Op. cit., 72, maggio 1988

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maggio 1988

selezione

numero 72

-della critica. d'arte contemporanea

Architettura e mimesi - L'arte con temporanea nella collezione Saatchi L'arte applicata come «forma sim bo lica» - Libri, riviste e m os tr e edizioni

e

il centro »


Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Livio Sacchi, Sergio Villari Segretaria di redazione: Roberta Amirante Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 7690783 ,ministraz.ione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 - Tel. 684211 Un fascicolo separato L. 4.500 (compresa IVA) - Estero L. 5.000

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Edizioni ÂŤ Il centro Âť di Arturo Carola


C. LE.'IIZA

Architettura e mimesi

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L. SACCHI

L'arte contemporanea nella collezione Saatchi

G. D'AMATO

L'arte applicata come

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Libri, riviste e mostre

« forma

simbolica•

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Marcella Berardi, Paolo Carpeggiani, Michele Costanzo, Giuseppina Dal Canton, Roberto Pasini, Annamaria Sandonà.


La rivista si avvale del contributo economico dei seguenti Istituti ed Aziende: Alessi Alias Banco di Napoli Camera di Commercio di Napoli Cassina Driade

2CM

Informatica Campania Sabattini Zen Italiana


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Architettura e m1mes1 CETTINA LENZA

Alle numerose chiavi interpretative proposte per la lettura della fenomenologia architettonica, riteniamo possa utihnente aggiungersi il concetto di mimesi. Si tratta, com'è noto, di un principio che, mutuato dalla Poetica aristotelica e già fatto proprio dalla cultura rinasci­ mentale, ha accompagnato l'intero ciclo del classicismo, di­ venendo uno dei cardini della riflessione estetica tra Sette e Ottocento all'interno dei tentativi di nuova sistematizza­ zione teorica della produzione artistica. Ritenuta estranea all'ambito del pensiero cosiddetto moderno, la mimesi ne accompagna, con la sua ricomparsa, i momenti di declino e di crisi, riproponendosi, alla fine degli anni '70, in una serie di contributi che tendono a legittimare, come condizione ine­ vitabile dell'arte, il ritorno al già detto o al già fatto, unita­ mente alla stessa riedizione dei testi canonici della teoria dell'imitazione 1• In particolare, in architettura il recupero del concetto di mimesi sembrerebbe suggerito dalla innegabile intenzionalità rappresentativa delle ricerche in atto, nelle quali l'espli­ cita imitazione di modelli si sostituisce al presunto «vuoto» simbolico che caratterizzerebbe gli esiti del funzionalismo. Tuttavia ci proveremo ad indagare se il medesimo concetto di mimesi, debitamente articolato nelle sue differenze, non si presti ad una lettura continua tra premoderno e postmoder-

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no, sussistendo anche laddove apparentemente negato, in quanto proprio di una più generale definizione dell'architet­ tura. E ciò non per accogliere la tradizionale pretesa della mimesi di proporsi come categoria estetica universale, in grado di leggere il fenomeno dell'arte non nelle sue storiche determinazioni quanto nella sua essenza costitutiva, ma per­ ché tale essenza ci riporta all'ambito della semiosi, stabi­ lendo la necessaria compresenza di conformazione e rappre­ sentazione; sicché la verifica di tale principio equivale a met­ tere alla prova, anche per l'architettura, una più generale ipotesi linguistica. In prima istanza, ciò che permane costante nelle diverse definizioni del principio di imitazione - Imitare è copiare un modello 2 (Batteux), L'imitazione è la rappresentazione arti­ ficiale di un oggetto 3 (Milizia), Imitare, nelle belle arti, è produrre la rassomiglianza di una cosa, ma in un'altra cosa che ne diviene l'immagine 4 (Quatremère de Quincy), ecc. è la struttura binaria della mimesi, che opera mettendo in relazione due termini, un oggetto esterno e la sua rappresen­ tazione. Le proprietà comunicative del prodotto artistico - l'apprendimento e il piacere propri dell'esperienza estetica e radicati, secondo la lezione aristotelica, nell'atto mimetico connaturato all'uomo 5 - si fondano su di una duplice condi­ zione: quella, cioè, di riconoscere il referente nella rappre­ sentazione, ma anche quella di riconoscere la rappresenta­ zione in quanto tale. La produzione di senso relativa alla mimesi condivide ben poco con procedimenti illusionistici, non potendo identificare come linguaggio un atto che non viene riconosciuto come artificiale e intenzionale; il che con­ sente di distinguere la specificità della produzione artistica non solo dalla produzione naturale (atto spontaneo ed inin­ tenzionale), ma anche, per la riflessione estetica ottocentesca, dalla produzione meccanica, allorché il modello diviene pro­ totipo e l'oggetto conformato non è l'immagine del modello, ma la sua ripetizione 6• L'imitazione deve avvenire in modo che si conosca sempre la finzione 1; infatti, se il piacere che produce la vista di opere imitative proviene dall'azione del confrontare... si comprende



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Se è certo che l'architettura è di un altro ordine che non la poesia, la pittura e la musica u, l'intento di recuperarla allo stesso sistema impone di chiarire l'insieme di riferimento ri­ spetto al quale possa funzionare la mimesi, e dunque la co­ municazione nel suo processo di apprendimento-piacere. Com'è noto, l'ipotesi che accompagna la teoria della mimesi riconduce tutte le belle arti alla Natura, termine inteso però nella sua accezione più ampia, abbracciando tutto quello che è, o che noi concepiamo agevolmente come possibile U; Na­ tura· che si pone quale garante dell'intero sistema, dal mo­ mento che ad essa appartengono sia i mezzi espressivi dei singoli linguaggi che l'universo dei referenti possibili, e che è in grado di assorbire anche le produzioni di un'arte fanta­ stica, ovverosia quelle Idee gettate qua e là, senza seguito, senza legame, senza scopo, dei disordini dello spirito, in una parola dei sogni, che ad esempio Boullée vede rappresentate nelle follie di Piranesi, dal momento che ciò che si scorge in questo genere di produzione sono ancora gli oggetti della natura, oltraggiati o sfigurati, ma sempre oggetti della na­ tura 14, fonte unica di tutte le nostre idee. Inoltre, nei suoi rapporti con la Natura, la mimesi si pone non solo come categoria universale, ma anche quale principio normativo. Se cioè tutta la produzione artistica non può usci­ re dalla Natura, anche nelle sue manifestazioni deviate ed aberranti, essa, nel suo corretto cammino, deve perseguire l'imitazione di quei paradigmi ottenuti operando opportune selezioni. Ciò che occorre imitare è la natura non com'è, ma come potrebbe essere, ovverosia la « bella natura », costruita scegliendo le sue parti migliori - come insegna in traslato il meccanico procedimento di Zeusi, più volte richiamato ad esempio -, elevando il dato di base, traducendolo da refe­ rente in modello, da occorrenza concreta in tipo ideale. Cer­ to, l'arte e l'architettura in particolare possono avvalersi delle selezioni già operate all'interno della Natura dagli An­ tichi, il che consente di inserire nell'universo dei referenti possibili anche la Storia, semplificando notevolmente la sud­ detta aporia. t:: però inevitabile che, al tempo stesso, si inneschi, per verifica, un processo a ritroso, che tenti di recu-


perare un modello originario, attinto direttamente dalla na­ tura, al di là delle mediazioni successivamente stabilite dalla stessa teoria e pratica dell'architettura, facendo incrociare la questione della mimesi con il problema delle origini.• Nella sua apparente ingenuità e rozzezza, il modello pri­ mitivo della petite cabane rustique proposto da Laugier sod-. disfa entrambe le condizioni del concetto di mimesi, da un lato dimostrando che i principi dell'Architettura si fondano sulla pura natura - e dunque salvando la coerenza interna del sistema delle arti, esteso all'architettura -, dall'altro proponendosi come modello normativo, approssimandosi al quale, nella mimesi architettonica, sarà possibile evitare i difetti più radicali e raggiungere l'autentica perfezione 15• Tuttavia, com'è stato notato, il modello non riesce ad essere veramente originarlo. La capanna non è un prodotto natu­ rale. � già di per sé un manufatto, seppur « primitivo • 16; anzi, nella descrizione della costruzione originaria, il ricorso ai rami divelti segna proprio il passaggio dalla condizione naturale a quella artificiale, attraverso una trasformazione intenzionale operata dall'uomo che caratterizza specificamen. te l'archetipo della capanna rispetto a quello della grotta, che resta interamente naturale 17• Dunque, nella versione di Laugier l'architettura mimetizza in un modo molto partico­ lare: imita la natura solo al secondo grado 18, affermando l'im­ possibilità di risalire ad uno stadio interamente naturale, che preceda l'uomo e la Storia - ad un grado zero dell'imi­ tazione -, caratterizzando l'intera architettura classica come un sistema di ripetizioni. Ciò posto, ed ammesso che la pretesa dei rigoristi non è quella, come ironizza Piranesi, di mandarci a stare in quelle capanne, dalle quali alcuni han creduto che i Greci abbian preso norma nell'adornare la loro Architettura 19, si tratterà comunque di individuare come la cabane rustique possa pro­ porsi a modello, pur nella sua traduzione in materiali dif­ ferenti e nella specificazione ed arricchimento di elementi ,formali. Secondo Quatremère de Quincy, la capanna è l'unica, tra le costruzioni primitive, a poter fungere da modello all'imitazione in quanto essa rappresenta un tutto già legato 9


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da rapporti necessari, un insieme composto di parti subor­ dinate al principio della necessità. Per l'autore la nostra ca­ panna modello è un sistema di teoria fondato indubitata­ mente sul fatti primitivi, ma divenuto piuttosto una spede di « canone » fittizio ad un tempo e reale 20• Di conseguenza, se ... l'architettura è un'arte di imitazione, non lo è già per aver conservato, abbellendole, le forme grossolane delle prime abitazioni che il bisogno aveva suggerito nella infanzia della società, ma sibbene perch'essa Imita la natura nelle leggi che si è da se medesima prescritte; perché agisce cogli stessi mezzi e coi processi di cui le ha involato il segreto; perché si è appropriata di quelle cause misteriose che ci fanno provare, alla vista di certi rapporti e di certe combinazioni, delle sen­ sazioni piacevoli o dolorose 21• Da qui la possibilità di reintrodurre legittimamente l'ar­ chitettura nel dominio della mimesi. Cl si sbaglierebbe pre­ tendendo di attribuire il nome di arte di « imitazione » solo a quell'arte che ha nella natura fisica un modello positivo e materiale. E ciò in quanto imitare non significa... necessaria­ mente creare l'immagine o produrre la somiglianza di una cosa, di un essere, di un corpo o di un'opera data, giacché si. può, senza Imitare l'opera, imitare l'artefice. Si imita dunque la natura facendo come lei, cioè non replicandone l'opera pro­ priamente detta, ma appropriandosi dei principi che servi­ rono di regola a quest'opera, cioè del suo spirito, delle sue in­ tenzioni e delle sue leggi 22• Quello che emerge dalla soluzione così proposta è che quindi esistono due diverse maniere in cui l'arte può imitare la natura 23: una mimesi morfologica, evidente e superficiale, ed una mimesi più astratta e profonda, che chiameremo strut­ turale. In tutta la tradizione classica, e fino al classicismo ottocentesco, le due mimesi erano risultate indissolubilmente congiunte; la stessa capanna primitiva, rispondendo ai quesiti fondamentali ed altrimenti irrisolti dell'epoca, e cioè a che cosa dovesse somigliare l'architettura, quali dovessero esser­ ne le forme e come le parti dovessero porsi in rapporto le une con le altre 24, ne aveva rappresentato l'estrema e schematica sintesi, modello in grado di regolare sia la forma


esterna (o figura) di un'opera architettonica, che la sua forma interna, nel senso di organizzazione o struttura. La distinzione tra i due tipi di mimesi, chiaramente for­ mulata nell'Ottocento, allude ad una possibilità di scelta, e preannuncia lo rottura di un equilibrio, che apre alla ricerca architettonica strade difficilmente ricongiungibili. Fatta ecce­ zione per l'Art Nouveau, non a caso riferita ad una formu­ lazione teorico-psicologica, come quella dell'empatia, non poco tributaria di una rinnovata concezione di mimesi, il pensiero architettonico moderno si limita ad operare su uno solo dei due termini. Ne è prova il contributo tra i suoi più tipici, il funziona­ lismo, che, col suo richiamo a leggi organiche di crescita, di comportamento dei materiali, ecc., realizza un rapporto di mimesi profonda con la natura. Anzi, dalle sue matrici tardo ottocentesche e fino all'ortodossia degli anni Venti del nostro secolo, la ricerca architettonica è addirittura caratte­ rizzata da un'accentuata enfasi nel richiamo alla natura, mo­ dello tanto per l'opera di Wright che di Le Corbusier. In­ dubbiamente ci troviamo di fronte a differenti interpreta­ zioni, ad una natura simile a quella degli esseri viventi o a quella delle macchine; ma si tratta appunto delle due possi­ bilità consentite dal funzionalismo, se è vera la divisione proposta da Greenough del termine « organico ,. .in due acce­ zioni: naturale, come nei corpi degli animali, e meccanico, come in una nave 25• Entrambe forniscono modelli adeguati all'architettura: dalla prima nasce quella struttura-modello articolata a vista e visibile nell'edificio com'è visibile nella struttura degli alberi o in un giglio dei campi u; dalla seconda scaturiscono le « macchine per abitare », rispondenti a quel criterio dell'armonia che costituisce l'asse sul quale necessa­ riamente si allineano tutti i fenomeni o tutti gli oggetti della natura, e al quale devono tendere le stesse opere del calcolo. Per Le Corbusier, se mediante il calcolo l'aeroplano prende l'aspetto di un pesce, di un oggetto della natura, vuol dire che ritrova il suo asse 11• D'altronde, la natura è presente nelle trasposizioni ardite delle opere dell'uomo, e tanto più rigorosamente quanto più il problema è difficile. Le creazioni

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della tecnica macchinista sono « organismi » tendenti alla pu­ rezza e soggetti alle stesse regole evolutive degli oggetti della natura che suscitano la nostra ammirazione 28• Occorre tuttavia sottolineare una differenza: se la natura permane come modello, essa non rinvia più ad un principio esterno, al quale richiamarsi nell'ambito, come si è detto, di un sistema di ripetizioni, ma viene radicata all'interno dell'architettura. Il naturale non è più ricerca di un mo­ mento arcaico, originario, perché l'origine è quella stessa dell'edificio, legata di volta in volta al suo farsi, espressione diretta della sua forza essenziale, generativa, nel senso che l'atto del fare non si « riferisce » semplicemente alla natura, ma « è » la natura stessa 29• Si rinuncia così ad ogni « teoria delle origini» e si instaura al suo posto un'ontologia di rap­ presentazione, che muta radicalmente i termini della mi­ mesi, rapportata, in ogni circostanza, ai principi dell'edificio. Ma come avviene la visualizzazione di tali principi, come si regolano gli aspetti figurali di un'architettura che, rinun­ ciando a modelli esterni, vuole essere ricondotta alle sue sole componenti? In proposito, non è vero che è finita ogni forma di mimesi; per la comunicazione l'atto mimetico rimane In­ dispensabile; c'è solo, e non è poco, l'assunzione di nuovi modelli, aventi le caratteristiche... di non essere naturali, né storici, ma tecnologici 30• L'elevazione a modello di una nuova natura artificiale, quella del mondo industriale - e dunque delle macchine, dei piroscafi, degli aeroplani - non manca infatti di denunciarsi attraverso tratti morfologici, sorta di indizi di un processo mimetico profondo che affiora di quan­ do in quando alla superficie. Tuttavia, si deve notare che il rapporto con il nuovo universo produttivo, al quale l'archit­ tura cerca di integrarsi anche materialmente con i suoi pro­ cessi di standardizzazione, prefabbricazione, ecc., si stabili­ sce piuttosto per contiguità che per similarità. Più in generale, l'intento di sostituire ad un insieme di referenti esterni i soli referenti interni dell'architettura si imbatte nella difficoltà di assumere come tali funzione e costruzione. E ciò anzitutto per il carattere non formale né visivo della funzione, nep pure immediatamente formalizza-


bile o visualizzabile, a meno di non ricorrere a mediazioni, come quella offerta dalla nozione di tipo, che, tramite la propria ipostatizzazione, aveva legato determinate forme a determinate destinazioni, costituendo la convenzione in grado di assicurare la comunicazione sociale delle funzioni. Ma tale soluzione viene esclusa proprio dagli assunti del funziona­ lismo, nel momento in cui era stata teorizzata una fusione naturale (naturale nel senso di costitutiva) tra la funzione e la forma dell'edificio. La rigorosa interpretazione dell'as­ sioma funzionalista, come rapporto di causa/effetto tra uti­ lità e apparenza, fa emergere le caratteristiche uniche di ogni circostanza progettuale, richiedendo che ad esse si risponda con soluzioni altrettanto specifiche ed escludendo così di po­ tersi avvalere di una preesistente iconografia dei tipi. Riman­ dando il processo progettuale ad una sempre nuova origine, corrispondente all'individuale natura dell'edificio, si costringe l'architettura a pensare sempre daccapo, senza poter profit­ tare del passato o della Storia, e senza neppure poter codi­ ficare i propri contributi 31• Si giunge cosi a conformazioni inevitabilmente irripetibili, salvo che, per rispondere alle esi­ genze di una produzione di massa, non si sostituisca, all'og­ getto spaziale unico, non il tipo, ma addirittura il prototipo, il cui valore di modello è rapportato ad una teoricamente infinita ripetibilità, che prescinda dalle circostanze e dai contesti, alla possibilità, cioè, di generare quelle repliche identiche che, però, annullano la dialettica costitutiva della mimesi. Ad analoghe difficoltà conduce la riduzione alla pura forma costruttiva, nel momento in cui essa è venuta ad innovarsi profondamente, rinunciando ai consueti referenti impliciti nell'edificio in muratura, a partire dal corpo umano e da tutti i significati relativi, rivissuti in modo empatico: peso, sviluppo verticale e ascensionale, organizzazione simmetrica, sforzo dei sostegni, aperture-orifizi per le interrelazioni ester­ no/interno, ecc. Ma, oltre che nel ricorso a nuovi sistemi costruttivi, i prlml effetti dell'evoluzione industriale nell'edilizia si manifestano in questa tappa primordiale: la sostitu­ zione dei materiali naturali con i materiali artificiali, del 13


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materiali eterogenei e discutibili con i materiali omogenei e provati in verifiche di laboratorio e prodotti con elementi stabiliti 32• Quanto più dall'edificio che cresce dalla terra di Wright, per il quale la terra stessa è sempre stata una com­ ponente essenziale dell'edificio 33, ci spostiamo verso il polo artificiale, lo spazio per gli attributi semantici si riduce ul­ teriormente. Lo prova la più esasperata espressione di questa impostazione macchinista, quell'architettura High-Tech, estre­ ma filiazione del funzionalismo moderno, dove il privilegia­ mento esclusivo dei prodotti di sintesi (vetro, acciaio, pla­ stica) nei confronti dei materiali tradizionali, rifiutati per la loro impronta di « naturalità » contraria all'ideologia indu­ striale che si vuole trasmettere 34, non risolve interamente la questione dell'immagine, costretta al supporto di riferimenti figurali attinti al mondo protoindustriale, o all'esagerata e quasi animistica enfatizzazione degli elementi tecnologici ed impiantistici. Per risolvere i problemi dell'aspetto rappresentativo del­ l'architettura si ricorre nuovamente alla mimesi quale media­ tore formale, senza poter però resuscitare quell'accordo tra imitazione morfologica e strutturale irrimediabilmente com­ promesso quale prezzo pagato alla rivoluzione industriale ed al progresso tecnologico. L'inevitabile contraddizione tra struttura e simbolo, specie nella sua più corrente condizione di simbolo storico, è ribadita da Robert Venturi; per l'autore, gli edifici rinascimentali, ad esempio, erano costruiti più o meno come gli edifici romani che essi imitavano..., mentre gli edifici revivalisti degli ultimi due secoli erano quasi iden­ tici nel modi costruttivi agli edifici copiati - gotici, classici o rinascimentali -, a meno di pochi elementi in acciaio o in ghisa inseriti nella muratura. Di conseguenza, i conci agli angoli di un prospetto « potevano » essere strutturali in una facciata rinascimentale o revivalista, anche se « erano » ap­ plicati; ma non ora, perché noi costruiamo differentemente. Noi vediamo anche differentemente. Non desideriamo armo­ nia tra struttura e simbolo se essa è forzata o falsa. Se slamo Infine abbastanza « Postmoderni » per accettare la contraddizione strutturale e formale, slamo ancora sufficientemente


« Moderni » per rifiutare la « disonestà » strutturale e for­ male 35• Svincolatasi dunque completamente dalla struttura, la forma può perseguire autonomamente i suoi scopi rappre­ sentativi e simbolici, appoggiandosi, per ripristinare quella comunicazione perduta, ad una nuova teoria dell'imitazione. Divenuta esclusivamente morfologica, la mimesi si esaurisce nel semplice recupero di figure, prelevando a piene mani immagini da quell'universo di referenti possibili che com­ prende le nozioni di natura e storia; recupero addirittura fisico, talvolta, come nel caso di involucri storici svuotati ed adibiti ad una nuova organizzazione spaziale da Osvald Ma­ thias Ungers (il Museo d'architettura a Francoforte) o da Charles Gwathmey & Robert Siegel (la Whig Hall a Prin­ ceton), ecc.; o che può condurre l'imitazione fino alla ri­ presa di progetti interrotti (le proposte di Leon Krier per il completamento del progetto vanvitelliano della Reggia di Caserta o di Robert Krier per la via trionfale a Karls­ ruhe, ecc.). Ad emergere è anche una nuova « tecnica » dell'imitazione. Secondo Charles Jencks, con le tecnologie dell'esatta riprodu­ zione e la quasi totale documentazione disponibile in museo, biblioteca e collezioni di diapositive, un revival preciso è più semplice che nel passato._ Come dimostra li recente Getty Museum, i frammenti delle ville pompeiane possono essere ricreati con un'accuratezza che è, se possibile, maggiore del­ l'originale 36• Siamo ben oltre, dunque, il semplice citazio­ nismo, forma retorica· di una mi.mesi che si limita solita­ mente a procedimenti metaforici o metonimici, esibendo il recupero di singoli elementi o motivi, ma che può giungere fino alla rappresentazione puntuale del modello, come per la categoria, proposta sempre da Jencks, del Classicismo Super­ realista di Quinlan Terry o, per certi versi, di Allan Greenberg. Ciò che va sottolineato in simili esempi, che conducono alle estreme e paradossali conseguenze il processo della mi­ mesi, è la chiara consapevolezza delle regole del gioco. Il classicismo senza tempo della Waverton House di Terry si denuncia come rappresentazione grazie alla presenza di al- 15


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cuni dettagli (l'esiguo spessore della cornice e la sagoma delle finestre laterali); la Smyth House a Charlotte di Gerald Allen, il cui prospetto riprende l'immagine di una celebre residenza georgiana settecentesca, ne modifica la scala degli elementi, restituendo l'impressione di una casa di bambole 37 ; nell'abitazione di campagna, progettata da Venturi e Rauch sul modello di quella di George Washington a Mount Vernon - edificio simbolo tra i più noti per la cultura americana si conservano tutti i motivi compositivi pertinenti, ivi com­ presa la dissimmetria del corpo centrale, dovuta nell'originale ad una sovrapposizione di interventi, ma si modificano le proporzioni tra le parti e si alleggeriscono alcuni dettagli ornamentali. Abbiamo volontariamente concepito questa abitazione con qualche inesattezza storica, sostiene Venturi, in modo da aumentare la sua carica simbolica, perché l'apprensione di riconoscere un oggetto familiare e la sua impercettibile sop­ pressione possono renderlo ancor più familiare 31• Le varia­ zioni apportate al modello ed introdotte come lievi differenze dell'immagine (le « imprecisioni consentite ,. ) sono tali, in­ somma, da permettere il riconoscimento del modello, ma da produrre al tempo stesso la coscienza della mimesi. Per Ven­ turi, come nella più rigorosa teoria dell'imitazione, il trompe­ l'oeil è valido solo se si denuncia come tale, non privando l'osservatore di quell'apprendimento-piacere che gli deriva dal confrontare, percependo, nelle differenze, lo spazio spe­ cifico della finzione linguistica. In questo modo, l'architettura postmodernista riduce la mimesi ai suoi caratteri edonistici ed intellettualistici; ciò che si è lasciato cadere è l'istanza etica, quella rispondenza ad un sistema di ragione e di verità di cui la natura ha dato modello in tutte le sue opere 39, condivisa da tutti coloro - dagli illuministi, ma fino a Wright e Le Corbusier - per 1 quali la costruzione permane come atto morale. Forse, un tentativo per una nuova architettura, dove i meccanismi lin­ guistici possano tornare ad essere conformativi e rappresen­ tativi insieme, deve passare attraverso il recupero di un processo unitario di mimesi, che ricomponga, nell'operazione


progettuale ricondotta ad un sistema di modelli, imitazione superficiale e profonda, referenti morfologici e strutturali.

1 Tra queste, la ristampa anastatica: A. C. OUATREMl:RE DE Qu1NcY,

De l'imitation, 1823, Archives d'Architecture Moderne Bruxelles 1980

significativamente accompagnata da un'introduzione di L. Krier e o'. Porphyrios. 2 Ch. BATTEUX, Les Beaux Arts réduits· à un mème principe (1746); trad. it., Le Belle Arti ricondotte ad unico principio, Il Mulino, Bologna 1983, p. 44. J F. MILIZIA, Principi di Architettura civile, Bassano 1785, p. TI. • A. C. OUATEM1'RE DE Qu1NCY, Essai sur la nature, le but et les moyens de l'imitation dans les Beaux-Arts, Paris 1823, p. 3. s Cfr. Aristotele: « si prova piacere nel vedere le immagini, perché succede che osservando s'impara, e si discute che cosa rappresenta ciascuna e si conclude per esempio che questa figura è il tale • (Del­ l'Arte poetica, 4,2; ed. a cura di C. Gavallotti, Mondadori, Milano 1974, p. li). 6 A. c. OUATREM.È!E DE QuINCY, op. cit., p. 3. 7 F. MILIZIA, Dizionario delle Arti del Disegno (1797), Milano 1802, voce Architettura. 8 A. c. OuATREMl:RE DE OUINCY, op. cit., pp. �9 lvi, p. 12. 10 Cfr. Aristotele: « quando una cosa non si è già vista prima non produrrà tale piacere in quanto imitazione di un oggetto, tuttavia lo produrrà per la lavorazione o per il colore o per un motivo del genere• (op. cit., p. li). 11 Per la rivalutazione del contributo di Charles BattelL"t al pro­ blema del sistema delle arti, si rimanda non solo alla Presentazione di Ermanno Migliorini alla traduzione italiana (op. cit.). ma già al capitolo L'estetica fra Seicento e Settecento sempre di E. Migliorini, in M. DUFRENNE, D. FORMAGGIO, Trattato di estetica, Mondadori, Milano 1981, pp. 181-183. 12 F. ALGAROTTI, Saggio sopra l'Architettura (1756), Milano 1831, p. 493. 13 Ch. BAlTEUX, op. cit., p.. 44. 14 E. L. Boul.LllE, Architecture. Essai sur l'art (ms. fine sec. XVIII); trad. it. Architettura. Saggio sull'arte, Marsilio, Venezia 1m. p. 64. Addirittura, per Boullée, « l'architettura, nei suoi rapporti con la natura, è ancor più avvantaggiata delle altre arti•; il che si traduce nella pos­ sibilità dell'architetto di « essere colui che mette in opera la natura•• producendo (ma non riproducendo) disposizioni di masse, effetti di luce, ecc., in grado di suscitare in noi una esperienza analoga a quella offerta dalla Natura (cfr. ivi, pp. 62 e �5). ts M. A. LAUGIER, Essai sur l'Arcl1itecture (1753, 1755); trad. it. Saggio sull'architettura, Aesthetica, Palermo 1987, pp. 47-48. Per una discussione sui principi !augeriani si rimanda a G. BEKAERT, Intro­ ductio11 all'edizione integrale, Bruxelles 1979, ed alla Presentazione di V. UGO alla citata edizione italiana. Sempre di V. UGO, Une hutte, une clairi�re (ou le lieu d'une architecture théorique), in « Critique• nn. 476-77, 1987. Per un breve raffronto si rimanda alla recensione, curata da chi scrive, su • Op. cit. • n. 70, 1987. 16 G. TEYSSOT, Mimesis dell'architettura, saggio introduttivo in A. C.

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QuATR!!Ml;RE DB Qu1NCY, Dizionario storico· di Architettura, Marsilio, Venezia 1985, p. 16. 17 Interessante l'osservazione che, invece, « la capanna, nel fronte­ spizio dell'edizione del 1755, non ha ancora cessato di essere 'naturale' in quanto gli elementi verticali sono ancora radicati nel terreno »; W. A. Mc CLUNG, Tlze Architecture of Paradise. Survivals of Eden and Jerusalem (1983); trad. it., Dimore celesti. L'architettura del Paradiso, Il Mulino, Bologna 1987, p. 150. 18 G. TEYSSOT, op. cii., p. 16. 19 G. B. PIRAl\'ESI, Parere su l'Architettura, unito alle Osservazioni di Giovan Battista Piranesi sopra la Lettre de Monsieur Mariette... ,

ecc., Roma 1765, in « Controspazio • n. 8-9, 1970. 20 A. C. QuATREMÈRE DE QuINCY, Dizionario... , cit., voce Capanna. 21 /vi, voce Architettura. 22 Ivi, voce Imitazione. 2l Ibidem. 24 E. ICAUFMANN, Architecture in tlze Age of Reason. Baroque and Post-Baroque in England, ltaly and France (1955); trad. it., L'archi­ tettura dell'Illuminismo, Einaudi, Torino 1971, p. 120. 2S Per questa osservazione, cfr. W. A. Mc CLUNG, op. cit., p. 164, che rimanda a H. GREEN0UGH, Form and Function: Remarks on Art, Design and Arcltitecture (1843), University of California Press, Berkeley­ Los Angeles 1947, pp. 57-61. 26 F. LI. WRIGHT, Tlte Natural House, Horizon Press, New York 1954, p. 65; cit. in w. A. Mc CLUNG, op. cit., p. 165. r, LB CoRBUSIER, Vers une Architecture (1966); trad. it., Verso una architettura, Longanesi, Milano 1979, pp. 165-170. 28 Ivi, p. 80 (la sottolineatura è nostra). 29 D. PoRPHYRI0S, The play of Styles, in « Oppositions » n. 8, 1977 (la sottolineatura è nostra) . .lO R. DB Fusco, Storia dell'architettura contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 242. 31 D. PoRPHYRIOS, op. cit. 32 LB CoRBUSIER, op. cit., p. 192. ll F. LI. WRIGHT, op. cit., p. 49. 34 Su questo aspetto cfr. C. DAVIES, Le High-Tech n'est-i/ qu'un style?, in « L'Architecture d'aujourd'hui • n. 237, 1985. lS R. VENTURI, Diversity, relevance and representation in historicism, or plus ça change, in « L'Architecture d'aujourd'hui » n. 223, 1982. 36 Ch. JENCKS, Post-Modem Classicism. The New Sy11tl1esis, Archi­ tectural Design and Academy Editions, London 1980. 37 Per il progetto cfr. la scheda relativa in « L'Architecture d'aujourd'hui • n. 186, 1976. 38 R. VENTURI, Projet d'habitation rurale, in « L'Architecture d'au­ jourd'hui » n. 206, 1979. 39 A. C. QuATREMÈRB DE QUINCY, Dizionario storico, cit., voce Imi­ tazione.

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L'arte contemporanea nella collezione Saatchi LIVIO SACCHI

La collezione Saatchi è oggi fra le più grandi e interessanti raccolte private di arte contemporanea. I Saatchi sono per­ sonaggi emblematici dell'odierno mondo dell'arte: vere stars, la loro presenza fa notizia; le loro scelte, spesso emotive, sempre legate alle mode culturali newyorkesi, influenzano in maniera decisiva l'andamento delle quotazioni. All'interno della collezione, visitabile nella rinnovata sede di Boundary Road, a Londra, sono rappresentati oltre cinquanta artisti, fra i più significativi esponenti delle principali tendenze, con lavori che spaziano in un arco di tre decenni, dagli anni '60 ad oggi. Un catalogo in quattro volumi, Art of Our Time, che rispecchia le quattro sezioni in cui la curatrice, Julia Emst, ha suddiviso la collezione, ne presenta le opere, do­ cumentando un grande capitolo, in parte ancora da scrivere, della storia dell'arte del nostro tempo. La cronologia parte, come s'è detto, sostanzialmente dai primi anni Sessanta. Ma, sulla scena dell'arte, le novità erano già nell'aria sin dagli anni Cinquanta, con l'avvenuto sposta­ mento del baricentro del mondo da Parigi a New York, con l'espressionismo astratto, la scuola di New York, con quella che fu vista come una specie di età dell'oro. Agli inizi degli anni Sessanta Jackson Pollock e Willem de Kooning erano personaggi mitici, avvolti nell'aura della loro leggenda; Roth­ ko, Jasper Johns e Bob Rauschenberg erano già considerati dei grandi maestri, mentre Warhol e Frank Stella raccoglie-

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vano i primi riconoscimenti a scala mondiale. Questa l'atmo­ sfera in cui prende a formarsi la collezione. I Saatchi partono dal momento in cui prende corpo la linea, estrema, della ridu­ zione del linguaggio artistico: siamo alla nascita del minima­ lismo. Ma, al tempo stesso, la loro attenzione comincia a ri­ volgersi ad altri artisti, che operano all'interno del nascente mondo della Pop Art. Di qui si delinea, con prepotenza, la reintroduzione della figurazione, dopo l'azzeramento provoca­ to dall'arte moderna e giunto, con la riduzione minimal, ad un cul-de-sac oltre il quale era impossibile andare senza una ra­ dicale inversione del senso di marcia. L'ondata pop si estin­ guerà presto, ma la figurazione resterà, sempre più chiara­ mente legata alla restaurazione di una forma di espressioni­ smo classicista, più o meno variegato in filoni di volta in volta metafisici, narrativi, trans-avanguardisti, fino alle più recenti ridondanze ed al più dichiarato commercio con la storia. La collezione Saatchi documenta, con chiarezza, tutto ciò. Ci offre, forse inconsapevolmente, la testimonianza diretta di un percorso, quello imboccato dall'arte contemporanea, che dal­ l'azzeramento dei valori proposto dagli esiti estremi della modernità, conduce sino all'odierna condizione di una matura e consapevole instabilità, vissuta all'insegna della continuità con la tradizione classica dell'Occidente. Ma è anche una col­ lezione dichiaratamente legata al mercato dell'arte. Ignora sistematicamente tutte le esperienze contemporanee (e sono molte) non immediatamente collegabili ad un valore di scam­ bio, privilegiando esclusivamente opere commerciabili di pit­ tura e scultura. 1:. inoltre, come abbiamo accennato, il frutto della cultura di New York, preda di sempre più rapide ed incontrollabili· oscillazioni del gusto. 1:. il frutto di un atteg­ giamento elitario, consapevole di occupare uno spazio di as­ soluta sovrastrutturalità, artefice e al tempo stesso vittima delle mode più. aggressive e devastanti. New York è citta dove in fondo manca un vero dibattito; l'aspetto centrale e imprescindibile del suo modo di fare cultura è nellà promo­ zione e nell'avvicendamento mediale delle mode artistiche. È una condizione estrema che consente agli artisti "di trovare spazi e fortune impensabili un tempo, ma che ne condiziona


e nevrotizza intollerabilmente l'esistenza. Ancor prima dei trent'anni chi non è al centro si sente centrifugato ai mar­ gini, ignorato, fallito. Chi invece, spesso grazie all'intrapren­ denza (non disinteressata) di critici e galleristi, va sotto i riflettori, vive nell'artificialità di un successo improvviso quanto effimero. Il business è tutto, e l'unica legge che mi­ sura i valori è quella del mercato. La collezione Saatchi è anche tutto questo. Ma procediamo con ordine. La prima sezione è interamente dedicata ai minimalisti. La nascita del movimento va fissata nella seconda metà degli anni '60. L'arte minimal costituisce, accanto alla Pop Art, il prodotto estetico dominante per almeno due decenni ed al tempo stesso una delle più importanti rivoluzioni nell'idea stessa di arte che la storia moderna abbia registrato. Schjeldahl ricorda: Il fulmine del minimalismo mi colpì nel marzo del 1966, quando, entrando nella Tibor de Nagy Gallery, vidi alcuni mattoni sul pavimento: erano disposti in otto ordinate composizioni. Staranno costruendo qualcosa, pensai, e ml voltai per andarmene. Ma un pensiero mi fermò: e se fosse arte? Non osando sperare in qualcosa di così bello (trattenevo il respiro), chiesi ad una persona della galleria e fui rassicurato, sì, si trattava di una mostra di sculture di Cari Andre. Ero in estasi. Esaminai i mattoni con una sensazione di trionfo 1• Parole che oggi ci fanno sorridere, ma che descri­ vono perfettamente la rivoluzione ''che si andava innescando. Fra i numerosi minimalisti rappresentati all'interno della collezione Saatchi è possibile distinguere almeno quattro gruppi di artisti. Il primo include la generazione e storica»:· oltre a Carl Andre, appena incontrato, abbiamo la star più celebrata, Donald Judd, e poi Dan Flavin, Sol LeWitt e Robert Morris. C'è poi un secondo gruppo, d'estrazione californiana, caratterizzato dal cosiddetto L. A. look: si tratta di John McCracken e Larry Bell. Abbiamo poi i minimalisti della seconda generazione, quelli che completano e in qualche caso perfezionano la lezione dei maestri: due i nomi in evidenza, Bruce Nauman e ·Richard Serra, oltre alla scomparsa Eva Hesse e a Richard Tuttle. C'è infine il quarto gruppo, che comprende una serie di pittori un po' impropriamente acco-

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munati alla sfera minimalista: Agnes Martin, Robert Ryman, Brice Marden, Jo Baer e Robert Mangold. Insofferente verso ogni classificazione, persino verso la stessa etichetta minimal, Don Judd ne costituisce la quintessenza agli occhi dei più. I suoi oggetti sono la versione tridimensionale delle superfici di Stella, costringono il gusto dello spettatore ma non ri­ nunciano ad una piacevole, disciplinata eleganza. Il lavoro di Judd, pur trascendendone i confini, è esemplare per la comprensione dei valori culturali dell'America di quegli anni: non a caso ha fortemente condizionato la ricerca architetto­ nica tardo-moderna. Se Judd è il grande orchestratore delle tensioni visive e fisiche di chi si misura con l'arte, Sol LeWitt è stato visto piuttosto come l'Ariele del Minimalismo 2, figura aerea e inafferrabile, il cui lavoro si carica oggi di nuovi significati, se lo si mette in relazione con le recenti ricerche del pensiero de-costruttivista, specialmente con i rarefatti e spiazzanti risultati dell'ala architettonica di esso. Materici e gravi, naturalistici e densi sono invece i lavori di Morris, il Calibano del gruppo, per non uscir di metafora, inquietante e terrestre, che anticipa sorprendentemente certe rudezze di Beuys, non solo nella concretezza delle manifestazioni este­ riori, ma anche nell'interiorità del portato poetico. Monotone e continue si presentano infine le opere di Carl Andre, per il quale sembra valere in particolare ciò che è poi vero per tutta l'arte minimal: lo shock del momento denuncia subito la sua irriproducibilità e la vita stessa di questi lavori finisce con l'oscillare fra tale polo iniziale e quello opposto dell'in­ teresse filologico, oggi prevalente. Solare, rilassato, più indul­ gente e piacevole, il minimalismo californiano di McCracken e Bell ripropone le trasparenze e quel colorismo artificiale e un po' caramelloso onnipresenti a Los Angeles. Di qui il nome di L. A. look, quasi in contrapposizione al N. Y. look che faceva invece del bianco integrale delle gallerie di Man­ hattan l'ambiente ideale per il montaggio delle fredde, mi­ nime, notazioni spaziali di un artista come, per esempio, Fred Sandback. Nauman e Serra, in particolare fra i mini­ malisti della seconda generazione, portano alle estreme conseguenze l'estetica di Judd e di Andre. La loro ricerca ne



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Lucas Sarnaras, Frank Stella, Cy Twombly ed Andy Warhol. Frank Stella è rappresentato soltanto da opere del suo se­ condo periodo, dall'inizio della seconda metà degli anni '70 ad oggi. L'artista che è nella storia come colui che congelò l'espressionismo astratto in composizioni ferme e bloccate è ora l'autore di gigantesche aggregazioni tridimensionali, so­ spese al muro come quadri (di dipinti infatti si tratta, almeno nelle intenzioni di Stella, e non di sculture). Le barocche contorsioni spaziali, segnate da un colorismo acceso e vio­ lento, sono lontanissime dal rigido minimalismo che conno­ tava il suo lavoro negli anni '60. Ma tanto disordinato ru­ more, che pure prende e seduce, è lontano dal futuro dello spazio, astratto, cinematico, ambiguo e discontinuo. La gran­ dezza della scala, nonostante la sua chiassosità, non basta a occultare la mancanza di risolutezza. II gioco delle forme è più stuzzicante che non enigmatico. Stranamente, benché quest'opera sia Infarcita di materiali, la confusione resta superficiale. E Infine la carica erotica di questi nuovi dipinti è ingannevole giacché essi urlano la realtà della pulsione solo per mascherare l'assenza reale del piacere. Al di sotto del­ l'isterismo, la seduzione resta rituale: conosce il potere dello shock, ma è dimentica delle 'cose soprafine' 4• Cy Twombly è fra gli artisti più difficilmente collocabili nelle categorie stilistiche contemporanee, pur rientrando nella labile area dell'informale. Anomala la sua biografia che, dai mitici esordi al Black Mountain College nell'estate del '51, con Rauschen­ berg, Kline, Motherwell e gli altri, ai viaggi in Europa e in Nord Africa, ancora con Rauschenberg, lo ha portato poi a fermarsi a Roma, lontano dall'intrigante e un po' ossessivo ambiente newyorkese. E anomalo è il suo percorso artistico, unitario, monolitico, che passa attraverso la costante produ­ zione di un astratto vocabolario calligrafico, criptico, a volte timido, di straordinaria originalità. Non a caso, forse, Twombly si forma lontano da New York, e la sua fama si consolida in Europa prima che negli Stati Uniti. La sua diversità è rilevata dallo stesso Rauschenberg che, a proposito di Jasper Johns, dice: Lui ed io eravamo I primi seri critici l'uno per l'altro. In realtà fu il primo pittore con Il quale


abbia mai scambiato delle idee sulla pittura. No, non il primo. Cy Twombly fu il primo. Ma Cy ed io non eravamo critici. Io facevo U mio lavoro e lui il suo. La direzione di Cy era sempre cosi personale che se ne poteva solo discu­ tere « a posteriori,. 5• L'impatto emozionale provocato da Twombly è fortissimo. Il suo rapporto con il passato, con la cultura del passato, con la storia, con le radici classiche del­ l'Occidente è viscerale, ma va oltre la consueta prassi mi­ metica dell'apprendimento da chi ci ha preceduto. Dopo aver realizzato in gioventù che l'Intera storia della letteratura e della pittura erano a disposizione come potenziale fonte di materiale, l'artista cominciò a citare dagli esempi che più lo colpivano, ridefinendo la loro eredità con le sue mani e nel suo tempo, entrambi mezzi per celebrarne l'influenza ed esorcizzarne il potere 6• l:. quanto ritroviamo nelle tele della collezione Saatchi, dal colorato e quasi espressionista Red Painting, ai più tardi ed emblematici cifrari senza titolo, che riprendono le primitive, aristocratiche esperienze calli­ grafiche degli anni Cinquanta. Se il lavoro di Twombly mate­ rializza la sua isolata meditazione romana, Warhol, all'op­ posto, esemplifica l'isterica modalità esistenziale newyorkese, dagli esordi, incerti e oscuri, sino al discusso momento della sua prematura scomparsa, avvenuta in misteriosa solitudine in un grande ospedale metropolitano. Personaggio troppo noto e discusso per pensare di sintetizzarne il lavoro in alcuni significativi tratti, la sua storia appartiene a quella della società americana almeno quanto a quella dell'arte, ed è una storia (ancora una volta) fatta di anomalie, dal­ l'estrazione operaia (insolita per un artista). alla velocità ful­ minante della sua carriera, che da illustratore di moda lo vede trasformarsi in uno dei più famosi artisti del nostro tempo, prima come pittore e poi più liberamente nel mondo mul­ timediale della contemporanea produzione delle immagini. Warhol è diventato il simbolo dell'aggressità culturale new­ yorkese, di una esplosiva mobilità sociale, dell'insofferenza verso tutti i valori precostituiti della middle-class. Mai bor­ ghese, Warhol è salito dal fondo del mucchio fino alla sommità senza passare per gli strati intermedi - di qui la sua

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stranezza angellcale o marziana. ti. stato Immerso nella raf­ finatezza senza che la sua volgarità, assolutamente sincera, ne venisse Intaccata 7• Warhol ha dato voce a tutta una serie di desideri ampiamente condivisi dalle masse, con sincerità e spesso senza ironia, come quando diceva di amare la Coca­ Cola, di adorare le stars del cinema, di eccitarsi davanti ad un incidente stradale. Ha tradotto in messaggi artistici tutta la sottocultura televisiva del nostro tempo, l'inflazione me­ diale che ci ha per sempre resi artificiali. La collezione Saatchi conta molti suoi lavori, tutti notissimi, dalla celebre lattina Campbell's alle Marilyn, da Elvis a Liz, a Jackie, a Mao. Vorremmo però ricordare, in particolare, un lavoro del '63: Double Disaster: Silver Car Crash. Due pannelli, uno con quindici identiche serigrafie di un grottesco, agghiac­ ciante incidente, l'altro vuoto. La ripetitiva, stereotipa ten­ sione del primo si riflette, amplificata, sulla virtuale poten­ zialità catastrofica del secondo. La terza sezione della collezion� Saatchi include tre im­ portanti artisti tedeschi, Georg Baselitz, Anselm Kiefer e Sigmar Polke; l'inglese Malcolm Morley e gli americani Phil Guston e Julian Schnabel. Si tratta di personaggi che si muovono all'interno del neoespressionismo, con richiami più o meno evidenti alla figurazione d'impronta classicista. Pur fra discontinuità qualitative, avvertibili sia per quanto ri­ guarda il controllo dei mezzi espressivi che per ciò che con­ cerne i contenuti culturali e poetici, siamo davanti ad uno dei gruppi più interessanti dell'arte d'oggi. Baselitz è rap­ presentato da molte grandi tele (e da una scultura lignea), che documentano il complesso iter del suo lavoro: dalle prime opere, in cui il colore era rigorosamente legato all'arti­ colazione formale, ai dipinti degli ultimi anni Settanta, in �ui interviene il letterale capovolgimento dell'immagine, a quelli più recenti, in cui forma e colore perdono di sintonia, agi­ scono separatamente, diventando l'una veicolo per l'altro e viceversa. Il capovolgimento della figura principale assume il significato di una rinnovata drammatizzazione del quadro - drammatizzazione nel senso In cui è possibile parlarne a proposito de e Les Demolselles d'Avlgnon » di Picasso, del



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da molti considerato un passo indietro II nel suo iter creativo, si rivela invece il passo decisivo per l'affrancamento dalle secche del pop verso nuovi, sorprendenti, sperimentali per­ corsi. Oggi Morley è una delle star del neo-espressionismo. Il suo ambizioso e dichiarato rapporto con la storia costi­ tuisce l'invariante dei suoi lavori recenti: � ragione si è parlato di un atto di riappropriazione estetica del passato 12• Incoerenza ed eclettismo sono il frutto di un gusto oscillante (paragonabile a quello transavanguardista) comunque all'in­ terno di un classicismo definibile di volta in volta metafisico o espressionista 13• Se Morley, ancora europeo, ci ha già allon­ tanato dalle profondità tedesche, con Schnabel siamo ai li­ miti della « leggerezza» delle cose americane: è il più europeo degli americani, il più interiorizzato fra i decorativi. Julian Schnabel è fra i giovani (è nato nel 1951) più discussi e con­ troversi. Il successo internazionale è arrivato facilmente. La rivoluzione da lui combattuta contro l'estetica dominante del minimalismo lo ha visto vincitore in un momento storico sostanzialmente diverso: il grande pubblico dell'arte, che fino agli anni '60 aveva opposto sempre resistenza a tutte le novità, era pronto ad accogliere e a consumare con en­ tusiasmo quanto di più trasgressivo venisse immesso sul mercato. Anni di acritici consensi. E poi come si può criticare ciò che fa un pittore quando la sua intenzione è chiaramente di fare di tutto?, come scrive René Ricard 14• Artista « onni­ voro» 15, Schnabel radica certo la sua forza nelle esperienze di Johns e di Rauschenberg, ma anche di Pollock, Picabia e di un architetto come Antoni Gaudì. Il suo lavoro si defi­ nisce però prevalentemente in opposizione all'arte minimal: non a caso si è parlato di « massimalismo» per l'intera gene­ razione di cui fa parte 16• La ridondanza stilistica sembra in effetti essere la cifra delle sue opere, invase da vasellame in frantumi, o dipinte ad olio su insoliti supporti quali il velluto, il legno, la seta e la pelle di cavallino, e dove la riproposizione drammatizzata della figura umana si accom­ pagna ad un libero uso di motivi puramente decorativi. La quarta ed ultima sezione della collezione Saatchi raggruppa un interessante manipolo di giovani artisti ameri-


cani. Una prima serie, d'ascendenza dichiaratamente pop: Jennifer Bartlett, Jonathan Borofsky, Neil Jenney, Robert Longo, Elizabeth Murray, Susan Rothenberg, David Salle e Cindy Sherman; una figura anomala quale Scott Burton; i newyorkesi Chuck Close, Eric Fishl e Leon Golub; ancora i nomi di Bill Jensen, Jim Nutt, Joel Shapiro e Terry Winters. C'è poi un italiano, il più inquietante e anticlassico fra i transavanguardisti: Francesco Clemente. E, per finire, un discontinuo e poco omogeneo gruppo di artisti inglesi: Ri­ chard· Deacon, Howard Hodgkin, Leon Kossoff, Sean Scully e Victor Willing. Borofsky è fra le figure di maggior spicco, in un gruppo il cui narrativismo si autodenuncia come filia­ zione della cultura pop. Le intemperanze giovanili degli anni '60, in cui l'America era ossessionata dalla situazione politica mondiale, da un naturismo filosofeggiante e tinto di misti­ cismo, da una forte e lacerante consapevolezza psicologica, hanno portato alla creazione di opere cariche di tensione, spesso primitive, a volte con qualità totemiche. Gli anti-eroi di Borofsky, i suoi disperati uomini in corsa (o in fuga?), alienati in un mondo d'incertezze, costituiscono la cifra del suo lavoro. La generazione dei Longo (nato nel '53) e dei Salle ('52) si comporta come se l'arte moderna, l'astrattismo nelle sue molte forme, non fosse mai esistita: è piuttosto legata all'imagerie televisiva degli anni '50, conservatrice, piccolo borghese, narrativa, pop. Tutto ciò che costituiva l'habitat naturale in cui vivevano, disinteressandosene, i maestri dell'espressionismo astratto, diventa per i nostri materia prima di creatività artistica. Gli uomini di Longo, anonimi e ordinariamente vestiti, denunciano con chiarezza la violenza masochistica della condizione metropolitana. Mentre le donne di Salle lasciano spazio a più ampie intro­ spezioni psicologiche. La stessa presenza, nell'ambito di una singola opera, di parti diverse, alcune segnate da astratte e regolari geometrie, altre da un ampio classicismo narrativo, suggerisce contrasti e giustapposizioni surreali, ma al tempo stesso segnati da un consumato e scaltrito decorativismo. Sempre all'interno del panorama del neoespressionismo con­ temporaneo, un nome ricorrente è quello di Eric Fishl. Il

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suo lavoro utilizza una tecnica conservatrice, ordinaria, ba­ nale quanto i soggetti di cui si occupa: scene riprese dal­ l'edonistica esistenza dell'annoiata borghesia suburbana. Ma quelle che potrebbero sembrare opere connotate da un di­ chiarato classicismo narrativo, sono a ben guardare dipinti inquietanti, carichi di un altissimo e conflittuale potenziale emotivo, in cui represse pulsioni erotiche e voyeuristiche drammatizzazioni (palesemente derivate dai linguaggi filmici ) soggiacciono alle più generali tensioni psichiche che percor­ rono le società occidentali. Francesco Clemente, un cama­ leonte in stato di grazia, com'è stato definito 17, è l'unico ita­ liano le cui opere sono presenti, e in gran numero, nella collezione Saatchi. Strano italiano, la cui nomadica esistenza si divide con regolarità fra Roma, Madras e New York; il cui lavoro sembra preoccupato solo di compiere una lucida e consapevole autonalisi nelle variegate profondità del proprio essere, percorse da fantasie erotiche, da un lacerato espres­ sionismo anatomico, da ansie metafisiche (il cristianesimo, ma anche l'alchimia, l'astrologia, la mitologia). Un codice labirintico, ondeggiante, multiplo, di difficile decifrazione, che si colloca a metà fra scrittura ideografica e immagine vera e propria. Pittore difficile ed esigente, dunque, che richiede acuto spirito critico; a cui non interessa piacere (di qui l'ostentata imperizia tecnica), ma capire ed esprimere, a volte con violenza, le contraddittorie pulsioni della sfera più in­ tima dell'uomo contemporaneo. Collezione, come abbiamo visto, vasta ed impegnativa, questa dei Saatchi, in costante crescita, preoccupata di non perdere il contatto con il nuovo. Segnata, come s'è detto, dalle mode, e quindi esposta alle discontinuità ed ai salti qualitativi propri di chi le mode segue, le va tuttavia rico­ nosciuto il merito di essere comunque sempre tempista e aggiornata. In qualche caso i Saatchi hanno agito sulle mode, provocandone. In altri hanno soltanto contribuito alla for­ tuna di questo o quell'artista. Oggi il mondo dell'arte è os­ sessionato da chi compera, dalla qualità degli acquirenti. In un mercato dove tutti comprano di tutto e spesso soldi e cultura non vanno di pari passo, artisti e galleristi hanno


bisogno di clienti come i von Thyssen, i Ludwig, i de Meni!, i Panza, e anche dei Saatchi. Il ruolo di simili personaggi è essenziale nella costruzione stessa della vicenda artistica con­ temporanea. I collezionisti riescono ad operare con una li­ bertà ed un'autonomia impensabili anche per i più aggressivi musei privati. E il lavoro svolto dai Saatchi resta comunque notevole. La collezione andrebbe raffinata, forse perfezionata: la presenza di alcuni artisti minori andrebbe eliminata, quella di altri ridimensionata; ci piacerebbe anche veder rappresen­ tate importanti figure oggi assenti, come i tedeschi e gli italiani delle ultime generazioni. Ma tutto ciò è work in

progress.

I P. SctuEI.DAHL, Minimalism, in Art of Our Time, The Saatchi Collection, Lund Humphries, London e Rizzoli Intemational, New York 1984, voi. l, p. 11. 2 Cfr. P. SCHJElDAHL, op. cit., p. 20. J B. MARoEN, Paintings, Drawings, and Prints, Whitechapel Art Gal­ lery, London 1981. 4 P. EVANS-CLARK, Frank Stella: Opere 1970-1987, in « Domus,. n• 691, febbraio 1988. S C. TOMKINS, Off the Wall, Robert Rauschenberg and t11e Art World of Our Time, Penguin Books Ltd, New York 1981, p. 118. 6 P. BONAVENTURA, Cy Twombly, Exhibition Guide, Whitechapel Art Gallery, London 1987. 7 P. SctuElDAHL, Andy Warhol, in Art of Our Time, cit., voi. 2, p. 28. a R. FucHs, Georg Baselitz, in Art of Our Time, cit., voi. 3, p. 10. 9 P. $CHJEU)AHL, Anselm Kiefer, in Art of Our Time, cit., voi. 3, p. 15. 10 Cfr. M. ROSENTHAL, Anselm Kiefer, The Art Institute of Chicago, Philadelphia Museum of Art, Chicago e Philadelphia 1987, p. 10. Il Cfr. H. KRAMER, Malcolm Morley, in Art of Our Time, cit., voi. 3, p. 19. 12 Ibidem. Il Cfr. C. JENCKS, Post-Modernism, The New Classicism in Art and Architecture, Academy Editions, London 1987. H Cfr. S. MORGAN, The Artist as omnivore, in e Whitechapel Art Gallery Bulletin », settembre 1986. IS Cfr. s. MORGAN, op. cit. 16 Cfr. R. PINCUS-WinEN, cit. in H. KRAMER, Julian Schnabel, in Art of Our Time, cit., voi. 3, p. 28. . 11 Cfr. E. DE AK, cit. in M. AUPING, Francesco Clemente, m Art of Our Time, cit., voi. 4, p. 32.

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L'arte applicata come "forma simbolica,, GABRIELLA D'AMATO

11 tema che qui si vuole affrontare è quello del significato dell'espressione arte applicata. Sull'argomento delle arti appli­ cate esiste, com'è noto, una vasta letteratura tra cui il saggio di Ferdinando Bologna Dalle arti minori all'industriai design 1 rappresenta uno degli studi più esaurienti e problematici. Pertanto proprio inoltrandoci nella lettura di tale testo si è formata in noi la convinzione che, al di là delle varie « for­ tune » o « sfortune » critiche di cui le arti applicate sono state oggetto nel corso dei secoli, dovesse esistere un'interpreta­ zione da dare all'evolversi dell'espressione stessa che le de­ nota. La dizione arte applicata è stata quanto mai duttile nel tempo: ha assunto infatti vari sinonimi, arte meccanica, mi­ nore, utile, ecc. e sempre in opposizione dicotomica ad altret­ tante arti liberali, maggiori, pure, ecc. Questa versatilità, a nostro avviso, non può essere casuale ma deve celare una logica interpretativa che ne renda il senso. Rimandandone l'esposizione in chiusura del nostro discorso, cominciamo per ora ad estrarre i nodi più significativi di una storia così articolata. tentando di ordinarli sincronicamente e diacroni­ camente. Un problema di lunga data 32

La vexata quaestio ha inizio con la remota distinzione tra arti liberali (cioè degne dell'uomo libero ed esercitate con la



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nato spesso assunti dalle botteghe degli artisti dove oltre i quadri, ... si facevano stemmi, bandiere, insegne, intarsi, intagli in legno policromo, modelll per tappezziere e rlca• matori, decorazioni per feste e molte altre cose 3• Insomma nel Rinascimento l'espressione arte applicata vale quanto mai alla lettera non esistendo, in pratica, una supremazia dell'arte sulla sua applicazione a qualsivoglia manufatto. In tanto egalitarismo si annidava tuttavia un punto de­ bole. Per attuare il loro prepotente ingresso fra le arti libe­ rali, quelle meccaniche avevano dovuto porre l'accento sul momento teorico che comunque le accomunava alle prime. Ma così facendo si erano anche, per così dire, autodimezzate offrendo il fianco a discriminazioni operabili in virtù di una loro maggiore o minore componente ideativa. Tale processo fu ricco di esiti nella cultura tardo-cinque­ centesca e seicentesca. Da un ambito che fin qui abbiamo visto solidale cominciano a proliferare numerosi distinguo. Innanzitutto con Michelangelo che affermava di dipingere « col cervello » e non « colla mano » prende avvio l'idea di genialità intesa come peculiare attitudine dello spirito e, di conseguenza, si fa strada anche il concetto dell'arte come autonoma forma creativa recante in sé il proprio senso e il proprio fine. Da qui l'inizio di una gerarchia delle arti con il primato in genere assegnato · alla pittura sia perché più vicina al precetto « ut pictura poesis » sia perché attività svolta con meno fatica fisica; seguiva la scultura, ritenuta più fabrlle; ultima veniva l'architettura, il cui lato 'meccanico ' sembrava evidenziato tanto dal divario più marcato delle altre, dal divario cioè fra momento ideativo ed esecutivo, quanto soprattutto dall'avere più delle altre una finalità emi­ nentemente pratica, propria ad un'arte applicata 4• E proli­ ferano anche i sinonimi dell'espressione in esame. Nel 1548 Paolo Pino aveva decretato essere la pittura la più alta in• venzione che s'opri tra gli uomini, e tutte l'arti meccaniche sono dette « arti per partecipazione ,. (le virgolette sono no­ stre), come membri dependenti dalla pittura 5• Qualche anno più tardi Vincenzo Danti perfezionerà il concetto esaltando vieppiù la pittura in quanto adatta ad esprimere sentimenti


ed eventi nobili ed edificanti. Ad essa, grazie al comune mezzo del disegno, aveva associato, però, anche l'architet­ tura e la scultura relegando, al contempo, tutte le altre arti che avessero un qualche legame con l'utile nel novero di quelle addette alla necessità. Come se ciò non bastasse, con­ siderandoli un intralcio alla libera estrinsecazione della crea­ tività, vengono ripudiati i principi matematici che erano ser­ viti all'arte rinascimentale per la conquista della « liberali­ tas ». La nuova legittimazione, sulla quale ha un grande peso la cultura controriformista, viene ricercata nella supremazia del momento ideativo su quello esecutivo e si comincia perciò a parlare, con una progressiva diminuzione di valori, di un disegno interno, manifestazione diretta del divino nell'animo dell'artista, di un disegno esterno traccia sensibile del primo, ma ad esso inferiore per grado, e, infine, di un momento esecutivo, ultimo stadio del processo artistico. A questo punto i giochi sono fatti. Le arti figurative hanno subito una doppia spaccatura: l'una, di tipo sociologico, di­ scrimina le arti attraverso gli uomini che le praticano, tanto vero che nascono le prestigiose Accademie dove si formano i pittori-cavalieri mentre gli artigiani vengono confinati in un rango sociale decisamente inferiore; l'altra, di tipo teo­ retico, discerne all'interno delle arti stesse un momento espressivo ed autonomo da uno pragmatico ed utilitaristi­ co. Da ora in poi il significato dell'espressione arte applicata potrà essere seguito su questo doppio binario. La linea sociologica La questione delle arti applicate riguardata sub specie sociologica trova una svolta positiva con lo spirito enciclo­ pedico settecentesco. Appellandosi al senso dell'utile, comune anche all'opera dei trattatisti, l'Enciclopedia vi aggiunge, di suo, un accento di marca squisitamente sociale. Nella classi­ ficazio!'le con cui il prospetto dell'opera di Diderot e d'Alembert riconduce la totalità· delle scienze, delle arti e dei me­ stieri alle tre funzioni della Memoria, della Ragione e del­ l'Immaginazione, vengono dedicati uno spazio e un'attenzione

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particolari alle arti meccaniche. Scrive infatti Diderot nella voce Art: Mettete su un piatto della bilancia i vantaggi reali delle scienze più sublimi e delle « arti » più onorate, sull'altro quello delle « arti meccaniche » e constaterete che la stima fatta delle une e delle altre non è stata distribuita in propor­ zione a tali vantaggi, e che gli uomini i quali si sono sforzati di farci credere che eravamo felici sono stati molto più lo­ dati di quanti si sono sforzati di renderci più felici davvero. Quanta blzzaria nei nostri giudizi! Esigiamo che ciascuno oc­ cupi utilmente il suo tempo, e disprezziamo gli uomini utili 6• E più avanti, col preciso intento di rivendicare la dignità dell'artigianato umiliato dall'altezzoso accademico, prosegue: Le « arti liberali » si sono già cantate abbastanza da sole; oggi potrebbero usare ciò che rimane loro di voce per cele­ brare le • arti meccaniche ». Gli artigiani si sono creduti spre­ gevoli, perché sono stati disprezzati; lnsegnamo loro ad aver una più alta opinione di se stessi: è il solo mezzo per otte­ nere da loro prodotti più perfetti. Esca dal seno delle Acca­ demie qualche uomo che scenda nel laboratori, vi raccolga osservazioni sui fenomeni delle « arti » e ce le esponga in un'opera che induca gli artisti a leggere, i filosofi a pensare utilmente, e l grandi a fare finalmente un utile impiego della loro autorità e del premi di cui dispongono 7• Ora, è evidente che anche se nell'Enciclopedia le arti figurative permangono nella distinzione canonica di liberali e meccaniche (pittura, scultura e architettura civile sono raggruppate tra i prodotti dell'Immaginazione e da null'altro regolate se non dal genio), è altrettanto vero che dell'antica distinzione si sono inver­ titi i segni: quello positivo ora è laddove dominano l'utile, il pratico e soprattutto il lavoro umano rivolti alla conquista del progresso e della felicità. In altri termini, nell'espressione arte applicata dell'Enciclopedia si è ingigantita la parola sottintesa, il mestiere, al quale appunto l'arte si intende ap­ plicata. Lungo questa linea si muoverà poi tutto il dibattito otto­ centesco di marca vittoriana attuato da Pugin, Ruskin e so­ prattutto Morris. Quest'ultimo, in particolare, nel discorso Arti e mestieri di oggi, pronunciato a Edimburgo nel 1889,



Ritornando al tema sociologico, bisogna dire, però, che ben presto esso perderà mordente; infatti la ghettizzazione del­ l'artigiano, come soggetto appartenente ad una categoria so­ ciale, sarà assorbita dalle più generali discriminazioni avver­ sate dal pensiero moderno. Ma all'interno dell'unità artistica ricercata da Morris esisteva anche un'altra questione. C'è infatti chi nota che nella volontà di riunire la figura dell'arti­ giano e quella dell'artista che non vuole essere diviso da se stesso, si avverte tutta l'angoscia della scomposizione degli orientamenti pratici della stessa persona che deve produrre opere « uniche» in « molte» e le « molte ,. in un « unico» 10• Questo sdoppiamento tra il «fare» e l'« ideare» fu ereditato dal Bauhaus in cui Gropius cercò appunto di associare un insegnamento tecnico (Werklehre) ad uno formale (Form­ lehre), svolti rispettivamente da un artigiano e da un artista. Ma ormai l'antinomia artigianato-arte non era più una que­ stione sociologica bensì squisitamente teoretica e sotto que­ sto profilo la seguiremo d'ora innanzi insieme agli altri problemi.

La linea teoretica

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Abbandoniamo ora il filo conduttore dell'ottica sociologica per considerare il problema delle arti applicate sotto l'aspet­ to della divaricazione fra momento ideativo e momento pragmatico. Anche questa volta il discorso parte dalla voce Art dell'Enciclopedia. Come si ricorderà l'altezzosa Accade­ mia aveva discriminato, a suo vantaggio, un ruolo di « ar­ tista puro» da quello di « artigiano ilota ,. ma, al contempo, aveva anche contrapposto un momento intellettuale e creativo superiore a uno manuale e realizzativo. Diderot cerca di ri­ cucire questa lacerazione scrivendo: è evidente che ogni «arte» ha la sua teoria e la sua pratica; la teoria non è altro se non la conoscenza imperante delle regole dell'« arte», la pratica non è se non l'uso abituale e irriflesso di quelle stesse regole. � difficile, per non dire impossibile, spingere lontano la pratica senza la teoria, e reciprocamente possedere a fondo la teoria senza la pratica. V'è in ogni « arte» un gran numero



determinato. Il lavoro per tutti questi ornamenti potrà es­ sere, dal punto di vista meccanico, differentisslmo, e diffe­ rentisslml gli artisti richiesti a complrlo; ma il giudizio di gusto è determinato In un sol modo da ciò che vi è di bello in quest'arte; cioè non è diretto se non a giudicare le forme (senza riguardo a veruno scopo), cosi come si presentano all'occhio, Isolatamente o nel loro complesso, secondo l'ef­ fetto che fanno sull'Immaginazione 16 • Kant, in sostanza, come ha rilevato Bologna, percorrendo un itinerario affatto aprio­ ristico, spingeva avanti lo stesso processo ·che stava ripor­ tando al 'privilegio' del momento ideativo dell'arte e in par­ ticolare del 'progetto': solo che, Invece di considerare la questione dal punto di vista genetico (come accadeva nel settori in cui faceva passi da gigante la dottrina del 'genio') la considerava dal punto di vista del giudizio, In definitiva del fruitore 17• Fatto sta che con Kant si delinea un nuovo senso dell'espressione arte applicata: alcune arti belle svuo­ tate del loro contenuto funzionale e private del loro mo­ mento pragmatico saranno valutabili col metro della pul­ chritudo vaga, cioè di una bellezza che non presuppone alcun concetto di ciò che l'oggetto deve essere 18 mentre l'architettura presupponendo questo concetto, e la perfezione dell'oggetto alla stregua di esso 19 verrà reputata arte dalla

pulchritudo adhaerens.

In questa linea concettuale, che ha gli antecedenti nella

intrinsic beauty contrapposta alla relative beauty di Hume e nella bellezza organica e assoluta contrapposta a quella comparativa o relativa di Hutcheson 20, saranno in molti a

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proseguire. Assumeranno posizioni analoghe: Hegel quando dirà che il bisogno si trova fuori dell'arte 21; Riegl quando scriverà che Ja storia dell'arte nel suo complesso si presenta bensl come una continua lotta con la materia, però In essa l'ele­ mento primo non è l'oggetto, la tecnica, ma il pensiero crea• tivo, che tende ad espandere la sua sfera d'azione e ad Incre­ mentare la sua capacità figurativa 22; Croce quando afferma che nel processo della produzione artistica non entra mal nessun elemento pratico o tecnico che si voglia dire: la spon-



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Per vederci chiaro basta dunque scindere le sensazioni disinteressate dal bisogni che mirano al loro soddisfacimento, utilitaristici. I bisogni utilltarlstlcl richiedono l'attrezzatura « In tutto ,. perfezionata come certa perfezione estrinsecata da parte dell'industria. SI forma cosi il magnifico programma dell'arte decorativa. Col procedere del tempi l'industria pro­ duce oggetti di funzionalità e utllltà perfette, li cui lusso autentico - godimento dello spirito - emana dall'eleganza della concezione, dalla semplicità dell'esecuzione e dall'effi­ cacia delle prestazioni 25• Le Corbusier, dunque, in nome dell'utile e della funzione elimina dall'espressione arte decorativa non solo l'aggettivo, ma anche il sostantivo arte che, a rigore, in quanto passione «necessaria • ma «disinteressata », contrasta con l'utilitari­ smo del nuovo programma. Egli evidentemente conservava nella mente solo l'aggettivo industriale che poi si legherà alla parola nata negli Stati Uniti proprio negli anni Venti, design. La nuova espressione industria[ design ebbe subito il potere di rendere antiquata e decadente quella di arte applicata con tutti i suoi sinonimi, quasi che la serialità, il grande numero, il funzionalismo, avessero di colpo sciolto i nodi che per tanti secoli le si erano stretti intorno. Invece le cose stavano diversamente; gli stessi problemi rimanevano nel design perché anch'esso, come arte applicata, aveva ere­ ditato gli interrogativi di una storia vecchia quanto quella delle arti. Gli stessi interrogativi, infatti, travagliavano da sempre anche le cosiddette arti «pure», potendosi essi sintetizzare nel conflitto fra il momento autonomo e quello eteronomo di tutte le arti. Detto in altri termini, in queste ultime deve prevalere l'esteticità, l'artisticità emergente, l'irrazionalità, l'incomunicabilità, l'astanza, per dirla con Brandi, oppure il pratico, l'artisticità diffusa, il razionale, la semiosi? Riferendosi alle arti pure Anceschi chiarisce che l'espe­ rienza complessa della riflessione sul campo estetico dell'arte ha rivelato... una « continua dialettica tra Il principio del­ l'autonomia del campo estetico dell'arte e quello dell'e'teronomla di esso •·



il confine tra arti pure e arti applicate, e all'interno di queste "ultime qual è il momento autonomo e quello eteronomo? Probabilmente sì, l'excursus che abbiamo esposto ci dimostra che si tratta di dicotomie irrisolte. E in particolare ci di­ mostra che per le arti applicate ogni epoca artistica ha avuto una sua idea sull'argomento donde ha tratto differenti defi­ nizioni. Per il nostro tema ci rimane così un'interpretazione analoga a quella che Panofsky formula per la prospettiva. E precisamente quando scrive: Se vogliamo adottare anche nella storia dell'arte il termine felicemente coniato da Ernst Casslrer essa è una di quelle 'forme simboliche' attraverso le quali 'un particolare contenuto spirituale viene connesso a un concreto segno sensibile e Intimamente Identificato con questo'; In questo senso, diviene essenziale per le varie epo­ che e province dell'arte chiedersi non soltanto se conoscano la prospettiva, ma di quale prospettiva si tratti 29•

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I F. BOLOGNA, Dalle arti minori all'industria! design, teoria di una ideologia, Laterza, Bari 1972. A tale testo siamo debitori per gran parte delle nostre notazioni. 2 lvi, p. 15. J A. HAusER, Storia sociale dell'arte, Einaudi, Torino 1956, voi. II, p. 89. 4 R. DE Fusco, Storia dell'arredamento, UTET, Torino 1985, p. 39. 5 P. PINO, Dialogo di Pittura, riedito in Trattati d'arte del Cinque­ cento fra Ma11ierismo e Controriforma, a cura di P. Barocchi. voi. I, Bari 1960, cit. in F. BoLOGNA, op. cit., pp. 45-46. 6 La voce è tratta dalla riedizione antologica a cura di A. PoNS, Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze e delle arti (17511772), Feltrinelli, Milano 1966, voi. I, p. 113. 1 lvi, p. 117. , • W. M0RRIS, The Arts and Crafts of Today, discorso pronunciato a Edimburgo nell'ottobre 1889 al congresso dell'Associazione nazionale per lo sviluppo dell'arte. Ora trad. in W. MoRRIS, Opere, a cura di M. Manieri Elia, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 2.50. 9 lvi, p. 254. 10 M. BRUSATIN, Artigianato, s.v., Enciclopedia, Einaudi, Torino 1977. Il e ancora la voce tratta dalla riedizione dell'Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze e delle arti cit. 12 I. KANT, Critica del giudizio, Laterza, Bari 1970, p. 166. u· lvi, p. 163. 14 lvi, p. 164. 1s lvi, p. 183. 16 lvi, pp. 184-85. 11 F. BoLOGNA, op. cit., pp. 172-73.


I. KANT, op. cit., p. 73. Ibidem. 20 Cfr. B. CROCE, La disputa intorno ali'« arte pura• e la storta dell'estetica, in La critica e la storia delle arti figurative, Laterza, Bari 1946, pp, 59-60. 21 Cit. da F. BOLOGNA, op. cit., p. 180. 22 A. RIEGL, Stilfragen, Berlino 1893, trad. it. Problemi di stile, Feltrinelli, Milano 1963, p. 34. 23 B. CROCE, Il padroneggiamento della tecnica, in La critica e la storia delle arti figurative, cit., p. 89. 24 L. BENEVOLO, Storia dell'architettura moderna, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 450. 2S LE CoRBUSIER, L'art decorati! d'aujourd'hui, Vincent Fréal & Cie, Paris s.d., trad. it. Arte decorativa e design, Laterza, Bari 1972, pp. XXIX-XXX. 26 L. ANCESCHI, Autonomia ed eteronomia dell'arte, Va)lecchi, Fi­ renze 1959, p. 279. 21 lvi, p. 281. 28 B. CROCE, La disputa intorno ali'• arte pura• e la storia dell'este­ tica, cit., p. 54. 29 E. PANOFSKY, Die Perspektive als « symbolische Form •• Leipzig• Berlin 1927, trad. it. La prospettiva come e forma simbolica•, Feltrinelli, Milano 1961, p. 50. 18 19

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