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settembre 2022 numero 175 Artivismo disegnato. Graphic novel e impegno - Logomachia - Historic Waste Landscapes. Una chiave di lettura per la città storica contemporanea - La memoria nel progetto, ovvero del Case-Based Reasoning nell’architettura e nel design - Il disegno di Atena - Quanti oggetti è un oggetto? - Spazio pubblico come patrimonio: la lezione educatrice del playground Stephen Wise a New York - Libri, riviste e mostre Grafica Elettronica

Selezione della critica d’arte contemporanea

rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Comitato scientifico Comitato redazionale Domenico De Masi Roberta Amirante Kenneth Frampton Pasquale Belfiore Juan Miguel Hernández León Alessandro Castagnaro Vanni Pasca Imma Forino Franco Purini Francesca Rinaldi Joseph Rykwert Livio Sacchi Vincenzo Trione Alberto Terminio Segretaria di redazione Emma Labruna Website e digitalizzazione Ermes Multimedia digital design per la cultura Concept: Renato Piccirillo Sviluppo: Riccardo Marotta, Valeria Pazzanese Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 info: +39 081 7690783 - fax: +39 081 7705654 e-mail: rendefus@unina.it - elabruna@unina.it Amministrazione: 80128 Napoli, Via B. Cavallino, 35/G info: +39 081 5595114 - +39 081 5597681 e-mail: info@graficaelettronica.it Abbonamento annuale: Italia € 50,00 - Estero € 70,00 Un fascicolo separato: Italia € 18,00 - Estero € 25,00 Un fascicolo arretrato: Italia € 20,00 - Estero € 27,00 Grafica Elettronica All’indirizzo www.opcit.it è disponibile l’intera collezione della rivista dal numero 1 del settembre 1964 ad oggi

V. Trione Artivismo disegnato. Graphic novel e impegno 5 R. De Fusco M.D. Morelli Logomachia 19 F. Talevi Historic Waste Landscapes. Una chiave di lettura per la città storica contemporanea 27 M. Zambelli La memoria nel progetto, ovvero del Case-Based Reasoning nell’architettura e nel design 39 A. Donelli Il disegno di Atena 55 F. Deo Quanti oggetti è un oggetto? 63 L. Pujia Spazio pubblico come patrimonio: la lezione educatrice del playground Stephen Wise a New York 71 Libri, riviste e mostre 83 Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Michela Bassanelli, Matteo Iannello, Federico Turelli.

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Artivismo disegnato. Graphic novel e impegnoVINCENZO TRIONE

Genealogia di un linguaggio I precursori italiani. 1967: Hugo Pratt pubblica Una ballata del mare salato, atto di nascita di Corto Maltese, autentico mani festo di un “fumettaro”. 1969: Dino Buzzati dà alle stampe il Poema a fumetti in cui Orfeo ed Euridice precipitano nell’inferno della società dello spettacolo. Mi sono illuso disegnando, spie gava Buzzati, di poter dire cose che con le parole non sarei riuscito a dire abbastanza chiaramente [in C. Stajano, Si è di pinto il suo romanzo, in «Tempo», 4 ottobre 1969]. E ancora: È riconosciuto da tutti che, nel tempo della cultura, si va verso una civiltà sempre più visiva. Si leggerà sempre meno, si guarderà sempre di più [D. Buzzati, Il giornale segreto, Corriere della Sera, Milano 2014, p. 68].

Poi, il padre riconosciuto: Will Eisner. E i maestri di oggi: Crumb, Art Spiegelman, Jiro Taniguchi, Gipi, Joe Sacco, Marja ne Satrapi. Infine, significative personalità italiane – come, tra gli altri, Igort e Lorenzo Mattotti, Sergio Toppi e Davide Toffolo –che hanno composto tavole simili agli storyboard di tanti corto metraggi. Sono, queste, alcune tra le voci più rappresentative del graphic novel, tra le trincee più avanzate dell’arte contempora nea, che è stata celebrata negli ultimi anni in esposizioni ospitate in prestigiosi musei europei (ad esempio, al Centre Pompidou di Parigi si è tenuta l’antologica dedicata ad Art Spiegelmann; al Musée de la Ville parigino quella su Crumb).

Una pratica ibrida. Che negozia per mettere in forma – e che, per mettere in forma, negozia. Mediazione tra spinte, intenzioni e influenze diverse, elabora inattesi compromessi, provocando

6 Si tratta di un’esperienza le cui radici affondano in un tempo lontano, come ha ricordato John Baldessari in una lecture del dicembre 2011 (tenuta al Metropolitan Museum di New York), nella quale ha descritto la Cappella degli Scrovegni di Padova come un fumetto ante litteram, dove “idee alte” sono affidate a un’iconografia comprensibile anche dalle classi popolari. Si sus seguono affreschi, che sembrano avere un andamento pre-cine matografico. Figure e immagini convergono in una narrazione visiva, fondata su una solida struttura simbolico-religiosa. Scene che, talvolta, lasciano appena intuire gesti e situazioni, un po’ come accade nella pratica filmica. Le pareti e il soffitto narrano la vita di Cristo e il Giudizio Universale. Lo spettatore si sente av volto da scenari infernali e paradisiaci. Regista involontario, Giotto elabora una drammaturgia densa di dettagli veristici. I personaggi hanno espressioni misurate: sembrano quasi attori di film muti. Credo, ha osservato John Berger, che niente di quanto è arrivato a noi dai secoli passati sia più simile a un cinema di questa cappella ideata e edificata settecento anni fa [J. Ber ger, Presentarsi all’appuntamento (1991), a cura di M. Nadotti, Scheiwiller, Milano 2010, p. 18].

Provate a fare un gioco, ora. Aggiungete ai “fotogrammi” giotteschi alcune vignette. E assisterete a uno strano esito. Da un’analoga commistione nasce il graphic novel. Che suggerisce una difficile sintesi. Siamo dinanzi a un linguaggio libero, affran cato dai rituali della letteratura, dai vincoli produttivi del cinema, dagli algoritmi delle serie televisive, dal divismo dell’industria discografica, dalla dittatura di galleristi, collezionisti e dealer che sta lasciando l’arte contemporanea senza un vero pubblico cui riferirsi. Risposta alla povertà di tanti esercizi visivi, cinemato grafici e letterari attuali, capace di portarsi al di là dell’autorefe renzialità e del concettualismo propri di tante opere d’arte del nostro tempo, il graphic novel riesce a sottrarsi alla mania degli effetti speciali tipica dei superkolossal e all’intimismo psicologi co imperante in tanti film; infine, non si adegua mai all’idea della scrittura romanzesca come intrattenimento.

a un medium sincretico, che muove da sug gestioni plurali, ri-locandole in un orizzonte di senso inedito. Un medium che riesce a reinventare tanti codici espressivi. Flessibile e libero nel modellare spazi sconosciuti, si basa sulla confluenza tra sapienza letteraria e tensione pittorica. Si pongono sul mede simo piano soggetto, sceneggiatura e uso di linee e cromie. Uo mini, stati d’animo, speranze, inquietudini e visioni del mondo acquistano corpo e colore, flusso e movimento, scansione e con trasto, luce e ombra, ritmo e pausa, velocità e apertura solo se si incontrano testo e immagine. La grafica si allea alla fabula: mae stria formale e sensibilità per i contenuti.

Non c’è genere letterario e cinematografico classico di cui il graphic novel non abbia cercato di riprendere la tradizione adattandola al suo specifico, ha osservato Goffredo Fofi [G. Fo fi, L’unica forma d’arte figlia del nostro tempo, in V. Spinazzola (a cura di), Tirature ’12: l’età adulta del fumetto, Il Saggiatore, Milano 2012, pp. Siamo10-11].difronte

7 disinvolte riarticolazioni di matrici culturali assunte. Talvolta, as sorbe e frulla tracce pittoriche: dal futurismo all’espressionismo, alla pop art; o si richiama implicitamente a matrici lontane, come il Liber figurarum di Gioacchino Da Fiore, la più straordinaria raccolta di teologia figurale e simbolica del Medioevo. Altre vol te, si appropria di modalità proprie del reportage o della ricerca storica. Gioca con fonti e gerarchie, adatta a sé situazioni – epo pee, favole, reportage – spingendosi verso una sorta di “coe spressività”. Tra i campi espressivi contemporanei più vitali, as sembla soluzioni, per imboccare strade inesplorate nell’arte del rappresentare e del narrare [cfr. V. Trione, Sequencial Art, in IGORT, Pagine nomadi, Coconino Press/Fandango, Bologna 2012, pp. 85-89].

Pensato per un pubblico adulto ed esigente, il graphic novel si distingue dal fumetto perché non è seriale, non ha limiti di lunghezza né vincoli di forma, ma esibisce una complessità nar rativa e una profondità psicologica sconosciute ai comics. Si of fre come felice incontro tra letteratura e arte. Con il libro, condi vide il ricorso a un tempo di fruizione libero, variabile, reversibi le; e la predilezione per lo storytelling, inteso come dispositivo per contribuire a quella battaglia per l’attenzione diventata cruciale, nell’epoca delle infinite, […] sollecitazioni [M. Ferra

8 ris, Storytelling Spa, «La Repubblica», 12 luglio 2015]. Con la pittura, ha molte consonanze: l’astrazione, l’essenzialità delle linee, l’u so espressivo del colore e del bianco e nero, per schiudere spazi vergini all’immaginazione. Il disegno non descrive né illustra, ma catalizza le emozioni e smuove i meccanismi dell’inconscio. Questa combinatoria richiede fatica. Impossibile affidarsi, come spesso accade in tante installazioni d’avanguardia, all’im provvisazione, alla trovata, alla provocazione effimera. Il graphic novel pretende cura nell’esecuzione e nella definizione dei detta gli. Le tavole vanno elaborate una per volta: ognuna richiede ore o giorni di lavoro. Inoltre, occorre misurare il rapporto tra parole, figure e inquadrature, senza mai dimenticare la continuità del plot. È un’operazione molto vicina a quella di cui amava servirsi Hitchcock, il quale componeva i suoi storyboard disegnando i singoli capitoli dei film momento per momento. Il fumettista si comporta nello stesso modo: dosa e decide ogni volta i vari ele menti – visivi ed espressivi – delle proprie storie. Come nel cine ma, ogni inquadratura deve essere necessaria, “morale” (per dirla con i teorici della Nouvelle Vague), risultato di un’ispirazione e di una convinzione. E deve riuscire a pronunciare immediata mente il significato di una determinata scena.

Lungi dall’essere un limite, questa laboriosità si dà come re cinto all’interno del quale è possibile esercitare una straordinaria libertà. Il creatore di graphic novel assegna a se stesso una gri glia, dentro cui effettua audaci scorribande. Deve inevitabilmente tener conto della struttura letteraria, dei dialoghi e delle inqua drature, ma può far giocare queste componenti senza attenersi a regole rigide. Agendo non come un direttore d’orchestra, ma co me il regista di un film muto, che oscilla tra echi neorealistici e tentazioniTalvolta,visionarie.ilcreatore di graphic novel sceglie di inventare tra me dominate da libertà fantastica. Più spesso preferisce risalire a precise memorie storiche, culturali, letterarie e storico-artistiche, riattivandole e rilanciandole.

In alcuni momenti, il discorso si fa più articolato. E si carica di urgenze ulteriori, ispirandosi ai modi propri del giornalismo d’inchiesta. Nella consapevolezza che, come scriveva Benedetto Croce, mentre il giornalista propone una filosofia improvvisata e

9 una storia improvvisata, l’artista deve indugiare nel sogno, lo scienziato nella mediazione, lo storico nell’indagine documentaria [B. Croce, Il giornalismo e la storia della letteratura, in «La Critica», VI, 1908, pp. 235-237]. Segni politici In molti casi recenti, il graphic novel rifiuta ogni “abbando no”. Cessa di essere linguaggio disimpegnato. Per scoprire uno spessore politico, etico, militante. Diviene testimonianza civile, come dimostrano le “prove” di Art Spiegelmann, di Joe Sacco e di Igort. Si fa simile alle “scritture corsare” pasoliniane, segnate da colori lividi e luttuosi, da un disarmato oblio della speranza. Tiene insieme ricognizione storiografica e passione reportagisti ca. Senza mai dismettere i suoi abiti casual, sceglie di confron tarsi con argomenti dolorosi. Quasi sulle orme della lezione giot tesca, trasmette tematiche profonde, spesso drammatiche, ricor rendo a soluzioni immediate. Siamo di fronte a un capitolo decisivo dell’“artivismo”, tra i fenomeni più rilevanti dell’arte del XXI secolo; punto di conver genza tra maniere e stili, tra ricerche e fermenti; cartografia abi tata da figure che, servendosi di linguaggi e di media differenti, si misurano con alcune emergenze del nostro tempo (“Esiste un altro mondo, ma è in questo”, amava ripetere Paul Éluard): il dramma dei migranti, l’apocalisse ecologica, l’emarginazione delle periferie Intrecciandourbane.arte e impegno, queste personalità pensano il proprio mestiere come un momento altamente politico, per entra re nella polis. L’arte va alla conquista di ciò che è esterno ad essa. Dialoga con quel che la circoscrive e la attraversa. Si fa, come aveva scritto Pasolini a proposito del cinema, “lingua scritta della realtà”. Fino a spingersi sulla soglia tra testimonianza e azione. In alcuni casi, gli artivisti si limitano a registrare ferite e lace razioni, sottraendo alla cronaca alcune visioni. In altri casi, entra no nel corpo del tempo presente, immaginando ipotesi di riscatto urbanistico e antropologico: si prendono cura di parti del mondo, fino a dissolvervi le proprie opere. In altri casi ancora, per sottrar si ai rischi dell’anestetizzazione e a quelli dell’estetizzazione del

10 dolore e del male, vogliono marcare una netta distanza dal gior nalismo e dal documentarismo, inclini a coniugare verità e arbi trio, realismo e simbolismo, adesione ed evocazione [cfr. V. Trio ne, Artivismo, Einaudi, Torino 2022].

In un orizzonte affine si situano i Quaderni ucraini e i Qua derni russi di Igort, che potrebbero essere letti come il requiem per il dolore di un popolo. Si succedono le tappe di un viaggio che conduce attraverso storie lontane, come le parti di un polit

Il graphic novel, qui, diventa requisitoria appassionata, se gnata da timbri diversi: dietro una maschera giocosa e infantile, si nascondono tormenti, angosce. Per evocare l’Olocausto, Spie gelman sa farsi storico, scrittore e pittore. Si fa testimone della “banalità del male”: sceglie un episodio minimo e, tuttavia, esemplare. Attinge alla sua esperienza personale: muove da alcu ne memorie private. Infine, rinvia alle sperimentazioni dei prota gonisti dell’espressionismo e della Nuova Oggettività.

All’idea dell’arte come controvita (per dirla con Philip Roth) si richiamano tanti autori di graphic novel politici. Si pensi a Maus, vetta dell’opera di Art Spiegelman. Epocale romanzo dise gnato (vincitore del Premio Pulitzer nel 1991), che ricostruisce la vicenda (autobiografica) di una famiglia ebraica internata in un lager. Servendosi di alcuni stratagemmi da sempre cari alla storia dell’arte e al fumetto (personaggi con volti di animali), Art Spie gelman compie metamorfosi spietate: gli ebrei sono trasformati in topi, i nazisti in gatti. Elabora un’epica che cattura, e sa far sorridere, commuovere, piangere. Fa “ascoltare” discorsi sul do lore, sull’umorismo, su beghe quotidiane. Ci conduce in un uni verso tragico e, insieme, magico, che incanta con un ritmo lento e incantatorio. Maus è una storia splendida. […] Quando due di questi topolini parlano d’amore, ci si commuove, quando soffrono si piange. A poco a poco si entra in questo linguaggio di vecchia famiglia dell’Europa orientale, in questi piccoli discorsi fatti di sofferenze, umorismo, beghe quotidiane, si è presi da un ritmo lento e incantatorio, e quando il libro è finito, si attende il seguito con la disperata nostalgia di essere stati esclusi da un universo magico ha scritto Umberto Eco [l’affermazione di U. Eco è in Art Spiegelman, Maus (1986-1991), Einaudi, Torino 2000, p. non numerata].

Africa Comics In questa mappa, momento centrale l’esperienza del graphic novel del Continente Nero. Si tratta di un importante capitolo di quel macrocosmo ancora poco esplorato che è rappresentato dall’arte africana contemporanea. Un paesaggio vivace e mobile, caratterizzato da spinte e da controspinte: da aperture verso il mondo occidentale e da ripiegamenti. Da un lato, il bisogno di porsi in dialogo con le neo-avan guardie europee e statunitensi, sottraendosi ai modi propri del primitivismo e della négritude. Dall’altro lato, la necessità di non recidere i ponti con le radici, dando voce a una sensibilità etnicoantropologica.

11 tico quattrocentesco. Atmosfere. Conflitti. Appunti. Poi, pause. Distruzioni. Trasposizioni di vicende vere. Annotazioni di eroi minori dimenticati. A volte, incrociamo folle. Più spesso, solitu dini. Vuoti. Silenzi. Fino al limbo, che è come un’attesa prolun gata. È “il luogo ove riposano le anime”. Tante le assonanze con il cinema epico di Wenders e di Herzog. Il fumetto: scrittura melanconica, dietro cui si intuiscono ragioni private, assonanze intime.Nel

Bricoleurs che tendono a muovere sempre da qualcosa di esistente, gli artisti africani 2.0 si affidano a ricogni zioni filtrate in chiave lirica o ironica. Talvolta, riarticolano sug gestioni tratte dalla storia più recente dei loro paesi. Altre volte frugano in una vasta discarica di frammenti quotidiani o autobio grafici, di cui si appropriano, per riconvertirli infine in episodi pittorici e scultorei. Sulla soglia tra espressionismo, realismo vi

continente politico del graphic novel potremmo colloca re anche le tavole di Zerocalcare dedicate ad alcuni episodi stori ci drammatici (il G8 di Genova) e ad alcune aree del mondo feri te a morte (Gaza, Iraq, Kobane). Ne sono protagoniste minoranze ed eroi minori, ignorati dalla storia ufficiale. Nascono così coin volgenti testimonianze di episodi vissuti e raccontati in prima persona con lo spirito del reporter. Pagine del diario civile di un viaggiatore del nostro tempo, incline a pensare i propri lavori come occasioni per riflettere su alcune emergenze della nostra epoca, adottando punti di vista critici e inediti.

Le medesime oscillazioni ritornano nella graphic novel afri cana, la cui scoperta in Occidente risale agli inizi del Duemila. 2006, Harlem. Presso il museo newyorkese d’arte contempora nea afroamericana Studio Museum di New York, si tiene una mo stra oramai quasi leggendaria: Africa Comics. Un’importante occasione per scoprire le tavole di tanti sconosciuti graphic no velist africani. Tra i visitatori dell’esposizione, il critico statuni tense Robert Storr, che ne rimane a tal punto colpito da scegliere, in quell’archivio di visioni, il lavoro a quattro mani di un dise gnatore ivoriano (Nganguè Titi Faustin) e di un giornalista came runense (Eyoum Nganguè), per presentarli alla 52ª edizione del la Biennale di Venezia da lui curata (2007). Un’eternità a Tange ri – il titolo dell’opera – racconta il percorso di un ragazzo afri cano di Gnasville (luogo immaginario e rappresentativo di tutte le città africane), che arriva a Tangeri dopo un lungo viaggio fatto a piedi, a cavallo e in macchina attraverso tanti Paesi, sfi dando condizioni di vita disumane, controlli di polizia, traffican ti senza scrupoli. Nasce così una cronaca colonialista amara [cfr. N. Titi Faustin, E. Nganguè, Un’eternità a Tangeri (2004), Lai-mo mo, Bologna 2007]. Un’eternità a Tangeri è tra i tasselli più interessanti di un

12 sionario, attenzione civile, ultra-pop, neo-tribalismo e abbandoni segnici, pervengono a implicite forme di affabulazione. Si tratta di proposte figurative in cui questi artisti non vogliono informare su contesti né su problematiche: mirano, invece, a farsi inquieti testimoni delle condizioni umane e sociali di un’Africa combat tuta tra fascinazioni per i frutti della civilizzazione e ancestrali legami con mitologie e ritualità arcaiche.

Su queste basi si modulano gli esercizi elaborati da artisti sorretti da una notevole disponibilità linguistica e tecnica, abili nel transitare attraverso pratiche non contigue (pittura, scultura, installazione, video e, appunto, graphic novel), disinvolti nel vio lare gerarchie consolidate: il colto e il popolare, il sofisticato e il massificato. Ma, privi di un autentico senso dell’appartenenza a una determinata comunità, questi autori spesso appaiono conta giati da quel virus della globalizzazione stilistica – indissolubile intreccio tra internazionalismo, modernizzazione e omologazio ne – cui pochi artisti di oggi riescono a sottrarsi.

volontà di portarsi al di là di ogni tipo di intrattenimento – proprio di ampie regioni del fumetto europeo e statunitense – molti artisti attivi in Congo e in Costa d’Avorio, in Ciad e in Sud Africa, in Gabon e in Madagascar, in Cameroun e in Guinea, in Algeria e in Angola, in Benin e in Burkina Faso, in Egitto e in Marocco pensano il proprio mestiere innanzitutto co me un modo per comunicare, per confessarsi, per farsi ascoltare, per far conoscere contesti geografici, condizioni di vita, emer genzePersociali.svelare i lati più perturbanti del presente, non si affidano a fantasie né a concettualismi. Tendono a partire da fatti effettiva mente accaduti, intorno ai quali modellano originali microepi che. Con sensibilità sociologica, lontani della facile retorica, do cumentano in presa diretta alcuni eventi tragici. Con sobrio reali smo, ci consegnano avventure segnate da libertà negate, da soffe renze, da conflitti, da inquietudini. È quel che fanno Pat Masioni nell’album sul genocidio in Ruanda del 1994; Didier Kassaï nel resoconto della guerra in Repubblica Centrafricana del 2013; il gruppo Bitterkomix nel j’accuse sull’apartheid; e Al’ Mata, che ha seguito le peripezie di Alphonse Madiba, pseudo-studente africano espulso dalla Francia e costretto a ritornare nel suo Pae se di origine (2010).

13 ricco database disponibile in Rete (www.africacomics.net), in cui sono selezionate e raccolte alcune tra le rilevanti voci della graphic novel africana. Un fenomeno di bruciante attualità e di straordinario rilievo estetico, culturale e civile, caratterizzato da poche figure emerse (e pubblicate) in Occidente e da tante altre ancora sommerse e clandestine, a causa dell’assenza di una seria industriaAccomunatieditoriale.dalla

Pur con accenti diversi, questi autori insistono soprattutto sul tema della migrazione. Un atto esistenziale e, insieme, politico, scelto ma più spesso sofferto, che rinvia al paesaggio in cui s’incontra l’altro, dove l’incontro potrebbe precipitare nello scontro, l’ospitalità volgersi in ostilità: il riconoscimento del diverso da noi dovrebbe aprire a un’etica della prossimità e a una politica della coabitazione, ma non di rado sconfina nell’intolleran za e nella chiusura [D. Di Cesare, Il diritto di escludere non è legitti mo, in «Corriere della Sera», 22 luglio 2018].

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Di queste istanze si fanno interpreti tanti fumettisti africani, che disegnano storie nelle quali mescolano ricognizione storio grafica, passione reportagistica e slancio lirico. Ne sono protago nisti individui che, a causa di drammatiche situazioni economi che, sociali e politiche, lasciano la loro terra, per cercare rifugio sicuro altrove. Questi disperati subiscono violenze. Qualcuno ri esce a trovare vie di fuga; molti vengono cacciati dai Paesi dove avevano sperato di rifugiarsi; tanti intraprendono peregrinazioni senza fine, nomadi senza identità, condannati ad affrontare peri coli di vario tipo; molti, infine, non ce la fanno e muoiono. Dolo roso, per queste anime migranti, l’impatto con “noi”, che troppo spesso cerchiamo di salvaguardare i nostri privilegi e non i diritti umani, impegnati a difendere rigidi confini etnici. Seguiamo ansie quotidiane, vediamo volti disperati, condi vidiamo paure e piccole utopie. Abbiamo la sensazione di attra versare una straziante via crucis segnata da speranze e da delu sioni e costellata di profughi, di apolidi e di rifugiati, che devono destreggiarsi tra scafisti, trafficanti, poliziotti corrotti, negrieri senza pietà. Siamo dinanzi a un’Odissea clandestina, che po trebbe essere accostata a quella raccontata, in un emozionante libro-memoir intitolato Partire, da Mahmoud Traoré, uno dei tanti giovani africani che, attratto dal mito del mondo globaliz zato, si lancia sulle strade dell’esilio a piedi o a bordo di taxicollettivi, di camion da bestiame e di piroghe, lasciandosi alle spalle il Sahel, il Sahara, la Libia e il Maghreb, per arrivare a Siviglia [cfr. N. Traoré, B. Le Dantec, Partire (2014), Baldini e Ca stoldi, Milano 2018].

Per “riprendere” queste tragedie viste con gli occhi di perso naggi marginali, i fumettisti africani si affidano a disegni dai con torni netti, combinando pratiche non contigue (pittura, giornali smo d’inchiesta e cinema). Essi pongono sul medesimo piano soggetto, sceneggiatura, immagini e inquadrature; e fanno con fluire gusto per la narrazione, tensione pittorica e grafica in strips che ricordano da vicino le sequenze dei film muti.

Nell’incontrarsi, i diversi lavori degli autori della graphic no vel africana vanno a comporre un implicito kolossal cinemato grafico in bianco e nero. Che ci parla di un continente abitato da milioni di umiliati e offesi, condannati a cercare di sopravvivere,

15 feriti dalle infamie dei dolori, degli sfruttamenti, delle violenze, costretti a un sanguinoso viaggio attraverso le tenebre della sof ferenza. Una civiltà ancora repressa, oscura e ignorata, in gran parte ancora ignota. Un meraviglioso giacimento di talenti e di sperimentazioni: per noi impossibile da decifrare. Wole Soyinka ha scritto: La storia ha sbagliato. Le dichiarazioni secondo cui l’Africa è stata esplorata sono avventate come le notizie della sua morte imminente. […] Spero che […] nasca una nuova stirpe di esploratori per la corsa alla necessaria Età della Comprensione Universale, ispirata dall’Africa [W. Soyinka, Africa (2012), Bompiani, Milano 2015, passim]. Arte e antropologia Pur attivi a latitudini geografiche e culturali lontane, gli invo lontari eredi del pittore della vita moderna baudelairiano condi vidono un modo originale e lirico per interrogare alcune tra le questioni politiche, sociali e antropologiche più urgenti dell’età contemporanea. In particolare, per pronunciare alcuni drammi del nostro tempo, non di rado, essi sembrano “riprendere” i gesti frequentemente adottati dagli antropologi1.

Questiimmaginarie.limitiportano

molti antropologi e molti artisti a la sciarsi sedurre dagli attraversamenti e dalle metamorfosi. Si met tono in gioco; vogliono allargare i territori di azione ai quali tra dizionalmente appartengono; mettono in discussione gli ambiti dentro cui tendono a muoversi; varcano limiti e barriere; mesco lano esperienze e sensibilità; sperimentano sconfinamenti; si pongono ulteriori domande, per proiettarsi verso una trans-disci plinarietà nuova, intesa come smarginamento, una forma di spaesamento che somiglia […] all’‘essere afferrati da una trance’

Inattese convergenze. Siamo dinanzi a mestieri lontani ma intimamente affini. Che, innanzitutto, condividono alcune in quietudini. L’antropologo avverte il bisogno di “sentire” dall’in terno l’oggetto del proprio studio, ma la sua disciplina gli impe disce un’assoluta libertà. L’artista, invece, è portato a compene trarsi con la materia delle proprie visioni e avverte la necessità di affidarsi a una distanza critica, per non naufragare in quelle stesse situazioni

artisti tendono a “replicare” le ritualità cui si affidano proprio gli antropologi-astronomi che cercano di dare un senso a configurazioni sociali molto differenti, per ordine di grandezza e per lontananza, da quelle immediatamente vicine all’os servatore, mirando a far affiorare gli schemi nascosti dietro le più diverse civiltà [C. Lévi Strauss, Antropologia strutturale, cit., p. 314]. Dapprima, vittime di una estraniazione che li spossessa dalla loro soggettività per far emergere quella di qualcosa che

Dal canto loro, tanti artisti si lasciano sedurre proprio da quella dottrina impura che è l’antropologia, concepita, ha ricor dato Lévi-Strauss, come sapere della modernità costruito soprat tutto sulle culture senza-scrittura e sulle società pre-moderne –conoscenza dell’uomo; riflessione sull’uomo stesso a partire dal le sue opere e dalle diverse forme di società; esercizio di classifi cazione e di analisi; inventario delle possibilità inconsce sottese ai nostri comportamenti; scienza delle società chiuse, nelle quali i rapporti tra gli individui sono per lo più di tipo comunitario; studio di tutte le possibilità visuali nel contesto di determinate condizioni culturali [D. Freedberg, Antropologia e storia dell’arte: la fine delle discipline?, in «Ricerche di storia dell’arte», 94, 2008, p. 8]; infine, sfida per incorporare […] i dati relativi alle culture più lontane e più neglette, impegnata a portare a compimento l’im presa plurisecolare del pensiero umanistico, estendendo a nuovi ambiti geografici uno sforzo iniziato fin dal Rinascimento e che non ha cessato di attuarsi fino a oggi [C. Lévi Strauss, An tropologia, in Enciclopedia del Novecento, Treccani, Roma 1975, ad vocemMolti].

16 [A. Castelli, F. La Cecla, Scambiarsi le arti, Bompiani, Milano 2022, pp. 31-53].Iscrivendosi

nella prospettiva di questi sconfinamenti neces sari, gli antropologi si trovano così a riscoprire i lati creativi pre senti in culture diverse dalla nostra. Senza censurare i propri sen timenti, rivelano “nuove categorie mentali”, contribuendo a introdurre concetti di spazio e di tempo, di opposizione e di contraddizione, tanto estranei al pensiero tradizionale quanto lo sono quelli che si incontrano oggi in talune branche delle scienze naturali [C. Lévi Strauss, Antropologia strutturale (1964), Il Saggiatore, Milano (n. e.), p. 301].

il “contesto” come immagine, queste voci, perciò, scelgono di ibridare la pratica artistica con quella etno grafica. Per restituire il visibile colto in presa diretta, prendono note, schizzano, abbozzano, disegnano, raccolgono impressioni, memori di una consuetudine da sempre diffusa tra gli antropolo gi, portati a sperimentare paradigmi discorsivi originali: una scrittura reportagistica, una retorica nella quale non è possibile separare in modo netto e chirurgico il fattuale dall’allegorico [D. Freedberg, Antropologia e storia dell’arte: la fine delle discipline?, cit., p. Infine,6].

Con la propria sensibilità, molti artisti (come gli autori di graphic novel politiche) si pongono in ascolto di qualcosa che, con la sua presenza prepotente, “agisce” dal di fuori. Assegnano una decisiva centralità all’osservazione diretta, di prima mano: a quello che è stato definito il paradigma ottico [S. Tyler, L’etno grafia post-moderna: dal documento dell’occulto al documento occulto (1986), in Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Melte mi, Roma 1997, pp. 163-182]. Attribuiscono una cruciale importan za alla capacità di osservare, di descrivere, di catalogare e di analizzare nel modo più fedele possibile le dinamiche del pre sente. Affrontano le mutevolezze, le incoerenze e l’irripetibilità degli eventi concreti. Si lasciano interrogare dal reale: uno “scar to”, che sfida, mette in crisi, alimenta dubbi, è difficile da colma re e chiede di essere investigato. Delimitano, poi, il proprio fieldwork, cercando di saldare lo sguardo “dal di fuori” con lo “sguardo da dentro”. Interpreti della tensione tra ciò che è vero e la rivelazione di se stessi, sanno che ogni lavoro sul campo si dà sempre come riflesso deviato di un oggetto su un determinato soggetto.Perconservare

questi artisti non si limitano alla mera registrazione. Interiorizzano l’esperienza site specific. Evidenti anche qui le as sonanze con quel che fanno gli etologi, i quali propongono messe in scena di società o di culture fatte con l’aiuto di frammenti e di rottami, ricorrendo, però, a processi di de-temporalizzazione, a operazioni di distillazione paziente, per filtrare l’osservazione

17 è fuori di loro, si misurano con la sostanza vivente del mondo, senza limitarsi, però, a offrire semplici resoconti [A. Castelli, F. La Cecla, Scambiarsi le arti, cit.].

1 Dell’artista come antropologo ha parlato J. Kosuth in un saggio del 1975 (poi, in L’arte dopo la filosofia, a cura di G. Guercio, Costa&Nolan, Genova1987, pp. 53-75). Questa idea sarà ripresa da H. Foster, che ha de scritto l’artista come etnografo in Il ritorno del reale (1996), Postmedia bo oks, Milano 2006, pp. 175-210.

In questa geografia segnata da frequenti riprese di metodolo gie etnografiche, si situano tanti graphic novelist. Antropologi visivi che, pur conservando una forte attenzione nei confronti dei drammi della cronaca, per riprendere ancora le parole di LéviStrauss, cercano di conoscere e di giudicare l’uomo da un punto di vista sufficientemente elevato e distaccato, per astrarlo dalle contingenze particolari a una data società o a una data civiltà [Ivi, p. 53].

18 giornaliera [C. Lévi Strauss, Tristi tropici (1955), Il Saggiatore, Mi lano 1960, pp. 41-53].

Oggetto della nostra esposizione è il legame tra le categorie del tempo e dello spazio, segnatamente legate alla dimensione della memoria. È necessario quindi dare una definizione, sia pure sommaria, dei fattori chiamati in gioco. Le categorie

La dialettica, dal greco dialektikḗ (tékhnē) è l’arte di argo mentare con logica serrata, in modo particolarmente abile e per suasivo. In filosofia, metodo d’indagine razionale che, attraverso il dialogo e la discussione degli argomenti dell’avversario, si pro pone di determinare il contenuto concettuale della verità; per Pla tone coincide con la stessa filosofia, mentre per Aristotele essa è ridotta a scienza dell’argomentazione probabile.

Introduzione

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FUSCO, MARIA

Esse sono l’attribuzione di un predicato ad un soggetto. Sono specificamente le classi supreme di ogni predicato possibile, con cui poter ordinare tutta la realtà. Alle due categorie spazio e tem po va assegnata innanzitutto la loro priorità, nonché il loro con catenarsi; infatti non si dà tempo senza spazio e viceversa, né infine le due partizioni senza la memoria.

LogomachiaRENATODE DOLORES MORELLI

Nell’idealismo hegeliano, la stessa realtà nel suo divenire pe renne, in quanto questa, identificata con la natura stessa del pen siero, si scandisce in un ritmo dialettico di tesi, antitesi e sintesi.

Quella descritta da Schopenauer è una vera e propria logoma chia, ossia una disputa protratta con una sofisticata verbosità, ar ticolata in cento modi, primo fra tutti l’insistito errore. Infatti per gli eristi si può trovare una scusante: molte volte, all’inizio sono fermamente convinti della verità della loro affermazione; ma

L’eristica (dal greco erìzein, “battagliare”, indica l’arte di bat tagliare con le parole) è un’evoluzione della prima Sofistica di Protagora e di Gorgia. All’eristica non interessa se un discorso possa essere vero o falso né le definizioni delle parole che vengo no impiegate; il suo unico fine è quello di confutare il proprio av versario e di persuaderlo mediante la retorica a cambiare opinione.

Nell’età moderna Schopenauer riprende la questione e la pro pone nel modo più radicale: La dialettica eristica è l’arte di disputare, e precisamente l’arte di disputare in modo da ottene re ragione, dunque per fas et nefas, [con mezzi leciti e illeciti].

Si può infatti avere ragione objective, nella cosa stessa, e tuttavia avere torto agli occhi dei presenti e talvolta perfino a priori.

Il ricordo della sua probabile genesi si è fatto più chiaro co stituendo una forma di eristica.

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Ciò accade quando l’avversario confuta la prova dell’altro, e questo vale come se avesse confutato anche l’affermazione, della quale però si possono dare altre prove; nel qual caso, naturalmente, per l’avversario la situazione si presenta rovescia ta: egli ottiene ragione pur avendo oggettivamente torto. Sin golare il modo col quale Schopenauer tratta il problema in manie ra radicale. Infatti, alla domanda da dove deriva l’eristica, o me glio che cosa di negativo deriva da questa concezione il filosofo risponde: dalla naturale cattiveria del genere umano. Se questa non ci fosse, se nel nostro fondo fossimo leali, in ogni discus sione cercheremmo solo di portare alla luce la verità, senza affatto preoccuparci se questa risulta conforme all’opinione presentata in precedenza da noi o a quella dell’altro: diventerebbe indifferente o, per lo meno, sarebbe una cosa del tutto secondaria. Ma qui sta il punto principale. L’innata vanità, particolarmente suscettibile per ciò che riguarda l’intelligenza, non vuole accettare che quanto da noi sostenuto in princi pio risulti falso, e vero quanto sostiene l’avversario [A. Schope nauer, L’arte di ottenere ragione, Adelphi, Milano 1991, pp. 15-16].

21 ora l’argomento dell’avversario sembra rovesciarla: abbando nando però subito la nostra causa, spesso ci accorgiamo poi che avevamo invece ragione; la nostra prova era falsa, ma per quella affermazione era possibile darne una giusta: l’argomento risolutore non ci era venuto in mente subito. L’interesse per la verità, che nella maggioranza dei casi è stato l’unico motivo per sostenere la tesi ritenuta vera, cede ora completamente il passo all’interesse della vanità: il vero deve apparire falso e il falso vero [Ivi, p. 16].

Il filosofo ribadisce la sua visuale riassumendo: Dunque, di regola ciascuno vorrà far prevalere la propria affermazione, anche quando per il momento gli appare falsa o dubbia; e i mezzi per riuscirvi sono, in certa misura, offerti a ciascuno dalla propria astuzia e cattiveria: a insegnarli è l’esperienza quotidiana nel disputare [Ivi, p. 17].

La perentoria avversione ai sofisti trova conferma chiamando in causa la dialettica e la logica. Ma mentre la dialettica si fonda su due fattori, la logica su uno solo. Cosicché è inutile la logica nel dirimere le contese dialettiche.

Pertanto non condividiamo le tesi di Schopenauer, anche se apprezziamo il suo decisionismo, spesso da preferirsi all’ambi guità opportunistica. E va tenuto in conto in un momento politicoculturale come l’attuale in cui, come dice l’aforisma, “molti in ventano e pochi hanno modo di indovinare” [cfr. R. De Fusco, Chi parla inventa e chi ascolta indovina, «Op. cit.», n. 169, settembre 2020].

Il Tempo è collegato al movimento, viene sottratto alla pura aleatorietà del divenire e si lascia misurare. Secondo Platone il T.

Tempo La nozione di T. è stata costantemente oggetto di riflessione, spesso da punti di vista molto differenti, nel corso della storia della filosofia. Per definirla occorre quindi ricostruirne genetica mente lo sviluppo. Semmai si può ricordare l’etimologia del no me, dal greco tèmno e dal latino temperare, verbi entrambi signi ficanti l’atto con cui qualcosa è diviso secondo ordine e misura [cfr. S. Givone, Tempo, in Grande Dizionario Enciclopedico UTET, vol. XIX, p. 875].

Dice S. Agostino: In che modo si diminuisce e consuma il futuro che ancora non c’è? E in che modo cresce il passato che più non è, se non perché nell’anima ci sono tutte e tre le cose, presente passato e futuro? L’anima infatti attende e fa attenzione e ricorda, sicché ciò che essa attende, attraverso ciò cui fa attenzione, passa in ciò che ricorda. Nessuno nega che il futuro non ancora c’è; ma c’è già nell’anima l’attesa del futu ro. Nessuno nega che il passato non è più, ma c’è ancora nell’anima la memoria del passato. E nessuno nega che il presente manca di durata perché subito cade nel passato; ma dura tuttavia l’attenzione attraverso la quale ciò che sarà passa, si allontana verso il passato [Conf., XI, 28, 1]. Il teorema fondamentale di questa concezione è stato enunciato dallo stesso S. Agostino: Non ci sono, propriamente parlando tre tempi, il passato, il presente e il futuro ma soltanto tre presenti: il presente del passato, il presente del presente e il presente del futuro [Ibid., XI, 20, 1].

A S. Agostino si deve la migliore espressione e la diffu sione di questa dottrina nella filosofia occidentale. Il tempo è identificato da Agostino con la vita stessa dell’anima che si estende verso il passato o l’avvenire (extensio o distensio animi).

22 è il fondamento della misurazione del movimento, in quanto par tecipa della sua natura ma anche della natura dell’eternità, riu scendo dunque a essere, sulla base di questa, paradigma di quel lo. In questo senso si deve dire che il T. implica tre T.: presente, passato, futuro. Implica il presente, in quanto, come l’eternità, è al di là del divenire; implica il passato e il futuro in quanto è sog getto al divenire. Ma si deve dire inoltre che il T. scandisce il movimento, cioè lo misura, in riferimento a ciò che «era» e a ciò che «sarà». Ossia, per usare il linguaggio di Aristotele (Fisica, IV): «il T. è la misura del movimento secondo il prima e il dopo». La definizione di Aristotele rimarrà esemplare, per tutta la classicità e il Medioevo, e sarà un punto di riferimento per quan ti si occuperanno del problema. Da notare però che se Platone rispetto a Pitagora aveva spostato il piano della discussione da un ambito metafisico o più precisamente cosmologico a un am bito psicologico, Aristotele rispetto a Platone sposta a sua volta il discorso da un ambito psicologico ad un ambito fisico e mate matico.

23

La distinzione tra Arti dello spazio e Arti del tempo conserva ancora una sua validità di orientamento propedeutico, nell’uso critico concreto. D’altra parte, il concetto di tempo nelle Arti fi gurative, è congiunto teoricamente all’idea di spazio inteso come intervallo, ritmo, proporzione, simmetria, continuità compositi va, strutturale, dell’opera d’arte. Il sentimento dello spazio è ov viamente legato alle vicende stesse della storia dell’arte, nei di versi periodi: fa parte della organicità dimensionale degli stili. La composizione empirica della rappresentazione prospettica, prima del Brunelleschi; e la costruzione prospettica geometrico-mate matica, dal sec. XV fino all’età moderna, appartengono a quel motivo e quesito qualificanti della storia del gusto, che si chiama prospettiva artificiale: rappresentazione, illusione soggettiva, suggestione della terza dimensione spaziale, profondità; che è poi il sentimento simbolico dello spazio che l’artista intende tra smettere nell’opera, e comunicare al fruitore della medesima. Il momento della fruizione come proiezione e identificazione simpatica era stato teorizzato da Theodor Lipps, che in generale già aveva parlato di una «estetica dello spazio» nel suo Raumäs thetik und geometrisch-optische Täuschungen. Si tratta di quelle forme geometriche fondamentali (linee animate verticali, oriz zontali, ecc.), di cui noi sentiamo per analogia l’andamento vita le. Al concetto spaziale dei teorici della Einfühlung si collega profìcuamente il contributo critico dei teorici della pura visibili tà. I quali si sono adoperati, come è noto, ad istituire e definire categorie, o costanti, della visione figurativa. In proposito, è inte ressante la proposta di August Schmarsow relativa ai tre fattori principali che la contemplazione architettonica comporta: lo spa zio tattile, lo spazio visuale, lo spazio di moto in avanti (Gehraum).

Spazio

Lo Schmarsow inoltre, nei Grundbegriffe der Kunstwissenschaf ten (1905), distingue, nell’edifìcio architettonico, spazio interno

I termini di spazio, spazialità, spaziosità e gli aggettivi spa ziale, spazioso, ricorrono continuamente nel linguaggio della cri tica d’arte, assumendo aspetti semantici sovente differenti. La nostra trattazione dello spazio trova maggiore appiglio nel mon do dell’arte piuttosto che in quello della filosofia.

Quanto all’uso critico del concetto di S., l’accezione del ter mine, o delle relative aggettivazioni, subisce varianti di significa to. Si legga qualche brano della ormai classica monografìa di R. Longhi (1927) su Piero della Francesca. In poche righe si parla di «misure spaziali», «sentimento dello spazio», S. vinto dall’ener gia, «spaziosità»: Come, attraverso le equazioni degli angoli, Paolo (Uccello) raggiungesse l’arte, è cosa che s’intende quando si rifletta che in quegli anni giganteschi e rivoluzionari accanto alla ricerca scientifica sorgeva il modo lirico della ricer ca medesima; accanto alla ricerca delle misure spaziali, il sentimento dello spazio, incredibilmente propagatosi, infatti, dopo che il Brunelleschi aveva scoperto che una bellezza di rapporti metrici, la proporzione armonica, era annidata nella vastità delle aule antiche.

24 e spazio esterno, assai prima di altri teorici e critici dell’architet tura [cfr. M. Borissavliévitch, 1926, pp. 19-20].

Molti anni dopo, lo stesso R. Longhi (1952), nel considerare le sorprendenti facoltà prospettiche di Giotto, in merito ai cosiddetti «coretti» nella parete dell’arco trionfale della cappella degli Scro vegni, ha intitolato quel suo memorabile articolo: Giotto spazioso. Che lo spazio, il vuoto, sia il protagonista dell’architettura, a pensarci bene, è in fondo anche naturale: perché l’architettura non è solo arte, non è solo immagine di vita storica o di vita vis suta da noi e da altri; è anche e soprattutto l’ambiente. Memoria «Funzione psichica complessa che, attraverso i processi di fissazione, ritenzione, richiamo e riconoscimento dei dati della percezione, permette la riproduzione mentale di impressioni, nozioni, esperienze e comportamenti della vita passata, i quali in tale modo diventano elementi integrati e dinamici della personalità e rendono possibile l’attività psichica [S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Utet, 1978, vol. X, p. 46]; noi diciamo più semplicemente che la memoria è la fa coltà di ricordare. La memoria sembra costituita da due condizioni o momenti distinti: 1° la conservazione o persistenza, in una certa forma,

Nella maggioranza dei casi l’espediente funziona, anche se l’esempio resta comunque una riduzione. In altri casi, altrettanto frequenti, l’esempio è nocivo alla comunicazione.

S. Agostino riprende e sviluppa con intenso pathos religioso la teoria plotiniana e la trasmette al mondo cristiano: L’anima infatti attende e fa attenzione e ricorda, sicché ciò che essa attende, attraverso ciò cui fa attenzione, passa in ciò che ricorda [Confessioni, X, 14]. La concezione agostiniana, come si vede, rafforza la nostra interpretazione per cui spazio e soprattut to ricordo del tempo costituiscono la tesi dell’unità spazio-tem porale ovvero del ricordo. La questione dell’esempio Pertinente alle cose sopra discusse è il «problema dell’esem pio». Capita spesso che l’emittente ricorra all’esemplificazione del contenuto insito nel messaggio, ritenendo che la forma più ridotta del significante trasmetta più semplicemente il significato del mes saggio stesso: in altre parole, il concetto si traduce in un esempio.

Secondo Plotino, invece, il tempo non esiste fuori dell’ani ma: è la vita dell’anima e consiste nel movimento per il quale l’anima passa da uno stato a un altro della sua vita [Enneadi, Ili, 7, 11]: sicché anche l’universo si può dire che è nel tempo solo in quanto è nell’anima, cioè nell’anima del mondo [Ibid., Ili, 7, 3].

25 delle conoscenze passate che, per esser passate, devono essersi sottratte alla vista: questo momento è la ritentiva; 2° la possibili tà di richiamare, all’occorrenza, la conoscenza passata e di ren derla attuale o presente: che è propriamente il ricordo. La psico logia antica ha insistito sull’aspetto per il quale la memoria è conservazione, persistenza di conoscenze acquisite. In modo analogo, l’elencazione che S. Agostino fa dei «miracoli» della M., poggia sullo stesso concetto di essa come ricettacolo delle conoscenze o, secondo la sua espressione, «ventre dell’anima» [Confessioni, X, 14]. Questo è pure il concetto che della M. ebbero i filosofi medievali. S. Tommaso la chiama il tesoro e il posto di conservazione delle specie [S. Th., I, q. 29, a. 7], ripetendo un luogo comune della filosofia medievale. Ciò equivaleva ad insi stere sulla M. come ritentiva.

La misura del tempo non è soltanto ricavabile in termini tec nici, ma anche in termini psicologici. Paradossalmente, a una persona chiusa ed isolata, il tempo appare monotono e breve; vi ceversa a una persona libera di muoversi, il tempo e lo spazio ri sultano meglio ricordabili e appunto misurabili.

Prudenza vuole che l’emittente abbia argomenti più precisi non recepiti dall’altro interlocutore, il quale confonde il messaggio con argomenti apparentemente adeguati ma di fatto volti ad aver ragione e non a trovare un punto in comune.

Questa misura si può ricavare dalle azioni compiute: una vita monotona, rendendo indifferente un giorno rispetto all’altro, ap piattisce il tempo, annulla la storia; viceversa una vita dinamica, variando lo spazio e il tempo, compatta le azioni nella storia. Ad una comunità stanziale, il tempo appare monotono e paradossal mente breve; a una comunità nomade, libera di muoversi, il tem po e lo spazio risultano invece meglio ricordabili e, appunto, mi surabili.Poiché la storia è fatta di ricordi, questi sostanziano il tempo rendendolo parte di una storia; al contrario, laddove mancano le differenti azioni (il fare) e i relativi ricordi, manca la storia.

26

Nella disputa dialettica l’emittente esprime un concetto e/o un’informazione puntando su una conoscenza da parte del rice vente. Questi al fine di avere ragione tira in ballo ragionamenti non conseguenti alla comunicazione del primo interlocutore. In fatti, il ricevente, utilizzando le nozioni che possiede, ignora vo lutamente il messaggio e ne ribalta il contenuto. Ne risulta un palese malinteso e la perdita di quella comunicazione diretta.

La nostra tesi Manca a nostro avviso, una concezione del tempo – e segna tamente della sua misura – legata alla dimensione della memoria.

FRANCESCA TALEVI

27 Historic Waste Landscapes.

Una chiave di lettura per la città contemporaneastorica

Nel marzo del 2020, la pandemia di Covid-19 ha confinato l’urbanità in un tempo sospeso. Le strade si sono fermate, gli spazi pubblici si sono svuotati, le attività commerciali e i risto ranti hanno funzionato a singhiozzi. Per alcuni mesi, la città, nel suo insieme, ha smarrito il suo uso canonico, diventando unica mente rifugio, contenitore, protezione. La negazione dei luoghi di incontro e relazione, così come le rinnovate esigenze imposte dall’“anomalo abitare” dovuto all’emergenza sanitaria, hanno portato a profonde riflessioni sulla consistenza dell’urbanità del presente, sulle possibilità di revisione e reinvenzione dello spa zio, sulla necessità di riconoscere e affrontare con crescente con sapevolezza le nuove sfide, sempre più complesse, proposte dalla contemporaneità.Inquestoclima di vivo dibattito, le città storiche hanno rap presentato un’eccezione: al di fuori del canonico fluire del tem po, hanno rivelato una bellezza antica, luminosa, tanto suggestiva da essere costantemente immortalata da immagini, testi, racconti. Senza incontro, affermano Peter Brook e Grotowski [J. Gro towski, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma 1970; P. Brook, Lo spa zio vuoto, Bulzoni, Roma 1999], non può avere inizio l’azione tea trale: la pandemia ha avuto, dunque, l’inaspettato merito di inter rompere l’eterna messinscena dell’identità richiesta alle città del passato, diventando un’occasione per riconoscere le contraddi zioni insite nella “rappresentazione” del patrimonio, nella sua spettacolarizzazione e mercificazione. Manuela Raitano [M. Rai

François Jullien descrive lo scarto – l’“eccedenza”, ciò che è in tensione tra due diverse realtà culturali come uno strumento

Un tale cambio di prospettiva, senza dubbio provocatorio, permette di scardinare l’inibente prospettiva identitaria che carat terizza i luoghi del passato, e di interpretare l’urbanità antica e le sue emergenze non più solo come esempio da cui apprendere, ma come parte di un sistema più complesso, quello contemporaneo, a cui reimparare ad appartenere.

Le potenzialità del concetto di “scarto”

28 tano, La città storica un tempo era nuova. Cinque considerazioni, Let teraVentidue, Siracusa 2020], a questo proposito, mette in guardia dalla “rara e irreale bellezza” priva di una vera dimensione tem porale, sospesa in una condizione di perfezione lontana dalla re altà, vicina alle logiche che guidano i processi di musealizzazio ne: appare urgente riconoscere un punto di equilibrio che permet ta di tutelare il valore estetico, storico e testimoniale dell’antico, ma che consenta anche di restituire una dimensione viva, reale alle città del passato.

Considerando, dunque, la distorsioni prodotte dalla conserva zione, troppo spesso risolta nella sottrazione del patrimonio dal tempo attivo, così come gli “effets pervers” [F. Choay, L’allégorie du patrimoine, Editions du Seuil, Paris 1992] generati dai processi di valorizzazione e tutela dell’antico – come musealizzazione, gen trificazione, desertificazione, marginalizzazione, overtourism – si propone di ribaltare lo sguardo e di considerare le problematiche che investono i centri storici e le loro conseguenze sullo spazio urbano, come effetti dell’evoluzione della città contemporanea, rispetto alla quale gli spazi della storia permangono come “resi dui”, veri e propri “scarti” di un metabolismo feroce e inquieto.

Questo contributo, che affonda le sue radici in più ampio la voro condotto nell’ambito del dottorato di ricerca, intende dun que proporre una lettura inedita dei contesti stratificati e suggeri re un possibile “cambio di paradigma” che permetta di guardare alla città storica nella sua complessità e di riconoscere i profondi contrasti generati dalla ricerca di equilibrio tra inibizione e tra sformazione, tutela e sfruttamento, identità e genericità.

Lo studio delle potenzialità of ferte dagli “scarti” e dagli spazi residuali è diventato, a partire dalla fine degli anni ’801, un tema urbanistico di grande interesse, che ha assunto nel tempo numerose declinazioni2, riguardanti principalmente la tematizzazione e la reinvenzione di aree perife riche, degradate, dimenticate. La produzione di spazi residuali ha, però, di fatto, sempre interessato le trasformazioni delle città nel tempo: Claude Chali ne, racconta di come nel XVIII secolo, la Francia e l’Italia abbia no visto proliferare delle friche urbaines a causa della limitazio ne del potere ecclesiastico e per l’introduzione di nuove infra strutture [C. Chaline, La régénération urbaine, Presses Universitaires de France - PUF, Paris 9 settembre 1999], Ignasi de Solà Morales ri conosce in Alexanderplatz un multiforme terrain vague [I. De Solà Morales, Terrain Vague, in C. Davidson, Anyplace, MIT Press, Cambridge, Massachussets 1995], mentre Daniele Vitale evidenzia il fenomeno della marginalizzazione delle aree storiche parlando, per contrasto, della vitalità di Napoli [D. Vitale, Napoli e i Quar tieri Spagnoli, in Napoli: Montecalvario Questione Aperta. Teorie, Ana lisi e Progetti, a cura di S. Bisogni, Clean, Napoli 1994].

relative alla tematizzazione di luoghi pe riferici alla lettura dei tessuti storici richiede però, inevitabilmen te, di attuare un esercizio di “astrazione”, che permetta di leggere il patrimonio come un oggetto “architettonico puro” e la città, nella sua interezza, come costruita da materiale metastorico o iconologico: si sceglie, dunque, di adottare uno “sguardo archeo logico” e di sfruttare la somiglianza [P. Gardenfors, Conceptual Spaces: The Geometry of Thought, Bradford Books, Cambridge, Mass.

29 fecondo, esaltandone la capacità di suscitare riflessioni sfuggen do all’ordinario, distaccandosi dalla norma: lo scarto disturba, destabilizza, consente di scovare prospettive e intenzioni inedite che sfuggono al pensiero canonico [F. Jullien, Il n’y a pas d’iden tité culturelle, L’Herme, Paris 2016].

La scelta di utilizzare questo specifico sguardo orientato per individuare e descrivere le problematiche che interessano gli spa zi disfunzionali delle città storiche contemporanee è dovuta alla possibilità di attingere a un differente bacino interpretativo e pro gettuale, così come alla volontà di “disordinare” le canoniche logiche di Accostareintervento.leteorie

Gli scarti di Berger vengono, invece, riconosciuti come una risorsa progettuale: il dross, letteralmente, è la scoria di produ zione delle lavorazioni industriali dei metalli, è un rifiuto, neces sario ed auspicabile per la buona riuscita del processo. Allo stes so modo, i waste places che individua sono un indicatore di una sana crescita della città, sono non-luoghi in attesa di essere ri scritti, di assumere un nuovo ruolo.

Nel fornire un’attenta catalogazione degli spazi di scarto ge nerati dai processi evolutivi delle periferie, Berger non solo con sente di individuarne le principali caratteristiche spaziali e quali tative, ma fornisce dei precisi criteri di identificazione della natu ra delAll’interno“residuo”.di “Drosscape”, indaga, infatti, il senso del ter mine waste, arrivando a identificarne l’origine latina, che riporta a una condizione di desolazione, immensità e vuoto (vastus), di devastazione (vastare) e di svuotamento (vacare); la radice per siana vang, che richiama “l’impoverimento” e il sanscrito “una”, che riguarda qualcosa di “mancante”, “difettoso”; l’etimologia

30 2000] come mezzo descrittivo e di confronto. Solo in questo mo do, infatti, periferia e centro storico possono essere messi effica cemente a confronto, assumendo il senso analogo di rovine di un’urbanità che si è perduta [G. Celati, Finzioni Occidentali: Fa bulazione, Comicità e Scrittura, Einaudi, Torino 2001].

Diversi tipi di somiglianza Nel 2006, Alan Berger restituisce una personale lettura degli effetti dell’espansione dei sobborghi americani, identificando i drosscapes, letteralmente “paesaggi-scoria” generati dallo svi luppo urbano. Il suo lavoro si costruisce a partire dalla ricerca di Lars Lerup [L. Lerup, Stim & Dross: Rethinking the Metropolis, in Assemblage, vol. 25, MIT Press, Cambridge, Mass., 1995] che parla dei dross come di una componente strutturale della metropoli, e attingendo agli studi di Lynch [K. Lynch, a cura di M. Southworth, Wasting Away An Exploration of Waste: What It Is, How It Happens, Why We Fear It, How To Do It Well, Random House, Inc., San Francisco 1991] che in Wasting Away descrive i waste places come spazi in abbandono, derelitti, senza uso e definizione.

la definizione dagli studi di Turner sui rituali, dove la fase dell’“inbetweenness” viene identificata come quella che segue il distacco di un individuo dalla società e che precede il suo reinserimento in essa con un nuovo ruolo: un momento di radicale disarticolazione dell’identità, di instabilità e di destruttu

31 inglese (vast), che suggerisce il “declino”. Risentendo di diverse influenze culturali, la parola waste arriva a essere investita, nel tempo, dei significati più svariati (nel 1205 è “devastato”, nel 1340 “consumato senza scopo”, nel 1950 “intossicato” e nel 1964 “ucciso”), fino ad arrivare a costruire l’espressione wa sting, “dissipazione”, o wasteful, “spreco” [A. Berger, Drossca pe: Wasting Land in Urban America, Princeton Architectural Press, New York, 2006]. Comprendere il senso più profondo del termine aiuta, dunque, a servirsene per identificare alcune caratteristiche dei potenziali “paesaggi di scarto” delle città storiche, che si ma nifestano quando i luoghi risultano “impoveriti” dalla mercifica zione dell’identità (basti pensare a Lisbona e ai suoi azulejos, sottratti alle facciate degli edifici per essere venduti come souve nirs) e dalla conseguente mancanza di mixité sociale e di diver sificazione d’uso dello spazio [V. Gregotti, Demolire l’idea di Pe riferia, in Esportare il centro storico: Catalogo della Triennale di Mila no, Guaraldi, Rimini 2015, p. 66]; quando vengono “consumati senza scopo” dall’atteggiamento predatorio e voyeristico [G. Attili, Civita. Senza aggettivi e senza altre spiegazioni, Quodlibet, Macerata 2020] del turismo di massa; quando risultano “mancan ti, difettosi” perché frammentari o quando la ricchezza semanti ca di cui sono portatori viene “sprecata” impedendone la risigni ficazione.Come accade per l’appropriazione del senso di waste, anche il concetto di “inbetweennes” proposto da Berger offre una sti molante chiave di lettura per l’interpretazione della complessità dei centri storici odierni. I drosscapes sono definiti “liminali” perché sospesi in uno stato di transizione e relegati al margine, sulla soglia della vita della città, in attesa di un desiderio sociale che li riabiliti e che li reintroduca nella quotidianità con un nuovo valore e un nuovo status; sono, dunque, considerati in-between non solo perché interstiziali ma, soprattutto, perché in potenziale cambiamento.Bergercarpisce

Trovarsi in una condizione di liminalità significa, infatti, abban donare le precedenti caratteristiche per prepararsi ad acquisirne delle nuove, assumendo la natura di una “presenza assente”.

Waste Landscapes I Waste Landscapes descritti da Berger possono essere reali, nel caso in cui si considerino spazi oggettivamente degradati (di scariche, siti contaminati), ma anche legati alla percezione e al l’uso dello spazio: il ruolo del progettista è quello di riconoscerli e di comprendere come poterli reintegrare nella vita attiva della città, ottenendo benefici in ambito sociale, ambientale e culturale [A. Berger, cit., p. 237].

La ricchezza della nozione di inbetweeness fornita da Berger permette di riconoscere, dunque, in queste parti di città, non solo una dimensione interstiziale, di distacco e di alterità, ma soprat tutto l’aspirazione a rientrare in circolo e a “ri-cadere” nella real tà assumendo un senso e un ruolo inedito.

Uno stato analogo investe il patrimonio architettonico e urba no, confinato in aree circoscritte della città (in questo senso appa re particolarmente pertinente ed evocativa l’immagine dei wa terfronts urbani che, secondo Koolhaas, frammentano la Città Generica, dove i “turisti si riuniscono in mandrie intorno a grup pi di bancarelle” e orde di venditori ambulanti cercano di vende re gli aspetti “unici” dell’identità [R. Koolhaas, La città generica, in Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, a cura di G. Mastrigli, Quodlibet, Macerata 2006, p. 52) e sospeso in una fase di traumatica sospensione, in bilico tra un passato non più presente e un futuro, potenziale, volutamente non definito.

32 razione e, per questo, “altamente creativo” [S. De Matteis, Intro duzione, in V. Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 2013].

Tenendo fede a questa visione, la ricerca di Berger propone una catalogazione degli spazi disfunzionali dei sobborghi ameri cani, distinguendoli sulla base alle ragioni che li hanno prodotti: i Waste Landscapes of Dwelling si riferiscono ai vuoti che vengono intenzionalmente progettati all’interno o all’e sterno di nuovi insediamenti a carattere abitativo – gene

Dal punto di vista spaziale la condizione perché si formino questi tipi di paesaggi di scarto è la presenza di un limite, di un confine chiaramente identificabile (mura o cancelli), che imponga una duplice condizione di internità ed ester nità rispetto all’insediamento, così come uno stato di di sconnessione dal contesto; i Waste Landscapes of Infrastructures riguardano gli spazi prodotti dall’interazione del paesaggio con nuovi sistemi di trasporto, considerando le aree sottoposte a servitù, le fasce di rispetto, le zone interessate da diritti di passaggio (tratti di autostrada e ai nodi di interscambio), le ferrovie, ma anche gli impianti necessari al sostentamento energeti co della città (le trasmissioni elettriche, le condotte di gas e di carburante, gli acquedotti); i Waste Landscapes of Transitions rivelano la natura prov visoria degli investimenti e della speculazione immobilia re: sono, infatti, intenzionalmente disegnati per accogliere usi temporanei a servizio della produzione – come aree di assemblaggio o di sosta (staging areas), depositi, aree di stoccaggio, parcheggi, stazioni di trasferimento – ma sono concepiti anche per influenzare il valore immobiliare dei terreni. La principale caratteristica di questi paesaggi è la transitorietà e lo stato di attesa di una ridefinizione dell’i dentità. Sono aree il cui uso originale si è esaurito e non hanno, nel presente, alcuna collocazione funzionale; i Waste Landscape of Obsolescence sono concepiti per ac cogliere gli scarti dei consumatori, come le discariche, i siti di trattamento delle acque; i Waste Landscapes of Exchange sono paesaggi di abban dono prodotti dal cambiamento delle abitudini di consu mo: si tratta, in particolare, delle aree di pertinenza dei malls, un tempo principali centri commerciali delle città americane che, a causa delle trasformazioni economiche che hanno rapidamente mutato i bisogni dei cittadini, sono stati sostituiti dai più grandi e forniti supercenters, smar rendo definitivamente il loro ruolo urbano;

33 ralmente gated communities – dismessi a causa di varia zioni del mercato immobiliare o per un progressivo disuso.

L’individuazione di possibili tipologie di Historic Waste Lan dscapes, riconosciuti e catalogati sulla base delle descrizioni for nite da Berger e dell’osservazione dei fenomeni che più frequen temente interessano i centri storici, porta alla costruzione di un mosaico di possibilità narrative, alla definizione di uno strumen tario tematico utile per delineare un’immagine contemporanea delle città del passato, una rappresentazione variabile, multifor me, caleidoscopica, complessa.

Historic Waste Landscapes

Si può, dunque, immaginare che gli Historic Waste Landsca pes si manifestino proprio in questi contesti irrisolti e problema tici, in spazi prodotti dagli errori delle politiche di valorizzazione e dalle deformazioni della conservazione, dalla scelta di sottrarre il patrimonio alla città confinandolo in un altro tempo, un idealistico “altrove” […] (museo o centro storico, parco naturale o archeologico, monile o impianto urbanistico ecc.) [A. Terrano va, Valori della memoria e società post-industriale, in Le città & i pro getti. Dai centri storici ai paesaggi metropolitani, Atti del X Convegnocongresso nazionale ANCSA, 1989, a cura di A. Criconia, Gangemi, Roma 1993, pp. 107-108] e dalla sua speculazione.

34 i Waste Landscapes of Contamination riguardano siti fede rali come gli aeroporti, le basi militari, i depositi di muni zioni e campi di addestramento, le aree utilizzate per ope razioni chimiche, petrolifere o minerarie.

Sconnessione dall’esistente, transitorietà, relazione con le in frastrutture, obsolescenza, perdita del ruolo urbano e contamina zione, sembrano essere le principali caratteristiche alla base della formazione dei Waste Landscapes che scandiscono i sobborghi americani, tutte condizioni che, seppur in forma diversa, possono essere riscontrate anche nei contesti storici europei: qui, il mandato di conservare l’immagine della città ha radicalmente mu tato la realtà urbana [R. Ingersoll, Sprawltown: Looking for the City on its Edges, Princeton Architectural Press, New York 2006], non più canonicamente vissuta e abitata ma, piuttosto, offerta sull’altare di un turismo tanatoscopico, bramoso di una sua rappresentazio ne iconica ed estetizzata [G. Attili, cit.].

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I paesaggi dell’esclusione. Come accade per le gated com munities di Berger, anche le città storiche si riscoprono ricche di enclaves – che potremmo definire, sfruttando un’espressione di Toffler, enclaves del passato [A. Toffler, Future Shock, Bantam Books, New York Toronto London 1999] – luoghi esclusi, disconnes si, dove i cambiamenti e le novità sono volutamente inibiti e dove è negata qualsiasi relazione attiva con la contemporaneità. Gli Historic Waste Landscapes of exclusion vengono riconosciuti principalmente nelle aree archeologiche urbane, porzioni di tes suto antico scardinate dal contesto attraverso il disegno di limiti fisici e normativi che ne sottolineano l’alterità e ne impediscono l’appropriazione.

Gli scavi di Piazza della Vittoria a Siracusa rap presentano un esempio di questo fenomeno (un esempio, come gli altri che seguiranno, inteso alla maniera di Agamben, una “singolarità fra le altre”, affrontata, nella sua specificità, con l’aspirazione di essere rappresentativa di una serie di condizioni analoghe [G. Agamben, Esempio, in La comunità che viene, Einaudi, Torino 1990, pp. 7-10]: qui, la scelta di isolare l’area, ha provocato una progressivo sentimento di estraneità e indifferenza da parte dei cittadini, che ha portato i resti dell’antica via Lata Perpetua a giacere in una condizione di abbandono e noncuranza.

I paesaggi delle infrastrutture. Come accade per le periferie americane, anche nelle città storiche l’interazione con le infra strutture ha inevitabilmente influito sulla strutturazione del pae saggio urbano, spesso generando spazi residuali e negando la consistenza dello spazio originario. I Fori Imperiali sono un vali do esempio di Historic Waste Landscapes of infrastructures: qui, l’arbitrario disegno di Via dei Fori Imperiali ha mutato la consi stenza delle antiche piazze alterandone il rapporto di continuità. Il complesso, nella sua interezza, è così ridotto a un insieme di lacerti sconnessi e risulta per questo depotenziato, negato, inter rotto.

I paesaggi dell’incomunicabilità. Aldo Rossi parla di obsole scence [A. Rossi, L’architettura della città, Città Studi Edizioni, Mila no 1966] alludendo alle dinamiche proprie dei processi di trasfor mazione delle città e, in particolare, a ciò che rimane immutato nel cambiamento. L’immagine che consegna è quella di “isole” incapaci di adattarsi allo sviluppo generale, delle grandi aree di

36 riserva, introverse, ricche di valore testimoniale ma incapaci di dialogare con la contemporaneità. La chiesa di St. Martin a Bir mingham è un efficace esempio di “Historic Waste Landscapes of incomunicability”: architettura fondativa della città, sottoposta a vincolo di tutela, si trova oggi immersa nell’area commerciale del Bullring, rispetto alla quale appare, paradossalmente, aliena ed estranea.

I paesaggi della marginalizzazione. Gli Historic Waste Lan dscapes of marginalization si identificano come parti fondative della città antica che, nel tempo, hanno progressivamente smarri to il loro ruolo urbano: come accade per i malls americani, sono spazi prodotti dal cambiamento, dalla mutazione di scenari poli tici, economici e sociali oltre che da una progressiva obsolescen za. È il caso dell’Acropoli di Atene, “elemento primario” della città, indissolubilmente legato ai suoi processi trasformativi nei secoli (ne è il nucleo fondativo, in seguito è legata al culto di Atena e poi a quello cristiano, diventa Roccaforte del ducato di Atene e cittadella islamica…) oggi area archeologica del tutto estranea al funzionamento urbano.

I paesaggi della monosemia. Questo tipo di condizione di scarto, relativa alla “decomplessificazione semantica” del patri monio [F. Choay, Del destino della città, Alinea, Firenze 2008], ri guarda permanenze che hanno perso la propria funzione primaria per assumere un significato unicamente turistico. La Reggia di Versailles è un chiaro esempio di Historic Waste Landscape of monosemic buildings: non ospita più la corte di Francia né rap presenta più il fulcro del complesso impianto urbano e paesaggi stico di Versailles, ma si presenta oggi come un oggetto isolato, di cui, ogni anno, si appropriano transitoriamente milioni di visi tatori.

I paesaggi della museificazione e della desertificazione. Gli Historic Waste Landscapes of museification/desertification ri guardano i paesaggi urbani storici sottoposti a musealizzazione, impossibilitati a mutare la propria immagine e privati dei propri abitanti. Venezia rappresenta un caso emblematico: l’esasperata patrimonializzazione del tessuto urbano è stata accompagnata da una progressiva desertificazione della città insulare che, dal 1951 al 2021, ha visto l’esodo verso la terraferma di 123.600 abitanti.

Recuperare waste landscapes e drosscapes significa, infatti, intervenire “per” e “con” la trasformazione, conferire nuovo si gnificato a luoghi incapaci di relazionarsi virtuosamente con il presente, rimettere in circolo lo spazio sfruttando pratiche conte stuali e adattive. I progetti sui paesaggi di scarto si servono della combinazione di diversi livelli di senso, di temporalità, di inter vento: destabilizzare le canoniche modalità di tematizzazione dei contesti storici permetterebbe di preservare la loro “rara e irreale bellezza” e, al contempo, di rianimarne la forza vitale, di reinven tarne le modalità di conoscenza.

L’istintiva tensione dei waste landscapes ad appartenere nuo vamente alla città potrebbe, infatti, permettere ai luoghi della sto ria di riappropriarsi della naturale propensione al “tradimento” [M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento religione, scienza, architettura, Einaudi, Torino 1985], all’innovazione, sottraendosi a qualsiasi vi schiosità conservatrice [ibidem] e arrivando, invece, ad assumere un “nuovo tempo”, “un nuovo ritmo” e “un nuovo sistema di va lori” capaci di restituire la storia alla vita attiva della città.

Conclusioni Quella che viene proposta è una classificazione sintetica e “aperta”, in movimento, che individua solo alcune possibili casi stiche che interessano la città storica e che si presta a essere con tinuamente manipolata, arricchita, ampliata, riconfigurata.

I paesaggi della turistificazione. La condizione di turistifica zione investe i centri storici trasversalmente, dalla scala del pae saggio urbano a quella architettonica, rappresentando una forma di violenta contaminazione dell’identità. Il centro storico di Pari gi è il caso di un Historic Waste Landscape of touristification: il cuore della città sta, infatti, diventando saturo di “spazio turisti co”, con evidenti effetti sul mercato immobiliare (airbnbifica tion), sulla modificazione del tessuto commerciale e sull’uso dei luoghi pubblici.

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La volontà posta alla base del lavoro è quella di fornire un punto di vista che possa aiutare a riconoscere la complessità che investe questi specifici contesti urbani nell’epoca contemporanea e a individuare, nelle contraddizioni, inedite possibilità.

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1 Il riferimento è alla teoria dell’Ecological Urbanism, nata in continu ità con gli studi sul Landscape Urbanism condotti da Mohsen Mostafavi, Charles Waldheim, James Corner, Stan Allen, Alex Wall presso la University of Pennsylvania tra il 1987 e il 1990. 2 Sara Marini in “Nuove terre” raccoglie alcune delle principali teorie sul tema: “Blanc”, “déchet”, “drosscape”, “espaces délaissés”, “friches”, “garbage”, “junkspace”, “non-lieu”, “reste”, “ruines”, “terrain vagues”, “Tiers paysage”, “vacant land”, “vides”, “wasting away”, “zone”, a cui si aggiungono “Derelict land”, “Empty or abstract settings” e “Dead spots”, “Wasteland”, “Urban wilds” e “Urban sinks”, “No-man’s land”, “Dead zo nes” e “transgressive zones”, “Superfluous landscapes”; “Spaces of uncer tainty”. S. Marini, Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto, Quodli bet, Macerata 2018; K. Talento, M. Amado, J.C. Kullberg, Landscape A Review with a European Perspective, in «Land», 8 (2019), 6, p. 85.

La nel progetto, ovvero del Case-Based Reasoning nell’architettura e nel design

Quando Eduardo Souto de Moura costruisce la Torre Burgo a Oporto, l’intenso aroma miesiano non toglie niente all’origi nalità e alla qualità di questa architettura [Alberto Campo Baeza, Principia architectonica, 2018].

Così, nell’Architettura contemporanea possiamo incontrare molti e buoni esempi di come è stata utilizzata la Memoria, la Mnemosine, in maniera adeguata.

Quando Juan Navarro Baldeweg progetta il Palazzo dei Congressi di Salamanca, il ricordo della cupola sospesa della Casa-Museo di Sir John Soane a Londra, riletto in maniera ma gistrale, collabora efficacemente a generare uno spazio meravi glioso.Quando Alvaro Siza costruisce il ristorante Boa Nova a Oporto, una delle sue prime opere, il fatto che Alvar Aalto sia chiaramente presente nella sua concezione spaziale e nei detta gli, non toglie un briciolo della propria originalità né della stra ordinaria qualità al maestro portoghese.

MATTEO ZAMBELLI

memoria

Everything that is absorbed and registered in your mind adds to the collection of ideas stored in the memory: a sort of library that you can consult whenever a problem arises. So, essentially the more you have seen, experienced and absorbed, the more points of reference you will have to help you decide which direc tion to take: your frame of reference expands [H. Hertzberger, Lessons for Students in Architecture, 1991].

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Il modello tradizionale, chiosa Janet Kolodner, ricercatrice e autrice di libri fondativi sul CBR, cerca quindi di rendere la co noscenza il più generale possibile in modo da poterla applicare universalmente: nel formulare modelli, l’obiettivo è catturare quanto c’è di comune in una varietà di oggetti simili. Sebbene molte regole siano particolarmente specifiche, l’obiettivo è formulare regole che siano applicabili in generale [J. Ko lodner, Case-Based Reasoning, Morgan Kaufmann Publishers, San Mateo, California 1993, p. 8]. L’approccio CBR ribalta tale modello – pur non negandone il valore e l’importanza per il ragionamen to, tanto da considerarlo un modello complementare al quale si può ricorrere –, sostenendo che quando una persona ragiona non declina principi astratti, ma ricorda e richiama alla memoria “esempi concreti” di situazioni del passato al fine di utilizzarli per risolvere una particolare situazione problematica o per com prenderla. L’intuizione del CBR sta nel fatto che le situazioni ricorrono con regolarità. Quello che è stato detto in una situazione è probabile che sia applicabile a un’altra simile. Se si conosce ciò che ha funzionato in una situazione del passato, somigliante alla nuova, si parte da qui a ragionare su quella nuova [Ivi].

40 Premessa. Che cosa è il Case-Base Reasoning Case-Base Reasoning (CBR) significa ragionamento basato su casi. Il CBR è un modello cognitivo1 sviluppato nell’ambito dell’intelligenza artificiale e della psicologia cognitiva, che ha da to origine a una teoria del modo in cui si ragiona nel problemsolving. Il modello tradizionale del ragionamento postula che la conoscenza risiede nella memoria umana sotto forma di principi generali e astratti, come lo sono le regole (nel qual caso si parla di “ragionamento basato su regole”, regole del tipo “se → allora/ne consegue che”) e i modelli (nel qual caso di parla di “ragiona mento basato su modelli”, altrimenti detto “ragionamento a par tire da principi primi”), e le persone ragionano applicando i prin cipi ritenuti appropriati per risolvere i problemi da risolvere [A. Heylighen, In case of architectural design. Critique and praise of Ca se-Based Design in architecture, Tesi di dottorato, Katholieke Universi teit Leuven, 2000, p. 45].

Il ciclo del CBR può essere descritto attraverso i seguenti quattro processi: richiamare un caso o più i casi ritenuti simili al problema da risolvere; riutilizzare l’informazione e la conoscenza di quel caso o di quei casi per risolvere il problema. Si parla di riuso tra sformativo quando la soluzione del vecchio caso o dei vec chi casi non viene applicata direttamente al problema, ma esistono degli operatori di trasformazione che intervengo no apportando delle modifiche; che è quanto avviene nor malmente nella progettazione. Nel caso del riuso derivati vo si reimpiega il metodo utilizzato nel passato per risolve re un problema per risolverne uno nuovo; revisionare le soluzioni proposte per valutarne la validità; archiviare la nuova soluzione, e le nuove conoscenze ac quisite, per poterle riutilizzare nel futuro. L’archivio delle nuove conoscenze viene arricchito e aggiornato con un nuovo caso che potrà essere d’aiuto per risolvere future situazioni problematiche.

41 Christopher K. Riesbeck, computer scientist ed esperto in in telligenza artificiale, e Roger Schank, psicologo cognitivista ed esperto in intelligenza artificiale, i cui studi sulla “memoria dina mica” sono a fondamento della teoria del CBR, affermano che il CBR è l’essenza del modo in cui gli esseri umani lavorano. Le persone ragionano a partire dall’esperienza. Utilizzano la loro esperienza, se ne hanno una significativa a disposizione, o impiegano l’esperienza altrui in modo da trarre informazioni da quelle esperienze e, continuano gli studiosi, virtualmente, ogni volta che c’è un caso del passato a disposizione a partire dal quale ragionare, le persone lo troveranno e lo utilizzeranno come modello per prendere le loro decisioni nel futuro. Il processo di CBR può essere molto vantaggioso per chi deve pren dere delle decisioni e conosce una grande quantità di casi ed è stato capace di indicizzarli in modo tale che i casi più rilevan ti gli vengano in mente quando sono necessari [Ch. K. Rie sbeck, R.C. Schank, Inside CBR, Lawrence Erlbaum Associates, Pu blishers, Hillsdale, New Jersey 1989].

Come funziona la creatività Philip Johnson-Laird, psicologo cognitivista, sostiene che il prodotto di un atto creativo è formato a partire da elementi esistenti, ma secondo combinazioni nuove per l’individuo e (nei casi più fortunati) per la società intera [Ph. Johnson Laird, De duzione Induzione Creatività. Pensiero umano e pensiero meccanico, Il Mulino, Bologna 1994, p. 163].

In perfetta armonia con Johnson-Laird, nel libro Fantasia Bruno Munari sostiene che il prodotto della fantasia, come quello della creatività e dell’invenzione, nasce da relazioni che il pensiero fa con ciò che conosce. È evidente che [l’individuo] non può fare relazioni tra ciò che non conosce, e nemmeno tra ciò che conosce e ciò che non conosce. La fantasia, quindi, sarà più o meno fervida se l’individuo avrà più o meno possibilità di fare relazioni. Un individuo di cultura molto limitata non può avere una grande fantasia, dovrà sempre usa re i mezzi che ha, quello che conosce, e se conosce poche cose tuttalpiù potrà immaginare una pecora coperta di foglie inve ce che di pelo. È già molto sotto l’aspetto della suggestione. Ma, invece che continuare a fare relazioni con altre cose, si dovrà ad un certo punto, fermare […]. Se vogliamo che il bambino diventi una persona creativa, dotata di fantasia svi luppata e non soffocata (come in molti adulti) noi dobbiamo quindi fare in modo che il bambino memorizzi più dati possi bili, nei limiti delle sue possibilità, per permettergli di fare più relazioni possibili, per permettergli di risolvere i problemi ogni volta che si presentano [B. Munari, Fantasia, Laterza, Bari 1999, pp. Arthur29-30].Koestler afferma che l’atto della creazione non è un atto di creazione nel senso del Vecchio Testamento. Non crea dal nulla; discopre, seleziona, mescola, combina, sintetizza fatti, idee, capacità, tecniche già esistenti […]. ‘È evidente’, afferma Hadamard, ‘che l’invenzione e la scoperta, sia in matematica che in qualsiasi altro campo, abbiano luogo combi nando idee […]. Il verbo latino cogito, “penso”, significa etimologicamente “agitare insieme”. Sant’Agostino l’aveva no tato e aveva anche osservato che intelligo significa ‘scegliere

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43 tra’” [A. Koestler, L’atto della creazione, Casa Editrice AstrolabioUbaldini Editore, Roma 1975, pp. 109-110].

In sintesi, l’atto della creazione consiste nel mettere in rela zione oggetti o enti diversi preesistenti, assimilabili agli “ele menti esistenti” (Johnson-Laird) e a “ciò che l’individuo cono sce” (Bruno Munari), in apparenza privi di connessioni dirette. Case-Based Design, ovvero il CBR applicato alla progettazione Il riconoscimento da parte degli autori precedenti (ma molti altri potrebbero essere citati), ossia che gli architetti e i designer imparano a progettare a partire dall’esperienza, che altro non è che la conoscenza e il reimpiego, con le variazioni e le ricali brature e gli adattamenti necessari, di soluzioni date nel passato per risolvere problemi di progetto attuali ritenuti per qualche aspetto simili a quelli vecchi, conferma che il modello cogniti vo del CBR si verifica anche nella progettazione. Il CBR appli cato alla progettazione viene definito “case-based design”, è una sua sottocategoria e rappresenta una delle sue specifiche applicazioni.Case-based design in italiano si può tradurre con “progetta zione basata su casi”. Ma cosa sono i casi? La domanda è legitti ma perché nell’architettura e nel design difficilmente si menzio na il termine “caso”, si preferisce invece parlare di “riferimenti” o “esempi” di progetto.

Ann Heylighen, architetta, autrice di numerosi saggi sul ca se-based design e co-ideatrice di DYNAMO, un sito internet case-based rivolto agli studenti di architettura, afferma che i ca si incorporano la conoscenza di soluzioni progettuali del passato che possono essere utili nella nuova situazione di progetto. Come con le tipologie, una conoscenza simile si espri me nella forma di un oggetto architettonico. Tuttavia, la differenza principale consiste nel fatto che l’oggetto non è un modello astratto che generalizza fra diversi esempi [ come nel caso della tipologia, N.D.A.], ma è un progetto concreto che comprende tutti i dettagli che lo rendono un progetto unico. Di conseguenza i casi contengono potenzialmente la conoscenza di ogni singolo aspetto dell’architettura, così come

44 l’integrazione di questi aspetti in un tutto coerente. In altre parole, i casi forniscono sia la conoscenza delle componenti sia la conoscenza concettuale […]. I casi forniscono una soluzione naturale al problema dell’integrazione nella progettazione architettonica: essendo essi stessi soluzioni integrate di contesti particolari, essi provvedono al collante che tiene assieme un progetto. L’utilizzo di un caso concreto di progetto consente agli architetti di raggiungere implicitamente dei compromessi fra le questioni, le richieste e gli aspetti diversi a cui un’architettura deve rispondere. Di conseguenza, quando il compito dell’architetto è di inventarsi un concetto per integrare i diversi aspetti del suo progetto, il ri(uso) di un caso sembra essere una strategia particolarmente potente fin da subito nel processo progettuale [A. Heylighen, cit., pp. 30-31 e p. I32].casi, nello specifico, sono esempi di progetti di architettura o di design del presente o del passato, realizzati o non realizzati, riconosciuti come fonte di conoscenza utile per la risoluzione di nuovo un problema di progetto. Tuttavia, in generale, al termine caso può essere data un’accezione più ampia: i casi sono qualun que conoscenza pregressa che un designer utilizza come spunto per risolvere un progetto, gli spunti possono essere i più etero cliti, di provenienze le più astruse, delle epoche più diverse e disparate.Unbuon numero di studiosi, ricercatori e soprattutto proget tisti riconosce che gli architetti e i designer impiegano largamen te i casi nei diversi passaggi del processo progettuale, quelli che vanno dalla fase iniziale di generazione del concept – durante la quale, brancolando alla ricerca di idee, i progettisti visitano ar chitetture, esaminano la letteratura sul tema, sfogliano riviste e tirano fuori vecchie stampe, ritagli di articoli, fotografie, foto di gitali dai loro stessi schedari – fino allo sviluppo dei disegni ese cutivi, quando le soluzioni di dettaglio costruttivo vengono rica vate da progetti del passato, basti pensare all’impiego in molti studi (come quello di Renzo Piano, Norman Foster, Frank Gehry, solo per citare alcune archistar) di dettagli standard, che riduco no la produzione di disegni esecutivi quasi a un esercizio di copia e incolla.

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Il primo passaggio del ciclo del CBR è il “richiamo”. Richia mare vuol dire scandagliare nell’archivio della propria memoria per trovare – per analogia, somiglianza, affinità, corrispondenza – il caso o i casi più adatti al nuovo problema da risolvere.

Indicizzare e classificare la conoscenza Comprendere significa un’indicizzazione intelligente2 Con Johnson-Laird, Munari e Koestler abbiamo visto che per essere creativi bisogna conoscere molto e possedere una cultura vasta da arricchire incessantemente per costruire un archivio di conoscenze il più ampio possibile in modo tale da poter stabilire facilmente delle relazioni inedite fra i dati acquisiti e mai messi prima in collegamento.

Per riuscire a richiamare uno o più casi adeguati al problema da risolvere è necessario che essi possiedano degli attributi capa ci di qualificarli: è la questione dell’indicizzazione della cono scenza. L’indicizzazione è cruciale, perché il case-based design (come ovviamente il CBR) funziona nell’ambito del problemsolving solo se i casi sono stati archiviati nella memoria con degli indici – altrimenti detti parole chiave, etichette, attributi, metada ti, indici o con i termini inglesi tags, labels, keywords – che ci permettono: di descriverli rispetto ai loro contenuti, caratteristi che, proprietà, funzioni, ragioni, scopi, luoghi, contesti. Pertanto i casi indicizzati sono “operanti”, al contrario, rimangono inerti e inservibili, perché una memoria priva di materiali o di rubri che (vuota o disorganizzata) è uno strumento inutile. [E] una memoria ricca di materiali non rubricati è una memoria che consente solo associazioni intuitive o fortuite [M.P. Arredi, Analitica dell’immaginazione architettonica per l’architettura, Marsilio Editori, Venezia 2006, p. 66] tant’è che: la quantità di conoscenza e informazioni non è il costrutto più utile. Ricerche in ambito educativo suggeriscono che la struttura organizzativa della conoscenza è almeno tanto importante quanto la quantità di conoscenze nell’apprendimento di qualunque particolare dominio della conoscenza. Se la conoscenza è archiviata e codi ficata in un modo che la rende facilmente accessibile e utilizzabile è più probabile che venga impiegata [R. Oxman, ThinkMaps: Teaching design thinking in design education, in «Design Stu

46 dies» vol. 25, n. 1, 2003, p. 65]. Schank ribadisce a sua volta: in qualsiasi discussione sulla memoria il problema decisivo è l’indicizzazione. Quando un ricordo ce ne rievoca un altro abbiamo fatto due cose. La prima cosa è che, per una varietà di motivi di elaborazione, abbiamo trovato una struttura di me moria. La seconda è che abbiamo trovato, per mezzo di qualche metodo di indicizzazione, il posto particolare in quella struttura dove era memorizzato il ricordo specifico che abbia mo rievocato [R.C. Schank, Memoria dinamica. Una teoria della rievocazione e dell’apprendimento nei calcolatori e nelle persone, Mar silio Editori, Venezia 1987, p. 117].

Indicizzare esplicitamente la conoscenza contenuta nei casi per archiviarla e poterla richiamare al fine di utilizzarla per risol vere un problema di progettazione non è affatto semplice, anche perché l’indicizzazione dei casi normalmente avviene in modo inconscio, matura con l’esperienza, dipende dai contesti (cultura li, geografici e d’impiego), dai punti di vista, dagli obiettivi, dai gusti e dall’agenda del progettista, dalle teorie in voga in un certo momento. Il tutto per dire che uno stesso caso non verrà mai in dicizzato e archiviato in modo univoco e universalmente “valido” e quindi sempiterno; la sua codificazione è, e rimarrà, fluida, fles sibile, “malleabile” e mutevole, in una parola: dinamica. Ma al lora come è possibile indicizzare e archiviare dei casi con gli at tributi appena elencati?

Un metodo per scomporre, indicizzare, rappresentare, archiviare e ricercare casi: la design story e il formalismo Issue-ConceptForm Rivka Oxman3, architetta israeliana ricercatrice nell’ambito dei design studies, ha elaborato un modello per scomporre, indi cizzare, rappresentare e memorizzare dei casi (chiamati dalla stu diosa “precedenti”) da poter riutilizzare nell’ambito del problemsolving in architettura e nel design.

Oxman afferma che uno dei problemi più rilevanti nel rappre sentare i progetti è la ricchezza e la complessità del loro contenu to descrittivo. Ogni precedente contiene molti pezzi di informa

47 zione correlati che sono spesso difficili da descrivere e da decom porre. Secondo la studiosa un approccio in grado di descrivere la complessità delle conoscenze contenute in un caso è quello basa to sulla scomposizione in frammenti della conoscenza contenuta nel precedente. La studiosa propone il concetto di “storia di pro getto”, impiegato come un mezzo per decomporre la conoscenza del caso in pezzi rappresentativi separati e indipendenti […]. [Il concetto di storia] si basa sulla frammentazione della massa di informazioni contenute in un intero caso in componenti distinte, rilevanti e più piccole. Il contributo significativo della “storia” come pezzo rappresentativo è che si tratta di una rappresentazione selettiva ricavata da un caso che ha una particolare lezione da insegnare. La storia di progetto viene […] impiegata come uno strumento per decomporre in fram menti le descrizioni esistenti di precedenti di progetto com plessi. Per ogni precedente di progetto possono essere rappresentate molte storie di progetto [R.E. Oxman, Precedents in De sign, cit., p. 143].

Lo smontaggio di un caso è un’operazione concettuale im portante perché un singolo precedente di progetto è una soluzio ne globale a una serie di problematiche specifiche, che la decom posizione interpretativa fa emergere, e può esprimere molteplici significati; quindi un metodo di scomposizione e ri-rappresenta zione di un riferimento aiuta a svelarne la complessità e a inter pretarlo da prospettive diverse. Al fine di scomporre e rappresentare le storie di progetto, Oxman ha elaborato uno schema tripartito da lei chiamato forma lismo Issue-Concept-Form (ICF). Ogni storia di progetto tiene assieme le tre componenti del formalismo ICF.

Il design issue o issue Il design issue è una questione, un problema, un obiettivo generale di progetto, che è stato risolto nel caso analizzato, sia esso un caso di architettura o di design. Ogni precedente normal mente risolve diverse issue, e quindi, come detto poc’anzi, con tiene diverse storie.

48 Il design concept o concept Il concept è la formulazione di un’idea di progetto in relazione all’issue [Ibidem, p. 144]. Il concept è una possibile risposta alla domanda (issue). Di conseguenza il concept orienta la solu zione di progetto più generale espressa dall’issue, senza però dar ne alcuna configurazione formale specifica. Ovviamente le rispo ste, ossia i concept, alla stessa domanda di progetto, ossia l’issue, possono essere diversissime. La design form o form La form è la forma specifica dell’artefatto che materializza il concept di progetto. Come si intuisce, uno stesso concept può essere risolto con forme differenti sia dallo stesso progettista e tanto più da progettisti diversi. Oxman fa un esempio per spiegare il concetto di storia di pro getto e il relativo formalismo ICF in azione. Il precedente di par tenza scelto dalla studiosa israeliana è la Neue Staatsgalerie (1984) di James Stirling, Michael Wilford and Associates, a Stoc carda. Il problema generale, quindi l’issue, posto dal programma funzionale era garantire attraverso il museo la “continuità urbana pedonale” fra una strada carrabile ampia e ad alta percorrenza posta in una posizione più bassa rispetto alla strada di distribuzio ne interna di un quartiere residenziale. “Percorso di attraversa mento” è il concept individuato dall’architetto inglese per rispon dere all’issue “continuità urbana”. Il concept “percorso di attra versamento” descrive la possibilità di attraversare il museo senza costringere nessuno a entrarvi e, sottolinea Oxman, il concept, piuttosto che indicare una specifica soluzione di progetto, descrive il principio della separazione fisica degli spazi chiusi degli edifici da quelli destinati alla circolazione pubblica [Ibidem].

Come detto poc’anzi, il concept capace di dare risposta all’is sue avrebbe potuto essere diverso da quello prescelto. E lo stesso concept avrebbe potuto essere realizzato in form diverse da quel la definitiva. Nel caso del museo di Stirling era la rampa pedona le avvolta attorno al tamburo circolare la form capace di materia

La combinazione di issue, concept e form definisce una fra le altre possibili storie di progetto derivabili dal caso di progetto Neue Staatsgalerie.

Torniamo all’esempio della scomposizione in una storia di progetto del caso rappresentato dalla Neue Staatsgalerie, gli indi ci trovati sono: “continuità urbana” per l’issue, “percorso di attra versamento” per il concept e “rampa attorno a un tamburo” per la form. Essi sono le parole/locuzioni chiave per indicizzare e quin di archiviare quella precisa storia di progetto desunta dal caso. E le stesse parole/locuzioni chiave diventano gli indici di ricerca attraverso i quali interrogare, navigare, esplorare e fare ricerche nel magazzino della propria memoria (o di un database o sito internet) per trovare storie simili da riutilizzare per risolvere un progetto che ha issue o concept o form simili.

Il formalismo Issue-Concept-Form: indicizzare un precedente di progetto

E qui si apre l’importate questione relativa a quali siano le parole/locuzioni chiave da utilizzare per indicizzare un caso. Al proposito ci viene in aiuto Roger Schank, il quale afferma: l’e strazione degli indici è un processo profondamente soggettivo privo di un modo prestabilito per trovarli [R. Schank, Dynamic Memory Revisited, cit., p. 97]. Per lo studioso la definizione degli indici è quindi una questione del tutto personale, il che sta a si gnificare che ognuno è libero di etichettare i casi o di utilizzare gli indici per richiamarli come meglio crede, e in funzione delle proprie conoscenze e della facilità di memorizzazione.

49 lizzare il concept “percorso di attraversamento”. Quindi la “ram pa circolare” è l’elemento morfologico finale che si relaziona all’issue di partenza “continuità urbana” attraverso il concept “percorso di attraversamento”.

Quali sono allora le parole chiave per indicizzare una design story? Sono esattamente quelle parole/locuzioni chiave utilizzate per qualificare le issue, i concept e le form di una storia di proget to ricavata da un precedente di progetto. Esse formano il lessico del sistema di indicizzazione e tutte assieme concorrono a forma re un vocabolario di dominio.

50 Per la scelta delle locuzioni/parole chiave ritenute più adatte si può ricorrere ai metodi di classificazione formale, riferendosi alle ontologie di dominio, o, come suggerisce Oxman, alle parole utilizzate nei testi contenuti nei libri o nei saggi storici, critici, interpretativi o descrittivi di un precedente; infatti per la Neue Staatsgalerie Oxman aveva ricavato le parole/locuzioni chiave da un testo critico di William J.R. Curtis, pubblicato su «The Archi tectural Review».

Gli indici ricavati con il formalismo ICF funzionano all’in terno della struttura della memoria per supportare l’archiviazio ne, la ricerca, la rappresentazione, la navigazione e il richiamo dei casi di progetto presenti nella struttura della nostra memoria.

Le design story e le reti semantiche rappresentative del formali smo Issue-Concept-Form

Per spiegare in cosa consista la rete semantica, riprendiamo di nuovo il caso della Neue Staatsgalerie e vediamo come posso no essere utilizzate le parole chiave con le quali sono stati quali ficati l’issue, il concept e la form. Come abbiamo visto in prece denza la storia di progetto è composta dall’issue “continuità ur bana”, risolta con il concept “passaggio di attraversamento”, materializzato in una form costituita da una “rampa” attorcigliata attorno a una “corte circolare”. La “corte circolare”, attorno alla quale si avviluppa la rampa, è una form che può appartenere a un’altra storia, la cui issue è l’“orientamento”, e il cui concept è “spazio focale”. La stessa issue “orientamento” e il relativo con

Ogni storia di progetto ricavata da un caso non è una monade, essa grazie al formalismo ICF viene messa in relazione con altre storie, simili ma non identiche, che sviluppano gli stessi issue o concept o form. Quindi, ogni storia è parte di una rete semantica espandibile a piacimento. E la rete – sostiene Oxman – è il principale elemento di strutturazione della memoria [R.E. Oxman, R. Oxman, PRECEDENTS, cit., p. 280]. La rete semantica è impor tante perché esplicita, rappresentandoli sotto forma di reti se mantiche, proprio quei collegamenti concettuali taciti che i desi gner stabiliscono in modo naturale [R.E. Oxman, Precedents in de sign, cit., p. 142].

alla Neue Staatsgalerie, il cui concept “passag gio di attraversamento” lo si può ritrovare nel Carpenter Center for the Visual Arts (1962) di Le Corbusier a Cambridge, nel Massachusetts, dove però si presenta come una rampa che sale dal piano terra, attraversa lo spazio espositivo, in questo caso entrando dentro lo spazio, non lambendolo, per poi fuoriuscire dall’altra parte e riportare il visitatore alla quota del livello del terreno, sempre con una rampa. In entrambi i casi, lo stesso concept è stato risolto in due edifici diversi con due form diffe renti.La form “rampa attorno a una corte circolare” della Neue Staatsgalerie potrebbe rimandare al Museo della memoria del l’Andalusia (2010) di Alberto Campo Baeza a Granada, in Spa gna, solo che sia il concept, che potrebbe essere “movimento ascensionale”, sia l’issue, che potrebbe essere “passeggiata ar chitettonica”, sono diversi. La rampa progettata dall’architetto spagnolo, a differenza di quella di Stirling, è una doppia rampa a eliche incrociate e sovrapposte, capace di distribuire il movimen to dei visitatori in modo tale che chi scende non incrocia mai chi

51 cept “spazio focale” si possono riscontrare nella rampa elicoidale che si sviluppa attorno al vuoto circolare della hall del museo Guggenheim di Frank Lloyd Wright a New York, solo che qui la rampa diventa parte dello spazio espositivo e insieme consente ai visitatori di sapere sempre dove si trovano. La form “rampa eli coidale come spazio espositivo” o il concept “spazio espositivo ascensionale continuo” del museo Guggenheim possono essere messi in relazione con la proposta di progetto di Alberto Campo Baeza per il museo della Mercedes-Benz (2002) a Stoccarda. Con delle differenze. La spirale dell’architetto spagnolo, orga nizzata circoscrivendo un vuoto centrale, non è racchiusa all’in terno di uno spazio, ma è libera e dà essa stessa forma all’edifi cio: la spirale è l’edificio. Il concept “spazio espositivo ascensio nale continuo” può ricordare il City Museum (2004) di Ofis Arhi tekti a Lubiana, perché è la rampa a spirale degli architetti slove ni a guidare il visitatore per tutte le sale del museo a partire da quelle contenenti i reperti archeologici romani, ubicati nella parte basamentale, per arrivare a quelli rinascimentali esposti nei piani più Ritorniamoalti.

Il primo è la doppia rampa della piscina dei pinguini (1934) dello Zoo di Londra di Berthold Lubetkin, riconosciuto come uno dei suoi riferimenti fondamentali da Campo Baeza, il quale rivela che nella rampa elicoidale possiamo ritrovare, tramite la Memoria, la rampa dei pinguini di Lubetkin nello Zoo di Londra.

Un metodo per utilizzare la memoria Quanto proposto è un metodo cognitivamente fondato rivolto agli studenti di architettura e di design finalizzato a insegnare loro come archiviare la conoscenza per riutilizzarla nell’ambito del problem-solving progettuale.

La rete di relazioni si costruisce e si visualizza utilizzando come indici le parole/locuzioni chiave che qualificano le issue, i con cept e le form; gli stessi indici sono le parole/locuzioni chiave attraverso le quali interrogare e navigare il magazzino delle no stre conoscenze, conoscenze esplicitate, perché strutturate e rap presentate.

Sebbene con scale molto diverse, utilizzo [nel Museo della memo ria dell’Andalusia, N.D.A.] il meccanismo di una rampa dalla pianta circolare inserita in una scatola dalla pianta ellittica a cielo aperto. La combinazione del movimento ascensionale, più la compressione-dilatazione delle pareti, è di grande efficacia spaziale [A. Campo Baeza, Principia architectonica, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2018, p. 61].

Il secondo caso è la “scala a doppia” del pozzo di San Patri zio (1527-37) a Orvieto, opera di Antonio da Sangallo il Giova ne, realizzata per consentire l’approvvigionamento dell’acqua in modo tale che gli animali che scendevano con i barili vuoti non si incrociassero con quelli che salivano con i barili pieni, evitando così gli ingorghi e l’alternativa di realizzare una scala molto più larga.Come si intuisce, la rete di relazioni che può essere intessuta fra le storie, estratte da casi diversi, è estendibile a piacimento, poiché la sua ampiezza dipende dalle conoscenze della singola persona e dalla sua capacità analitica e di stabilire collegamenti.

52 sale. La form “rampa a doppia elica sovrapposta” può rimandare ad altri due riferimenti di progetto appartenenti a contesti diversi.

2 Cfr. R.E. Oxman, R. Oxman, PRECEDENTS: Memory Structure in Design Case Libraries, in U. Flemming and S. Van Wyk (eds.), CAAD Fu tures ’93, Elsevier Science Publishers 1993; R.E. Oxman, (1994), Prece dents in Design: A Computational Model for the Organization of Precedent Knowledge, in «Design Studies», vol. 15, n. 2, 1994; R.E. Oxman, Educa ting the Designerly Thinker, in «Design Studies» vol. 20, n. 2, 1999; R.E. Oxman, Think-Maps: Teaching design thinking in design education, in «De sign Studies» vol. 25, n. 1, 2003. 3 R.C. Schank, Dynamic Memory Revisited, Cambridge University Press, New York 1999, p. 98.

1 Un modello cognitivo spiega di quale tipo sia la conoscenza dell’uo mo, come egli la acquisisce, in quale modo la utilizza per risolvere o spiega re dei problemi e delle situazioni, e quindi compiere azioni intelligenti, come la archivia e la richiama.

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Premessa

disegno

Il saggio intende riflettere sul rapporto tra la disciplina del disegno e il tema della costruzione in architettura, considerando la sempre crescente forza del complesso e vasto contesto cultura le in cui il disegno si inserisce e la trama delle relazioni che ne coinvolgono la dimensione formativa. Da un lato vi è la posizio ne di conferma della rilevanza del disegno e della sua utile parte cipazione alle iterazioni interdisciplinari e formative che offrono un palese riscontro nell’attualità; dall’altro lato le discussioni e le pratiche tendono ad assumere una dimensione babelica, derivan te da una sorta di devianza e distanza rispetto al senso inerente al tema della costruzione. La stessa tradizione di un sapere disciplinare sembra ora mai accantonata a vantaggio di una diffusa nuova mentalità, dettata dalla classe dominante, che preme per nuovi traguardi basati su esperienze tecniche e scientifiche contrapposte alla prassi più classica, appartenuta anche al recente passato. Que sta logica si articola in forme molteplici ma produce effetti pre cisi: la scuola, i saperi, le discipline sono i primi capisaldi col piti dall’egemonia della complessità, trasformatasi, per mere ragioni applicative, nell’egemonia del superficiale, Si smarrisce così l’unità dell’introspezione, insita nella storia e nel fare co struttivo dell’uomo, che si produce attraverso la teoria e la pra tica quotidiana.

Il di Atena ANDREA DONELLI

Gli antichi Greci ritenevano che un uomo, nonostante le sue abilità o attitudini e al di là della sua capacità di ottenere succes si, dovesse sempre conservare una certa umiltà: macchiarsi di arroganza e superbia al punto tale da non rendersi più conto dei propri limiti porta un uomo dall’apice del successo all’abisso del fallimento: dagli originari miti greci è possibile, ancora oggi, trarre preziosi spunti di riflessione e in particolare una lezione diretta. Anche nel mondo cristiano, specie nelle figure dei Santi o nella vita dei Padri del deserto, si pratica con rettitudine e fortez za la virtù dell’umiltà, che oltre ad essere distintivo della vita sobria e distaccata dall’egoismo, è segno di intelligenza e di sa pienza. Al contrario, il termine egemonia sta a significare una specie di politica delle alleanze, ma anche il sottoporre le mi noranze, ossia i soggetti più deboli economicamente e indifesi nei confronti dell’astuzia del dominio corrente, all’influenza ideologica e politica delle classi dominanti, comprese le loro propaggini più avanzate. E qui si giunge al ruolo degli intel lettuali. Essi, così come osserva Gramsci, “si sviluppano lentamente rappresentano tutta la tradizione culturale di un po polo, vogliono riassumerne e sintetizzarne tutta la storia”; ecco perché il “vecchio tipo di intellettuale” non riuscirà mai a “rompere con tutto il passato per porsi completamente sul terreno di una nuova ideologia” [L. Gruppi, Il concetto di egemo nia in Gramsci, Editori Riuniti, Roma 1972].

Dal canto loro, i soggetti deboli sono poveri di elementi orga nizzativi, non hanno e non possono formare un proprio strato di intellettuali. Questa disposizione piramidale tocca un concetto che è di grande attualità. Per costruire un blocco sociale alterna tivo alle classi dominanti, le forze che mirano a organizzare le classi lavoratrici di un tempo devono riuscire a “disgregare il blocco intellettuale” avversario, demistificarne l’ideologia, sma scherarne le menzogne. Quest’ultimo aspetto trova la sua diffi coltà di azione per una sorta di politeismo che l’egemonia della complessità ha ampiamente diffuso come sindrome del possesso, strategia di una volontà incline verso la durata reattiva all’incer tezza, alla mutuazione costante all’istantaneo, all’immateriale

56 Egemonia della complessità

D’altro canto in questo momento l’architettura attuale può dirsi incapace anche di un compromesso con l’industria culturale. Questo fatto è dovuto all’insieme della complessità che non rie sce ad includere ed assimilare molta arte d’avanguardia, molte delle sue opere intelligenti ed argute di livello sperimentale, la stessa letteratura moralistica che sembra muoverle le accuse più accese non riesce a produrre – ad eccezione di quegli edifici con

57 dall’esito provvisorio, un insieme di cose e di fatti eletti come nuovi valori. che conducono però alla distrazione, alla devianza dalla natura propria del fare dell’uomo. L’egemonia in atto, in sintesi, è molto simile a un modello feudale che costituisce l’assenza e, prima ancora, la privazione di un pensiero critico sul mutamento. Mutamento che non significa inseguire l’idea di un mondo completamente digitale come av viene con la narrazione predominante secondo cui il digitale e la digitalizzazione risolveranno ogni problema compreso quelli del sociale (dalla corruzione alla partecipazione dei cittadini). Il punctum dolens è la convinzione che introdurre anche nella scuola strumenti digitali migliorerà tutto, apprendimento e prestazioni, capacità di analisi … chi non capisce è un apocalittico, colui che si oppone al cambiamento etc.; ora che, len tamente, ci si sta rendendo conto che le questioni sono un po’ più complesse noi, invece, siamo bravi a renderle complicate [P. Dominici, Fuori dal Prisma, in «nòva Il sole 24 ore», giàbuono(dondedello-feudaledominici.nova100.ilsole24ore.com/2015/11/22/legemonia-di-un-mohttps://piero].Allostessomodoilsuccessoperformantedell’attualeattivitàarchitettonica(considerataperilmomentoglobalmentesenzaeccezioniqualitative)elesuebennotenegativitàrichiedonoallastessacriticanuovistrumenti,nonbastandopiùledenunceesteticheomoralistiche,néleartificiosepolemichetraavanguardiaetradizione,specieinunsettoredoveillivellamentodellinguaggiorendedifficilitalidistinzioni.L’impiegodisoftwareperdisegnarel’architetturaol’usodimezzidicomunicazione1che,secondoElémireZolla,sonotutt’altrochemerimezzilastoliditàdicolorocheinsistonoavolernefareunusoinvecechemalvagio)diventanoperlalorostrutturastessadeimessaggi,deimodidiconfigurarelarealtà[cfr.E.Zolla,cit.in Architettura e cultura di massa, «Op.cit.», n. 3, maggio 1965].

58 troppa esplicita funzione pubblicitaria – un’architettura che non sia massificata.Ildisegnodi

Atena (dal greco Αθήνη o Αθηνᾶ), la dea greca nominata poi Minerva dai Romani e accertata quale protettrice delle arti, specialmente quelle femminili del filare e del tessere, ma anche quelle maschili del lavoro operoso e intelligente, pre vede la lettura degli eventi. Essa, nella storia del mito di Aracne sembra, come nell’oggi, cedere alla corporate image. Al contra rio la dimensione estetica è intimamente legata alle proprietà ge ometriche, siano esse analitiche o meccaniche, così come a quel le della geometria descrittiva e proiettiva. Ogni tratto e linea ma tematicamente definiti possiedono una loro verità – realtà che sono loro intrinseche, esprimono un codice, una legge, ma rap presentano anche un’idea e recano con sé pregi e virtù. Negare queste cose significa rinchiudersi nel cieco ed egoista rifugio della pigrizia e dell’ignoranza [E. Benvenuto, in E. Torroja, La concezione strutturale (1960), Cittàstudi, Milano 1995, p. xi].

Saper riconoscere attraverso il rilevamento e il disegno l’ar chitettura significa collocarsi dinnanzi ad essa allo stesso modo in cui gli antichi affrontavano le questioni del costruire così come del restaurare, accertando senza mediazioni, tanto meno strumen tali, la verità. Il toccare con mano fa comprendere ciò che svia, ciò che il tempo elimina, ciò che è durevole rispetto al provviso rio, l’utile al bisogno, il necessario. In questo modo la menzogna della complessità che strumentalmente si tramuta in una mera applicazione che appartiene alla superficialità, viene rivelata tra mite l’essenzialità, il senso e il valore che sono segni di una par ticolare bellezza: quella che è propria, ad esempio, del disegno storico del suolo, che dava conto della profondità delle unioni e delle congruenze, atto di completezza e di unità tra il disegno della terra e il disegno della fabbrica. Lo stesso vale per il disegno di dettaglio: la sua esemplarità costituisce le figure “retoriche” che formano la struttura: sono figure aperte, sono sillepsi, preteri zioni, paronomasie, ossimori e metafore. Ogni retorica si colloca in una topologia così come ogni topologia si dispone ad una rico nosciuta retorica. Rappresentare l’architettura indica pertanto il volgere e il trasmutare un processo in cui è accertato che il dise gno diviene conoscenza, ossia la ragione delle forme essenziali.

Acqua alle corde. Il n’y a pas de détail dans la construction (Auguste Perret)

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Gli antichi Greci avevano una parola per definire ciò che si intende per proporzione: συμμετρία, da cui il termine simmetria

Nella contemporaneità, tessere attraverso la geometria la “tela” della realizzazione del disegno di architettura eguaglia il mito di Atena ed Aracne in cui Atena dapprima cerca di dissuadere la giovane dalla sfida ma poi accetta di competere nella creazione dell’arazzo più bello. La dea sceglie come soggetto la potenza degli dei nel punire gli uomini. Anche Aracne sceglie di rappre sentare nella sua bellissima tela gli dei, ma ridicolizzandoli, mo strandone le debolezze e i capricci dei loro amori con i mortali.

“Acqua alle corde” è la frase pronunciata da un marinaio in un improvviso impeto di saggezza durante il sollevamento dell’o belisco di piazza San Pietro il dieci Settembre del 1586. Papa Sisto V aveva pubblicato un editto che imponeva, pena la morte, che nessuno parlasse durante l’operazione, peraltro molto com plessa, relativa alla messa in opera del monumento. Il capitano Benedetto Bresca, un marinaio di Sanremo, vedendo che le corde che reggevano il monolito sotto lo sforzo della tensione si allun gavano e stavano per spezzarsi, non curandosi della diffida papa le, gridò nel suo dialetto la nota frase aiga ae corde!

Quando Atena si rende conto che l’arazzo di Aracne non solo deride le divinità, ma è anche di una bellezza e perfezione insupe rabili, va su tutte le furie. Non può accettare di essere stata battu ta da una mortale e, livida di rabbia e d’invidia, scatena la sua ira su Aracne, distruggendone la tela e colpendola sulla testa con la spola del telaio. La giovane, sconvolta, cerca di impiccarsi ma, in punto di morte, Atena viene mossa da indulgenza e la salva, in fliggendole tuttavia una terribile punizione per l’arroganza dimo strata. La trasforma in un ragno e la condanna a tessere la sua tela per l’eternità. Il ragno, così come il lavoro di tessitura e di conse guenza la ragnatela, sono simbolo del lavoro meticoloso, del fare o meglio, del costruire secondo una tensione consona al grado di appropriatezza e adeguatezza di una complessità che assolve il compito e il ruolo che le è naturale, quello dell’essenzialità.

Acute osservazioni inerenti a ragionamenti geometrici sono svol te da Viollet-le-Duc nell’impiego della geometria descrittiva, uti le per il tracciamento e l’applicazione delle proiezioni verticali e orizzontali, di sezioni e ribaltamenti riferiti al disegno, così come direttamente dal disegno saranno costituite le singole parti e l’in tera costruzione della fabbrica. Si pensi al tracciamento dei prin cipi ordinatori di una struttura a volta: il disegno ordina la dispo sizione, la forma e la resistenza dei punti di appoggio e ne con sente in tal maniera la corretta esecuzione; e in ciò Viollet-le-Duc si rifà direttamente all’esperienza di Villard de Honnecourt. La derivazione riferita al rapporto duale tra geometria e costruzione si riscontra anche nello studio relativo alla proporzione delle sta tue: l’analisi sulla scultura consente a Viollet-le-Duc di intercet tare una regola ritrovando nella modellazione tridimensionale il canone approssimativo per lo studio delle articolazioni utili per il movimento del corpo umano. Si associano inoltre in questo caso i valori antropomorfi, considerati come tratto caratteristico delle metafisiche arcaiche che ricercano un equilibrio “simpatetico” tra uomo e natura. Il dettaglio costruttivo in architettura rappre senta l’essenza di un elemento, di una sua parte, di una connes sione di elementi di una fabbrica. Ne è la rappresentazione il più delle volte tecnico-grafico-geometrica che si dispone nell’esecu zione in opera come la configurazione fisica, visibile ma, al ter mine dell’esecuzione e della stessa finitura, non più visibile. La costruzione dell’incalmo a “dardo di Giove” nella capriata in le gno, ad esempio, è un elemento essenziale e fondamentale, un

Di fatto un manufatto può essere simmetrico ma non costruito secondo proporzioni adeguate. Anche un artista poco abile può adottare un approccio simmetrico, mentre servirà arguzia e atten zione per stabilire delle convenienti ed adeguate proporzioni. Le dimensioni indicano le lunghezze, le larghezze e le altezze non ché le superfici, mentre le proporzioni costituiscono l’unità e la congiunzione con cui si stabiliscono rapporti tra le parti e il tutto.

60 il quale non ha alcuna diretta relazione con significato di origine.

In architettura le proporzioni si fissano sulle leggi della stabi lità, sul senso del costruire, in quanto la proporzione è stretta mente legata alla geometria, all’ordine in cui secondo Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc regola la sua disposizione naturale.

61 dettaglio costruttivo, un giunto di non facile esecuzione. La sua realizzazione richiede preparazione ed esprime intelligenza co struttiva oltre che fascino e bellezza relativa alla sapiente mae stria inerente la carpenteria lignea. L’esecuzione del “dardo di Giove” consiste in un doppio cuneo a parallelepipedo, che deve essere sempre collocato in modo verticale per consentire sia al modulo di resistenza (W), che al momento di inerzia (riconosciu to analiticamente anche quale momento di secondo ordine o se condo momento d’inerzia) di garantire stabilità, connessione e congruenza. Infatti, la questione del “dardo di Giove” riguarda principalmente l’inerzia, la proprietà geometrica di un corpo, de finita come il secondo momento della massa rispetto alla posizio ne: esso misura l’inerzia del corpo al variare della sua velocità angolare, una grandezza fisica usata nella descrizione del moto dei corpi in rotazione attorno a un asse, e nei moti rotatori: il momento d’inerzia gioca il ruolo che ha la massa nei moti lineari. Insiti nel pensiero del dettaglio costruttivo, vi sono la conoscenza costruttiva, il calcolo, l’esperienza, l’intuizione e di conseguenza l’accompagnamento che procede dal disegno alla realizzazione in opera degli stessi elementi. Si tratta di una serie di passaggi di scala, tutti avvertiti sia dall’architetto e dall’ingegnere che da parte delle maestranze. L’arguzia dell’esperienza nella posa in opera consente di completare una serie di operazioni, di chiudere un ciclo ragionato, uno spirito “opus sectile” fascinoso che in qualche maniera si sviluppa, il quale ricorre nel tessere un pro gramma costituito da pensieri, disegni, calcoli, prove, messa in opera e poi infine dalla stabilità, come a dire un “rede in te ipsum, in interiore homine habitat veritas”! Ciò spiega l’impeto costrut tivo che segue l’esperienza presente nel grido “acqua alle corde” del marinaio Benedetto Bresca.

Conclusioni

Gli antichi ma anche molti dei più recenti maestri del passato non trasmettevano né un cifrario, né tantomeno dogmi, ma porta vano in loro l’energia e la forza di un metodo che toccava al di scente perpetuare. Chi è riuscito a maturare e a fare proprio que sto compito non è rimasto un originario modellatore di forme; al

Come scrive Bernard Rosemberg se si può avanzare una formulazione (in forma di ipotesi) questa potrebbe essere che la moderna tecnologia è la cau sa necessaria e sufficiente della cultura di massa. Cfr. Architettura e cultura di massa, «Op.cit.», n. 3, maggio 1965.

62 contrario ha saputo approfondire quei contenuti avvalendosi di una costante ricerca introspettiva della realtà, attraverso la verità.

La questione della verità in architettura si basa sul processo co stitutivo e costruttivo. Si tratta ogni volta di ristabilire la distin zione di verità discernendo l’essenza del problema. La sintesi che racchiude la sapienza, così come il segreto della “tessitura dovuta al disegno di Atena”, è concepita come una somma di elementi fisici: colore, suono, movimento, tempo, spazio, inte grati in una unità fisico psichica. Si tratta in conclusione di un concetto consequenziale, che racchiude la sequela dell’esperire e del fare. Si parte dai disegni, dalle tecniche grafiche differenzia te, dalle elaborazioni, dai calcoli, e poi si passa alla maestria del la posa in opera che restituisce al disegno la verità insita nella sua operatività2.1Lacultura di massa, com’è noto, dipende dallo sviluppo tecnologico.

2 “L’artista non deve mai dimenticare che l’estetica, con la sua innega bile componente soggettiva, è intimamente legata alle proprietà geometri che, analitiche, meccaniche e resistenti delle superfici e delle linee che deli mitano la massa della costruzione”. E. Torroja, op. cit., p. 367.

In alcuni oggetti è possibile osservare i temi che Pagliaro ha pian piano sviscerato con estrema coerenza. Penso al lavoro sul materiale e sul processo di produzione, al rapporto lineare tra questi due temi, che l’autore ha tradotto nella qualità estetica dell’oggetto che è, come egli stesso afferma, diretta conseguenza della tecnica. La serie in multistrato è paradigma di questa sua ricerca: qui tutti i ragionamenti sono portati alle massime conse guenze. Il materiale è unico, lo sfrido minimo e non vi sono ag giunte fuori dalla sua natura: per rispettarlo completamente l’au tore studia speciali sistemi di incastri, nodi e cerniere.

Vi sono poi altri aspetti che emergono e che sono una secon da conseguenza di questo desiderio di semplificazione che li ca ratterizza, una certa volontà di economia di mezzi: la possibilità

Quanti oggetti è un oggetto?FEDERICADEO

In poco più di dieci anni di lavoro Mario Pagliaro ha dato vita a molti oggetti. Volendo parlare di una collezione potremmo dirla grande ed eterogenea. Alcuni sono silenti e funzionano co me un sistema. Altri no, urlano lontani dal branco – come lo stes so autore ci ha confermato in un’intervista. In entrambi i casi possiamo affermare si tratta di design d’arredo – tavoli, sedie, poltrone, armadi tra gli altri – in perfetta aderenza alla tradizione del design partenopeo, sempre lontana dalla grande industria, dal settore elettronico, e più vicina alla cultura del materiale. E come i maestri del design napoletano Mario Pagliaro è, di formazione, architetto. Non vi è però nessun altro particolare e saldo legame con la scuola locale.

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64 di montaggio e smontaggio semplice, già esaltata dai designer delle prime generazioni, proprio come la necessità di rimpiccio lire al minimo gli imballaggi e rendere l’oggetto semplice da conservare o inviare via corriere1, quindi ridurre i tempi e i costi di spedizione.Venesono poi altri per cui, invece, questa logica sembra sov vertita. Oggetti che sfuggono a questo processo, che sembrano rispondere ad altre domande, ad altre ricerche, ad altre esigenze.

In opere come Carriola, Gymball, o Tavolo al quadrato quanto descritto finora muta e prende altro posto nelle gerarchie del pro cesso creativo-produttivo. Quest’ultimo sembra infatti costruirsi su altri campi d’indagine. Nella conversazione avuta lo scorso marzo Pagliaro afferma: penso che la meraviglia sia importante. E in un certo qual modo è reciproca: se vengo meravigliato cerco di ricambiare Cosa intende per meraviglia?

Sulla natura differente degli oggetti È possibile classificare l’immensa vegetazione degli oggetti come una flora o una fauna, con specie, tropicali, glaciali, con brusche mutazioni, con specie in via di sparizione?

La civiltà urbana assiste a una successione accelerata delle generazioni di prodotti, di apparecchi, di gadgets di fronte ai quali l’uomo appare come una specie particolarmente stabi le [J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Bologna 2009, p. 5].Questa affermazione di Baudrillard fa emergere con chiarez za almeno due questioni su cui è possibile riflettere in merito alla produzione di Pagliaro: la diversa natura degli oggetti in relazio ne all’artefice e alle sue intenzioni, e la loro relazione con chi li esperisce, alla scala sia individuale che sociale. Pagliaro distingue due ordini di oggetti. Un primo afferente alla sfera del necessario, che prima di tutto obbedisce ad una fun zione strumentale. Il secondo invece pone come primaria una funzione esperienziale-emozionale, vicina a quel sentimento che lui nomina ‘meraviglia’. E a tal riguardo afferma: Ci sono oggetti che appartengono al necessario. Un tavolo, una culla, una

65 sedia, un armadio: sono tutti oggetti che ognuno possiede in casa. E poi ci sono oggetti che non assecondano un bisogno specifico ma rispondono ad una necessità espressiva. (…) Per me rappresentano il superfluo necessario. Il pavone ad esempio avrebbe potuto essere monocromo, ma le sue piume colo rate producono meraviglia [dalla conversazione dell’A. con Mario Pagliaro].Ilsentimento

di cui parla l’autore è legato a un processo di scoperta, o meglio, di riscoperta. Riflettendo su questo punto ri affiora alla mente un concetto formulato dallo scrittore e teorico della lingua Viktor Sklovskij circa un secolo fa. È un’idea affron tata nel saggio intitolato Arte come procedimento pubblicato nel 1917, anno della Rivoluzione d’ottobre. Qui Sklovskij ragiona sulla differenza tra il linguaggio comune – quello del quotidiano – e il linguaggio della poesia. Individua come contrassegno del primo l’automatismo di certi processi di interpretazione e com prensione, che sono soggetti al Principio dell’economia delle energie creative [H. Spencer, The Philosophy of Style, in «Westmin ster review», n. 58, 1852] secondo cui la scelta delle parole nel lin guaggio quotidiano è dettata dall’esigenza del risparmio di atten zione, ovvero che condurre l’intelletto per il cammino più fa cile al concetto desiderato è in molti casi l’unica mèta, e comunque quella principale [V. Šklovskij, L’arte come procedimen to, in I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, a cura di T. Todorov, Einaudi, Torino 1965, p. 79]. In contrapposizione Sklovskij pone il linguaggio della poesia che invece procede con fare opposto, secondo quel procedimento che il russo definisce col termine di ostanennie (straniamento): per “sentire” gli og getti, per far si che la pietra sia di pietra, esiste ciò che si chiama arte. Scopo dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto, come “visione” e non come “riconoscimento”; procedi mento dell’arte è il procedimento dello “straniamento” degli oggetti e il procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione, dal momento che il pro cesso percettivo, nell’arte, è fine a se stesso e deve essere prolungato; l’arte è una maniera di “sentire” il divenire dell’oggetto, mentre il “già compiuto” non ha importanza nell’arte [V. Šklovskij, op. cit., p. 82].

La storia del design industriale, per quanto giovane, è densa e veloce, proprio come il secolo breve di cui è figlia. È una storia il cui percorso è direttamente e saldamente legato ad altre storie: quella economica, quella dell’industria, la storia dell’arte e la storia sociale, tra le altre. Definisco il vincolo diretto e saldo poi ché le domande di ricerca in questo campo sono tutte immediata mente dipendenti da fattori economici, industriali, artistici, so ciali, e dalla velocità con cui questi settori si sviluppano così co me dalle loro crisi. Queste interferenze hanno reso difficile il compito di individuare con chiarezza lo statuto identitario del design.Ripercorrendo

questa storia attraverso i maggiori e più noti saggi e manuali, risulta evidente un dato: molti tentativi di defini zione della disciplina recano con sé una contro-definizione. La complessità che caratterizza il mondo del design indusse Gillo Dorfles già nel 19632, nella sua Introduzione al design industria le. Linguaggio e storia della produzione in serie, al rifiuto di una definizione [G. Dorfles, Introduzione al design industriale. Linguag gio e storia della produzione in serie, Einaudi, Torino, 1972, p. 10];

Tomàs Maldonado solo nel 1961, in Disegno Industriale, un rie same, dopo averne offerto una definizione e una contro-definizio ne, tenta di descrivere tale complessità disciplinare avvalendosi di una classificazione: individua una moltitudine di fattori che concorrono al processo di formazione di un oggetto di design.

66 È possibile porre in parallelo la succitata esigenza di ‘ri sparmio di attenzione’ con il principio di immediatezza cui de ve rispondere il design ordinario-quotidiano il cui mandato principale è nella funzione d’uso? È possibile mettere in paral lelo il concetto di ostranenie con quel desiderio di meraviglia a cui il designer napoletano allude? Sulla linea di questo discorso potremmo distinguere quindi, nella produzione del designer na poletano, due classi di oggetti: una ‘ordinaria’ e una che dicia mo ‘extra-ordinaria’. Ciò che le definisce tali è – decidiamo che sia – il mandato. Ma, a quale mandato obbedisce un oggetto di design? Piccola nota storica sulla definizione di design

Queste proposte di catalogazione elaborate solo negli anni Sessanta, quando il mondo del design era nella sua prima fase di affermazione, preannunciano la natura plurima dell’‘oggetto de sign’, che porta in sé, contemporaneamente, risposte a numerose questioni. Ciò che tuttavia ci permette di poter differenziare ordi nario e extra-ordinario è l’identificazione del mandato principa le. È possibile stabilire una gerarchia dei mandati che caratteriz zano gli oggetti di Pagliaro? Tentativo di stabilire una gerarchia dei mandati Osservando il lavoro di Pagliaro, intuiamo possano esservi delle interferenze tra ciascuna delle classi individuate. Cos’è Carriola? Un oggetto da collezione? Una poltrona per dondolare? Una sofisticata leva del pensiero – un oggetto di Ready-made –come è stata più volte letta e apprezzata? Sull’ideazione di quest’oggetto il giovane designer ci racconta che è nato da una commissione specifica: la richiesta di una seduta per esterni: Mi chiesero delle poltrone per esterni. Allora ho pensato innanzi tutto al materiale, il ferro, anche sotto suggerimento della committenza. Ho pensato a un semi-lavorato, qualcosa che fosse molto sottile e leggera: la lamiera grecata. E ho iniziato a lavorarci. Poi sono andato da un rivenditore di materiali da costruzione molto rifornito e lì ho visto una carriola, mi ci sono seduto e ci sono rimasto un po’ perché era comoda. L’ho comprata e l’ho portata a casa. L’ho messa sul tavolo e ho

Qui afferma infatti che, al processo che ne presiede la formazio ne, si impongono una molteplicità di fattori: relativi all’uso, alla funzione e al consumo individuale o sociale del prodotto (fattori funzionali, simbolici o culturali), a quelli relativi alla sua produ zione (fattori tecnico-economici, tecnico-costruttivi, tecnico-si stematici, tecnico-produttivi e tecnico-distributivi) [T. Maldona do, Disegno industriale: un riesame. Definizione Storia Bibliografia, Feltrinelli, Milano 2008, p. 12]. Anche Gillo Dorfles, nel rifiutare una definizione, propone tuttavia una classificazione degli ogget ti industriali le cui variabili sono: presenza/assenza di una fun zione d’uso; fruizione individuale o superindividuale; legame con la moda o assenza di legame con la moda.

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Quest’ultima categoria risulta certamente la più astrusa da definire. Già solo nell’individuazione del soggetto: parlando di

Risulta quindi evidente che, in questo caso, è stato il materia le ad attivare e guidare la ricerca del manufatto, per poi cambiare direzione e concentrarsi sull’oggetto carriola-seduta, ricercando ne le possibilità ergonomiche.

68 iniziato a riflettere. Non ho usato subito la base del mezzadro, ho provato prima a incastrarla. Il progetto su carta era gradevole, ma quando l’ho realizzata ti assicuro che non era bella, perché i materiali erano proprio incompatibili. (…) alla fine ho appurato che l’appoggio a terra come nel Mezzadro di Ca stiglioni non andava bene, e l’ho girato. Così funzionava! Anche il profilo era perfetto. Ovviamente ho dovuto fare delle prove per capire empiricamente lo spessore dell’appoggio [dalla conversazione dell’A. con Mario Pagliaro].

Alla stessa domanda sulla concezione di Gymball l’autore risponde: Gymball nasce da quest’oggetto semplice, la palla.

Solo che non si configurava come un prodotto industriale: ci voleva un giorno a vincolarle e a quel punto non sei più un designer, sei un artigiano. Quindi ho deciso di cercare un’altra soluzione e alla fine l’ho trovata nella palla stessa: scegliendo quella con i nipples, il tubolare lo bloccavo giusto tra due di questi e funzionava bene [dalla conversazione dell’A. con Mario Pagliaro].Inquesto caso è invece l’oggetto ‘palla’ e la volontà di esal tarne la potenzialità espressivo-sensoriale a guidare il processo creativo da cui può generarsi quel sentimento di meraviglia pre cedentemente nominato. Osservando il lavoro di Pagliaro, quin di, rintracciamo alcuni fattori che sembrano presenti, ma in misu ra diversa, in tutti i suoi progetti. Penso al ruolo che assumono la funzione d’uso, il materiale, il processo tecnico-costruttivo, la qualità estetica e la necessità espressiva3.

La vidi per la prima volta a casa di un amico, vi era seduto sopra. Ne resto affascinato e decido di comprarne una. La uso per mesi. (…) trascorse circa un anno prima di elaborare la prima ipotesi. L’idea risolutiva sul come fissare le palle alla struttura l’ho avuta a Ibiza. Osservando dei giambè ho trovato il modo per fissare le due palle alla struttura con la corda.

il ‘grado zero’ di tale direzione un progetto di Bruno Munari elaborato intorno al 1933: le macchine inutili. Strutture staticamente in equilibrio, sospese al soffitto, queste ‘macchine’ sono formate da bacchette alle quali, attraverso fili di seta sottilissimi, sono vincolate figure geometriche. Tutte le parti – i corpi geometrici tra di loro, i bastoncini, la lunghezza dei fili di seta – sono in rapporto armonico. La chiusura verso una fun zione d’uso specifica apre tuttavia, come un gioco, a innumere voli funzioni altre. Non più beni di consumo materiale, afferma l’autore, queste si pongono come beni di consumo spirituale: im magini, senso estetico, educazione del gusto, informazioni cine tiche [B. Munari, Arte come mestiere, Laterza, Bari-Roma 1966-1972, p. 15]. Dispositivi d’osservazione. Le macchine inutili di Munari, portando a zero il valore di funzione d’uso, si pongono come radicali: tentano di andare alla radice dell’oggetto, di ridefinirne, riscoprendolo, il senso.

Gli oggetti extra-ordinari di Pagliaro, non rinunciano mai al la funzione d’uso, ma tuttavia giocano con questa, portandola a dialogare e riscoprire altre dimensioni del suo essere. Producono dei piccoli cortocircuiti che conducono ciascun fruitore a lande differenti, configurandosi come oggetti plurimi. Cortocircuiti re si tuttavia possibili solo dall’esistenza degli oggetti definiti ordi nari: senza questi, ci chiediamo, si attiverebbero con la stessa potenza? Probabilmente no. Questo potrebbe essere tra i punti di forza maggiori del design: la possibilità di parlare il linguaggio semplice del quotidiano, entrando nelle case comuni, portando con sé significati immediatamente riconoscibili, influendo sulla vita della collettività; allo stesso tempo, con gli oggetti extraordinari, il design ha la possibilità di instaurare un dialogo indi viduale, innescando processi lenti di comprensione, codifica e scoperta.

69 ‘espressione’ ci si riferisce al pensiero dell’autore? O all’espres sione delle potenzialità dell’oggetto? Oppure infine alla neces sità espressiva delle potenzialità interpretative del fruitore? Do mande che ci riconducono alle questioni poste dall’afferma zione di Baudrillard, e ci permettono di considerare l’oggetto come dispositivo speculativo, anche al di là dell’intenzione del l’autore.Puòconsiderarsi

Gymball: 1. Uso esperienziale come necessità espressiva; 2. Fruizione d’u so; 3. Materiale (palla) 4. Qualità estetica; 5. Processo tecnico-costruttivo. Carriola: 1. Materiale; 2. Uso esperienziale come necessità espressiva; 3. Qualità estetica; 4. Funzione d’uso; 5. Processo tecnico-costruttivo.

2 Molto prima che il design, italiano e non, esplodesse in alcune delle sue declinazioni più paradigmatiche-radicale, concettuale e speculativo. Ci riferiamo agli episodi cardine per la storia del design, in particolare al design radicale italiano degli anni Sessanta-Settanta, al design concettuale olandese degli anni Novanta e, in ultimo, a quello speculativo contemporaneo delle ricerche di Anthony Dunne e Fiona Ruby al Royal College of Art di Londra. Cfr. A. Dunne, Hertzian Tales. Electronic Products, Aesthetic Experience, and Critical Design, the MIT Press, Cambridge Mass. 2008; A. Dunne, F. Ruby, Design Noir: The Secret Life of Electronic Objects, Birkhauser, Basel 2001.3 Durante la conversazione ho chiesto a Mario Pagliaro di definire l’or dine gerarchico di questi elementi per la concezione di Gymball e Carriola.

70 1 Tematiche che appaiono già nelle riflessioni dei primi designer italia ni, tra cui Munari o Enzo Mari, ad esempio. Pagliaro dopo le primissime sperimentazioni, come la serie in cartone, presterà sempre attenzione a que sti aspetti quasi indispensabili per entrare nel mondo del commercio.

Il 9 marzo 2021 alcune opere dell’artista sardo Costantino Nivola (1911-1988) concepite per lo spazio pubblico del com plesso residenziale delle Wise Towers nell’Upper West Side di New York, dedicato al rabbino di origine ungherese Stephen Wise, sono andate distrutte e rimosse a causa di un progetto di “riqualificazione” dell’area i cui lavori sono stati intrapresi dalla Pacts Renaissance Collective, un team selezionato dalla New York City Housing Authority (NYCHA) che ha il compito di rin novare e preservare alloggi per i cittadini newyorkesi a basso e medio reddito. Le sculture, secondo la NYCHA, sono state ri mosse a causa della necessità di riparare una condotta idrica che scorre sotto il sito e alimenta i sistemi antincendio delle torri d’a bitazione. Azioni di questo tipo rispetto a opere d’arte pubblica richiedono normalmente un preavviso sufficiente al fine di con sentire opportuni interventi di conservazione e restauro, ma in questo caso ciò non è avvenuto1. Sebbene si tratti della più gran de opera pubblica realizzata da Nivola a New York, le sculture sono state sradicate a «colpi di mazza» dal luogo in cui risiedeva no da cinquantasei anni, colpite da un atto di vandalismo istitu zionale, inspiegabile e scellerato2. come denunciato sui social dal Museo Nivola con sede nella città natale dell’artista, nel cuo re della Barbagia in Sardegna.

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Spazio pubblico come patrimonio: la lezione educatrice del playground Stephen Wise a New YorkLAURA PUJIA

Il caso

72 L’artista e l’opera Costantino Nivola, nato a Orani da una famiglia numerosa, intraprende la sua formazione artistica lontano da casa: dapprima a Sassari nel 1926 come apprendista del pittore Mario Delitala con cui si dedica alla decorazione dell’Aula Magna dell’Univer sità; poi nel 1931, grazie a una borsa di studio, si reca a Monza per frequentare l’Istituto Superiore per le Industrie artistiche (ISIA) dove, proprio in quegli anni, insegnavano il grafico Mar cello Nizzoli e gli architetti Eduardo Persico e Giuseppe Pagano. Quest’ultimo, prima e dopo il diploma, lo coinvolge in una serie di occasioni, tra queste vi è la VI Triennale di Milano del 1936 per la quale esegue la pittura murale della serie Mutazioni della città italiana alla Mostra internazionale di Architettura per la ses sione dedicata all’Architettura rurale. Nello stesso anno entra co me grafico all’Olivetti di Milano e poco dopo, nel 1937, ricoprirà il ruolo di direttore artistico. Con il consolidamento politico del regime, Nivola, anarchico in fuga dal fascismo e dall’antisemiti smo con sua moglie di origini ebraiche Ruth Guggenheim, emi gra nel 1939 negli Stati Uniti d’America. New York, per lui, rap presenterà una seconda casa che, nonostante i numerosi viaggi, abiterà stabilmente fino alla sua morte, avvenuta il 5 maggio del 1988 a Long Island. In questa città, presentatogli da Josep Lluís Sert, conosce nel 1946 Le Corbusier3 con cui consoliderà, per quasi cinque anni, un rapporto di amicizia condividendo anche il suo studio. Questa frequentazione, che portò alla realizzazione da parte di Le Cor busier di un dipinto murale in casa Nivola a Springs4 (1950), in fluenzerà inevitabilmente il suo percorso artistico segnandone un punto di svolta. Tra le varie fasi che si susseguono nelle vicende personali e artistiche, Nivola ha modo di consolidare la sua visione di arte moderna che spazia tra eredità antropologica, memorie indivi duali e urgenza di contemporaneità […] [riflettendo] intorno all’idea di un’arte corale, comunicativa, legata all’architettu ra [G. Altea, Antine, Costantino, Tino, in Id., Costantino Nivola, Ilis so, Nuoro 2005, p. 7]. Nei lavori a destinazione pubblica la corri spondenza tra architettura e decorazione è centrale e in questo

nelle opere di grande dimensione in relazione alla scala architettonica, predilige le tecniche del rilievo, dell’affresco e del graffito, più volte adoperate e via via perfezionate con un particolarissimo procedimento, elementare e al contempo ricer cato. Si tratta del sand-casting5 una tecnica dedotta da un’espe rienza ludica in spiaggia con i suoi figli e poi arricchita col tempo grazie anche alle frequentazioni artistiche con Le Corbusier. La prima opera architettonica in cui mette in mostra tale sapienza è lo Showroom Olivetti, sempre a New York, progettato dallo stu dio BBPR e realizzato nel 19536.

La semplicità della tecnica trova combinazione con l’uso del cemento, un materiale povero adottato nelle opere site-specific con l’intento di far avvicinare all’arte e alla bellezza un’ampia comunità, come avviene nel caso del quartiere popolare e densa mente abitato dello Stephen Wise. Qui lo spazio pubblico ordina rio assume un valore urbano e sociale che, prevalendo sul signi ficato architettonico e artistico delle opere, fa di questo luogo un’architettura pubblica, un’arte pubblica, uno spazio pubblico.

Pur limitandosi a disporre pochi e semplici elementi nello spazio, il suo lavoro, esteso anche ad altri progetti, cerca di educare lo spettatore. Soprattutto nell’ambito delle scuole e degli spazi ur bani, emerge con gran vigore l’impegno civile racchiuso nella sua arte: Se si tratta di opere pubbliche ci sono da fare considerazioni di ordine civico, persino di buone maniere. […] mi pongo il problema di creare un’atmosfera che elevi e che, se non proprio abbellisca, dia almeno un sollievo e sottragga alla trivialità di tutti i momenti della vita quotidiana [A.G. Satta, Intervista a Nivola, «La grotta della Vipera», XIII, n. 40-41, autunnoinverno 1987, p. 19].

Il problema educativo è sentito da Nivola in più campi, dalla sfera artistica a quella personale, di padre e insegnante. Gli spazi pubblici dedicati al gioco e le architetture scolastiche7 in cui in terviene innestando tasselli ceramici, graffiti e sculture sono par te di una ampia lezione pedagogica che va anche di pari passo

73 connubio l’arte non è qualcosa che viene giustapposta ma contri buisce a definire lo spazio architettonico e urbano senza imporsi e ne completa la lettura interpretandone la misura, la geometria e i materiali.Nivola,

74 con la veridicità di un processo che mette in primo piano l’essen za dei materiali utilizzati. I temi appena delineati costituiscono, assieme alla particolare sensibilità di Nivola nel “disporre elementi nello spazio” [M. Curzi, Progettare con empatia, «Casabella», n. 925, settembre 2021, p. 31], il valore del processo progettuale messo in atto per lo Stephen Wise Recreation Area che, accettando il contesto, tra sforma la piazza in un’opera d’arte che costituirà successivamen te anche il presupposto per la realizzazione della Piazza dedicata al poeta Sebastiano Satta a Nuoro (1966)8 Il progetto Nel 1962 l’architetto ed educatore statunitense Richard Stein (1916-1990) venne incaricato dalla NYCHA di progettare un playground, finanziato dal filantropo Jacob Merill Kaplan, al l’ombra delle due Wise Towers, accanto alla Columbus e alla Amsterdam Avenue in un lotto tra West 91th Street e West 90th Street. Stein fu allievo e collaboratore di Walter Gropius e Marcel Breuer grazie ai quali nell’ambiente della scuola di Harvard co nobbe Nivola che, divenuto suo amico e collega in diverse occa sioni professionali fin dai primi anni Cinquanta, coinvolse in que sto progetto segnato da un preciso intento: quello di migliorare la realtà degli abitanti attraverso una proposta di spazio pubblico in cui arte e architettura potessero dialogare per produrre una com presenza di socialità e di senso civico.

L’intervento, con queste prerogative, tenta di contribuire in maniera attiva alla crescita dell’individuo in una sorta di appren dimento libero che coinvolge la creatività del bambino, soprattut to in contesti ad alta densità abitativa e a basso reddito come quello qui preso in esame. Non è un caso che la sperimentazione progettuale portata avanti da Stein e Nivola riguardi molti spazi urbani scolastici e playground, un tema che negli Stati Uniti si era sviluppato dagli anni Trenta [del Novecento], prendendo avvio dal dibattito europeo della fine del XIX e l’inizio del XX secolo – da Rousseau a Itten, passando per Pestolazzi e Montessori – per adattarlo alla cultura e alla società americana

Nel 1964 il playground venne inaugurato e non fu accolto con entusiasmo poiché ritenuto di difficile comprensione, in ac cordo ai diffusi contrasti verso il modernismo e l’uso dell’arte contemporanea nel contesto urbano11. Con il tempo, invece, l’in tervento ha assunto il significato più prezioso a cui aspirava: ha acquisito un duplice valore legato sia alla storia della città sia alla memoria degli abitanti. Ne è testimonianza il sentimento co mune diffusosi nell’opinione pubblica intorno al malinconico e paradossale episodio che lo scorso anno ha colpito il playground: un sentimento che, a distanza di più di cinquant’anni dalla realiz zazione dell’opera, è manifestazione di una coscienza comunita ria che si estende a livello globale, quasi a riprova del valore di cui scrive Franco Purini, in tema di spazio pubblico, per l’Enci clopedia Treccani (2007): deposito di memorie urbane espresse nelle forme di una narrazione in grado di trascendere gli elementi locali per farsi racconto universale [Spazio pubblico, in Enciclopedia italiana VII Appendice, Treccani, 2007, https://www. treccani.it/enciclopedia/spazio-pubblico].

75 [cfr. G. Altea, A. Camarda, Nivola. La sintesi delle arti, Illisso, Nuoro 2015, p. 278].

Nella sua semplicità ed economicità il progetto mostrava come fosse possibile con pochi elementi e un costo contenuto realizzare una atmosfera favorevole alla creatività e all’armonia.

Il progetto era composto da un sistema di spazi aperti in se quenza definito da: un gruppo di “cavallini” in cemento di tre diverse colorazioni (bianco, nero e grigio), una fontana monu mentale con due prismi affiancati, una parete scolpita su entrambi i fronti con la tecnica del sand-casting, un grande murale mono cromo in cemento graffito lungo circa dieci metri posto alla base della torre est e due sculture tridimensionali9. I diciotto cavallini, concepiti già nel 1959 per il cortile della Public School 46 a Bro okling e qui ripensati10, sono ispirati alle figure equestri a dondo lo per l’infanzia su reinterpretazione della statuaria zoomorfa orientale; queste opere sono state spezzate, portate via con la ru spa e private della relazione con gli altri elementi distruggendo la dimensione d’insieme, che rappresentava il senso dell’opera.

Era un luogo pensato per umanizzare l’architettura e stimolare la fantasia [G. Altea, A. Camarda, op. cit., p. 281].

76 Il playground e l’arte pubblica

L’espressione “spazio pubblico” identifica un tema ampio che, se in termini fisici coincide con il sistema di vuoti urbani e aperti di natura non privata bensì collettiva tra il costruito, nella sua concezione più estesa assume una specifica connotazione ri guardante l’uomo e riferita quindi agli usi e ai significati di un determinato ambiente culturale. L’impegno progettuale dell’ar chitetto o dell’artista nei confronti degli utenti mira a definire questo secondo carattere, di memoria e di percezione, proponen do luoghi di incontro e di aggregazione che possano tratteggiare uno scenario comunitario. Un’ambizione quest’ultima non facile da raggiungere ma che spesso è acquisita col passare del tempo, nella lunga durata. Il buon esito di un progetto richiede la capaci tà di gestire con equilibrio la commistione tra diversi aspetti; per lo spazio pubblico particolare significato assume il tema della committenza: persone reali che effettivamente useranno quel lo spazio progettato o vedranno quell’opera d’arte. Esse sanno che quelle cose sono destinate a occupare i loro spazi abi tuali; spesso non le hanno volute, quindi ne diffidano e comunque assisteranno con sospetto alla loro costruzione; infine hanno proprie e variegatissime aspettative, prevenzioni e idee, sia sul piano dell’uso, che del significato [L. Pujia (a cura di), Trentaquattro domande a Francesco Cellini, Clean Edizioni, Napoli 2019, p. 46].

La ricostruzione del recente accadimento che ha investito il caso dello Stephen Wise con la sua arte pubblica pone l’attenzio ne sulla funzione educatrice ricoperta da molti spazi urbani e sul senso di comunità ad essi sotteso.

Il senso corale, quindi sociale e di condivisione, trova mani festazione nella cultura dello spazio pubblico attraverso diffuse forme artistiche, soprattutto in contesti metropolitani ampi. Si pensi, ad esempio, alla cultura di strada di una grande città come New York che coinvolge e influenza, in una complessità antropo logica e sociale, chi abita quel paesaggio urbano. L’arte pubblica può delineare una risposta di riscatto alla monotonia che spesso investe le città e può attivare meccanismi di memoria visuale e identitaria in una sorta di polifonia urbana [M. Canevacci, La

Arte e architettura per la comunità Il grande intervento, dal forte valore educativo, mostra lo sce nario innovativo portato nel contesto popolare delle Wise Towers

77 città polifonica. Saggio sull’antropologia della comunicazione urbana, Edizioni SEAM, Roma 1993].

Utile, a questo proposito, è la definizione di “architettura a zero cubatura”, affinata da Aldo Aymonino e Valerio Paolo Mo sco nel 2006, che individua un campo d’indagine per la discipli na architettonica nell’interazione tra città e spazio pubblico [V.P. Mosco, Città e spazio pubblico, in Enciclopedia italiana, XXI secolo, Treccani 2010, https://www.treccani.it/enciclopedia/citta-e-spazio-pub blico] e in particolare nello spazio collettivo all’aperto. Il concet to di playground come sistema compositivo a scala urbana inter preta tale carattere declinando lo spazio pubblico in una accezio ne ludica ove: Una serie di elementi a zero cubatura che insistono in uno spazio pubblico determinano un ambiente, ovvero un campo costituito dal dialogo tra diversi oggetti [A. Aymonino, V.P. Mosco, Spazi pubblici contemporanei. Architettura a volume zero, Skira, Milano 2006, p. 211].

In questa chiave va letto il caso del playground tra le Wise Towers, poiché tutti gli elementi che compongono l’insieme ur bano costruiscono il significato pubblico del contesto al loro in torno, in ricordo peraltro di una antica tradizione tipicamente mediterranea, molto sentita dall’artista italiano, impostata sull’a bitare gli spazi condivisi. Già nel 1889, Camillo Sitte ricordava che le piazze principali della città sono rimaste, per molti aspetti, fedeli al tipo degli antichi Fori. Una parte sempre appariscente della vita pubblica è collegata alla loro funzione e con essa anche una parte del loro significato pubblico, così come molti dei rapporti naturali fra le piazze e gli edifici monumentali che le circondano [C. Sitte, L’arte di costruire le città, a cura di L. Dodi, Antonio Vallardi Editore, Milano 1953, p. 21]. In ef fetti questo spazio pubblico intercluso tra le alte torri altro non è che una “piazza” in quanto luogo chiuso e individuato. La condizione essenziale per le piazze come per le stanze è che tanto le une come le altre siano ambienti ben delimitati [ivi, p. 41].

Le espressioni dell’hip hop, ad esempio, nate proprio nel conte sto metropolitano di New York descrivono e occupano i tessuti urbani di molti quartieri. L’artista americano Bigg Dogg, cresciu to in quest’area, ha ambientato il video di un brano, Pain Free

Un’arte che, assieme al contesto e alle persone, diviene un patri monio ordinario e quotidiano a uso della collettività urbana e de gli inquilini delle torri; i quali, riconoscendone il solido valore nell’immaginario sociale del quartiere, nel momento dell’acca duto si sono schierati con la famiglia Nivola, la Chanin School of Architecture della Cooper Union, l’Istituto Italiano di cultura di New York e le associazioni per la tutela del patrimonio architet tonico modernista come la Landmark West12 Tutti accomunati dalla volontà di testimoniare il valore di un progetto pubblico nato come spazio di comunità per stimolare la creatività delle varie fasce di residenti13, in accordo ai temi di socialità, partecipazione e condivisione cari all’artista a parti re dagli anni Cinquanta. Lo scopo dell’arte di Nivola era infatti creare un senso di appartenenza ai luoghi, sollecitare una rifles sione sulla vita collettiva e i rapporti tra le persone, così come proposto anche con il progetto Pergola-village, vined Orani14 del 1953, pensato per la sua città natale di Orani nel cuore della Barbagia quale strumento per aprirsi al dialogo comunitario, filtro ospitale tra la casa e la natura. Il rapporto di Nivola scultore con lo spazio non riguarda dunque il singolo edificio, o la sua decorazione, bensì la relazione che l’opera artistica instaura con il pubblico in una dimensione sociale e urbana [F. Chiorino, Orani, lo spazio pubblico e l’arte/Orani, Art and Public Spaces, «Casabella», n. 925, settembre 2021, p. 38]; un progetto di arte ambientale dal robusto carattere comunitario che riprendeva le tesi di Sigfried Giedion e il dibattito dei CIAM sollecitati al l’epoca da Sert con il core of the city15, dove il ritmo della vita collettiva permea gli spazi pubblici esistenti (piazze, strade, vi coli Diffuseecc.).

78 dove arte e architettura, con Nivola e Stein, lavorano congiunta mente per arricchire lo spazio della vita degli abitanti, costruendo una dimensione sociale attraverso spazi ricreativi e comunitari.

forme artistiche sono oggi manifestazione della cul tura dello spazio pubblico e ne raccontano il senso di comunità.

Lo spazio pubblico tra le Wise Towers non è solo un museo a cielo aperto ma anche un simbolo del valore sociale del quartiere che esibisce il ruolo dell’arte nel suo contesto urbano rafforzando il suo valore patrimoniale. È qui che risiede il valore specifico del caso: difatti al netto dei legittimi intenti di rinnovamento che han no coinvolto il complesso residenziale attorno al playground, l’e pisodio rivela una disattenzione verso un patrimonio ormai con solidato nella memoria del luogo e riconosciuto sia a scala locale dai cittadini, sia a livello internazionale dalla comunità scientifi ca nel campo dell’architettura e della storia dell’arte. Purtroppo si assiste spesso a interventi che con imperdonabile leggerezza agiscono su forme di patrimonio collettivo, impoverendo opere a cui bisognerebbe offrire cura e attenzione. In tal senso, il caso delle Wise Tower assume un valore esemplare grazie all’azione di reti e associazioni culturali attivatesi per ridimensionare la di struzione di una comune eredità.

Del resto, la storia che lega l’artista a questa città non è se condaria. New York difatti aveva accolto Nivola e, negli ultimi anni, gli aveva dedicato importanti mostre: Nivola in New York.

79 style16, nella piazza di Nivola e Stein e all’epoca dell’accaduto ha lamentato la perdita dell’identità del luogo.

Figure in Field tenutasi nel 2020 alla The Cooper Union e Nivo la. Sandscapes inaugurata nel 2021 a Magazzino Italian Art. Un’altra mostra Nivola e New York. Dallo showroom Olivetti alla città incredibile è attualmente al Museo Nivola a Orani e illustra i cinquant’anni di Nivola a New York (1939-1988) esponendo opere autentiche e ricostruzioni, tra cui una riproduzione dei ca vallini. Un artista che in fondo – riprendendo le parole di soste gno espresse da Ugo Carughi, già Presidente di DO.CO.MO.MO. Italia, in una lettera dell’Associazione al Museo Nivola e alla fondazione Costantino Nivola – potremmo considerare un no made, messaggero di una terra lontana, che intendeva, come ogni artista, l’arte come forma religiosa17.

La solidarietà in rete, espressa da parte di vari enti culturali e associazioni (tra cui la stessa DO.CO.MO.MO.Italia), è stata in tensa ed è riuscita a influenzare il destino delle opere, oggi fortu natamente oggetto di restauro. Attualmente, a distanza di un anno dalla vicenda, sono stati eseguiti restauri che hanno richiesto un

1 Cfr. D. Budds, The Nivola Horses Are Finally Getting Feet Back, «Curbed», march 30 2022, vola-wise-towers-horse-sculpture-repair-conservation.html.https://www.curbed.com/2022/03/costantino-ni2LadenunciaèpartitadalMuseoNivolaedallaFondazioneCostantinoNivolasuisocial,sullapaginaFacebookdelMuseoinunpostdel9marzo:https://it-it.facebook.com/Museo.Nivola.pagina.ufficiale.3PerapprofondirelerelazionitraLeCorbusiereNivolasiveda:M.Mameli,

80 lungo e attento lavoro da parte della Jablonsky Building Conser vation, Inc. (JBC) su monitoraggio dell’architetto Carl Stein, fi glio di Richard e membro del Consiglio della Fondazione Nivo la18. Un risultato raggiunto attraverso un dialogo serrato con l’im presa che a suo tempo era stata poco attenta ai valori etici ed estetici dell’opera. Peraltro, con il tempo, l’azione di agenti at mosferici, di impropri interventi, di usura e di vandalismo aveva no alterato i cavallini, composti da un conglomerato cementizio che conteneva anche scaglie di marmo. La fase di ricostruzione dei prototipi delle zampe – eseguiti anche attraverso un modello tridimensionale fornito dalla Fondazione – è attualmente in via di ultimazione; a seguire le statue verranno ricostruite e collocate nella loro posizione originaria. E il restauro, oltre alla conserva zione dell’opera d’arte in sé, merita una riflessione nel rapporto con le altre parti del complesso. L’auspicio è che le relazioni tra gli elementi siano ripristinate come da progetto e possano diven tare persino occasione di ripensamento per gli interventi da adot tare, grazie a un raffronto tra le foto d’epoca e quelle più recenti in cui è facile osservare una serie di manomissioni sulla natura spaziale del playground, compromesso dalla presenza di elemen ti di arredo urbano e recinti.

Nella nostra epoca il tema dello spazio pubblico è particolar mente carico di significati. La vicenda qui ricostruita sembra sot tolineare il valore aggiunto che l’arte e l’architettura possono offrire ai luoghi collettivi; e l’azione comunitaria che ha accom pagnato questa vicenda, segnalando il valore che essa aveva as sunto per una estesa comunità, sembra testimoniare il suo rile vante significato in termini di educazione alla cittadinanza.

Le Corbusier e Costantino Nivola. New York 1946-1953, Franco Angeli, Milano 20172. Si ricorda inoltre la mostra Le Corbusier. Lezioni di Modernismo, a cura di Giuliana Altea, Antonella Camarda, Richard Inger

10 Le sculture, dalle fattezze arcaiche, furono plasmate una prima volta per il piccolo cortile della Edward C. Blum Public School 46, pensato assie me all’architetto Richard Stein e oggi parzialmente distrutto, poi furono qui riproposte con un’articolazione e una colorazione differente. La documenta zione di archivio testimonia inoltre altre due installazioni simili, purtroppo rimosse e andate perse negli anni: tra il 1965 e il 1969 alcune copie, in fibra di vetro, vennero acquistate per il cortile della W.D. Richards Elementary School a Columbus in Indiana e furono collocate da Nivola in cerchio attorno a un albero come luogo di ritrovo della comunità scolastica; tra il 1967 e il 1969 questa volta senza Stein, viene realizzata un’installazione per il Children’s Psychiatric Hospital del Bronx State Hospital progettato da Max Urbahn. Cfr. G. Altea, A. Camarda, op. cit., pp. 280-281; S. Todesco, Quale destino per i “cavallini” di Nivola a New York?, «Arte e oltre/Art and beyond», n. 30, 20 aprile 2021, esplorazioni/348-quale-destino-per-i-cavallini-di-nivola-a-new-york.htmlhttps://www.unclosed.eu/rubriche/sestante/.11Cfr.G.Altea,A.Camarda, I cavallini di Nivola, il senso di comu nità e il ruolo dell’arte nelle città, «Il Sole 24 ore», 11 marzo 2021, arte-citta-ADzYTUPB?refresh_ce=1;www.ilsole24ore.com/art/i-cavallini-nivola-senso-comunita-e-ruolo-dell-https://L.O’Kane, Sculptor to give a lift to project, «The New York Times», May 8, 1964].

Il progetto doveva includere inoltre: «la presenza di una figura mater na, una sentinella o meglio una babysitter che osservava placida i bambini alle prese con immaginarie cavalcate», G. Altea, A. Camarda, op. cit., p. 281.

81 soll, Marida Talamona tenutasi presso il Museo Orani dal 22 dicembre 2018 al 17 marzo 2019, https://museonivola.it/mostra-evento/le-corbusier/.

4 Nivola compra una casa a Springs, presso East Hampton, nel 1948. Qui nel 1950 progetterà, assieme all’architetto Bernard Rudofsky, il giardino come un’opera ambientale introducendo una stanza a cielo aperto con alcuni murales, dei pergolati e dei muri liberi graffiti in dialogo diretto con i preesi stenti alberi di mele. Il progetto all’epoca fu pubblicato in: «The Architectu ral Review», n. 664, aprile 1952; «Domus», n. 272, 1952. Per approfondire il progetto e le vicende tra l’architetto e l’artista si veda: G. Altea, La stan za verde. Bernard Rudofsky e il giardino Nivola, in Nivola. L’invenzione dello spazio, a cura di C. Pisovano, Illisso, Nuoro 2010, pp. 24-37.

12 Dichiarazione di Giuliana Altea, Presidente della Fondazione Costan tino Nivola: Cfr. “Statue Nivola a NY distrutte”, denuncia su Fb Museo ar tista, «ANSA», 10 marzo 2021, https://www.ansa.it/sardegna/notizie/2021/

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6 Per approfondire si veda: G. Altea, A. Camarda, Nivola. La sintesi delle arti, Illisso, Nuoro 2015, pp. 174-178.

5 Per approfondire si veda: G. Altea, La tecnica del sand-casting, in Costantino Nivola, Ilisso, Nuoro 2005, pp. 58-59.

7 Numerosi sono gli interventi pubblici realizzati in ambito scolastico e nei playground americani. Questa produzione si colloca dagli inizi degli an ni Cinquanta fino agli anni Settanta, alcune opere sono eseguite con l’amico Richard Stein mentre altre vedono la collaborazione di differenti professio nisti. Cfr. G. Altea, A. Camarda, op. cit. 8 Cfr. M. Curzi, op. cit., pp. 30-37; S. Naitza, Una piazza per un po eta, Ilisso, Nuoro 1987.

82 la:e443-4023-a366-1194b85487e3.html.03/09/statue-nivola-a-ny-distrutte-denuncia-su-fb-museo-artista_e9a7fc70-13DichiarazionediAlessandraCamarda,exDirettricedelMuseoNivoCfr. I Cavallini di Nivola torneranno nel parco di NY a fine anno, «AN SA», 11 marzo 2021, 23e7-44af-b7d8-7aeefa4bb49e.html.cavallini-di-nivola-torneranno-nel-parco-di-ny-a-fine-anno_b41339d6-https://www.ansa.it/sardegna/notizie/2021/03/11/i-14Ilprogettoall’epocafupubblicatoinO.Guelf, The Pergola-Village, vined Orani, «Interiors», vol. CXII, n. 6, January 1953, pp. 84-85. Recente mente la proposta sta prendendo concretamente vita tramite l’impegno del comune di Orani, la Fondazione Nivola e lo studio di Stefano Boeri architetti. 15 Cfr. J.L. Sert, Centers of Community Life, in J. Tyrwhitt, J.L. Sert, E.N. Rogers (eds), CIAM 8. The Heart of the City: Toward the Huma nisation of Urban Life, Lund Humphries, London 1952. 16 https://www.youtube.com/watch?v=6Ra2AOjtQ1A 17 Dalla lettera dell’ex Presidente Ugo Carughi a nome dell’Associazio ne DO.CO.MO.MO.Italia indirizzata al Museo Nivola e alla Fondazione Costantino Nivola consultabile on-line nella sezione Sos 900 sul sito dell’As sociazione: Lettera-DOCOMOMO_Opera-di-Nivola-a-New-York.pdf.https://www.docomomoitalia.it/wp-content/uploads/2021/03/18Cfr.D.Budds, op. cit.

Libri, riviste e mostre

83 O. Lanzarini, The Living Mu seums. Franco Albini BBPR Lina Bo Bardi Carlo Scarpa, Nero, Rome 2020. Se «la tutela del patrimonio ar tistico non può in nessun caso ridursi a un caritatevole ricovero di opere d’arte senza casa» nei musei –, avverte Giulio Carlo Argan –, i musei afferma Ernesto Nathan Rogers devono essere «degli or ganismi architettonici concepiti per conservare i documenti dell’e sperienza storica non [come] cose morte per sempre, ma tali che, pur uscite dal ciclo attivo della vita, siano degne di essere mostrate e studiate ancora». In altre parole è necessario dare alle testimonianze della storia un ruolo operativo nel presente. In tal modo, potranno continuare a esercitare la loro azione educativa sulla società. Con questa doppia citazione si apre il pri mo dei saggi monografici che Oriet ta Lanzarini dedica a quattro casi studio sulla museografia del secon do dopoguerra: il Museo di Arte An tica del Castello Sforzesco a Milano dei BBPR, il MASP - Museo de Arte de São Paolo a San Paolo del Brasile di Lina Bo, la Galleria di Palazzo Bianco a Genova di Franco Albini e la Gipsoteca “Antonio Canova” a Possagno di Carlo Scarpa. Al nome degli architetti di quegli allestimen ti, l’autrice affianca quello degli altri protagonisti, direttori, storici dell’ar te e soprintendenti che, con modalità e azioni differenti, hanno di fatto reso possibile che quei progetti, così esemplari e paradigmatici per la mu seografia, arrivassero a effettivo compimento (Costantino Baroni, Francisco de Assis Chateaubriand Bandeira e Pietro Maria Bardi, Cate rina Marcenaro, Vittorio Moschini).

In maniera magistrale Lanzarini condensa temi e riflessioni che or mai da tempo caratterizzano il suo percorso di ricerca, ma che vengono adesso sviluppati in un racconto co rale capace di restituire in maniera puntuale e approfondita quella stra ordinaria stagione che ha preso il via nel 1945 e che ha portato a un com pleto aggiornamento dei musei ita liani, delineandone allo stesso tem po la portata educativa e sociale. Quattro saggi tanto autonomi e indi pendenti per struttura e apparato ico nografico (ben bilanciato nella scel ta di immagini e disegni di archivio)

84 quanto legati tra loro da un’analisi storica e critica al tempo stesso, in grado di restituire la complessità di una vicenda capace di «dare alle te stimonianze della storia un ruolo operativo nel presente». Il rapporto tra storia antica e progetto contem poraneo, tra opere e spazi espositivi – restaurati, ampliati o di nuova con cezione – torna costante nella narra zione che Lanzarini fa delle quattro diverse esperienze; il rigore del rac conto storico, sostenuto da una ap profondita indagine d’archivio, tan to preziosa quanto ormai rara, resti tuisce la profondità teorica e proget tuale che sta dietro queste realizza zioni e mette in luce in maniera pre cisa il fine comune che, superando le singole declinazioni al medesimo tema portate avanti autonomamente da ciascuno degli architetti, tiene in sieme queste diverse esperienze, an che in assenza di precisi legami for mali: un museo non può più essere concepito a esclusivo vantaggio di studiosi e cultori d’arte ma deve es sere un luogo aperto e accessibile a tutti in cui la finalità educativa e di dattica venga realizzata attraverso «un linguaggio universale, poten zialmente in grado di trasmettere valori educativi a chiunque».

Esemplare in tal senso è il per corso portato avanti da Lina Bo e da Pietro Maria Bardi con il Museo de Arte de São Paolo sia nella sua pri ma sede in Rua Sete de Abril (19471950) che soprattutto nella definiti va di Avenida Paulista (1957-1968) con gli straordinari e democratici cavalete de cristal dell’allestimen to; un percorso segnato da uno straordinario laboratorio educativo che saprà dare risposte puntuali alle istanze culturali del pubblico brasiliano. L’architetto e suo mari to – scrive Lanzarini – lasciano l’I talia prima che prenda avvio l’aggiornamento dei musei, ma i con cetti che guidano l’esecuzione di questa riforma sono i medesimi espressi dal MASP. Proprio questo aspetto è quello che permette di leg gere l’esperienza brasiliana, pur con le ovvie differenze ambientali e cul turali, in stretta relazione con quelle italiane. Come Albini, BBPR, Scarpa e altri allestitori, i coniugi Bardi sanno che la coesistenza di oggetti di epoche diverse negli spazi museali può dimostrare il valore della storia per un paese; tuttavia, come osserva Lanzarini, nel contesto europeo le opere sono inserite anche in base al loro va lore stabilito dagli studi nella trama consolidata della storia ri percorribile attraverso il museo. Nel MASP accade l’opposto: sono le opere che ricreano ex-novo la trama storica. Siccome ognuna porta il suo contributo è doveroso considerarle alla pari, disponen dole in maniera «democratica» l’una accanto all’altra. Questo principio giustifica la sostituzione delle tradizionali sequenze di sale – con gruppi di oggetti ordinati in base a dei parametri critici con uno spazio in continuità. Il saggio dedicato al MASP restituisce per la prima volta nel suo complesso una vicenda solitamente indagata per singoli frammenti, la cui portata culturale (rilanciata con l’istituzione nel 1963 del Museu de Arte Popular a Salvador) si concretizza attraverso un preciso programma museografi co, ma è tale da superare per certi aspetti la qualità, straordinaria nella sua concezione, della stessa archi tettura che quel medesimo program ma è chiamato a realizzare. Di particolare importanza è il saggio dedicato al progetto di Carlo Scarpa per la Gipsoteca “Antonio Canova” a Possagno, che Lanzarini

Nella parte centrale del racconto, invece, il sodalizio tra le opere canoviane e gli elementi dell’architet tura moderna riporta lo spettatore nel proprio tempo, senza fargli perdere il contatto con la storia.

[…] Il tableau vivant che si presen ta al suo sguardo attraverso il boccascena ritagliato da Scarpa non ha precedenti nella museografia, né italiana, né internazionale Ogni opera è in relazione all’altra ma ognuna gode di una propria au tonomia, poiché avvolta da una differente tonalità di chiaroscuro. Se le sale non fossero intonacate di bianco, una tale intensità d’effetto non sarebbe possibile. A questo punto le due principali caratteri stiche dell’ala nuova trovano una spiegazione: ammaestrando la lu ce e amplificandone la potenza con le superfici bianche, Scarpa può modellare una strabiliante gamma di toni di chiaroscuro. Quel «bellissimo chiaroscuro» che è il tratto distintivo dell’arte del Settecento e in particolare della pittura di Gianbattista Tiepolo.

[…] L’effetto è quello di una luce splendente che dall’interno del quadro sembra irradiarsi all’ester no, proprio come avviene fisicamente nella Gipsoteca. Se, come sosteniamo, Scarpa avesse rielabo rato la tecnica luministica di Tiepolo per ambientare «in stile» le sculture del (quasi) contemporaneo Canova, la fonte si aggiunge rebbe a una nutrita schiera di fonti archivistiche di quegli anni Gli affondi poi sul Museo di Arte Antica del Castello Sforzesco dei BBPR (di cui è ricostruita la trava gliata genesi progettuale e il portato teorico-concettuale che anima l’in tera vicenda) e sulla Galleria di Pa lazzo Bianco di Franco Albini rileg gono e restituiscono da una diversa prospettiva due tasselli fondamenta li di quel processo che rinnova inte gralmente la museografia italiana avvicinando didatticamente ma non didascalicamente l’opera d’arte al suo pubblico. Questo è il risultato più importante della museografia postbellica: gli allestimenti messi a punto dai coltissimi architetti coinvolti nell’impresa non sono degli esercizi stilistici, ma dei prontuari per decodificare dei va lori, quelli dell’arte, tanto difficili quanto fondamentali per la crescita di chiunque voglia imparare.

85 rilegge, forte della sua profonda co noscenza del magistero scarpiano, e del quale propone un’interpretazio ne completamente inedita, nuova quanto suggestiva, che vede Scarpa interpretare il lavoro di Canova at traverso la pittura di Tiepolo. La prosa dell’ala nuova della Gipsoteca si svolge in tre atti. Per la co struzione del quadro iniziale e di quello finale l’architetto si appoggia, in sostanza, ai precetti del mu seo di «ambientazione».

A completare il volume è un’an tologia di scritti degli stessi protago nisti, cui si unisce la voce di Giulio Carlo Argan, un’antologia di cui per brevità vengono proposti alcuni pas saggi fondamentali ma che ha il va lore di proporre in lingua inglese il contesto in cui maturano istanze e soluzioni. Decidere di pubblicare il volume interamente in inglese (pre fazione di Stefano Collicelli Cagol con appendice dei testi in italiano) è una scelta di grande valore in quanto apre al dibattito internazionale quella straordinaria stagione ancora in larga parte da indagare. Un aspetto questo ancora più importante se si guarda alla drammatica manomissione di tanti di quegli straordinari esempi.M. I.

86 F. Santoro, Apprendista a Taliesin. Una esperienza personale nella scuola di Frank Lloyd Wright, LetteraVentidue Edizioni, Sira cusa 2021. Il libro dell’architetto Francesco Santoro, resoconto dell’anno di ap prendistato svolto in gioventù pres so la Taliesin Foundation in Arizo na, presenta il raro pregio di rico struire sincronicamente differenti fasi della storia professionale, e so prattutto pedagogica, di Frank Lloyd Wright e della sua scuola. Alla figu ra del Maestro statunitense si affian cano nella narrazione altre figure di primo piano nel panorama storicocritico e progettuale, ma anche più ampiamente intellettuale, del secolo scorso. Tra queste emerge fin dalle prime pagine quella di Bruno Zevi, chiamato in causa dallo stesso San toro quando, confuso e soffocato dal mondo accademico italiano e paler mitano di metà anni Ottanta, decide di scrivere una lettera al noto studio so romano per chiedere consiglio sul proprio futuro, esprimendo tutti i propri dubbi circa l’effettiva utilità dell’insegnamento dell’Architettura in Italia. Come solo i veri maestri, Zevi non solo risponde ma consi glia, supportando la scelta di effet tuare un’esperienza americana pres so la scuola-studio di Taliesin: Le esperienze si ripetono ed io, alla sua età, chiuso in una scuola fasci sta, provavo sentimenti assai simili ai suoi… Rompere con questa atmosfera e andare a Taliesin, alla Frank Lloyd Wright Foundation, Taliesin West, Scottsdale, Arizona […]. Se lei sente il richiamo e il messaggio dell’architettura organica, deve dirigersi a Taliesin Siamo nel 1989, F. Ll. Wright è deceduto esattamente trent’anni pri ma, ma l’attività progettuale, e di dattica, della comunità di Taliesin è ancora vitale. La struttura pensata, progettata e realizzata pazientemen te dall’architetto statunitense in una fase di crisi lavorativa collocabile attorno agli anni ’30 del 1900, si muove fra il completamento di lavo ri già cominciati o impostati mentre era ancora in vita, ed altri che si so no aggiunti nel tempo e che vengo no affrontati secondo la filosofia e lo spirito del fondatore. Ciò che fa di questo libro un uni cum è la visuale privilegiata di San toro, che ci tramanda la propria esperienza in prima persona, in un costante e fluente scambio fra la vita quotidiana nelle Taliesin, quella nel Wisconsin e la seconda, successiva, in Arizona, e precisi riferimenti sto riografici per la ricostruzione degli inizi e degli sviluppi delle due co munità.Iltutto senza omettere citazioni tratte dagli scritti di Wright, su tutti dall’Autobiografia, perché mai co me nelle architetture wrightiane è possibile sentir riecheggiare le paro le stesse del Maestro, in un’unità di pensiero ed azione che ancora ne rende vigorosa, e appunto trasmissi bile, la lezione. E in ciò l’Autobio grafia, seppur testo fortemente indi vidualista, costituisce in sommo grado anche la sintesi della teoria e della pratica wrightiane. Come scri veva Enzo Paci in Wright e lo “spa zio vissuto” (1959) chi sa cogliere, oltre il superficiale aspetto “romantico” di Wright, il vero senso del suo “individualismo”, sa che esso è la “presa di coscienza” della concretezza dell’uomo, dell’uomo che non è solo essere scientifico ed essere economico, ma è, tutto inte ro, essere organico, anima e corpo viventeNella. ricostruzione della filosofia che plasmò il pensiero e l’azione

87 dell’architetto americano, emerge, come ben noto, la figura di Ralph Waldo Emerson ma, a spiegare la struttura e l’organizzazione pedago gica di Taliesin, si impone un’altra influenza, forse meno nota, ossia quella di Georges I. Gurdjeff, misti co armeno, il cui Istituto per lo svi luppo armonico dell’uomo di Fon tainebleau vide fra gli allievi la terza moglie di Wright, Olgivanna. E fu proprio quest’ultima ad indirizzare il marito verso gli insegnamenti, che potremmo definire autopoietici, del sapiente orientale, in un particolare e felice scambio fra filosofie distanti ma affini: il trascendentalismo emer soniano incontra così il misticismo gurdjieffiano, l’Oriente incontra l’Occidente, in una visione non tan to sincretica, quando archetipale, esperienziale prima che teoretica, cui Wright si rifece sempre, e che seppe concretizzare con esiti alterni in quasi tutte le sue architetture. E che l’architettura non possa es sere disgiunta dalla formazione completa dell’individuo è esplicito in numerose pagine dell’Autobio grafia, puntualmente citate da San toro: Taliesin non somiglia in nes sun modo ad una normale univer sità. Taliesin si basa sul principio della partecipazione a tutti i lavori che si ritengono necessari. Lo stu dente impara facendo. Impara a costruire lavorando alla costruzio ne. Impara a cucinare lavorando nella cucina. Impara a disegnare lavorando nella sala da disegno. A ogni studente è richiesto di contri buire equamente in tutte queste attività Nell’introduzione al volume del l’architetto siciliano, William J.R. Curtis pone in evidenza i punti di forza del testo: Alcuni tra i migliori passaggi nel testo di Santoro ri guardano le descrizioni della natura, come quella della flora del deserto, scrive lo storico inglese, e aggiunge è divertente pensare a quanto lontane da ciò gli devono essere sembrate le mode architettoniche italiane del tempo, il neo razionalismo di Rossi o la pervasi va trivializzazione postmoderna del passato operata attraverso ri ferimenti superficiali. Tra un turno in cucina e uno de dicato alla pulizia delle diverse aree della struttura, un turno nei campi e le lezioni di canto, sempre in linea con l’ideale dello sviluppo comple to e disciplinato dell’individuo, Santoro ha la possibilità di osserva re direttamente ogni dettaglio degli edifici, e di carpirne l’intimo legame che connette le parti e il tutto al con testo naturale, le sequenze spaziali e l’aspetto ieratico e processionale dell’architettura, ricorrendo alle parole di Philip Johnson. L’esercizio di progettazione e au tocostruzione del proprio desert shelter, ossia uno spazio tenda com pletamente dedicato e gestito da cia scun apprendista, collocato in pieno deserto, consente di applicare im mediatamente al progetto la con templazione e il rilievo della natura come vivamente consigliati da Wright stesso: Impara a guardare dentro le cose, almeno abbastanza a fondo da cogliere i pattern essenziali di tutte le cose create […] esa mina la testura degli alberi, impa ra il pattern essenziale che caratterizza la quercia e distinguilo dal pattern essenziale che caratterizza il pino. Poi cercane altri. Procura dopo questi la vite contorta, l’acqua che scorre, le forme della sab bia. Poi prova con i fiori, le farfal le, le api… non farti distrarre dagli ovvii effetti superficiali che differenziano ogni cosa, ma cerca al loro interno l’essenziale geome-

88 tria del pattern che dà loro carat tere… astratto è il pattern dell’essenziale e l’ornamento è il caratte re della struttura rivelata. E anco ra, in un passaggio che deve molto ad Emerson, ma non può non richia mare alla mente anche il Galileo del Sidereus Nuncius, chiosa Tu devi leggere nel libro della Natura L’idea stessa di Taliesin nasce nel Wisconsin a seguito del viaggio compiuto da Wright in Italia, nello specifico a Fiesole, dove inizial mente avrebbe voluto collocare il proprio studio, ammirato dalla spontanea integrazione di artificio e natura che si compiva nella peniso la: Nessun edificio italiano appare fuori luogo in Italia (…) collocato in modo naturale come le pietre, gli alberi e i declivi dei giardini che costituiscono un tutt’uno con essoMa. la lettura della Natura si ac compagna alla grande attenzione ri volta al contesto ampiamente inteso, antropizzato, anche laddove solo debolmente. Così si può compren dere la passione nella raccolta e nel riutilizzo delle decorazioni degli in diani americani, la sensibilità nel collocare statue e petroglifi non det tata dalla mera ricerca dell’esito estetico, ma basata su un senso pro fondo di comprensione delle culture indigene ed antiche.

Di grande interesse le due sezio ni del libro dedicate al trasferimento prima, in vista dell’estate, da Talie sin West in Arizona alla Taliesin pri migenia, nel Wisconsin, per chiare ragioni climatiche, e poi al successi vo rientro ad ovest. L’esodo dell’in tera comunità è l’occasione per visi tare lungo la strada non solo le gran di architetture di Wright, ma anche di altri maestri americani ed euro pei, fra cui, a titolo di esempio, Neu tra e Schindler i quali, dopo il lavoro a Taliesin, svilupparono un ap proccio progettuale che mediava fra Loos e gli insegnamenti wrightiani; oppure le realizzazioni di Bruce Goff, estroso architetto purtroppo quasi dimenticato, amico di Wright e Sullivan, a cui si deve l’affidamen to dell’incarico per la Price Tower.

Una curiosa coincidenza vuole che, superata la volontà del Maestro di aprire uno studio in Italia in occa sione del succitato viaggio in Tosca na del 1910, si giunga anni dopo al dissidio e al conseguente allontana mento di un allievo, Paolo Soleri, proprio a causa dell’intenzione del giovane progettista italiano di espor tate il modello educativo di Taliesin nel paese d’origine. Se a ciò si ag giunge una sempre più spiccata di vergenza nelle vedute urbanistiche fra i due, si comprende la genesi di Arcosanti, esperimento urbano fon dato sul principio di Arcologia, os sia di architettura ed ecologia, che molto deve ai Metabolisti, agli Ar chigram e a Buckminster Fuller ne gli esiti formali, ma che nel profon do deriva dalla visione che potrem mo definire post-urbana dello stesso Soleri, se per urbano intendiamo quanto storicamente sviluppatosi nella Modernità, e parimenti quanto poi diversamente preconizzato dalla Broadacre City di Wright. Santoro ha modo di visitare Arcosanti, poco distante da Phoenix, durante il viag gio a ritroso verso Taliesin West, dopo l’estate, ma non prima della visita all’edificio simbolo dell’inte ra carriera di F. Ll. Wright. Come a sancire l’ideale completamento del l’anno di apprendistato, si compie infatti la visita collettiva alla Casa Kaufmann, nota anche come Fal lingwater. La perfezione unica rag giunta in questo progetto sembra segnare la sublimazione dell’intero anno americano di Santoro, il quale,

89 una volta tornato a Taliesin West, viene sopraffatto dalla routine pro gettuale e soprattutto dalla staticità di un ambiente che, più che protrar re l’insegnamento del maestro ame ricano, ne va formando un vero e proprio culto, non scevro da dogma tismi e momenti rituali degni di una sacralità quasi pagana. Emblemati co il racconto delle serate comunita rie dedicate all’ascolto delle regi strazioni dei vecchi discorsi di Wright tenuti agli allievi. Senza sco modare Walter Benjamin, è evidente che la riproducibilità tecnica contra sta con l’unicità e la freschezza dell’approccio wrightiano, in grado di fondare sì un metodo, ma che tra eva la propria raison d’être dalla passione, dalla libertà e dalla forza creatrice di una personalità straordi naria. Proprio perché massimamen te l’individuo deve cercare la pro pria completa formazione, che per natura è continua e mai effettiva mente raggiungibile, l’imitazione e la pedissequa fedeltà al passato non potevano che chiudersi in una forma di accademismo, per quanto illumi nato.L’ultimo periodo scorre princi palmente negli archivi, dove Santo ro ha modo di ricostruire le testimo nianze di altri ed illustri apprendi stati svoltisi presso la scuola, fra cui va ricordato quello di Bruno Moras sutti, prima del sodalizio con Ange lo Mangiarotti, e quello di Angelo Masieri, per la cui famiglia Wright progettò lo sfortunato palazzo sul Canal Grande a Venezia.

La scuola di Taliesin è tutt’ora in vita ma, dopo alterne vicende e tra sferimenti, non trova più sede negli spazi originari così ben descritti da Santoro bensì, e il fatto oltreché iro nico è forse anche simbolico, è ospi te presso Cosanti ed Arcosanti, le due strutture utopistiche, e intrinse camente wrightiane, ideate e realiz zate da Paolo Soleri. F. T. Marco Zanuso e Alessandro Mendi ni. Design e architettura, a cura di Pierluigi Nicolin, con Nina Bassoli, Gaia Piccarolo, Maite Garcìa Sanchis, Adi Design Mu seum, Milano, 8 marzo-12 giu gno 2022. Un doppio approfondimento tra due protagonisti indiscussi dell’ar chitettura e del design italiano, Mar co Zanuso e Alessandro Mendini, è esposto nelle navate del recente Adi Design Museum dedicato alla colle zione storica del premio Compasso d’Oro. Se il confronto può sembrare inusuale e per certi versi contrastan te, messe da parte le ragioni per cer care di afferrarne le motivazioni, lungi dall’essere un banale accosta mento tra due mondi progettuali –moderno per il primo e postmoder no per il secondo – restano due sin gole personalità che hanno operato in contesti economici, sociali e tem porali molto diversi, determinando inevitabilmente esiti non compara bili.I due racconti, sebbene siano parziali, mostrano i tratti salienti dei due percorsi professionali, sottoli neando talvolta elementi inediti e diverse interpretazioni di modalità operative simili: le esperienze edito riali che hanno contribuito allo svi luppo di un pensiero critico, l’impe gno trasversale nei campi dell’archi tettura e del design, il rapporto con aziende e imprenditori che ha stimo lato l’affermazione di una personale espressione progettuale. Verosimil mente le opere di Zanuso e Mendini non sono mai state così vicine come

90 nell’allestimento progettato dallo Studio Nicolin, in cui sei pareti componibili in legno, dello stesso modulo e disposte a lisca di pesce, racchiudono tematicamente disegni, oggetti, scritti, appartenenti a un contributo specifico per ogni singo lo autore: Comfort, Nuova Estetica, Grande Scala, Costruzione Modulare, Innovazione e Muri in Pietra per Zanuso; Alchimie, Global Toys, Decorazioni, Musei, Ca se, Testo e Immagine per Mendini.

Un ultimo pannello, collocato nella seconda navata del museo, che espone tutti i premi del Compasso d’oro alla carriera (premio ottenuto sia da Zanuso nel 1994 sia da Men dini nel 2014), accosta come unica eccezione a tutto il percorso due ri tratti firmati da Roberto Sambonet, accompagnati dalle rispettive bio grafie.Un primo sguardo d’insieme sui dodici pannelli permette di cogliere la centralità della «parola» affianca ta a disegni e schizzi come mappe concettuali per Mendini: ogni mio progetto, grande o piccolo che sia, me lo devo spiegare criticamente, sotto forma di dimostrazione. Par to scrivendo, credo sia un obbligo: non si può disegnare senza aver pensato e io penso e scrivo [P. Ni colin, M.G. Sanchis, Marco Zanuso e Alessandro Mendini. Design e Architet tura, Electa, Milano 2022, p. 113], ver sus disegni tecnici, schizzi e foto grafie legati al processo

vistatecnicamerevolicesviluppopoliticatrovariflessivoZanuso.dell’oggetto/spazio/architetturacostruttivoperL’approcciomaggiormenteeintroversodiMendinisolidebasinellacrisisocialeedelmodellopostbellicodiindustrialecavalcatoinvedaZanuso,cheaffidaalleinnupossibilitàoffertedallailsuoatteggiamentopositialprogettoealruolodell’ar

chitetto-designer come interprete della modernità e del riscatto sociale dellaMarcocomunità.Zanuso (1916-2001) si laurea al Politecnico di Milano nel 1939, di lì a poco arriva la guerra che accresce un sentimento di ne cessaria «ristrutturazione di una so cietà disorientata e dissolta». È in questo clima che si fa strada il mo dello di architetto/maestro i cui inte ressi si muovono su scale diverse, ma sempre dominati da una ricerca rigorosamente scientifica sul pro cesso e sull’elemento come modulo: nasce per conseguenza la necessi tà di scoprire un riferimento di mensionale che possa connettere tutti gli elementi della costruzione in un sistema aderente alle neces sità funzionali e che contemporaneamente rispetti la continuità delle superfici e dei volumi. Que sto riferimento noi lo chiamiamo modulo [P. Chessa, M. Zanuso, La casa prefabbricata. Il modulo, in «Do mus», n. 205, gennaio 1946, p. 2]. Il suo contributo nelle redazioni di «Domus» (1946-47) e di «Casabel la-Continuità» (1953-64) lo rende interprete del dibattito culturale dell’epoca, concentrandosi sui temi della prefabbricazione edilizia e del la costruzione architettonica. Zanu so opera nel contesto postbellico respirando fiducia e ottimismo sca turiti dai rapporti con l’industria e dalle possibilità offerte dalla speri mentazione di materiali inediti che gli consentono di formulare una chiara metodologia da applicare a ogni scala del progetto: dallo studio del nastro Cord – un nuovo materia le elastico prodotto dalla Pirelli –nasce la celebre poltrona Lady (Ar flex, 1951); la sedia da cucina Lam bda (Gavina, 1959-1964 con Ri chard Sapper) deriva invece da una ricerca sulle tecniche di realizzazio

91 ne della carrozzeria della Lancia Lambda.Sonoanni di contaminazione e di scambio tra diversi saperi e profes sionalità. Tra i principali sodalizi si annoverano quello con Ennio Brion alla guida dell’azienda Brionvega per il quale si dedica non solo alla progettazione di oggetti iconici, in sieme a Richard Sapper, come i tele visori transistor Doney e Algol (1962), Black (1969) e la radio por tatile TS 502 (1964), ma costruisce lo stabilimento principale a Casella d’Asolo (Treviso, 1963-67), una delle opere che rappresenta al me glio la poetica progettuale nata dall’integrazione tra modulo, tecno logia e assemblaggio di elementi prefabbricati. Questa architettura evidenzia anche il ruolo assunto dal contesto ambientale che penetra all’interno dello spazio grazie alle diverse modulazioni della luce e ai pilastri in calcestruzzo a ombrello rovescio di due altezze diverse, che, come alberature, richiamano il mo vimento del paesaggio: La fabbrica aveva una sua qualità domestica, con questa trasparenza verso il paesaggio, le vetrate modulari aperte sulla natura. Era domestica spe cialmente all’interno, andava al di là della rigidità della fabbrica [Si vede che sono distratto. Franco Raggi a colloquio con Marco Zanuso, in M. Za nuso, Scritti sulle tecniche di produzio ne e di progetto, a cura di R. Grigno lo, Mendrisio Academy Press-Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2013, p. 320].L’incontro con Adriano Olivetti è determinante per intraprendere una visione della fabbrica come luogo «domestico» che garantisca comfort e abitabilità. In anni precedenti, l’ar chitetto realizza le fabbriche Olivet ti a Buenos Aires (1954-1961) e a Guarulhos (San Paolo, 1956-1961), in cui inizia a sperimentare l’idea di una continuità spaziale tra interno ed esterno attraverso elementi strut turali che definiscono e caratterizza no l’edificio architettonico a tutte le scale. Questa abilità costruttiva nell’applicazione dei materiali vie ne confermata anche nell’ultimo ca pitolo tematico della mostra dedica to a progetti realizzati dalla metà degli anni Sessanta che hanno come comune denominatore la pietra. Il processo adottato è sempre lo stes so, ma gli esiti sono diversi e dipen dono dalla relazione che Zanuso in staura con la materia, il luogo e la tecnica. Le case gemelle ad Arza chena (1962-1964) ripropongono la modularità nella pianta generale e nei singoli ambienti; in questo caso il modulo è declinato rispetto alle possibilità offerte dal granito locale e alla concezione dell’abitare come scambio continuo tra interno ed esterno. Manca in questo racconto un contributo alle collaborazioni tra progettisti che in Mendini è, invece, esplicitamente dichiarato: oltre al designer Richard Sapper c’è anche una giovane Cini Boeri, non men zionata, che lavorerà dieci anni nel lo studio Zanuso (1952-1963), rela zione sicuramente stimolante per entrambi.Nonè un caso se per Mendini, nato quindici anni dopo Zanuso, la dimensione di gruppo è sin da subi to di primaria importanza, tanto da spingerlo a creare dei progetti col lettivi e antiautoriali come nella Ca sa della Felicità (Lago d’Orta, 19381988, con Alchimia, Giorgio Grego ri), dimora ideale commissionata dall’imprenditore Alberto Alessi dove le micro-architetture che com pongono i singoli ambienti sono af fidate a diversi progettisti: Aldo Rossi, Robert Venturi, Andrea Bran zi, Frank Gehry. Laureatosi al Poli

92 tecnico di Milano nel 1959, Mendi ni lavora nello studio di Marcello Nizzoli fino al 1970, anno in cui as sume la direzione di «Casabella» per i successivi sei anni. In seguito, dirigerà «Modo, mensile di infor mazione sul design» (1977-1979) e «Domus» (1979-1985; 2010-2011). Il contesto socio-economico è pro fondamente cambiato: il 1973 è l’anno della devastante crisi energe tica, del tramonto dell’epoca d’oro dei «trent’anni gloriosi», degli anni di piombo, dell’instabilità politica, della dissoluzione del ceto medio e della ritirata della committenza bor ghese. Lo scontro tra questi due mo menti storici è visibile confrontando banalmente la poltrona Lady (1951) di Zanuso e la Proust (1978) di Mendini. La prima diventa modello del sogno femminile borghese, ac cogliente, dalle linee morbide; la seconda è un ready made di elemen ti che vanno dalla poltrona settecen tesca ma ingigantita, al puntinismo di Paul Signac, ma esasperato nei colori, che simboleggia la necessità di trovare nuovi rituali. Mendini si fa inoltre portavoce attraverso le pagine di «Casabella» dei gruppi di avanguardia del design radicale che si riuniranno nel 1973 per fondare Global Tools, una scuo la di architettura e design che aveva come obiettivo l’esaltazione delle facoltà creative di ogni singolo uo mo, tuttora sopraffatte dallo spe cialismo e dalla frenesia efficientistica. Terminologia, assunti, metodi e strutture della scuola sono curiosamente semplici: come chi intende colmare la distanza alienante che si è stabilita fra il lavoro delle mani e quello del cervello [Documento n. 2, «Bollettino Global Tools», n. 1]. È facile quindi com prendere il significato dei disegni o delle mappe concettuali che rico prono le pareti dei moduli in mostra dedicati a Mendini: in fondo anch’essi raccontano processi, co me accade nei disegni di Zanuso, ma non sono più legati a una tecni ca; diventano racconto, parola, colo re ed emozione, fino quasi ad assu mere sembianze umane. Tra gli anni Settanta e Ottanta Mendini collabora con il gruppo Al chimia, fondato da Alessandro e Adriana Guerriero, dove avvia una riflessione sul tema del redesign: un nuovo linguaggio visivo che offre un diverso significato agli oggetti del quotidiano come nel progetto per la Thonet 14 (1978) e per la Vas silj di Marcel Breuer (1978). Questa visione «animistica» dell’oggetto lo porterà a rivoluzionare aziende co me Alessi e Swatch. Nel procedere in questa rilettura – a tratti interiore, introversa, spez zettata e ricomposta nel caso di Mendini e completa, chiara, dichia ratamente progettuale per Zanuso –si trova, infine, un punto di contatto fra i due nella relazione che si crea tra spazio e oggetto: lo spazio degli uomini non è uno spazio vuoto: è uno spazio che deve essere popolato di cose, perché solo con la me diazione delle cose gli uomini si radicano nello spazio e dello spazio fanno mondo. Il problema è dunque inventare da capo gli og getti con i quali si realizza lo spazio [P. Nicolin, M.G. Sanchis, op. cit., p. 19], che siano un’elegante poltrona Lady o un’eccentrica Proust, le seggioline ludiche per bambini K1340 o i cavatappi “tea tranti” Anna G. e Alessandro M. M. B.

Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 101. Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poeti ca - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102. Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’ar te contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103. Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettoni ca - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104. La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - De sign: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105. L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106. Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Bien nale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107. Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Stra tegia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108. Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servi zi - Libri, riviste e mostre N. 109. Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110. Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111. Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architet tonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre

N. 112. Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’archi tettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113. Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114. L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115. L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116. Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo moder nista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117. Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118. Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e archi tettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119. L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visio nari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mon drian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121. La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122. L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123. Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine del l’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125. Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narra re l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126. L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

N. 127. Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostreLe pagine dell’ADI N. 128. Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129. Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’ener gia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitaleL’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131. Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avan guardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132. Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazio ni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e anta gonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133. Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere del la fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134. Abitare la razionalità - Per una nuova classificazione delle arti - Il design aeronautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135. Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programma ta e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, demo crazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamen to come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137. Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - To rino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concet tuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138. Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Ce lebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazio ne nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 139. Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuroL’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, rivi ste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architet tura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporaneaContinuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, rivi ste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggiRadical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Common Ground - Per il centenario di Jackson Pollock - Design: segni del tempo - Interni d’avanguardia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquan ta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la fir ma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibat tito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e con nettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI

N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazioneConfronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contempora neità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Reali smo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, rivi ste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 156. Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio in-between - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradig ma espositivo - Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania N. 157. Editoriale - Una “ipostasi” della forma-tatuaggio - Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi - Lebenswelt e architettura - Design vs LebensweltLibri, riviste e mostre N. 158. Architettura e qualità nell’età dei concorsi - La nostalgia nella cultu ra digitale - Conformazione e trasformazione degli spazi interni - La ricerca di una definizione di design - Libri, riviste e mostre N. 159. «Corporea» alla Città della scienza di Napoli - Mono-ha nel contesto globale. Poetiche e culture a confronto - Distruzioni e ricostruzioni a Berlino - Il tempo del tipo nello spazio del design - Libri, riviste e mostre N. 160. Il mestiere di architetto: prospettive per il futuro - Téchne e progetto d’architettura - Riflessioni sulla 57ª Biennale di Venezia e Documenta 14 a Kassel - Didattica e design, dal learning by doing al learning by design - La rivista «October»: temi e nuclei teorici - Libri, riviste e mostre N. 161. La metodologia circolare della progettazione in architettura - Aldo Rossi. Topografia urbana - Artisti italiani e realtà sociale nel secondo dopo guerra - La rivista «October»: novità metodologiche e crisi di un paradigma - Il design (morale) dell’ordine - Ernesto Basile. Dall’architettura d’interni all’industrial design - Enzo Mari. Opera, multiplo, serie - Libri, riviste e mostre N. 162. Il BIM. Un parere in evoluzione - Bruno Zevi e lo spazialismo archi tettonico - Semantiche del sublime architettonico - Brecht nostro contempo raneo - Il dono e l’arte, la festa e la dépense ai tempi di internet - Il “nuovo” nel modello Design-Oriented - Handmade in Italy - Libri, riviste e mostre

N. 163. L’architettura è (ancora) un’arte? - Sull’unbelievable: Hirst, il fan tasy, la post-verità - La Biennale d’architettura 2018 - Crossing the border: la storia dell’arte nell’epoca della globalità - La teoria in scena: Adolphe Appia - Libri, riviste e mostre N. 164. Architettura e tecnocultura “post” digitale. Verso una storia - Arte di ieri, oggi e forse anche domani - L’arte del XXI secolo - Il Teatro grottesco di Mejerchol’d - Industrialismo e archeologia industriale - Convergenze tra design e bioscienze - Ernesto Basile: dall’architettura d’interni al designLibri, riviste e mostre N. 165. Organic and mechanical - Paesaggi dell’Antropocene - Carlo Ludo vico Ragghianti “architetto”. Dal dibattito al museo - Oltre il biomorfismo: l’approccio bioispirato - Libri, riviste e mostre N. 166. Linguistica, semiotica e architettura - Il museo nell’era del web - La poesia scenica di Gordon Craig - Fare, pensare e progettare nel tempo della app economy - Essere designer: ruoli e dinamiche al confine con l’arte - Li bri, riviste e mostre N. 167. Smart Cities - Fenomenologia della nostalgia - Olivetti in Messico: 1949-2002 - Donne e architettura: il Woman’s Pavilion di Chicago - L’opera, l’immagine digitale e il Digital Storytelling 2.0 - Sulle tracce dell’opera d’arte. Video-recording e XXI secolo - Incoming/Outgoing. Flussi trans e multiculturali nel design contemporaneo - Libri, riviste e mostre N. 168. Napoli: architettura internazionale anni ’70 - Telelavoro - Design quotidiano al tempo della vulnerabilità diffusa - L’Opificio Bertozzi & Caso ni: estetica, concetto e sapienza fabbrile - Tra il sacro e l’espositivo - Cuci nare e consumare: la cucina-casa - Quando i Giganti cadono. Fenomenologia della Memoria - Libri, riviste e mostre N. 169. Chi parla inventa e chi ascolta indovina - Insegnare a distanza: il “progetto della didattica” - La prospettiva anarchica di Giancarlo De Carlo - Contro il parametricismo - Oltre il biomorfismo: il bioispirato e i materiali per lo sviluppo di prodotti resilienti e sostenibili - Antinomie del progetto Moderno - Soglie critiche. Sulla trasformazione come perdita e recuperoTra tradizione e innovazione: gli artisti contemporanei e la ceramica - Libri, riviste e mostre N. 170. L’analogia: l’euristica dell’architettura e del design - La città in quanto software - Sul potenziale della situazione: architettura come infra struttura - New Media (e) Public Art. Arte oltre l’emergenza - Riflessioni sulla HfG di Ulm, per una storia delle scuole di Design - Pratiche d’immagi nazione per decodificare la realtà. Alcuni artisti e opere - Due idee di vuoto: Dino Buzzati e Yves Klein - Il lato buono degli Scandinavi - Bisogni e desi deri - Libri, riviste e mostre N. 171. Dall’industrial design all’interaction e social design - Il pensiero co me corpo. Per una concezione empatica dell’architettura - Soft skills e con

sapevolezza identitaria. A che cosa serve l’arte? - Teoria e pratica del dissen so in Giovanni Klaus Koenig - Arte Ricerca Scienza: per una visione palin droma della conoscenza - Sezione visibile e réalisation. La materia delle cose (e il loro linguaggio) - Ambientalismo e Design - Libri, riviste e mostre N. 172. Landmark e patrimonio: architetture tra cronache e storia - Pas de tubes? Corpi moderni e infrastrutture domestiche - Interno parallelo e conti nuo. Il Manierismo nel Barocco - Pratiche d’immaginazione per decodifica re la realtà. Alcuni artisti e opere - La ferrea delicatezza. Il cammino di Mu ky attraverso arte, poesia e socialità - Libri, riviste e mostre N. 173. L’esperienza della soglia: progetto minore per luoghi-di-non - Roma protorazionalista - Ambientalismo e Design - Oltre il quadrifoglio - Espe rienze di coabitazione. Inclusioni spaziali, sociali e di genere alla XVII Bien nale di Venezia - Libri, riviste e mostre N. 174. Intelligenza artificiale e architettura - La grammatica del progetto - Il labýrinthos del Minotauro e l’aulé di Arianna: dall’abisso alla danza - Europólis. La città pubblica al centro dell’Europa - La mimesi e il binomio con tinuità/discrezione - Nuovo paesaggio italiano interventi artistici nel conte sto pubblico e ruolo attivo dell’arte in Italia oggi - Libri, riviste e mostre

Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998 «Grafica Elettronica» - Via Bernardo Cavallino, 35/g - 80128 Napoli

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