per contagio - fra cui per esempio i primati che sono in cima alla lista - sono anche fra gli esseri viventi che già oggi siamo impegnati a proteggere dal rischio di estinzione o dal drastico calo delle loro popolazioni. Il 40% delle specie potenzialmente più vulnerabili al nuovo coronavirus è infatti tra quelle enunciate dallo IUCN (unione internazionale per la conservazione della natura) come minacciate o vulnerabili.
Sono a rischio ad esempio i fragili e protetti gorilla di pianura occidentale, ma an
Il 40% delle specie più vulnerabili al nuovo coronavirus è tra quelle considerate vulnerabili
che l’orango di Sumatra i cui habitat sono già stati devastati per le coltivazioni da cui si produce l’olio di palma, oppure il gibbone dalle guance bianche o ancora il bonobo. In una seconda fascia di rischio si trovano alcune specie di cervi, ma anche i tursiopi oppure le balene grigie o i criceti cinesi. In una fascia di rischio medio si possono invece individuare alcuni ovini e bovini, ma anche felini tra cui gatti o animali ormai rari come la tigre siberiana.
Basso, invece, il potenziale rischio da contagio per cani, cavalli, maiali o elefanti, e ancor più basso per alligatori o leoni marini. Chiaramente, per tutti, si tratta di stime del potenziale rischio, dato che la base della contagiosità è calcolata soprattutto su una analisi molecolare e sulla presenza di determinati amminoacidi.
«I dati forniscono un importante punto di partenza per identificare le popolazioni animali vulnerabili e minacciate a rischio di infezione da SARS-CoV-2 - spiega Lewin -. Speriamo che ispiri buone pratiche per la protezione della salute sia animale sia umana durante la pandemia».
«Queste nuove informazioni - aggiunge il coautore dello studio Klaus-Peter Koepfli, ricercatore senior presso la Smithsonian-Mason School of Conservation - ci permettono di concentrare i nostri sforzi e di pianificare le azioni per mantenere gli animali e gli esseri umani al sicuro».
Anche Joana Damas del Genoma Center dell’UC Davis, sempre fra i principali autori dello studio “Broad host range of SARS-CoV-2 predicted by comparative and structural analysis of ACE2 in vertebrates”,
evidenzia come «si prevede che gli animali con tutti i 25 residui di amminoacidi corrispondenti alla proteina umana siano a più alto rischio di contrarre la SARS-CoV-2 tramite ACE2. Pensiamo che il rischio diminuisca quanto più i residui del legame ACE2 della specie differiscono da quelli degli esseri umani». Per esempio «è stato riscontrato che animali domestici come gatti, bovini e
ovini hanno un rischio medio e cani, cavalli e suini hanno un basso rischio di legarsi all’ACE2. Il modo in cui questo si collega all’infezione e al rischio di malattia deve essere determinato da studi futuri, ma per quelle specie che hanno dati noti sull’infettività, la correlazione è alta».
Mentre in tutto il mondo si intensificano programmi di protezione per gli animali, e alcuni casi di contagio sono già stati registrati in visoni, ma anche criceti, leoni e tigri, l’analisi da poco pubblicata suggerisce che ci sono vari aspetti da tenere presente nel rischio di contagi fra animali. Per esempio «una minore propensione al legame potrebbe tradursi anche in una minore propensione all’infezione o in una minore capacità dell’infezione di diffondersi in un animale o tra animali una volta stabilitasi».
Gli scienziati concludo dunque che i «rischi effettivi possono essere confermati solo con dati sperimentali aggiuntivi», ma le prime indicazioni da loro osservate potrebbero già essere una buona base di partenza per esaminare e prevenire future malattie zoonotiche e la trasmissione fra uomo e animale, oltre che a concentrare gli sforzi per difendere gli animali più vulnerabili di fronte alla pandemia.